“Nessuno si salva da solo…” di Maria Giovanna Cogliandro larivieraonline.com, 10 novembre 2019 Intervista a Stefano Musolino, pm presso il Tribunale di Reggio Calabria. “Una pena che prevede solo anni di galera da scontare non basta. Il gretto giustizialismo non migliora chi si è perduto. Serve interrogarsi sulla genesi dei fenomeni che conducono al reato, sulle responsabilità, sulla distribuzione delle risorse e degli investimenti necessari affinché la pena abbia davvero una funzione rieducativa. Anche se questo significa disturbare i poteri politico-economici che dall’attuale situazione traggono beneficio”. Nei primi anni Novanta, a seguito delle stragi di mafia e della morte di Falcone e Borsellino, venne modificato l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario: se prima essere condannati all’ergastolo significava lasciare a un uomo, che avesse tenuto una buona condotta, almeno una speranza di poter uscire in permesso dopo 10 anni, in semilibertà dopo 20 e in libertà condizionale dopo 26, da allora in poi non furono più previsti benefici o misure alternative per crimini particolarmente gravi connessi a mafia e terrorismo, salvo che vi fosse un ravvedimento palese del reo sotto forma di collaborazione con l’autorità giudiziaria (fenomeno del cosiddetto “pentitismo”). In assenza di una fattiva collaborazione con l’Autorità Giudiziaria il condannato veniva privato del diritto alla speranza, ossia, della possibilità di riguadagnare, un giorno, la propria libertà. Sarebbe uscito dal carcere in una bara, da morto. Insieme alla vita gli veniva tolta la possibilità di riscatto, la possibilità di non essere solo il suo errore. Era come assistere lentamente alla sua morte da vivo, tanto che, nel 2007, 310 ergastolani scrissero all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiedendogli di tramutare l’ergastolo ostativo in pena di morte. Lo scorso 7 ottobre, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’ergastolo ostativo previsto dal nostro ordinamento penitenziario è contrario al principio della dignità umana e, conseguentemente viola l’art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. La sentenza della Grande Chambre restituisce, quindi, ai giudici la possibilità di valutare caso per caso e decidere se il detenuto possa ottenere benefici, cancellando quell’automatismo (fattiva collaborazione con l’autorità giudiziaria) che trasformava l’ergastolo ostativo in una pena senza speranza di reintegrazione sociale, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione. All’indomani della sentenza si è sollevato un vespaio di polemiche che ha visto divisi giuristi, magistrati e opinione pubblica. Per comprendere meglio cosa comporterà la sentenza della Grande Chambre abbiamo intervistato il pm Stefano Musolino, magistrato in forza alla Dda reggina. “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino” ha titolato in prima pagina Il Fatto Quotidiano dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sotto, le facce dei giudici di Strasburgo tacciati di “non sapere cosa sia la mafia” e di “armare di nuovo i boss”. Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, anche magistrati come Grasso, Di Matteo, Roberti, Cafiero De Raho hanno parlato di un antistorico cedimento alla mafia. Lei cosa ne pensa? “Ho grande rispetto per le opinioni dei magistrati che ha menzionato e di molti altri che hanno espresso posizioni omologhe, ma non condivido le loro posizioni. La circostanza che il Giudice nazionale delle Leggi e il Giudice internazionale dei Diritti Umani abbiano assunto posizioni sovrapponibili su questi temi è, di per sé, sintomo dell’esistenza di gravi pregiudizi ai diritti fondamentali dei detenuti, che non possono essere liquidati con gli slogan degli organi di stampa che lei ha citato. Blandire le paure sociali e individuare “colpevoli” su cui scaricare le frustrazioni collettive è una semplificazione dialettica che conquista lettori e “like”, ma non è certo un modo efficace di comprendere e affrontare i problemi. Più in generale, non credo che il contrasto alla criminalità organizzata passi per un inasprimento delle sanzioni o per l’ampliamento dello strumentario investigativo. Da questo punto di vista, la nostra legislazione è tarata in maniera funzionale allo scopo di perseguire il fenomeno, entro limiti costituzionalmente accettabili. Forzare questo equilibrio, cedendo alla tentazione di utilizzare vite umane imprigionate come simbolo, funzionale alle esigenze preventive generali, lo ritengo, invece, costituzionalmente inaccettabile. Se devo cercare qualcosa di “antistorico” nell’azione di contrasto, mi viene in mente la cattiva distribuzione di uomini e risorse; da questo punto di vista è eclatante la differenza tra Sicilia e Calabria. Sentiamo ripetere da anni che la ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale più potente, ma basta comparare i numeri di magistrati e componenti della polizia giudiziaria, operanti nel distretto di Palermo e in quello di Reggio Calabria, per comprendere che a quella conclusione non corrisponde affatto una coerente distribuzione delle risorse. Dobbiamo, infine, essere consapevoli che il contrasto alla ‘ndrangheta (ma credo che il concetto possa estendersi alle altre organizzazioni criminali) non passa per una amplificazione degli strumenti di repressione ma, piuttosto, per maggiori investimenti economici e culturali. È più comodo ed è più facile concentrare l’attenzione sui primi, perché affrontare i secondi significa interrogarsi sulla genesi dei fenomeni, sulle responsabilità politiche, sulla distribuzione delle risorse e degli investimenti. E non mi pare che ci sia molta voglia di disturbare il coacervo di poteri politico-economici che trae benefici dall’attuale situazione”. Uno degli allarmi immediatamente lanciati è il rischio di aprire le porte del carcere indiscriminatamente a mafiosi e terroristi. Andrà così? “Nonostante la scarsità di investimenti e di attenzioni, il sistema penitenziario e la magistratura di sorveglianza hanno già dimostrato un’efficace capacità di gestione di queste dinamiche. Gli allarmismi sul punto sono, perciò, del tutto infondati. Piuttosto, mi inquieta il tentativo di aggressione culturale alla capacità discrezionale del giudice. E come se si brandisse il manganello mediatico, per indurre la magistratura a chiedere nuove e deresponsabilizzanti presunzioni normative. Ma noi siamo un potere dello Stato, non funzionari addetti allo smaltimento di pratiche burocratiche e ogni persona, ogni situazione sottoposta al nostro giudizio merita un’attenzione speciale che ci impone valutazioni verificabili e discrezionali, perché tarate sul caso specifico sottoposto alla nostra attenzione. Non esiste, d’altronde, una normativa capace di regolamentare nel dettaglio tutte le situazioni; per ciò la discrezionalità del giudice è una caratteristica imprescindibile della giurisdizione. Non averne cura significa mettere in pericolo la tutela dei diritti. Non è un caso, infatti, che la discrezionalità del giudice fosse stata limitata, se non coartata in tutti regimi autoritari che hanno segnato la storia europea nel secolo scorso. Se devo esprimermi per slogan (sebbene non mi piaccia semplificare dinamiche complesse) direi che è più accettabile (sul piano dei costi-benefici costituzionali) un errore, in buona fede, del giudice a favore di un detenuto immeritevole, anziché cento detenuti costretti a un generale regime deteriore che non tiene conto del loro percorso personale, per impedire che possa verificarsi il predetto errore”. Rendere l’ergastolo più “dolce” potrebbe scoraggiare i condannati per mafia a collaborare? “L’assunto che la normativa “ostativa” abbia costituito uno stimolo alle collaborazioni con la giustizia è tutto da dimostrare; sebbene venga affermato come un dogma. Io credo che una collaborazione genuina e attendibile - che, rammento, sono requisiti qualitativi imprescindibili per l’ammissione del dichiarante allo speciale programma di protezione e, in quanto tali, oggetto di specifica valutazione - passi per una seria e radicata volontà di recidere con i legami personali, economici, talvolta anche parentali che stavano alla base della partecipazione all’associazione mafiosa. Purtroppo, la prospettiva di lunghe e, a volte, interminabili detenzioni, è messa in conto da chi aderisce alla ‘ndrangheta. Per quella che è la mia esperienza professionale, posso affermare che sia il costo personale legato alla rottura dei legami personali, familiari ed economici il più importante ostacolo alla scelta di collaborare con la giustizia; gli anni di galera da scontare, vengono dopo e sono subvalenti nella scelta”. Cosa pensa in generale del sistema penitenziario italiano? “Che, nonostante i sacrifici e l’abnegazione di chi ci opera, rappresenta un luogo di concentrazione della marginalità sociale, piuttosto che un luogo di rieducazione. E il problema, in questo senso, non sono tanto i detenuti delle varie mafie, ma quelli che ci risiedono per reati connessi al traffico di modeste quantità di stupefacenti, ai reati patrimoniali bagattellari e altre forme di criminalità, espressione del disagio sociale. È l’aggravamento delle sanzioni e dei trattamenti processuali e detentivi di questi detenuti, il vero scandalo per chi ha, davvero, a cuore le sorti del sistema penitenziario”. Se consideriamo che su 100 persone, una volta uscite dal carcere, 80 tornano a delinquere, non ci viene in mente che forse stiamo sbagliando qualcosa? “Se parliamo dei detenuti per reati di marginalità sociale, è certo che stiamo sbagliando qualcosa nelle modalità di trattamento penitenziario di costoro e nella gestione delle cause socio-economiche che stanno alla base della proclività a delinquere. Se parliamo degli associati alle varie mafie, invece, il problema non risiede nelle modalità trattamentali, ma nella resistenza trattamentale di troppi tra questi detenuti. Le indagini ci mostrano come nel carcere molti di costoro tendano a ripetere e mutuare gli stessi schemi relazionali che vivevano all’esterno, replicando le medesime relazioni gerarchiche e, talvolta, persino gli stessi antagonismi tra gruppi. Nessuna rieducazione è efficace, se il detenuto non accetta una revisione del percorso di vita che lo ha portato alla reclusione. Inoltre, molto spesso, il detenuto per reati di mafia che esce dal carcere si porta addosso un marchio che gli rende difficilissimo il reinserimento sociale, consegnandolo, di fatto, ai vecchi percorsi relazionali che gli avevano fatto guadagnare la condanna. Non solo, infatti, mancano sistemi e strutture funzionali a garantire il reinserimento lavorativo, ma le imprese che decidono di assumere questi detenuti rischiano un’interdittiva prefettizia. È l’elefantiasi repressiva che giustifica se stessa e tacita le coscienze, dividendo il mondo tra buoni e cattivi, salvando i primi e punendo i secondi, senza concedere loro alcuna seria possibilità di redenzione. Il risultato finale è radicalmente anticostituzionale, ma consente ottime carriere, protette da un circuito autoreferenziale che si alimenta da sé e sfugge a qualsiasi critica. Giorgio Gaber lo chiamava: il potere dei più buoni!”. In Brasile è stato messo a punto un modello di detenzione alternativo, senza guardie né armi, che responsabilizza i detenuti e coinvolge le comunità locali e i giudici. “Qui entra l’uomo, il reato resta fuori” si legge all’interno delle carceri Apac (Associazione di protezione e assistenza ai condannati) nata da un grumo di volontari appartenenti a un gruppo con lo stesso acronimo: “Amando il Prossimo, Amerai Cristo”. In questo caso la percentuale delle persone che, una volta uscite dal carcere, torna a delinquere scende al 20%. Perché non si riesce a fare qualcosa di simile anche in Italia? “Perché chi brandisce la clava e vuole fare “marcire in galera” chi commette un reato, ha un consenso sociale straordinario; mentre, dall’altra parte una vera cultura delle garanzie ha lasciato il posto a un gretto giustizialismo, sicché le “manette agli evasori” diventano una delle soluzioni ai problemi finanziari del Paese. Insomma, non c’è la volontà politica e neppure quella popolare. In ogni caso, il modello brasiliano è inattuabile ai detenuti per reati di mafia. Mi piacerebbe lo fosse, ma purtroppo le indagini ci consegnano una quantità statisticamente significativa di detenuti mafiosi impegnati ad abusare dei trattamenti detentivi meno stringenti, per garantirsi spazi utili a proseguire nelle loro condotte criminali. Si tratta di dati di fatto, non di opinioni, con cui bisogna fare i conti. Le norme restrittive dell’art. 41 bis O.P. non nascono per le bizze di un legislatore cattivo, ma per l’accertata proclività di alcuni detenuti per reati di mafia a comunicare con l’esterno, per finalità delittuose, mantenendo dal carcere ruoli direttivi delle cosche”. È chiaro che non facevo riferimento ai detenuti per reati di mafia ma a quei reati a cui accennava prima, espressione del disagio sociale. Secondo lei arriverà mai il giorno in cui guardando le carceri, questi enormi blocchi di cemento dove gli uomini vivono ingabbiati e in condizioni disumane, ne riconosceremo l’assurdità? “È una bella utopia, come tale irrealizzabile. Ma è utile a immaginare futuri diversi, ci invita a non accontentarci della mera gestione dell’esistente e a guardare con maggiore compassione all’umanità che vi è ristretta, sentendo la responsabilità personale e collettiva di quelle vite. Nessuno si salva da solo…”. “Il carcere deve essere abolito...”. Nonostante Nicosia, la mafia e Messina Denaro di Roberto Puglisi livesicilia.it, 10 novembre 2019 Una vicenda torbida. Un’inchiesta che fa tremare. E una proposta provocatoria dal volontariato. Nella storia delle accuse ad Antonello Nicosia che - secondo la cronaca fin qui disponibile, sempre in aggiornamento, in attesa del giudizio - “avrebbe sfruttato il suo ruolo di assistente parlamentare di una deputata nazionale per entrare in carcere, parlare con potenti mafiosi e portarne all’esterno le direttive, minacciare altri detenuti”. In questa maleodorante vicenda di intercettazioni, frasi che ripugnano e incroci pericolosi, c’è un convitato di pietra: il carcere, appunto. Sede di anime (con)dannate, talune in cerca di una redenzione, agglomerato di corpi posizionati gli uni sugli altri, asfissia delle buone intenzioni, nella maggioranza dei casi. Ed ecco la domanda che circonda la trama dell’uomo che sarebbe stato vicino a Messina Denaro, un quesito a furor di popolo (i social ne traboccano): è davvero così facile entrare dalle parti delle celle e mettersi a disposizione di chiunque, sfruttando magari un ruolo apparentemente votato al miglioramento delle condizioni di chi vive dietro le sbarre? Non sarebbe più saggio ‘buttare le chiavi’ e chi è dentro e dentro, mentre chi è fuori resti fuori, per evitare rischi? Proprio seguendo un’esigenza contraria, Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia che si batte per i diritti dei detenuti, ha scritto su Facebook: “La vicenda che coinvolge Antonello Nicosia, oltre il merito delle accuse e delle deplorevoli frasi su Falcone e Borsellino, non può accendere nuovi focolai negativi sull’attività delle visite nelle carceri che tanti volontari fanno tutto l’anno”. Una risposta alla marea che sale. “Purtroppo - insiste Apprendi - si sta alimentando un brutto clima. Prima c’era l’idea sbagliata della prigione come albergo a cinque stelle, ora si va oltre. Chi sconta una pena, secondo questa opinione pubblica, deve soffrire il più possibile. Se si sta male, è meglio. E certo che chi ha sbagliato deve pagare, ma nel rispetto della dignità ed è necessario che tra le sbarre sopravviva un mondo aperto che possa continuare a comunicare con l’esterno. Altro che giro di vite. Le carceri siciliane hanno un alto tasso di invivibilità. Non solo il sovraffollamento, c’è il problema del mancato diritto alla salute, inclusa quella mentale che non viene seguita”. Concetti cari all’avvocato Fabio Bognanni, responsabile regionale dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali e vicepresidente della camera penale di Palermo: “Il dato di cronaca è semplice: il sistema relazionale del carcere non può essere messo in discussione da un singolo episodio. Quel sistema garantisce trasparenza nei confronti di tutti. La situazione delle carceri siciliane? Si soffre per la carenza di risorse strutturali ed è particolarmente urgente il tema della salute, con particolare riguardo al disagio psichiatrico. La Sicilia occidentale, per esempio, è priva delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) che hanno sostituito gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”. Il carcere come pentola in ebollizione che cuoce il dolore. Non si contano i suicidi e gli atti di autolesionismo, senza dimenticare che il malessere coinvolge e travolge il personale penitenziario. Sono gli altri prigionieri di un meccanismo drammatico. Maurizio Artale, del Centro “Padre nostro” di Brancaccio che ha aiutato tanti a reinserirsi, introduce una provocazione: “Il carcere non dovrebbe esistere. Sì, andrebbe abolito perché non porta miglioramenti nella società. Su cento persone con una condanna superiore ai tre anni, l’ottanta per cento è recidivo. Invece, quelli che si impegnano presso enti e associazioni riescono a costruirsi una vita diversa”. “Chiaramente, è una provocazione - continua Artale - lo so anche io che ci sono detenuti che devono stare in cella, ma io tifo per la certezza del recupero. Noi aiutiamo carcerati, ex carcerati e famiglie. Alcuni di coloro che abbiamo in carico lavorano presso un terreno che ci hanno donato a Santa Maria di Gesù. Coltivano gli ortaggi, badano al pollaio, alle pecore, ai maiali... Altri si occupano dei minibus per accompagnare i bambini di Brancaccio a scuola. Ma le istituzioni non pagano e così pure la speranza di reinserimento finisce. Capisco che situazioni come quella di Nicosia fanno scalpore, ma i volontari, che ci credono, sono puliti e devono continuare la loro attività”. Perché perfino in carcere, nella polvere sotto il tappeto che non vogliamo guardare - a saperle distinguere - ci sono anime (con)dannate che meritano una porta socchiusa. Bonafede: “Il Pd non imiti la Lega. Mai più giochetti contro la riforma” di Liana Milella La Repubblica, 10 novembre 2019 Intervista al ministro della Giustizia. “Sulla giustizia il Pd non si comporti come la Lega che ha fatto di tutto per bloccare la mia riforma, mentre insieme possiamo scriverne una veramente rivoluzionaria”. Dice così a Repubblica il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Che non vede una crisi di leadership per Di Maio e sull’Ilva dichiara “ho piena fiducia in Conte e Patuanelli”. II governo naviga in brutte acque, giustizia compresa. Che ne è della sua riforma? “Innanzitutto non sono d’accordo. In tre mesi abbiamo costruito una manovra che è riuscita nell’intento di eliminare l’aumento dell’Iva e del super-ticket, senza toccare quota 100 e reddito di cittadinanza. Ma soprattutto dando il via a una seria lotta all’evasione”. Di sicuro la sua riforma è bloccata… “È già pronta da un mese, l’ho inviata a tutte le forze politiche che si sono prese il tempo, anche un po’ troppo in verità, per analizzarla. Ora i cittadini non possono più aspettare. È il momento di partire senza tentennamenti”. Chi sta frenando? Il Pd? “Fino a oggi ogni partito mi ha chiesto un po’ più di tempo. Lo posso anche capire. Ma cittadini e imprese hanno il diritto di vederla realizzata. È scritta. È pronta. E mi aspetto correttezza da parte della maggioranza, come c’è stata in altri settori. Se invece qualcuno cercasse di perdere tempo finirebbe con lo stesso giochetto della Lega, che ha fatto di tutto per bloccare la riforma, fino al punto di andare a una crisi di governo. Dalla Lega, da sempre vicina all’idea berlusconiana della giustizia, me lo aspetto, ma dal Pd e dal centrosinistra no”. Il Pd come la Lega, è un’affermazione forte… “Non ho detto questo. Io sono felice di essere in questa maggioranza e non più al governo con la Lega che voleva cancellare la legge Spazza-corrotti. Ho detto che non mi aspetto da parte del Pd un atteggiamento simile a quello della Lega e confido nella loro correttezza”. L Pd non vuole il blocco della prescrizione. È inutile girarci intorno… “Non voglio farlo per niente. So che M5S e Pd partono da due idee differenti. Ma dobbiamo dire la verità ai cittadini: il primo gennaio non ci sarà nessuna apocalisse per via dell’entrata in vigore della nuova prescrizione. I primi effetti processuali non si avranno prima del 2024. Tutti diciamo che bisogna velocizzare il processo. Bene, allora facciamolo, abbiamo la riforma per dimezzarne i tempi. Non sono insensibile alle preoccupazioni sui tempi dei processi, questa legge è una conquista di civiltà, ma bisogna evitare che una persona sia soggetta a processi troppo lunghi”. Quindi la prescrizione entra in vigore? “La prescrizione è già legge. Se tutti saremo d’accordo, lo saranno il prima possibile anche le nuove norme per dimezzare i tempi dei processi”. E sulle intercettazioni? Sdogana la riforma Orlando o vuole fermarla per la terza volta? “Il dialogo anche qui è partito. Non si toccano le intercettazioni come strumento di indagine. Stiamo discutendo di come gestire le conversazioni già registrate. Confido che raggiungeremo un punto di equilibrio tra il diritto alla difesa, alla privacy, alla riuscita delle indagini”. Cosa non funziona con il Pd? La accusano di essere giustizialista... troppo sulla linea delle manette facili? “Loro non mi hanno accusato di questo minimamente. Siamo stati tutti d’accordo sul carcere ai grandi evasori oltre i 100mila euro. Ma se uno viene condannato in via definitiva per un reato grave, deve sapere che in Italia chi sbaglia paga. La certezza della pena è un valore. Non capisco perché questo concetto sia considerato rivoluzionario. L’unico che mi accusa di avere le manette facili, mentendo, è Salvini. Questa è la dimostrazione che il vero avversario sulla giustizia è fuori dalla nostra maggioranza”. Politicamente Di Maio prende le distanze dal Pd dopo il voto umbro, e lei fa lo stesso sulla giustizia? “La domanda è mal posta. Di Maio non ha preso le distanze dal Pd, ha detto che l’esperimento in Umbria non è andato bene. Io qui non prendo le distanze dal Pd, è l’esatto opposto, dico che insieme possiamo costruire la riforma della giustizia che i cittadini aspettano da decenni”. Non c’è il rischio che la leadership di Di Maio vada in crisi? “No. All’interno di M5S il dibattito è sempre molto acceso, ma si arriva sempre alla sintesi. È in atto un percorso di riorganizzazione del movimento, che sono sicuro darà una marcia in più negli obiettivi da raggiungere. Entro un mese nascerà un organo collegiale, il team del futuro, di supporto al capo politico, in cui ci saranno 18 deleghe sia per materia sia per l’organizzazione”. Che fa M5S alle elezioni regionali, non si presenta, ma appoggia le liste Pd? “Noi stiamo esaminando ogni regione per capire che contributo possiamo dare. Non posso rispondere ora perché è in corso uno studio e un confronto sulle varie situazioni caso per caso”. Vede una crisi di governo e un rischio voto o, come ha detto Renzi a Repubblica, sarebbe un suicidio? “Questo governo deve durare fino alla fine della legislatura perché ci sono tante cose da fare e M5S troverà il modo di portare avanti il cambiamento promesso ai cittadini”. Ha letto Carfagna e l’ipotesi di Forza Italia Viva? “Faccio il ministro della Giustizia e ho tanto da lavorare”. Pensa di fermare i 5 giorni di sciopero degli avvocati contro la sua prescrizione? “No. Ho grande rispetto per loro. Sappiamo che ci sono divergenze, però mi verrà dato atto che ho sempre cercato il dialogo e continuerò a farlo e la bozza di riforma è frutto di quel dialogo”. Csm e nomine. Sente ancora odore di lotta tra correnti? “Le correnti esistono ma io combatto le degenerazioni e la riforma ha degli obiettivi precisi, rompere ogni legame tra politica e magistratura”. È proprio necessario il sorteggio? “Non mi sono mai legato al sorteggio come metodo insuperabile, mi interessa trovare una soluzione che superi le degenerazioni del correntismo, e mi sono giunte proposte interessanti più del sorteggio”. L’odio contro Liliana Segre che effetto le fa? “Mi ha fatto rabbrividire e preoccupare. Non è possibile che in un Paese come il nostro si debba assegnare la scorta a una donna come lei. La politica non può tentennare e dev’essere compatta”. Taranto, scudo penale si o no? Lei che vuole le manette agli evasori come può cedere su questo? “Ho piena fiducia nel premier Conte e nel ministro Patuanelli che stanno facendo un grande lavoro. Nessuno ha la bacchetta magica. Ma c’è la volontà di affrontare una situazione frutto di politiche sbagliate per decenni. Sono stato orgoglioso di vedere il mio premier mentre incontrava i cittadini di Taranto”. Trojan horse, ecco come ci intercettano minuto per minuto di Piero Sansonetti Il Riformista , 10 novembre 2019 1. Nel mese di maggio scorso, la Procura di Perugia trasmette al Consiglio Superiore della Magistratura i verbali di conversazioni intercettate tra magistrati, componenti del Csm e politici aventi a oggetto il futuro assetto delle nomine dei principali uffici giudiziari. Nonostante la loro segretezza, le conversazioni intercettate con il virus informatico denominato trojan horse vengono interamente pubblicate dagli organi di stampa che parlano di “suk delle nomine”. Come immediata conseguenza i consiglieri coinvolti si dimettono e l’originario assetto del Csm viene totalmente stravolto. Terminata l’eruzione vulcanica della vicenda in questione, rimangono aperte alcune questioni nodali che prescindono dall’inchiesta di Perugia e riguardano la vita delle persone, la sicurezza dello Stato, la garanzia delle istituzioni nonché l’individuazione della normativa applicabile. 2. Il progresso delle tecnologie di captazione delle conversazioni permette di sottoporre l’individuo a un penetrante controllo sulla sua vita che si estende ai luoghi di privata dimora e ai soggetti che stanno vicino alla persona intercettata, senza escludere la possibilità che questi ultimi a loro volta possano essere titolari di immunità e di garanzie costituzionali. Il trojan si sta dimostrando un formidabile strumento per combattere mafia, terrorismo e corruzione ma come tutti gli strumenti innovativi deve essere maneggiato con cura soprattutto quando incide su diritti costituzionalmente tutelati. Vale la pena ricordare che per la compressione di diritti considerati inviolabili, quale deve essere considerata la possibilità di comunicare liberamente, le moderne costituzioni esigono una riserva di legge e una autorizzazione giudiziale nel rispetto del principio di proporzionalità. La mancata osservanza di queste garanzie procedurali va, pertanto, considerata come violazione di un divieto (implicito) di acquisizione del dato probatorio. Il rischio, ragionando diversamente, è quello di lasciare alla polizia ampi spazi di iniziativa informale e atipica, con l’uso di strumenti invasivi della sfera intima della persona. 3. Telefono cellulare, tablet e anche notebook sono diventati oggetti che accompagnano ogni nostro movimento e ci seguono in ogni luogo. Ma come si infetta realmente uno di questi oggetti? Sono gli stessi giudici della Cassazione, nella importantissima sentenza Scurato del 2016, a descrivere le caratteristiche tecniche e informatiche del trojan horse precisando che si tratta di un programma informatico installato in un dispositivo del tipo target (un computer, un tablet o uno smartphone) di norma a distanza e in modo occulto, per mezzo del suo invio con una mail, un sms o un’applicazione di aggiornamento (nel caso dell’inchiesta perugina notizie di stampa parlano addirittura di un blocco di funzionamento del telefono da parte del gestore). Il software è costituito da due moduli principali: il primo (server) è un programma di piccole dimensioni che infetta il dispositivo bersaglio; il secondo (client) è l’applicativo che il virus usa per controllare detto dispositivo. L’utilizzo di questo programma informatico consente in via principale di attivare il microfono e, dunque, di poter apprendere per tale via i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto che ha la disponibilità materiale del dispositivo. Oltre alla attivazione del microfono sono possibili numerose e diverse attività tra cui: - captare tutto il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo “infettato” (navigazione e posta elettronica, sia web mail che Outlook); - mettere in funzione la web camera, permettendo di carpire immagini; - perquisire l’hard disk e di fare copia, totale o parziale, delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira; - decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema (keylogger) e visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio (screenshot); - sfuggire agli antivirus in commercio. Si tratta di attività che però nel nostro ordinamento non possono essere effettuate perché la legge di riforma in materia (c.d. legge Orlando) si è imposta una sorta di self restraint limitandosi a “disciplinare le intercettazioni di comunicazioni fra presenti mediante immissione di captatori informatici”, come testualmente recita la direttiva delegante contenuta nell’art. 1, comma 84, lett. e) legge 23 giugno 2017 n.103. 4. L’utilizzo del trojan impone allo Stato di mettere in sicurezza i sistemi informatici onde evitare che la rilevante mole di informazioni acquisite possa poi essere utilizzata per finalità estranee alle indagini. Infatti, i dati raccolti sono trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o a intervalli prestabiliti, ad altro sistema informatico in uso agli investigatori. Lo Stato ha deciso di affidare questa attività ad aziende private, proprietarie dei software oppure solo locatarie, con azionisti noti o addirittura in alcuni casi con dei prestanome (in un caso figurava essere titolare dell’azienda la moglie di un poliziotto). Milena Gabanelli sul Corriere della Sera del 14 luglio del 2019 ha lucidamente fotografato la situazione evidenziando che le imprese del settore sono 148, dotate in alcuni casi di management di livello, ma in altri casi anche senza dipendenti. Alcune delle più attrezzate aziende del comparto hanno un fatturato che oscilla tra i 20 ed i 30 milioni come la Rcs (che si legge nel sito opera dal 1993 nel mercato mondiale dei servizi a supporto dell’attività investigativa) la Innova, la Ips, la Loquendo. Negli altri casi si tratta di piccole imprese che fatturano centinaia di migliaia di euro e a sostanziale conduzione familiare. È incredibile apprendere che tali aziende possano operare senza che sia richiesta alcuna specializzazione, certificazione o selezione da parte del ministero della Giustizia e non siano sottoposte ad alcun controllo. La loro scelta è rimessa a una libera valutazione degli uffici di Procura che a loro volta ricevono “suggerimenti” da parte della polizia giudiziaria. Recenti casi giudiziari, tra tutti il caso Exodus, hanno riproposto l’enorme numero di problematiche. Come noto nel caso delle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria devono essere selezionati solamente le conversazioni rilevanti per provare che un reato è stato commesso (questo almeno in teoria perché nella pratica non accade questo; ci sono stati addirittura casi in cui i giornali hanno pubblicato il numero di telefono di persone estranee al delitto). Nel caso del trojan non è dato sapere se una volta trasmessi agli uffici inquirenti i dati continuano a rimanere sulla rete informatica, sovente oggetto di hackeraggio, dell’azienda privata. Nessuna disciplina è dettata al riguardo. Giustamente i più importanti Procuratori d’Italia invocano che il ministero della Giustizia assuma un ruolo guida nella materia in questione. 5. Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese degli uffici giudiziari: 169 milioni su 193,6 milioni destinati dal bilancio dello Stato alle spese di giustizia. Più delle metà delle spese è concentrata in cinque distretti: Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma. Il numero totale delle intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche è di 180.000. Le intercettazioni telefoniche rappresentano per numero dei bersagli l’80% del totale (130 mila). 6. Ultimo nodo è quello di individuare la normativa realmente applicabile ai trojan horse soprattutto se le conversazioni intercettate avvengono in un bar, in un ristorante in una casa e i reati per cui si procede non sono di mafia o di criminalità organizzata. Fino al 2017, l’utilizzo del trojan non era normativamente previsto e la giurisprudenza aveva inquadrato l’impiego dello strumento in questione nell’art. 266, comma 2, c.p.p. come mezzo di “intercettazione ambientale”, la cui “natura itinerante” induceva a escludere “la possibilità di compiere intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., […] non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p. che in detto luogo si stia svolgendo l’attività criminosa” (Sez. Un., 28 aprile 2016, n. 26889, cit.). Tale regola subiva la sola eccezione, prevista dall’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, con riferimento alle indagini per i “delitti di criminalità organizzata” (oltre che per il delitto “di minaccia col mezzo del telefono”), in relazione ai quali è già stato da tempo previsto che, in presenza di indizi sufficienti (e, quindi, non gravi, come ora prescritto dall’art. 267 c.p.p.), si possa procedere alle necessarie (e quindi non assolutamente indispensabili) intercettazioni di scambi comunicativi intrattenuti tra presenti anche nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. pur in assenza di una attività criminosa ivi in corso. È intervenuto successivamente il d.lgs. n.216 del 2017 (meglio noto come riforma Orlando) che: • ha codificato per la prima volta l’utilizzabilità del captatore informatico per l’intercettazione tra presenti (art. 266, comma 2, primo periodo) mantenendo ferma la regola (sancita per tutte le forme di intercettazione ambientale) per cui la captazione nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. è consentita soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che ivi sia in corso l’attività criminosa; • ha reso “sempre possibile” l’intercettazione ambientale mediante captatore informatico nei “procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, comma 3 bis e 3 quater” c.p.p. (art. 266, comma 2 bis); • ha esteso il regime delle intercettazioni cd. “antimafia”, previste dal citato art. 13 d. 1. n. 152 del 1991, ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (art. 6, comma 1) specificando però che in caso di utilizzo del captatore informatico, è vietato effettuarle nei luoghi di privata dimora e assimilati in assenza di motivi per ritenere in corso di svolgimento l’attività criminosa (art. 6, comma 2); • ha introdotto una disposizione transitoria che differisce l’entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 266 comma 2 bis al 1 gennaio 2020 (art.9) mosso dalla condivisibile preoccupazione che all’interno degli uffici di Procura venissero introdotti i requisiti minimi di sicurezze per gestire il materiale intercettato. In questo complesso quadro normativo è infine intervenuta la cd. “Spazzacorrotti”, che ha abrogato il secondo comma del citato art. 6 d. lgs. n. 216 del 2017 e ha integrato l’art.266 comma 2 bis stabilendo che l’impiego del captatore nei luoghi di privata dimora e assimilati è “sempre possibile” pur in assenza di motivi per ritenere che vi sia in atto lo svolgimento dell’attività criminosa, anche per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Tuttavia la novità qui descritta (pur essendo la legge in esame in vigore dal 31 gennaio 2019) opererà solo in relazione “alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 1° gennaio 2020, visto che non risulta abrogata la normativa transitoria del d.l.vo 216/17 in quanto nel frattempo gli ammodernamenti degli uffici di Procura per la gestione del materiale intercettato non sono stati realizzati. Quale dunque la normativa applicabile? Dal quadro delineato emerge che la disciplina dell’uso del captatore informatico per i delitti di criminalità organizzata e dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. sembrerebbe non ancora in vigore. Allo stato attuale il ricorso al trojan è dunque possibile operando una sorta di mix tra giurisprudenza creativa (i termini della sentenza Scurato che nel 2016 ha inteso “anticipare” una riforma in itinere; riforma che oggi prefigura contenuti, almeno in parte, diversi) e una fonte normativa che ha sì già abrogato l’art. 6, 2° comma, d. lgs. n. 216 del 2017, ma che ancora attende l’entrata in vigore degli artt. 266 e 267 cpp - disposizioni, per così dire, portanti - che dovranno disciplinare il processo autorizzativo della medesima “pratica investigativa”. Conclusivamente il tema della specifica tutela delle conversazioni che avvengono in luoghi di privata dimora è ancora quanto mai attuale, quando si procede per i reati che non sono di criminalità organizzata. Può giudicarmi un giudice che non sa scrivere in italiano? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 10 novembre 2019 “Di tanto il primo giudice ne ha dato debito conto”. Non l’ha detto il ministro degli Esteri. Lo ha scritto la corte di appello di Napoli in una sentenza di qualche settimana fa. E si potrebbe fare spallucce davanti a quest’opera di macellazione della nostra lingua, considerando che infine non c’è da stupirsene in un Paese dove il capo del governo si affatica senza risultato a mettere insieme una frase mondata dagli strafalcioni che, per dirla con lui, gli “sgorgano naturali”, o dove il direttore di un importante quotidiano se ne esce con “proseguio”, e su su fino ai comunicati della Presidenza della Repubblica allegramente maculati da sfondoni che manderebbero alla bocciatura già un undicenne. Per quale motivo, dunque, dovremmo pretendere che un giudice sia educato a scrivere anche solo in italiano appena corretto (in buon italiano, figurarsi) quando il più desolante analfabetismo perturba in ogni sede e anche nelle più alte il discorso pubblico? E te lo spiego io, il motivo. Perché così un politico, magari anche dotato di responsabilità di governo, come il responsabile di una testata giornalistica, che dopotutto dovrebbe portar cultura, infine fan solo vergogna quando si esibiscono nel loro rapporto disturbato con la decenza sintattica: mentre un giudice lasciato libero di abbandonarsi all’oscenità di quelle sgrammaticature fa molto peggio. Perché le cose che scrive servono per giudicare le persone. Per arrestare la libertà delle persone. Per aggredire il patrimonio delle persone. E tutto questo non sempre giustamente, visto che le parole di un giudice ben possono formare una sentenza sbagliata anche nel merito, oltre che nell’uso dell’italiano. A chi sia provvisto di tanto potere non dovrebbe essere consentito di scrivere in quel modo: perché un potere che si esprime in quel modo cessa di essere rispettabile, diventa ripugnante e assomiglia a quello del boia, un disgraziato che non ha bisogno di eloquio per tagliare una testa. Ma ho detto male. Impedire di scrivere in quel modo a chi ha quel potere non si può, salvo disporre che se ne torni sui banchi di scuola prima di ricominciare a dare ordini in nome del popolo italiano. Si potrebbe invece impedire a chi scrive in quel modo di assumere quel potere. Affinché una decisione di giustizia - questa cosa grave e implicante, capace di infierire irrimediabilmente su beni delicati - si imponga almeno con pulizia verbale anziché con la brutalità invereconda dell’apoftegma asinesco. Dice: “Ma quanto strepito per un errore di italiano! Sarà un caso isolato, no?”. Ora, a parte il fatto che non è per nulla un caso isolato, e anzi nelle carte giudiziarie ce n’è a strafottere di roba simile, domando: vorresti pure che fosse la regola? Da Roma all’Emilia, la mafia c’è ma non si vede di Giovanni Tizian L’Espresso, 10 novembre 2019 Intervista al Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. “A Roma la mafia è capillare. E i clan usano la città come lavatrice di denaro sporco”. Le sentenze sulla Capitale e Bologna eliminano il reato di associazione mafiosa. Eppure il metodo è sempre lo stesso: intimidazione e assoggettamento. È mafia. Anzi no. Prima la sentenza della Cassazione sul “Mondo di mezzo “ di Massimo Carminati, la fu mafia Capitale, per intenderci. Poi la corte d’Appello di Bologna che cancella il reato di associazione mafiosa, riconosciuto in primo grado, per il re del gioco d’azzardo legale legato alla ‘ndrangheta e riconduce il tutto a una semplice banda di delinquenti lasciando tuttavia l’aggravante del metodo mafioso per alcuni reati. Giudici che smentiscono altri giudici. E il cittadino che fatica a orientarsi in questo continuo altalenarsi di giudizi. Ne abbiamo parlato con il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che ha vissuto in prima linea l’evoluzione delle mafie. Prima a Napoli sul fronte di Gomorra e dei clan diventati miliardari con l’affare “monnezza”, poi a Reggio Calabria dove ha toccato con mano la masso-’ndrangheta messa sul banco degli imputati dall’aggiunto Giuseppe Lombardo. Gli scenari vissuti da protagonista da De Raho sono contraddistinti da organizzazioni che fanno parte di sistemi criminali più complessi, nei quali il capitale relazionale conta più del kalashnikov. Procuratore, proviamo a partire dalle basi per nulla scontate oggi. Ci può spiegare cos’è la mafia, cosa sono le mafie? “Da un punto di vista tecnico-giuridico, il reato previsto dal 416 bis delinea un’organizzazione che si distingue per l’utilizzo del metodo mafioso, mentre l’associazione semplice, punita dal 416, non usa tale metodo” Davamo per scontato cosa si intendesse per metodo mafioso, ci sbagliavamo... “Il metodo mafioso porta con sé la forza intimidatoria e di assoggettamento, da questi elementi deriva l’omertà, la paura e la soggezione di chi subisce le attività del gruppo criminale. Ma è proprio su questa linea interpretativa che si gioca la partita. In passato si riteneva che l’esistenza della cosca mafiosa fosse determinata soprattutto dalla territorialità: è mafia se ha un territorio di dominio definito e circoscritto sul quale esprime la propria forza intimidatrice. Da qui le conferme in Cassazione dell’esistenza della camorra, della ‘ndrangheta e di Cosa nostra. Forza-territorio, il binomio che ha prevalso per molti anni. Ma nel tempo i giudici si sono resi conto che esistono organizzazioni la cui forza si può manifestare non per forza su un territorio o area geografica. Sono arrivate così le condanne per 416 bis di gruppi criminali albanesi, nigeriani e cinesi, che agivano con metodo mafioso sulle loro comunità e non tanto sul territorio circostante. Si è fatto perciò un salto di qualità interpretativo laddove si è ritenuto che possono esistere “piccole mafie” diverse da quelle tradizionali. E questo ha permesso di riconoscere come associazioni mafiose le cellule autonome delle mafie tradizionali fuori delle regioni meridionali. Oppure pensiamo alle “piccole mafie” di Ostia, il percorso di riconoscimento del clan Fasciani ha seguito giudizi altalenanti: primo grado mafia, secondo grado non lo era più, per la Cassazione ritorna a essere mafia e rinvia in Appello. Questi esempi dimostrano come ormai la giurisprudenza dia più valore al metodo del gruppo criminale che al territorio”. Eppure le ultime sentenze, la Cassazione su Carminati e la Corte d’Appello a Bologna... “Ovviamente non mi esprimo sul giudizio dato dai giudici. Aspetteremo le motivazioni e capiremo solo allora se la Corte ha intrapreso un diverso orientamento. Tuttavia dobbiamo tenere in considerazione un altro elemento. Ci troviamo sempre più spesso a investigare sulle mafie silenti, organizzazioni storiche che però si impongono nel mercato senza alcuna minaccia. Pensiamo alle mafie tradizionali radicate nel Nord Italia, che operano senza atti di violenza esplicita e si impongono nel tessuto economico con la corruzione, con la forza dell’appartenenza a un gruppo. Non, dunque, l’intimidazione classica”. Un modello che in realtà ricorda la mafia raccontata da Leonardo Sciascia nel “Il giorno della civetta”. Il potere legale a braccetto con quello mafioso. Un sistema unico, una mafia trasparente, che si vede e non si vede. Per colpirlo servono nuove leggi? “Fermo restando il 416 bis, che dal 1982 ci permette di contrastare con efficacia i clan nelle loro diverse declinazioni, dovremmo cercare di guardare anche come queste ulteriori evoluzioni criminali possono essere affrontare nel migliore modo possibile”. Carminati e il suo “mondo di mezzo” rientrano in questo processo evolutivo? “Da quel che abbiamo visto a Roma colpisce l’altalena di giudizi. Si tratterà di capire che interpretazione hanno dato i giudici di Cassazione agli elementi raccolti. Anche perché è utile sottolineare come sia stata proprio la Cassazione in questi ultimi anni a spostare l’attenzione dal concetto di territorio occupato al metodo usato, dando più valore a quest’ultimo nel riconoscimento del 416 bis. Le mafie del nostro tempo aggregano pezzi di economia sana, alla quale offrono servizi illegali. Così entrano e conquistano settori produttivi. Una volta infiltravano con le estorsioni, l’imposizione per entrare negli appalti. Oggi accedono con il metodo dell’accordo, facendo risultare quest’ultimo vantaggioso. Seppure possa sembrare meno invasiva, condiziona pesantemente la vita delle persone. Pensiamo per esempio agli imprenditori perbene che non scendono a patti e restano esclusi dal giro di appalti e commesse. Che cos’è questa se non mafia?”. Neppure la Banda della Magliana lo era secondo la Cassazione. Eppure c’erano omicidi, sequestri, droga, rapporti con apparati deviati dello Stato, con le mafie tradizionali... “In quegli anni però i giudici utilizzavano l’interpretazione più restrittiva del 416 bis. Fondata soprattutto sulla territorialità”. Ma quindi a Roma la mafia non c’è? “Nella Capitale c’è una capillare presenza mafiosa, con decine di clan che usano la città come lavatrice di denaro sporco. Quindi c’è ed è forte”. Risaliamo la penisola. Nel processo d’Appello di Bologna contro il re del gioco d’azzardo legale (ex narcotrafficante legato alla ‘ndrangheta) i giudici hanno stabilito che si trattava di associazione semplice, lasciando però l’aggravante del metodo mafioso per alcuni reati. In primo grado, invece, il tribunale aveva riconosciuto il 416 bis. In secondo grado, in pratica, si riconosce il metodo per qualche singolo fatto ma non per l’intera organizzazione... “Anche per la sentenza di Bologna dovremo attendere le motivazioni. Possiamo intanto dire che il metodo è ciò che contraddistingue l’associazione. Non è facile scindere il metodo dall’organizzazione”. Certo è difficile farlo comprendere ai cittadini non addetti ai lavori... “Giovanni Falcone diceva: “Cosa nostra è forte perché ha rapporti con la politica e con i poteri economici”. Per smascherare la parte “invisibile” delle mafie è necessario mettere insieme elementi che vengono da anni di indagini, valorizzare quei dettagli che in prima battuta sembravano marginali”. Invisibili. Un altro concetto complesso da spiegare al mio vicino di casa. “Esistono livelli occulti, riservati, all’interno di un’organizzazione, sconosciuti agli stessi affiliati, ai manovali dei clan”. Riciclaggio, corruzione, evasione. Reati spia della presenza mafiosa ma che la maggioranza delle persone non percepisce come allarmanti... “Non è semplice far comprendere la complessità di clan che non sparano. Però le ricadute delle mafie d’affari sono sotto i nostri occhi, così come i loro investimenti. Pensiamo ai miliardi di euro riversati nelle nostre città che provengono dai traffici di cocaina. Questo è inquinamenti dell’economia. C’è un fiume di denaro che non riusciamo sempre a intercettare”. Dopo la sentenza di Cassazione su Carminati, alcuni hanno esultato: è “solo corruzione”, in fondo siamo a Roma, “da sempre è così”. La mazzetta non fa paura? “Dovrebbe farne molta invece. Distrugge l’economia, riduce la libertà degli imprenditori, dei cittadini. Trasforma i diritti in favori concessi al miglior offerente. Chi non paga resta fuori, fallisce, muore. E non è un caso che nelle indagini sulla corruzione si stiano usando strumenti antimafia. Anche perché sempre più di frequente scopriamo che sono le cosche a usare la corruzione per oliare meccanismi della pubblica amministrazione”. Le indagini sulla massoneria e le mafie, pensiamo a Reggio Calabria, le inchieste sul sistema messo in piedi da Antonello Montante dietro il paravento della legalità, mafia Capitale e le indagini sul gioco d’azzardo legale, come quella di Bologna. C’è un filo interpretativo unico? “Il tratto comune è la complessità. Sono fenomeni che sfuggono allo stereotipo del padrino. Si inseriscono in contesti più ampi, di sistemi criminali che interagiscono e si rafforzano. Un tempo era sufficiente guardare alla struttura della cosca, oggi andrebbero osservati i settori economici di alto livello, ma qui riconoscere la mafia diventa ancora più difficile. La confisca delle attività, piccole e medie, di proprietà delle cosche non è del tutto indicativa della vera pervasività delle organizzazioni”. Cioè? “Bisogna investire di più sulle indagini che puntano ai grandi meccanismi economici e finanziari. Andrebbe a vantaggio di chi in quel settore rispetta le regole ed è tagliato fuori da chi invece costruisce imperi con altri metodi”. Non le sembra che l’attenzione di tutti sia notevolmente calata sulla questione mafiosa? “Che si parli poco di mafia mi sembra evidente. Quando Mario Draghi era a capo di Bankitalia, nella sua relazione finale denunciava l’asfissiante pressione delle mafie sull’economia italiana. Draghi ci stava dicendo: il Paese ha una grande zavorra, le mafie. Da allora, tuttavia, i fatti indicano che nulla è cambiato. Le mafie si sono raffinate ulteriormente e continuano a infettare il mercato e i gangli vitali delle istituzioni”. Milano. I penalisti contro la giustizia-spettacolo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 10 novembre 2019 Presa di posizione della Camera penale di Milano per la decisione della Procura di distribuire agli organi di stampa atti processuali riguardanti indagini giunte alla loro conclusione. “Con quale animo e fiducia le persone indagate e i loro difensore” possono “rappresentare le proprie difese” davanti “a un pubblico ministero che si è appena presentato alla stampa magnificando i risultati dell’indagine che ha consentito di accertare le cause e, implicitamente, i colpevoli del fatto?”. La domanda, retorica, è formulata dalla Camera penale di Milano all’indomani della decisione della Procura del capoluogo lombardo di distribuire agli organi di stampa atti processuali riguardanti indagini giunte alla loro conclusione. Se l’iniziativa poteva avere lo scopo di eliminare la rincorsa del giornalista al maresciallo o al sostituto per avere la “chiavetta” con gli atti d’indagine, il risultato è stato però quello di aver “istituzionalizzato” il processo mediatico. Il tema non è nuovo: bilanciare interessi meritevoli di tutela, come il diritto di cronaca e il rispetto della presunzione di non colpevolezza. Le norme attuali vietano la pubblicazione degli atti processuali, ma non del loro contenuto, qualora già conosciuto o conoscibile dall’indagato. “Si tratta - aggiungono i penalisti - di norme a presidio sia della segretezza delle indagini che delle modalità di formazione del convincimento del giudice”. Il problema italiano, quello della indiscriminata diffusione di atti d’indagine coperti dal segreto, poteva essere risolto se fosse stata recepita la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Ue numero 343 del 9 marzo 2016. “Gli Stati membri - si legge - adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato non sia stata provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Tale direttiva avrebbe dovuto essere recepita lo scorso anno. “Ancora non è stato fatto nulla, in piena coerenza con l’imperante populismo giustizialista che sconosce il concetto stesso di presunzione di innocenza”, sottolineano i penalisti. “È in questo vuoto normativo che si inseriscono le iniziative della polizia giudiziaria che diffonde ai media i cd trailers giudiziari”, affermano, “allo scopo di glorificare la bravura e l’efficienza degli investigatori”, con la diffusione “di fonti di prova coperte da segreto”, ignorando “il rispetto della presunzione di innocenza”. Padova. Detenuti vincono la causa, più soldi in busta paga di Riccardo Sandre Il Mattino di Padova, 10 novembre 2019 Il giudice del Lavoro di Padova ha accolto le richieste dei carcerati del Due Palazzi: i compensi sono fermi da 26 anni. Anche i detenuti hanno diritto alla giusta paga. È arrivata dal tribunale di Padova il pronunciamento che conferma il principio sancito dopo la sentenza del luglio 2019, con cui il giudice del lavoro Mauro Dallacasa, aveva condannato il ministero della Giustizia a pagare in favore di un lavoratore, detenuto nel carcere Due Palazzi, le differenze retributive in relazione all’attività lavorativa svolta durante la permanenza in carcere. Ora altre due sentenze dello stesso tribunale, questa volta firmate dal giudice Silvia Rigon, vanno nella medesima direzione. Sono le numero 645 e 646 del 24 settembre 2019: è stato condannato lo stesso ministero della Giustizia a riconoscere a due detenuti del Due Palazzi rispettivamente 7.800 e 3.300 euro per l’attività lavorativa non adeguatamente retribuita. Un’azione legale che muove dalla costatazione che la Commissione ministeriale istituita per aggiornare periodicamente il trattamento economico dei detenuti non si riunisce dal 1993. Di fatto i carcerati lavoravano oggi con le stesse retribuzioni di 26 anni fa. Un gap vertiginoso ritenuto illegittimo dal tribunale di Padova. “Il lavoro in carcere” ricordano Palma Sergio, della segreteria confederale della Cgil di Padova, Alessandra Stivali e Roberta Pistorello, della segreteria provinciale della Fp Cgil, Michele Zanella, dell’Ufficio Vertenze della Camera del Lavoro di Padova “non ha carattere afflittivo, non rappresenta un inasprimento della pena, ma è considerato una forma di organizzazione necessaria alla vita della comunità carceraria, oltre che uno dei fattori del trattamento rieducativo. Ciò, non solo secondo l’ordinamento penitenziario italiano, ma anche in base alle regole stabilite dalle organizzazioni internazionali (Onu) e dalle regole penitenziarie europee. Anche i lavoratori detenuti hanno dunque diritto alla giusta retribuzione, a non essere sfruttati, a vedere rispettati i propri diritti”. Una sentenza che accoglie solo in parte le opposizioni presentante dal ministero di Giustizia in queste due occasioni. “Il ministero della Giustizia ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo, chiedendo la compensazione con le spese di mantenimento in carcere” spiega a questo proposito l’avvocato Marta Capuzzo dello studio legale Moro che ha patrocinato le cause promosse dalla Cgil e dalla Funzione Pubblica di Padova. Prosegue il legale: “Il giudice ha compensato solo in parte ricordando che, ai sensi dell’articolo 24 dell’Ordinamento penitenziario, la legge riserva in favore dei lavoratori-detenuti una quota pari ai tre quinti della remunerazione per l’attività lavorativa svolta. Secondo inoltre l’articolo 22 dello stesso Ordinamento la retribuzione dei lavoratori-detenuti non può essere inferiore ai due terzi di quella prevista dai contratti collettivi di riferimento nel comparto”. San Gimignano (Si). Il Garante dei detenuti parte offesa per i maltrattamenti in carcere Il Dubbio, 10 novembre 2019 Il Garante nazionale partecipa in qualità di persona offesa al procedimento riguardante presunti episodi di maltrattamento nei confronti di un detenuto straniero avvenuti nella Casa circondariale di San Gimignano. Tale ruolo nel procedimento, riconosciuto dal gip di Siena che aveva notificato al Garante nazionale l’ordinanza applicativa della misura cautelare emessa nei confronti degli indagati, “consentirà - si legge in una nota del Garante, che sarà rappresentato dall’avvocato Michele Passione - di seguire l’indagine e di contribuire a fare chiarezza su quanto avviene negli istituti di pena e a contrastare l’impunità”. Come riportato da Il Dubbio, lo scorso 23 settembre il Garante nazionale aveva convocato una conferenza stampa nella quale aveva fornito alcuni chiarimenti sul contesto della notizia di reato e su altre inchieste analoghe condotte dalla magistratura. Bologna. Un nuovo padiglione al carcere della Dozza: siglato un protocollo di legalità bolognatoday.it, 10 novembre 2019 Firmato un protocollo finalizzato all’adozione di misure per la prevenzione e la repressione di tentativi di infiltrazione criminale nella realizzazione dell’opera. È stato siglato ieri mattina presso la Prefettura di Bologna, un protocollo di legalità per la realizzazione di un nuovo padiglione del carcere della Dozza. Il protocollo, finalizzato all’adozione di una serie di misure per la prevenzione e la repressione di eventuali tentativi di infiltrazione criminale nella realizzazione dell’opera, è stato sottoscritto dal Prefetto di Bologna, territorialmente competente, dal Provveditore Regionale alle opere pubbliche di Lombardia e Emilia Romagna, in qualità stazione appaltante, e dall’impresa aggiudicataria. Tra le misure previste, assume particolare rilievo la creazione di un’apposita banca dati della filiera delle imprese, accessibile alla Prefettura, alle Forze dell’Ordine e alla D.I.A.. Oltre a contribuire all’implementazione di un sistema rafforzato di controlli, sia in funzione antimafia che anticorruzione, il protocollo istituisce in Prefettura un Tavolo di monitoraggio sui flussi di manodopera che lavorerà per garantire la massima trasparenza nelle procedure di reclutamento e il rispetto degli obblighi derivanti dalla legislazione sul lavoro e dal contratto collettivo nazionale. Con riferimento a quest’ultimo profilo, fondamentale per la sicurezza nei cantieri, hanno assunto un impegno diretto associandosi alla sottoscrizione del protocollo anche il Capo dell’Ispettorato territoriale del lavoro e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative. Oristano. In città il Garante nazionale dei detenuti La Nuova Sardegna, 10 novembre 2019 A Massama c’è un elevato numero di detenuti in regime di alta sicurezza ma non c’è all’interno del carcere, una struttura ospedaliera idonea. Di questa e di altre carenze nelle strutture detentive si è parlato ieri con il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. L’occasione è stato il corso (iniziato il 4 ottobre per concludersi il 6 marzo) che la Camera penale oristanese ha organizzato sul diritto penitenziario e sulla esecuzione penale rivolto a tutti gli operatori del diritto agli operatori sociali “ed a quanti vogliano approfondire la materia e siano interessati ad acquisire, sulla stessa, competenza e specifica professionalità”. Secondo la presidente della Camera penale, Rosaria Manconi “ancora oggi il carcere è un mondo parallelo rispetto quello in cui siamo abituati a vivere, fisicamente isolato dal resto del consorzio civile e che per questo necessita di riflessioni aperte e schiette in grado di incidere, al di là di ogni utile riforma, nel sentire collettivo”. Trento. Dall’infanzia al carcere, la storia di Aziz in un libro di Tommaso Di Giannantonio Corriere del Trentino, 10 novembre 2019 Il riscatto di un detenuto di Spini. Pusher e analfabeta, oggi è diventato scrittore. Quando è entrato in carcere per la prima volta per scontare una pena di otto anni per spaccio e sequestro di persona, Abdelaaziz Aamri, cittadino marocchino, era un analfabeta che non sapeva parlare l’italiano. Oggi, a distanza di quattro anni dal suo primo giorno in cella, Aziz ha conseguito il diploma di scuola media e ha pubblicato una raccolta di racconti. Una storia di riscatto sociale che lunedì mattina sarà al centro di un convegno multidisciplinare al Teatro San Marco di Trento: “Mai più qui. La forza di ricominciare”. Insieme a giornalisti, giuristi, diplomatici e spirituali, sarà presente anche Aziz, che ha ricevuto per l’occasione un permesso speciale dalla casa circondariale di Spini di Gardolo. Prima di arrivare in Trentino, il detenuto marocchino, quarantatreenne, si era già messo in gioco nel carcere di Venezia-Santa Maria Maggiore con l’associazione di volontariato “Pesce di pace”. Ogni giorno, per sei mesi, aveva incontrato la volontaria, nonché giornalista, Nadia De Lazzari per tradurre in varie lingue - dall’arabo all’italiano, dal francese allo spagnolo - messaggi di fraternità scritti da bambini della scuola elementare. Dopo il trasferimento a Trento, Aziz ha poi conseguito il diploma e ha avuto un altro incontro importante con il padre Fabrizio Forti, anima della “mensa della Provvidenza” dei Cappuccini e cappellano nel carcere di Spini, scomparso tre anni fa a causa di un malore. A lui, al frate di Gardolo che ha riempito di speranza il detenuto marocchino, credente musulmano, è stato dedicato il progetto “Mai più qui. La forza di ricominciare”, ideato da Nadia De Lazzari. La stessa che ha spinto Aziz a scrivere una raccolta di racconti sulla sua vita: dall’infanzia al carcere. Il libro - che si può trovare nel convento di Santa Croce alla Spalliera dei padri Cappuccini - è stato stampato in mille copie, tutte autofinanziate dal detenuto con i risparmi della sua paga dell’amministrazione penitenziaria. Nel corso del seminario di lunedì, tra l’altro, saranno insieme per la prima volta - a testimonianza del dialogo interreligioso come prospettiva di coesione sociale - l’arcivescovo di Trento Lauro Tisi, il rabbino capo della comunità ebraica di Verona e Vicenza Yosef Labi e l’imam della comunità religiosa islamica italiana Abd Allah Mikail Mocci. Bergamo. I detenuti tra panini e biscotti venduti all’esterno e il loro diario: “Spazio” Corriere di Bergamo, 10 novembre 2019 Il racconto delle proprie esperienze, iniziato nel 2002 grazie ad Adriana Lorenzi, continua a crescere: 240 ore di laboratorio e tre numeri ogni anno. Più che una rivista, un diario dal carcere: “Spazio” raccoglie i testi dei detenuti della casa circondariale di Bergamo. Il nome della testava evoca l’opportunità, su carta, per ciascun detenuto di elaborare il proprio vissuto e trasformarlo; all’interno, accanto all’autoironia, le riflessioni più profonde. L’iniziativa è nata nel 2002 grazie a Adriana Lorenzi: “Dietro le sbarre sorgono spontanee domande che annichiliscono, ci si chiede perché si è fatto del male, è necessario snodarle in narrazioni per elaborarle”, spiega la responsabile del progetto in occasione dell’incontro organizzato da Mutuo Soccorso. 240 ore di laboratorio concentrate in tre numeri ogni anno: “Si potrebbe pubblicare di più ma mancano i fondi - continua Lorenzi -. Resta la necessità di puntare al reinserimento lavorativo”. In Italia, stando ai dati 2019 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, 7 detenuti su 10 tornano a delinquere. Il tasso di recidiva è il più alto di sempre, ma prevedendo il coinvolgimento dei carcerati in cicli produttivi, viene abbattuto al solo 1%. Valentina Lanfranchi, presidente dell’associazione Carcere e territorio Bergamo, aggiunge: “La nostra cultura ci spinge a vedere la pena come punitiva, ma dovrebbe essere riabilitativa e educativa. Ogni detenuto costa allo Stato 125 euro al giorno, c’è un interesse anche economico nell’offrire alternative al crimine”. Fra le sbarre della struttura di via Gleno è attivo dal 2011 un progetto di panificazione, con una linea di biscotti e dolci in vendita nei negozi e in una caffetteria, “Dolci sogni” di Nembro, che dà lavoro a detenuti e disabili. Rosa Lucia Tramontano è la responsabile: “Utilizziamo ingredienti equo solidali importati dai Paesi più poveri del mondo. Per i detenuti è fondamentale lavorare o imparare un mestiere”. I panini dei detenuti arrivano ogni lunedì nelle scuole elementari della città: “I bambini hanno ringraziato i carcerati con biglietti e disegni, li immaginano con la palla al piede e la tuta a righe, ma è importante creare dialogo fra il territorio e il carcere” conclude. Bologna. I cancelli si chiudono, la cena è servita Corriere di Bologna, 10 novembre 2019 Una sera nell’osteria dentro al Pratello dove i giovani detenuti servono in livrea. Metti una sera cena al Pratello. Dentro il carcere minorile. In cucina e in sala i giovani detenuti. La “Brigata del Pratello” è finalmente aperta alla città: venerdì sera la seconda cena a inviti, ce ne sarà una terza a dicembre, poi potranno entrare tutti. Tra strigoli e filetto, l’attenzione è tutta per questi ragazzi che cercano il riscatto attraverso il cibo. Andrea 1, Andrea 2, Manuel, Edoardo, Yazir, Ralph: c’erano loro a servirci quando le sbarre si sono chiuse alle nostre spalle. C’è quell’attimo, appena entrati nella sala affrescata e apparecchiata, in cui si sentono le chiavi delle guardie chiudere le pesanti sbarre alle proprie spalle, che si ha la sensazione netta che quella non sarà solo una cena. Certo, ci sono le diverse portate servite con garbo e competenza, i piatti preparati sono gustosi e degni di un’osteria del centro, ma inevitabilmente gli sguardi, più che sul filetto di manzo e sugli strigoli al profumo di bosco, si posano sui ragazzi, sulle loro mani mentre porgono i piatti ai commensali, sui loro visi emozionati, sui mezzi sorrisi accennati quando si dice loro grazie, era molto buono, sul timore di sbagliare che non riescono a nascondere. Perché sono loro, più che i piatti che hanno imparato a preparare nella grande cucina professionale e tirata a lucido, i veri protagonisti della serata e dell’esperienza che lascia un segno. Certo in loro, ma senza dubbio anche in chi è seduto a mangiare. L’osteria “Brigata del Pratello” ha aperto i battenti: venerdì sera c’è stata la seconda prova generale con le persone invitate dal direttore del carcere minorile, Alfonso Paggiarino, dalla presidente del centro di formazione Fomal, Beatrice Draghetti, e dalla Fondazione del Monte. La terza cena a inviti sarà a dicembre, poi l’”osteria formativa”, come amano definirla gli ideatori, diventerà un luogo accessibile ai cittadini che vorranno passare due ore a fianco dei ragazzi detenuti nel carcere minorile. Entro la fine di novembre sul sito internet si potrà prenotare il proprio posto, ci saranno le doverose verifiche per la sicurezza, e una o due volte al mese si potrà andare a degustare i piatti che i ragazzi stanno imparando a cucinare insieme ai loro tutor. Venerdì sera i giovani chef si erano cimentati negli strigoli al profumo di bosco con funghi e chicchi di melograno, nel filetto di manzo al Sangiovese con flan di patate e spuma di broccoli e nella bolognesissima zuppa inglese. Andrea 1, Andrea 2, Ralph, Edoardo, Manuel, Jazir: erano loro la “brigata” in cucina e in sala l’altra sera in via del Pratello. Vestiti di tutto punto, professionali in ogni gesto, di questi ragazzi è inevitabile farsi domande sul loro passato. Mentre loro ti raccontano come è stato preparato il piatto che ti stanno servendo, tu pensi a quale stravolgimento abbia avuto la loro vita da adolescenti uno, due, tre, quattro, cinque, sei anni prima per essere finiti lì dentro. Poi bevi un bicchiere di vino, leggi il menu, fai qualche chiacchiera con i tuoi vicini a tavola, quasi ti dimentichi di essere in un carcere, fino a che lo sguardo si posa sulle guardie che, emozionate quanto o forse più dei ragazzi, stanno in fondo alla sala in modo discreto a controllare che tutto fili liscio. Dietro le guardie, le sbarre costantemente chiuse a chiave. “Le hanno ridipinte i detenuti - racconta con orgoglio un agente della polizia penitenziaria - ci hanno messo molto impegno e molta passione in questo progetto”. Lo si capisce. Hanno tutti - ragazzi, guardie, direttore del carcere, formatori, ideatori - una luce negli occhi tipica di chi ha penato a lungo per veder realizzato un sogno, ma adesso il sogno ce l’ha davanti e lo sta servendo a tavola a un pezzo di città. Sperando che i “pezzi” seduti a questi tavoli si moltiplichino cena dopo cena: serve il passaparola, serve la condivisione del senso di un progetto che vuole dare un futuro a chi ha sbagliato in passato e che vuole avvicinare, attraverso il cibo, il mondo là fuori con il mondo lì dietro le sbarre. Quando arriva il momento del dolce, in sala escono tutti e sei i ragazzi insieme, tre erano rimasti sempre in cucina guidati dagli chef Mirko Gadignani e Alberto Di Pasqua. Si possono finalmente rilassare e prendersi l’applauso dei presenti, tra i quali venerdì sera c’era anche il vescovo vicario Giovanni Silvagni, entusiasta per gli strigoli ai funghi. Dicono ad alta voce i loro nomi e a premiarli con un applauso ci sono anche le guardie che tutti i giorni li hanno in custodia. L’osteria quasi annulla la divisione dei ruoli: per due ore loro sono cuochi e camerieri, i cittadini sono commensali, gli agenti sono spettatori. “Per me questi ragazzi sono dei figli, sono tutti figli miei”, dice un emozionato direttore del carcere Alfonso Paggiarino. Sotto scorre il video con le interviste e con una canzone scritta dai ragazzi della “Brigata” e musicata dalla band “Nuju”, dove suona il loro prof-maître Cariati. Si intitola “Ci sono sogni”. Alcuni si avverano. Il prossimo: “Far interpretare questo brano da cantanti bolognesi”, dice il Fomal. Un altro modo per agganciare il mondo esterno a questo mondo dove i biscotti che ti regalo a fine cena si chiamano “Sbarrini”. Brescia. Urla (di vita e arte) dalle carceri turche di Marco Bruna Corriere della Sera, 10 novembre 2019 La curda Zehra Dogan. condannata per “propaganda terroristica”, espone per la prima volta in Italia, a Brescia. Ha realizzato i suoi lavori in prigione con materiali di fortuna. “Le mie opere sono un archivio di memoria”. L’opera di Zehra Dogan è un grido che nasconde l’ansia e la lotta per la sopravvivenza. Durante i 1.022 giorni di detenzione in tre carceri turche - Mardin, Diyarbakir e nella prigione di massima sicurezza di Tarso - l’artista e giornalista curda (Diyarbakir, Turchia, 1989) ha sfruttato qualsiasi mezzo pur di dare sfogo alla creatività: sangue mestruale, succo di rucola, buccia di melograno, candeggina, cenere di sigarette. Ne è nato un corpus che dal 16 novembre sarà al centro della mostra Avremo anche giorni migliori. Zehra Dogan. Opere dalle carceri turche, in programma al Museo di Santa Giulia di Brescia con la curatela di Elettra Stamboulis (inaugura venerdì 15 alle 19). In mostra sessanta opere inedite tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista. Zehra Dogan - autrice della copertina de “la Lettura” #414 dello scorso 3 novembre - è stata arrestata il 21 luglio 2016. È stata condannata per “propaganda terroristica” dopo aver pubblicato, attraverso l’agenzia di stampa Jinha, da lei cofondata nel 2010 e poi chiusa con decreto governativo nel 2016, una lettera che le aveva inviato Elif Akboga, una bambina curda di dieci anni. La lettera raccontava l’assedio turco della città di Nusaybin, in cui sono morti centinaia di civili. Il secondo capo d’accusa era la condivisione, sul profilo Twitter di Zehra Dogan, di un’opera da lei realizzata con uno smartphone, ispirata a una foto scattata da un soldato turco. L’immagine mostra le macerie di Nusaybin, con i blindati di Erdogan trasformati dall’artista in scorpioni, simbolo di morte e distruzione. In occasione dell’apertura della mostra “la Lettura” ha intervistato via email Zebra Dogan, protagonista il 23 novembre a Brescia di un incontro pubblico. Pensa che l’arte sia una risposta “politica” al mondo in cui viviamo? “La vita stessa è un atto politico. E la mia arte è senza dubbio una risposta politica al mondo in cui viviamo. E una delle risposte migliori che potessi dare”. Che cosa la spinge a fare arte? “La mia ispirazione è il Medio Oriente, in particolare la mia terra, il Kurdistan. Le opere che realizzo riflettono la cultura, la lingua e le leggende curde. Riflettono tutto ciò che ha a che fare con la storia del mio popolo e con le sue radici. Penso che la mia produzione sia una reazione, per me inevitabile, alla realtà in cui vivo”. Qual è il valore civile, oltre che artistico, delle sue opere? “Gran parte dei miei lavori costituiscono quello che chiamo un “archivio storico”. Si tratta di opere che fissano le testimonianze del presente in una memoria collettiva. Per me, il valore “storico” di ciò che creo è molto importante, ancora più di quello artistico”. Banksy le ha dedicato un’opera a New York. La solidarietà tra artisti l’ha aiutata a resistere? “Quando mi hanno condannata per il disegno di Nusaybin ho avuto la sensazione che coloro che parlavano la mia stessa lingua non mi comprendessero, che ci eravamo trasformati in esseri incapaci di pensare e comprendersi. Mentre sei in prigione, tormentata da queste riflessioni, all’improvviso ti accorgi che alcune persone, a migliaia di chilometri di distanza, ti sono vicine. Banksy mi ha ritratta dietro le sbarre in una città come New York e - cosa ancora più straordinaria - ha proiettato un’immagine enorme del disegno che avevo fatto di Nusaybin. In quel momento i muri, il filo spinato, le guardie, la prigione intera, non hanno più senso. E ritrovo tutta la forza per continuare a resistere”. Come ha reagito quando le hanno detto che sarebbe andata in carcere per aver postato un disegno? “Sui social network avevo visto una foto di Nusaybin distrutta dall’esercito turco. Era un’immagine celebrativa. I soldati avevano appeso le bandiere turche, come trofei, alle case distrutte. Quella foto mi ha colpito molto, e ho voluto riprodurla a modo mio. Non mi ha sorpreso scoprire che quel disegno è stato usato come atto d’accusa. Le persone che vengono prese di mira, che siano giornalisti, artisti, intellettuali o altri cittadini, vengono accusate per ciò che condividono sui social perché non esistono “prove” più consistenti: l tribunale mi ha condannata con questa motivazione: “Zehra Dogan è un’artista, ma ha oltrepassato i limiti della critica”. Così oggi prendiamo atto che i tribunali turchi sono anche le autorità incaricate di stabilire i canoni della critica d’arte...”. Ci può raccontare la sua esperienza in carcere? “In prigione ho incontrato donne di ogni estrazione: braccianti, giornaliste, insegnanti, parlamentari, sindache, studentesse, scrittrici... Una comunità unita da una forte solidarietà. Mettere in comune le nostre conoscenze ci ha arricchito e ci ha dato forza. Ci chiediamo perché ci sbattano in prigione, se poi ne usciamo ancora più forti”. Come faceva a realizzare le sue opere durante la detenzione? “Nella prigione di Mardin, dove mi hanno rinchiusa per la prima volta nel 2016, i reclusi avevano a disposizione materiale per disegnare. Lì abbiamo dato vita a un giornale scritto a mano, a sostegno del quotidiano “Ózgiir Giindem”, che, dopo essere entrato nel mirino della censura, era stato chiuso. Abbiamo trovato il modo per fare uscire il giornale dalla prigione... L’amministrazione era furiosa, ma siamo riuscite persino a realizzarne un secondo numero! Quando mi hanno trasferita a Diyarbakir ho avvertito sin dall’inizio un bisogno irresistibile di disegnare, anche se in quella prigione non c’era il materiale adatto. Tuttavia, molto presto, ho scoperto di avere a portata di mano tutto ciò di cui avevo bisogno. Mi sono servita di carta da lettere, pagine di giornali, scatoloni, tessuti e lenzuola. Ho costruito i pennelli con piume di piccione o con i capelli delle mie amiche. Insieme a loro ho realizzato anche opere collettive”. Come giudica la crisi attuale e l’atteggiamento turco nei confronti dei curdi? “La logica dello Stato-Nazione implica sempre la distruzione di altre etnie, insieme alla diffusione di teorie monistiche, alla negazione delle “differenze” e al controllo demografico del luogo che viene invaso. È questa la logica con cui la Turchia porta avanti la sua politica, già dai tempi dell’Impero ottomano. Nel Rojava (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord Est, non riconosciuta dal governo siriano, ndr), con il motto “Se ci lasciate in pace, costruiremo questo mondo”, i curdi hanno dimostrato che la vita democratica è possibile anche in una regione del Medio Oriente in cui continua a scorrere il sangue. I curdi vogliono far conoscere la bellezza delle terre del Medio Oriente e íl patrimonio storico dei popoli che le abitano. Questo è ciò che infastidisce la Turchia e tante altre potenze. Per gli Stati che dominano il Medio Oriente è un’area che si presta ai loro giochi di guerra. Il popolo del Rojava è in grave pericolo: centinaia di persone sono state uccise dai bombardamenti, un massacro che non risparmia i bambini. Oggi, nel Rojava, la popolazione continua a subire gli attacchi dell’esercito turco occupante. Restare in silenzio e non reagire di fronte a quello che sta succedendo significa arrendersi alla perdita di identità, alla deculturazione, all’esilio forzato e al massacro di migliaia di persone. La popolazione del Rojava continua a resistere, ma il suo futuro sarà determinato dal sostegno dei popoli di tutto il mondo”. Un “Decameron” tra San Vittore e il Piccolo di Antonio Bozzo Il Giornale, 10 novembre 2019 Viaggio teatrale al femminile con la compagnia di Donatella Massimilla. Milano è la città dell’illuminista Cesare Beccaria; bisognerebbe sempre ricordarsene quando, con colpevole approssimazione, si parla dei delitti e delle pene. O si parla di carcere, dove uomini e donne che hanno sbagliato dovrebbero “correggersi”, non soltanto essere esclusi dalla società, perché pericolosi e irrecuperabili. E appunto nella città di Beccaria che opera il Cetec (Centro europeo teatro e carcere), di cui è direttrice artistica la regista e drammaturga Donatella Massimilla. Con la compagnia Dentro/Fuori San Vittore, Massimilla fa un utile lavoro, volto al reinserimento dei detenuti - una volta pagato il conto con la giustizia - nella società dei liberi. Trent’anni fa, Massimilla debuttava con Il Decameron delle donne che vediamo, in nuova veste ma con alcune storiche protagoniste, al Teatro Grassi domenica 10 (alle ore 16) e lunedì 11 (alle 20.30). È liberamente ispirato al romanzo della russa Julia Voznesenskaja (1940-2015), cristiana e femminista, finita in un gulag dell’infernale sistema sovietico di annientamento della dissidenza, poi costretta a vivere in esilio in Germania. Il suo Decameron è popolato da donne, rinchiuse in un reparto maternità e tenute lontano dai loro bambini in quante affette da una malattia della pelle. Come ai tempi del Boccaccio, e della peste nera che costrinse alla reclusione bucolica i narratori delle novelle contenute nel capolavoro trecentesco, le donne della Voznesenskaja si raccontano storie di vita e amore, con tutte le sfumature. Attrici detenute ed ex detenute danno forma e senso a vicende che rispecchiano le loro stesse vite. Il “dentro” è San Vittore; il “fuori” è il Piccolo, che da oltre vent’anni collabora con Massimilla. “I giorni delle prove nel perimetro del carcere trovano naturale destinazione nello spazio scenico del Piccolo, offrendo alle detenute la possibilità di uscire, in una dimensione emotivamente straordinaria com’è mostrarsi da attrici al pubblico”, ha detto Sergio Escobar, direttore del teatro fondato da Strehler, Grassi e Nina Vinchi. Il laboratorio teatrale condotto da Massimilla con i detenuti ha affrontato, nel tempo, diversi autori e realizzato lavori originali. “Tutte storie - ha ricordato la regista - che donano emozioni, rinforzano la voglia di farcela e ricominciare davvero. Come una ninna nanna russa, ci siamo fatte cullare in questi anni di tempo sospeso dalla voglia di mettere al mondo nuove persone per un mondo migliore”. Il testo originario della scrittrice russa è arricchito da scritti e canzoni di attrici detenute, anche di quelle che ancora non possono uscire in permesso. “E a far rivivere i trent’anni dello spettacolo - conclude Massimilla - le fotografie realizzate al debutto del 1989 da Maurizio Buscarino e quelle di adesso, fatte da suo figlio Federico”. In scena Gilberta Crispino, Paola D’Alessandro, Jaksom Do Liete, Mariangela Ginetti, Olga Vinyals Martori, Dalia Nieves, Betsy Subirana, Irene Arpe (con Antonella, Claudia, Daniela, Elena, Jacqueline, Kristal, Marta, Martina, Solange, Sonia). Le musiche, dal vivo, sono di Gianpietro Marazza. Donatella Massimilla, che da trent’anni porta il teatro in carcere: “Una donna rinasce sempre” di Stefania Saltalamacchia Vanity Fair, 10 novembre 2019 Drammaturga e regista, a capo della Compagnia Cetec che da quasi 30 anni lavora a San Vittore. Ai detenuti, soprattutto donne, insegna a guardare dentro se stessi attraverso il teatro. Nelle scuole, invece, ricorda i femminicidi. E pensa che deve tutto a una comunità arbëreshë. Il suo non è un “lavoro” è una “missione”. E per portarla a termine ci vuole “una buona dose di follia”. Mentre lo dice, Donatella Massimilla, sorride con la certezza di non aver mai voluto fare altro. Regista teatrale, drammaturga, romana di nascita ma talmente milanese d’adozione da avere ricevuto lo scorso anno l’Ambrogino d’Oro. Da trent’anni scrive e mette in scena testi e spettacoli teatrali che hanno al centro i “luoghi reclusi”, come li chiama lei, o i “luoghi altri”. La sua compagnia, fondata nel 1999, è il Cetec, Centro Europeo Teatro e Carcere per il reinserimento degli attori e delle attrici detenute. Da quasi mezzo secolo lavora dietro le sbarre di San Vittore, soprattutto con le donne. Nonostante le difficoltà nell’organizzare le prove, i fondi che dovrebbero arrivare ma spesso non arrivano. Ha lavorato anche nelle carceri del Messico, in quelle di Berlino, nell’ospedale psichiatrico di Cambridge. E il suo orgoglio di oggi è nel tornare in scena con Il Decameron delle donne (il 10 e l’11 novembre, al Piccolo Teatro Grassi di Milano), lo spettacolo con cui ha iniziato trent’anni fa dopo l’incontro con la scrittrice russa Julia Voznesenskaja, autrice dell’omonimo romanzo sulla vita di alcune donne, rinchiuse in un reparto maternità e allontanate dai loro bambini per un’infezione della pelle, che raccontano, ispirandosi a Boccaccio, storie di vita e di amore. “Dopo il debutto al Teatro Verdi di Milano, io e l’attrice catalana Olga Vinyals Martori chiedemmo all’allora direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, di lavorare su quello spettacolo con le donne detenute, di condividere con loro un percorso di sperimentazione teatrale. Poi mettemmo in scena un’altra cosa, ma allora non sapevo ancora che il nostro viaggio recluso sarebbe durato bene o male trent’anni”. Che cosa significa “teatro” per lei? “Mi accompagna da tutta la vita. Grazie a un papà che aveva fatto teatro da giovane, fin da bambina ho imparato a visitare con lui i teatri di Roma. Ho debuttato a 15 anni come attrice con Franco Molè, ho studiato alla Sapienza con Jerzy Grotowsky. Successivamente ho seguito il maestro polacco a Santarcangelo di Romagna, dove ho lavorato per diversi anni al Festival Internazionale di teatro di strada. Mi sono laureata in drammaturgia al Dams di Bologna, per poi arrivare a Milano come tutor della Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. A Milano ho deciso di lasciare il palcoscenico e diventare regista, con la consapevolezza di prediligere non solo i luoghi reclusi, ma anche quelli di frontiera. L’amore per un teatro che intreccia trame teatrali ai propri vissuti e aiuta a condividere e ricordare, in modo comunitario e al femminile. Storie che donano emozioni, rinforzano dentro di noi la voglia di farcela e di ricominciare davvero”. Ricorda la prima volta che è entrata a San Vittore? “All’epoca eravamo un po’ pioniere, l’effetto è stato forte. Poi ho conosciuto tante altre carceri. Di recente, sono tornata in quello di Città del Messico, una città nella città. Quando entri ti offrono i tacos, la corruzione è ovunque. A San Vittore lavoro soprattutto con le donne, ma ho lavorato anche con la sezione maschile”. Che differenze ha riscontrato? “Il lavoro con le donne devo dire è molto più difficile perché le donne in carcere, soprattutto le straniere che arrivano dopo un lungo viaggio e sono lontane dai figli, dalle famiglie, si sentono molto disorientate. Il senso di negazione e di abbandono è molto forte. Un uomo in carcere se ha una mamma, una sorella, una moglie, avrà sempre il suo pacco di vestiti, di viveri. Una donna no”. Che cosa le hanno lasciato le donne che ha incontrato in questi anni? “Sono ancora in contatto con quasi con tutte, anche con quelle che sono uscite. Si è creata una grande comunità allargata. E queste donne ci hanno regalato tantissimi testi. Noi non vogliamo mai sapere le loro storie, non diciamo mai i loro cognomi, chi si racconta lo fa spontaneamente, tutto passa attraverso l’arte del teatro”. In base alla sua esperienza, quanto può aiutare il teatro in carcere? “Il teatro è lo strumento principale per riappropriarsi di se stessi. Lo dico senza problemi: non ci sono casi di recidiva in persone che hanno fatto con noi un percorso. Io alla rinascita credo totalmente, non sarei qui se non ci credessi. Trent’anni non sono un’infatuazione”. Si è mai chiesta perché ha scelto di lavorare nei luoghi difficili? “Se devo essere sincera, credo sia anche una questione genetica. Mia madre è originaria di una comunità greco-albanese arbëreshë radicata in Calabria. Mio nonno era il sindaco comunista di un paesino arroccato, San Benedetto Ullano. Sono cresciuta trascorrendo lì le mie vacanze. Ho imparato l’amore per la comunità guardando le donne che si riunivano, d’estate intorno ai falò, per fare l’olio, il vino, la salsa di pomodoro, e nel frattempo raccontavano storie. Credo che stia tutto qui, nella forza di resistere di una piccola comunità, tramandando le proprie storie”. Che cosa le piace di più del suo lavoro? “Avendo un figlio ormai grande - lui fa l’architetto ma ogni tanto mi fa anche le scene - adesso amo il grande senso di grande libertà che questo lavoro mi concede. Siamo solo io e la mia bigol, così ho molto tempo per lavorare, spesso in orari notturni. Sono del segno dell’Acquario, libera e indipendente, amo essere padrona di me stessa. La mia indipendenza la avvertono anche le detenute, la rispettano”. Quali sono stati gli incontri più importanti nel corso della sua carriera? “Ogni incontro ti lascia tanto. Sono gli sguardi che contano. In questi giorni mi sono ricordata di Julia Voznesenskaj, i suoi occhi erano lucidi, intensi. Ricordo anche lo sguardo di Dario Fo, quando venne a recitare San Francesco a San Vittore e ci lasciò un disegno. E poi Giorgio Strehler, Eugenio Barba”. Si definirebbe femminista? “No, assolutamente. Anche se da ragazzina sono andata all’occupazione della Casa delle donne con Dacia Maraini. Credo che il femminismo ogni c’entri poco. Donne e uomini dovrebbero concentrarsi sulla prevenzione, sul cambiare una certa mentalità. Invece, i femminicidi aumentano. Col nostro progetto, Le sedie, ogni anno raccontiamo le storie delle donne uccise, ma anche di quelle che si sono salvate. Portiamo gli spettacoli nelle scuole”. Quale sarebbe stato il suo piano B? “Mi piace anche il lavoro filmico, e ho la passione della pittura. Di certo sarebbe stato sempre qualcosa di artistico, non potrei essere mai ingegnere”. A un ragazzo che vorrebbe seguire le sue orme, che consiglio darebbe? “Avere la pazienza di trovare un maestro o di avere la fortuna di incontrarlo. E di pensare che anche qui ci sono delle regole che vanno seguite”. La nuova politica e il gioco del rancore di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 10 novembre 2019 La ricetta sembra essere: accarezzare la frustrazione degli elettori, convincerli di aver subito molti torti, e offrirsi di ripararli. Il gioco riesce meglio all’opposizione, ma c’è chi continua anche dopo essere arrivato al governo. “Pensare che alcune persone siano state generose con noi è meglio che figurarsi circondati da nemici pronti a farci uno sgarbo. In tanti passano le giornate avvolti in un misto di rabbia e voglia di rivalsa, in uno stato perenne di frustrazione e rancore. (...) Viaggiare su questi binari mentali non fa bene al cervello, che a furia di incistarsi su luoghi comuni si irrigidisce e invecchia peggio”. Apro il libro a caso e mi cade sotto gli occhi questa frase. Mi piace la serendipità letteraria: trovare, tra le pagine, ciò che non si sta cercando. Il passo è tratto da “Prove di felicità - 25 idee riconosciute dalla scienza per vivere con gioia” (La nave di Teseo). Il capitolo s’intitola “Dire grazie / Il risentimento rabbuia”. L’autrice è Eliana Liotta, giornalista e divulgatrice scientifica. Lo sto leggendo, in un sabato di sole autunnale, perché oggi, domenica, con l’autrice ed Edoardo Vigna, terremo un incontro nella prima edizione di Il Tempo della Salute, un’iniziativa del Corriere della Sera (Museo della Scienza e della Tecnologia, Milano, ore 14.30). Titolo: “Gli italiani sono felici?”. La risposta la tengo per il pomeriggio. Per ora dico: Eliana, senza volerlo, ha descritto la ricetta della nuova politica. Accarezzare la frustrazione degli elettori, convincerli di aver subito molti torti, e offrirsi di ripararli - senza entrare nei dettagli. Il gioco riesce meglio all’opposizione; ma c’è chi continua anche dopo essere arrivato al governo. Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ad esempio (il primo con più successo, bisogna dire). A proposito di Salvini. Leggo, nel racconto di Stefania Chiale, il suo slalom milanese per evitare d’essere associato con gli odiatori di Liliana Segre. A un certo punto si finisce a parlare del sindaco di Milano: “Sala? Si preoccupi di alcune periferie che sono fuori controllo e della qualità della vita in città”. In politica, come in amore, conta la narrazione. Ma perché un milanese come Salvini deve negare che Milano funziona e ha ritrovato fiducia in se stessa? Non è vietato. Eppure, non accade: in Italia, la destra fomenta l’astio contro la sinistra, e viceversa. Stop. “Continuare a dire e a credere che si vive in una società a pezzi non giova neppure all’umore”, prosegue Eliana Liotta. Matteo Salvini risponderebbe: “Al vostro umore, forse no. Ai miei sondaggi, certamente sì”. “La sicurezza è un’altra cosa”. In migliaia contro le leggi di Salvini di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 novembre 2019 Tante e diverse le realtà in piazza ieri a Roma. Ma dal governo nessun segnale di discontinuità. “Aboliamo le leggi sicurezza”. Il messaggio diretto al governo 5S-Pd ha aperto il corteo nazionale che è sfilato ieri a Roma, dal Colosseo a piazza della Repubblica. Dietro lo striscione di testa un mondo composito e variegato, diviso in spezzoni. La comunità curda e quella cilena. I passeggini delle famiglie occupanti di casa e gli spazi sociali romani. Le bandiere di Mediterranea e quelle di Sea-Watch. I colori di “Non una di meno” e i cori dei ragazzini dell’associazione “Kethane, Rom e sinti per l’Italia”. Le comunità migranti, tante e diverse. Gli studenti e i sindacati di base, soprattutto Usb e Cobas. I centri-sociali e i progetti solidali del nord-est, uniti nel forum “Indivisibili”. I simboli di Potere al popolo e Rifondazione comunista. Un riflesso sfaccettato dei pezzi di società colpiti dai due decreti sicurezza firmati da Salvini e poi trasformati in legge dal parlamento, durante il governo gialloverde. “Non si possono rischiare sei anni di carcere per fare un picchetto o un blocco stradale che serve a difendere i propri diritti o il posto di lavoro - dice dal camion Tiziano Trobia, della rete Energie in movimento - Così come non si può rischiare di morire in mare per le sanzioni contro le navi che salvano esseri umani, o finire per strada a causa delle misure che limitano ai migranti l’accesso ai documenti e al sistema di accoglienza”. La giornata è fredda e il cielo grigio, gravido d’acqua. Nonostante ciò, strada facendo il corteo cresce. Fino a 20 mila persone, secondo i numeri diffusi dagli organizzatori. Dal camion interviene Nicoletta Dosio, attivista No Tav di settantré anni recentemente condannata in via definitiva e senza condizionale per un blocco stradale in Val di Susa del febbraio 2012. Con lei giudicate colpevoli altre 11 persone. “Essere contro i decreti sicurezza significa rifiutare una politica che il nostro territorio conosce da molti anni - dice la donna - La logica che ispira quelle misure in realtà aumenta l’insicurezza dei giovani, dell’ambiente e di tutti coloro che alzano la testa. Il movimento No Tav è stato un laboratorio di queste politiche. Io andrò in carcere perché non ho intenzione di chiedere scusa per le nostre proteste. Quello che abbiamo fatto era giusto”. Filo comune tra i diversi interventi è la proposta di un concetto di sicurezza radicalmente differente da quello agitato negli anni da tutte le principali forze politiche. Come nelle recenti mobilitazioni contro gli incendi dei locali nel quartiere romano di Centocelle, i manifestanti rifiutano di declinare quel tema a partire dal controllo poliziesco, dalla discriminazione delle persone migranti e dall’inasprimento del codice penale. “In questa piazza c’è anche la rabbia degli abitanti di Centocelle - afferma Paolo Di Vetta, dei Blocchi precari metropolitani - Le cosiddette leggi sulla sicurezza non colpiscono mai la criminalità organizzata, ma sempre gli ultimi. Chi occupa una casa, chi vive alla giornata, chi lotta per difendere i propri diritti. Sicurezza dovrebbe significare garantire a tutti un reddito, un tetto sopra la testa, l’accesso al welfare e la possibilità di lavorare”. Fulvia Conte indossa una felpa di Mediterranea e ha in mano un cartello che dice: “La solidarietà non è reato”. Fa parte dell’equipaggio della nave umanitaria e ha partecipato a diverse missioni. “Anche Mediterranea è in piazza oggi per chiedere l’abolizione delle leggi di Salvini - afferma la ragazza - Quei provvedimenti bloccano nei porti le nostre navi, causando nuovi morti in mare. Avevano parlato di discontinuità con il precedente governo, invece la ministra dell’Interno Lamorgese ha annunciato un nuovo codice di condotta contro le Ong. Ma i codici di condotta ci sono già: il diritto del mare e i trattati internazionali che prevedono il dovere di salvare i naufraghi”. Il Governo è tornato in questi giorni sul tema del decreto sicurezza bis, trasformato in legge ad agosto di quest’anno. La ministra Lamorgese ha manifestato l’intenzione di accogliere i rilievi del presidente della Repubblica contro le maximulte alle Ong e l’annullamento della possibilità del giudice di valutare la “particolare tenuità del fatto” per ipotesi di reato relative a resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Contemporaneamente, la ministra ha annunciato l’attivazione di 300 nuovi posti nei centri di detenzione amministrativa per migranti. Dopo il rinnovo degli accordi con la Libia, invece che a elementi di discontinuità sembra assistere a una persistente subalternità nei confronti delle politiche salviniane. Brutto segnale. Boom delle rimesse verso i propri Paesi: ecco dove va l’oro dei migranti di Goffredo Buccini e Federico Fubini Corriere della Sera, 10 novembre 2019 Dopo anni di calo, il flusso di denaro attraverso i 35 mila sportelli dei Money Transfer è esploso: più 17% nel 2018. Il peso dell’economia sommersa. Mezzogiorno di metà settimana. L’incrocio tra via Gioberti e via Giolitti, di fronte alla stazione Termini, a quest’ora è strategico. Sul marciapiede invaso dal mercatino delle scarpe a cinque euro, loro aspettano il turno. “Invio danaro Ghana, invio dinero Colombia”: i cartelli del Ria Money Trasfer assicurano velocità, discrezione. Come quelli della Western Union, alla bottega accanto. O di MoneyGram. I soldi partono da posti così, da casse quasi continue in fondo a empori zeppi di magneti, cd, occhiali, cellulari, in un angolo di Roma dove il kebab ha da tempo sopravanzato la pizza. E da altri 35 mila sportelli delle tre multinazionali sparsi in tutta Italia. Per usare questa rete basta un documento, non necessariamente quello giusto. “Chiamatemi Buba, Buba e basta”, sorride il ragazzo con la felpa rossa e tre banconote da cinquanta in pugno. Quasi tutti, anche quelli con le carte in regola, ci danno nomi fasulli, sono timorosi. E così il grande giro di rimesse verso l’estero racconta molto di loro - gli immigrati - ma anche molto della nostra economia, della nostra politica, di noi. Nemmeno queste rimesse potevano scampare alla Grande recessione. Gli stranieri spedivano nei Paesi d’origine 7,4 miliardi di euro nel 2011 (quando erano poco meno di quattro milioni) e ancora 6,8 miliardi l’anno dopo, con l’inizio del declino e la crisi del debito: 1.686 euro a testa in un anno; somme che, mandate alle famiglie, rendevano del tutto razionale l’idea di pagare migliaia di euro in un colpo solo a una banda di trafficanti pur arrivare qui. Da allora però le cifre calano. Alla fine del 2017, antivigilia del primo governo dichiaratamente ostile all’immigrazione, gli stranieri residenti salgono a cinque milioni, ma mandano a casa solo cinque miliardi di euro. Mille a testa l’anno, un terzo in meno rispetto ai tempi del governo Monti. In parte perché si sono integrati e spendono i loro redditi più per l’istruzione dei figli in Italia e meno per i cugini ancora al villaggio. In parte perché la crisi morde. Poi, la sorpresa: emerge da un’analisi del Corriere su dati appena aggiornati dalla Banca d’Italia. La rotta si inverte con l’arrivo del governo Cinque Stelle-Lega, all’aprirsi della stagione dei porti asseritamente chiusi, delle quotidiane sortite contro i migranti, della xenofobia in aumento registrata anche dalle denunce nella seconda metà del 2018. È allora che le rimesse dall’Italia tornano a esplodere. Nella seconda metà del 2018, primo semestre del primo governo Conte, l’aumento è del 17% rispetto allo stesso periodo del 2017. È come se crescesse il risparmio precauzionale mandato al sicuro, all’estero. A fine 2018, un anno stagnante per l’economia, il numero degli stranieri è più o meno stabile, ma aumentano di quasi 800 milioni le loro rimesse rispetto al 2017. E la prima metà del 2019 segna un altro più 2%, malgrado la crescita zero in Italia. In parte è tenacia. In parte paura. Non si fidano più, come Buba. Buba avrebbe di che essere orgoglioso della sua vera identità. Ventidue anni, aspirante geometra: con la paga da aiuto cuoco non solo mantiene agli studi in Gambia i quattro fratelli, ma sostiene anche gli ospiti del Villaggio Sos Bambini di Bakoteh, piccoli che, come lui, “hanno perso i genitori troppo presto”. Così Buba è diventato una specie di arci-padre per i suoi fratelli e anche per i bimbi di Bakoteh: “Il mio sogno è costruire una scuola dove imparino a leggere e scrivere in inglese e in italiano”. A questa doppia famiglia ha appena spedito 150 euro (ne manda fino a 200 al mese tramite Western Union, per sé tiene quasi gli spiccioli). Ma le rimesse non sono solo altruismo e trasparenza. Quelle verso la Cina per esempio crollano dagli 83 milioni a trimestre di inizio 2016 a soli 2,6 milioni a trimestre dell’inizio di quest’anno: poiché il numero dei cinesi in Italia resta più o meno stabile, circa 12 mila, la scomparsa delle rimesse lascia pensare a economia sommersa e reti clandestine. Non alla crisi. Lo stesso andamento erratico delle spedizioni di denaro in Nigeria (3,2 milioni nel primo trimestre 2017, sette volte di più nel secondo semestre 2019) fa ipotizzare riciclaggio ed economia illegale, anche sulla scorta delle indagini della Finanza. Michael, nigeriano, 50 anni, ha in tasca un foglio di espulsione contro cui ha fatto ricorso. Ora aspetta, rannicchiato nelle pieghe dell’accoglienza cattolica (la sola che ha retto davvero). Lavora in nero, ma manda almeno 50 euro al mese al figlio di 12 anni in collegio a Lagos. “Devo farlo, in Nigeria se ti ammali paghi”. Un bambino fortunato il suo Tony, si direbbe, non fosse che il padre s’è fatto cinque anni a Rebibbia per traffico di droga. Parla a fatica della galera Michael, dice di essere laureato in economia e forse per questo il giudice ha pensato che tenesse i conti della banda. “Ma io sono innocente e non ci sono bande”. Nemmeno i culti della vostra mafia? “La mafia nigeriana è un’invenzione dei giornalisti” (Michael parla a tratti come i mafiosi siciliani che negavano l’esistenza di Cosa Nostra). “Dovessi cambiare una cosa della vita? Non sarei venuto in Italia. Poi penso che potrà venire qui mio figlio e allora resisto”. Resistono in tanti, abbiano o meno la legge dalla loro. Un’occhiata alle rimesse verso i sedici Paesi d’origine dei maggiori flussi di sbarchi fra il 2015 e il 2017 - tra cui la stessa Nigeria, il Pakistan, il Ghana, la Siria - apre uno squarcio su “mondo di sotto” della società italiana. Per questi immigrati, decollano le rimesse per abitante fra la prima metà del 2017 e la prima metà del 2019. Come se l’Italia fosse una tigre asiatica, non un Paese con poco lavoro e alti costi della vita. Eppure la Banca d’Italia è chiara. In due anni le rimesse pro-capite degli afghani crescono del 34%, quelle dei bengalesi del 2%, (ma valgono 4.400 euro l’anno a testa, un record), quelle dei nigeriani salgono del 190% e dei pachistani del 42%. È probabile che il boom delle rimesse verso i Paesi di origine dei rifugiati arrivati con i barconi si spieghi perché ad esso partecipano di nascosto anche gli “invisibili”: gli irregolari con richiesta d’asilo negata che però restano qui in nero, sommersi, ma a loro modo integrati. Per capirci: il numero reale degli afgani in Italia dev’essere salito circa del 20% se si contano anche gli irregolari, quello dei nigeriani del 170% e anche i pakistani sono molti di più, fuori dai dati Istat su chi ha un permesso. Tanti di questi “clandestini” sbarcati dal 2015 sono tali per la burocrazia e per la politica: ma non per chi li mette al lavoro, spesso sfruttandoli. Non pochi pensano di rientrare in patria, domani, per cambiarla: il “piano Marshall per l’Africa”, di cui spesso straparliamo, se lo stanno facendo da soli, stringendo i denti. Issa ha 23 anni, sta per diventare biologo, fa il mediatore culturale in uno Sprar a Benevento. Gambiano come Buba, ma più consapevole di un ruolo che va conquistandosi nella nostra università: “Io tornerò a casa a lavorare per la mia gente”. Intanto lavora per la famiglia, quattro fratelli piccoli gli costano mille euro l’anno di rimesse. Quando è andato a trovarli dopo cinque anni da noi, il più piccolo l’aveva visto solo su Skype: “Era un uomo! Camminava! Beh, cosa dovevo fare? Mi sono messo a piangere”. Droghe. Italia ed Europa sommerse dalla cocaina di Vittorio Malagutti e Francesca Sironi L’Espresso, 10 novembre 2019 Questa è la vera invasione, altro che migranti. Centinaia di tonnellate di polvere bianca sbarcate nei porti della Ue, da Anversa e Rotterdam fino a Genova e Livorno. È il mercato unico della droga. Ecco le nuove rotte dei narcos. Destinazione: le nostre città. Ma la politica tace. Belin, mi dice: guarda che arriva anche il nostro carico il primo di novembre... cinque borse da 25... 125 chili in tutto... capisci com’è?”. Massimo è nervoso: va bene gestire un ordine. Ma due, e per committenti diversi poi, è troppo. Troppo lavoro illegale, troppe richieste di sbarcare cocaina. La storia di Massimo, operaio portuale di Genova, dipendente di una grande società di servizi, subissato da offerte da parte dei trafficanti di droga, racconta alla perfezione il boom del business della droga in Europa. La merce è troppa. È questa la vera, grande invasione che arriva dal mare. Mentre la politica e l’opinione pubblica si concentrano sugli sbarchi dei migranti, i carichi di cocaina bloccati nelle dogane del Vecchio Continente hanno fatto segnare un aumento senza precedenti: quest’anno il conto complessivo potrebbe sfiorare le 200 tonnellate, contro le 150 del 2018. Nei soli porti italiani, dal primo gennaio al 31 ottobre, ne sono state sequestrate più di cinque tonnellate. Il 168 per cento in più rispetto al 2018. Sono dati della Direzione centrale antidroga che L’Espresso può anticipare nell’ambito di un’inchiesta del consorzio giornalistico Eic (European Investigative Collaborations) sulle nuove rotte della cocaina verso l’Europa. A Genova, il 14 ottobre, un’operazione coordinata dalla procura antimafia ha portato all’arresto di un gruppo di trafficanti attivo fra Liguria, Calabria, Colombia e Ecuador. Si erano rivolti a Massimo, il camallo genovese, per far uscire dai docks 125 chili di merce che arrivava dal Cile. Il gruppo criminale vantava una struttura sperimentata e ben organizzata, buoni rapporti con le famiglie “di giù”, certezza nei pagamenti. Purtroppo per loro, però, nel frattempo Massimo era già stato ingaggiato da un’altra banda di narcos, questa volta albanesi, per uno sbarco dalla stessa nave, la Carolina Star. Il cargo attracca il 2 novembre del 2017. Mentre sposta i primi 77 chili per gli emissari del boss, il portuale corrotto viene però fermato dalla Guardia di Finanza. Il secondo carico resta così nella stiva, e la banda italiana viene costretta a cambiare rotta. Punta su Gioia Tauro, ma a metà ottobre di quest’anno scattano le manette anche per loro. Questa vicenda dimostra una volta di più che ormai le organizzazioni criminali, a cominciare dalle cosche calabresi, sono in grado di giocare su più tavoli, di gestire le spedizioni di cocaina su porti diversi a seconda delle esigenze del momento. I carichi provenienti dal Sud America vengono così suddivisi fra tutte le principali destinazioni del continente: Rotterdam, Anversa, Valencia, Livorno, oltre a Genova. Diversificare i punti di sbarco serve a ridurre i rischi. Nord o sud Europa poco importa, alla fine. Perché la capacità delle mafie di infiltrarsi negli scali marittimi conosce pochi limiti. Gerrit Groenheide era un cinquantenne, da decenni impiegato alle dogane di Rotterdam. Insieme alla sua squadra aveva un compito cruciale: vigilare sui 20mila container scaricati ogni giorno nell’enorme hub olandese, segnalando, in base a specifiche categorie di rischio, quelli sospetti. Se diceva “arancio”, il carico avrebbe potuto essere ispezionato. Se segnava “bianco” passava liscio. Era la porta dell’inferno o del paradiso per ogni trafficante internazionale di droga. Fra il 2012 e il 2015, Gerrit ha guadagnato 250mila euro per aver lasciato transitare cocaina. In bianco. Il business non dorme mai. E così il numero, e il peso, dei sequestri non fa che aumentare. 15 gennaio 2019: la Guardia di Finanza di Livorno blocca 644 chili di cocaina in transito verso Madrid. 23 gennaio: a Genova vengono trovate due tonnellate di droga su un container diretto dalla Colombia a Barcellona. 26 giugno 2019: l’agenzia delle Dogane statunitense confisca a Philadelphia un carico di 20 tonnellate di cocaina stipata su un cargo. Venti tonnellate. 2 agosto 2019: le autorità tedesche estraggono 221 borsoni neri ammassati in un container spedito da Montevideo. Portano 4.200 pacchetti di droga. Valore commerciale: più di un miliardo di euro. È un fiume in piena. Uno tsunami di polvere bianca che invade il ricco mercato europeo dello spaccio. E la marea non accenna a calare, come segnala Kevin Scully, che da Bruxelles dirige le operazioni dell’antidroga americana, la Dea, nel Vecchio Continente. “Tutto fa pensare che nel 2019 l’import di cocaina farà segnare un nuovo record”, dice Scully. D’altronde, il business dello sballo va alla grande, come confermano tutte le ricerche più aggiornate. Da Roma a Berlino, da Zurigo a Parigi e Londra il consumo di droga è in continua crescita e aumentano di conseguenza anche gli affari delle organizzazioni criminali. Su scala globale la torta vale ricavi per almeno 300 miliardi di euro l’anno per una produzione complessiva di circa 2 mila tonnellate. Questi numeri vanno presi con beneficio d’inventario, perché, ovviamente, in materia non esistono statistiche precise. Forze di polizia e analisti sono però concordi nel ritenere che mai in passato s’era vista tanta coca in circolazione. Gli schemi elaborati dalle centrali d’intelligence internazionali trovano conferma indiretta nella realtà della cronaca quotidiana, che vede moltiplicarsi i reati legati allo spaccio e al consumo. Tutto scorre sottotraccia, fino a quando un delitto da prima pagina non scuote un’opinione pubblica altrimenti indifferente o rassegnata. È successo a Roma, per ben tre volte negli ultimi mesi. A fine luglio l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Poi, un paio di settimane dopo, l’esecuzione dell’ex capo ultrà laziale Fabrizio Piscicelli. E quindi, il 23 ottobre, l’assassinio del giovane Luca Sacchi. Tre vicende, in buona parte dai contorni ancora oscuri, legate tra loro da un unico filo rosso: il traffico di cocaina sulla ricca piazza di spaccio della capitale. Il 18 settembre, mille chilometri più a Nord, un killer ha freddato l’avvocato Dirk Wiersum e così anche una città come Amsterdam ha scoperto all’improvviso di trovarsi in prima linea sul fronte della guerra per il controllo del business della droga. Nella pacifica Olanda non era mai successo che un legale venisse assassinato per vicende legate a un processo. Wiersum difendeva Nabil Bakkali, origini marocchine, che aveva deciso di fare i nomi dei suoi complici in un traffico internazionale di droga. Il messaggio dei narcos è arrivato forte e chiaro. Nessuno può permettersi di rompere la regola dell’omertà. In gioco ci sono i profitti miliardari del più importante centro logistico europeo della cocaina, l’hub in cui vengono smistati i carichi in arrivo dall’America del Sud. La merce viene presa in consegna nel porto di Rotterdam o in quello di Anversa, nel vicino Belgio. A occuparsi del trasporto e della distribuzione in Europa sono organizzazioni a struttura e geometria variabile, in cui si trovano a collaborare, a volte solo per un singolo affare, mafie di diversa origine. C’è la ndrangheta calabrese, che ha propri rappresentanti anche sui luoghi di produzione con il compito di gestire il trasporto oltre Atlantico insieme ai narcos colombiani e messicani. E poi albanesi, marocchini, serbi, turchi. Non importa la nazionalità. Il mercato, e il potenziale guadagno, è così grande che c’è spazio per tutti. “Rivalità e conflitti vengono messi da parte perché l’obiettivo comune è uno soltanto: far soldi”, spiega Manolo Tersago, direttore delle squadre antidroga della polizia federale belga. Lo scenario delle alleanze tra i diversi gruppi criminali è in continuo movimento e diventa di conseguenza molto più difficile per gli investigatori ricostruire chi tira le fila dei traffici. Secondo i calcoli di Europol, l’agenzia di coordinamento delle polizie dei paesi Ue, nel 2018 hanno preso la via dell’Europa 700 tonnellate di cocaina, la metà circa di quanto è stato piazzato negli Usa. La maggior parte della polvere bianca, circa i due terzi del totale, arriva dalla Colombia, dove la pace, cioè la fine dell’instabilità politica dovuta alla guerra civile con le Farc, ha paradossalmente dato una mano ai narcos, che ora controllano oltre 200 mila ettari di terra, cifra mai raggiunta in passato. I prezzi all’ingrosso nel Vecchio Continente sono superiori anche del doppio a quelli correnti sull’altra sponda dell’Atlantico. Questo spiega perché negli ultimi anni è aumentato il traffico verso porti come Anversa, Rotterdam e Algeciras, in Spagna. “Qui la droga viene venduta fino a 38-40 mila euro al chilo”, spiega una fonte del Citco, la divisione contro il crimine organizzato del ministero degli Interni di Madrid. Se si considera che il costo di produzione non raggiunge i mille euro al chilo e che al dettaglio le dosi vengono vendute a un prezzo di almeno 50 euro al grammo, non è difficile immaginare perché il traffico di coca sia diventato di gran lunga la principale attività di organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta, che grazie alla sua potenza di fuoco finanziaria, almeno 50 miliardi di ricavi annui, si è imposta come l’interlocutore più affidabile dei narcos sudamericani. Nelle carte dell’Operazione Pollino, chiusa nel dicembre scorso dalla polizia italiana insieme ai colleghi di Belgio, Germania, Olanda e alla Dea statunitense, si trova un’ulteriore conferma dell’espansione globale delle cosche calabresi, capaci di creare teste di ponte stabili in America Latina e anche nei principali snodi del traffico nel cuore del Vecchio Continente. Le famiglie Pelle-Vottari, Romeo e Giorgi, tutte originarie di San Luca, erano così in grado di coordinare l’importazione di tonnellate di droga nei porti di Anversa e Rotterdam. Il baricentro degli affari delle ‘ndrine si è infatti spostato verso nord. Gioia Tauro, un tempo principale approdo dei carichi di polvere bianca confezionati sull’altra sponda dell’Atlantico, ha perso peso nella mappa del narcotraffico. “Ormai i gruppi criminali sono fluidi e ben organizzati. E l’Europa è un mercato unico, anche per la cocaina”, spiega Giuseppe Cucchiara, direttore centrale dei servizi antidroga della polizia. “La ‘ndrangheta”, dice Cucchiara, “può quindi indifferentemente ritenere utile ricevere una partita in Belgio o a Livorno, a seconda di diversi interessi. La destinazione e l’obiettivo sono gli stessi: l’Europa”. La politica delle alleanze con altre bande di trafficanti, affidata ai rappresentanti delle cosche oltreconfine, serve a gestire ogni aspetto del business, dalla consegna dei carichi al trasporto, fino alla distribuzione nelle piazze di spaccio. In un terminal delle dimensioni di quello di Anversa, dove ogni anno transitano oltre 11 milioni di container (circa 30 mila al giorno) diventa più facile aggirare i controlli e prelevare la droga nascosta tra le tonnellate di merce che arriva quotidianamente nello scalo belga. Gli interessi del business legale, che punta ad aumentare i profitti semplificando al massimo le procedure di sbarco, finiscono paradossalmente per agevolare il lavoro dei trafficanti di droga. Troppi controlli intralciano gli affari delle grandi aziende della logistica. I mercati globali vanno di fretta. Tutto va consegnato ovunque nel mondo alla massima velocità possibile. Cocaina compresa. La rabbia contro i governi unisce il mondo intero di Ian Bremmer Corriere della Sera, 10 novembre 2019 Tensioni in Egitto, Libano, Iraq come in Cile, Ecuador, Spagna. E a Hong Kong. La democrazia resta ancora il sistema migliore per guardare al futuro? Non c’è giustizia in questo mondo, e nulla di nuovo in questa affermazione. La novità invece sta nell’indignazione popolare davanti all’ingiustizia, che è esplosa ovunque con tale rapidità e intensità da creare sollevamenti che non accennano a placarsi. Negli ultimi mesi, le contestazioni hanno attraversato un gran numero di Paesi, sia ricchi che poveri, e di ogni cifra politica, dalle democrazie consolidate fino ai regimi più repressivi. Motivo della rabbia è la diffusa percezione che la politica continui ad agire sempre e comunque per gli interessi delle élite, scavalcando quelli del popolo. Nei Paesi in via di sviluppo si svolgono regolarmente manifestazioni di protesta, e per buoni motivi. Le popolazioni sono costrette a sopportare i disagi causati dall’incapacità dei governi a fornire i servizi più basilari, e la mancanza di istituzioni politiche avanzate significa che attori non tradizionali - in maggior parte gli stessi contestatori - tendono a far vacillare l’ago della bilancia. Nelle ultime settimane, l’Egitto ha visto sfilare per le strade le manifestazioni più imponenti dai giorni della Primavera araba, motivate dalle accuse di corruzione mosse contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi e i militari, e per di più esacerbate dalle riforme economiche che hanno da un lato ridotto i sussidi e dall’altro alzato le tasse per i più poveri del Paese. In Libano, una “tassa whatsapp” sulle comunicazioni online ha fatto scattare le proteste, che ben presto sono state scavalcate da ben più vaste rivendicazioni economiche e politiche, costringendo alla fine il primo ministro Saad Hariri a rassegnare le dimissioni. In Iraq, il presidente del Consiglio Adel Abdul Mahdi non se la passa molto meglio rispetto al premier libanese: il Paese è stato messo a ferro e fuoco per mano di cittadini esasperati per l’alto tasso di disoccupazione e per la pessima qualità delle infrastrutture e dei servizi. In Ecuador, la decisione del presidente Lenin Moreno di azzerare i tradizionali sussidi per i carburanti ha segnato l’inizio di settimane di proteste su tutta una gamma di istanze sociali, che da ultimo l’hanno costretto a fare marcia indietro, un evento che è stato accolto come una vittoria dai manifestanti, ma che rappresenta in realtà una vera sconfitta per la disciplina fiscale del Paese. Storicamente, le proteste si rivelano meno efficaci nei Paesi più ricchi, vuoi perché già in pugno alle lobby, vuoi perché le fasce di popolazione più influenti possono permettersi il lusso di aspettare la successiva tornata elettorale per affidare il proprio disappunto politico alle urne. Sempre di più spesso, tuttavia, le cabine elettorali non sembrano più in grado di fungere da valvola di sfogo alle aspettative disattese dalla politica. In Cile, l’innesco che ha dato fuoco ai disordini in uno dei Paesi più ricchi e stabili di tutta l’America Latina è stato l’aumento del 3 per cento del prezzo dei biglietti della metropolitana, varato da Sebastián Piñera. A quel punto la gente è affluita nelle piazze per manifestare anche contro le pensioni insufficienti e l’alto costo dei servizi di base, come la sanità e le utenze. I manifestanti hanno persino acceso fuochi in alcune strade. L’esasperazione degli animi ha toccato il culmine quando il governo ha fatto ricorso ai soldati in assetto antisommossa, in un Paese con una lunga storia di dittatura militare alle spalle come il Cile. Un anno fa, i movimenti dei gilet gialli in Francia sono riusciti a paralizzare quasi completamente Parigi, e benché l’ondata di proteste si sia già in larga misura esaurita, l’imminente riforma delle pensioni e il prossimo anniversario della rivolta rischiano di far nuovamente divampare il malcontento. In Spagna, la recente decisione della Corte suprema di comminare lunghe pene detentive ai leader catalani che avevano lanciato il referendum per l’indipendenza nel 2017 e avanzato la richiesta di secessione ha fatto scattare proteste massicce, che vanno a complicare le elezioni di questo fine settimana in quanto già si teme che dalle urne non emergerà un chiaro vincitore. Nel frattempo, all’altro capo del mondo, le proteste proseguono senza tregua a Hong Kong per la ventiduesima settimana consecutiva, seminando lo scompiglio e lo sconcerto nei centri di potere di una delle principali economie globali. Di tutte le proteste oggi in atto, proprio quelle di Hong Kong sembrano rappresentare la minaccia minore al proprio governo e - indirettamente - a Pechino, il quale si concede il lusso di aspettare tranquillamente la fine delle contestazioni. Di qui la domanda fondamentale: in questi giorni di diffuso malcontento e di frustrazione politica, la democrazia resta ancora la migliore forma di governo per guardare al futuro? Se la democrazia è fiorita in questi ultimi decenni, ciò è stato possibile grazie al progressivo contributo dei cittadini alla produttività economica (uno dei principali effetti secondari della globalizzazione), che ha agevolato e allargato la loro partecipazione ai processi politici. Ma oggi la globalizzazione è in ritirata e la tecnologia ha cominciato a sostituirsi alla manodopera e continuerà a farlo per molti anni a venire. È una questione sulla quale dovremo continuare a interrogarci, benché sia ancora troppo presto per dire che i giorni migliori della democrazia sono ormai alle nostre spalle. E la globalizzazione ha fatto segnare successi troppo importanti per vederla condannata alla rottamazione senza appello. Eppure, quando si sommano tutti questi problemi strutturali a un’economia globale in fase di rallentamento, diventa ancor più difficile per i governi soddisfare le legittime richieste dei loro cittadini per i prossimi anni. Se c’è una cosa che unisce il mondo intero nel 2019, è la rabbia contro i governi: e questo dovrebbe far riflettere seriamente tanto i governi quanto i popoli, che oggi si sollevano per contestarli. Inferno Libia, dove muore l’umanità di Francesca Mannocchi L’Espresso, 10 novembre 2019 Uomini torturati, donne abusate, bambini che vivono sotto un cavalcavia, Minacciati dalle bombe. Tra i migranti intrappolati a Tripoli. Dimenticati da tutti. Alla fine di aprile Nafisa Saed Musa e suo figlio Abdallah sono scappati dal quartiere di Qasr Bin Gashir, a sud di Tripoli per fuggire dalle bombe di Haftar. La guerra era iniziata da poche settimane, e Nafisa e Abdallah cercavano riparo. È una storia di strazio la loro, una storia in cui le parole d’ordine sono comuni a quelle di decine di altre vite di passaggio in Libia: guerra, fuga, morte, speranza di una vita migliore, e poi tortura, estorsione, prigionia. Durante il nostro primo incontro, lo scorso aprile, Nafisa e il figlio avevano trovato riparo in un edificio nel quartiere di Garden City, in centro a Tripoli, gestito dalla Mezzaluna Rossa libica. Una scuola adibita a riparo per famiglie di migranti, per lo più sudanesi ed eritrei, scappati dai quartieri sotto assedio o evacuati dai centri di detenzione prossimi alla linea del fronte. Abdullah portava addosso i segni delle torture subite durante i mesi di detenzione in mano alle milizie a Sebha, mostrava i segni dei ferri ardenti che gli hanno marchiato la pelle mentre i miliziani ricattavano sua madre chiedendo soldi e sua madre piangeva, per la disperazione di essere bloccata in un paese in guerra dopo essere fuggita dal Sudan. In cerca di pace per sé e per l’unico figlio che le resta. C’era poco cibo nella scuola di Garden City, pochi aiuti, poca acqua. Ma c’era almeno un tetto. E dei bagni. Ma il riparo è durato poche settimane, perché la guerra produce conseguenze dirette e indirette e il proprietario dell’edificio ha privato la Libyan Red Crescent dell’utilizzo dell’edificio assecondando il malcontento dei cittadini libici convinti che i migranti privassero gli sfollati locali degli aiuti che toccavano a loro. Così, da allora, quelle famiglie messe alla porta vivono in strada. Qualcuno ha un materasso, qualcuno no. Qualcuno si ripara sotto il cavalcavia. Nafisa e Abdullah oggi dormono lì, insieme a loro 14 famiglie, 15 bambini, alcuni nati da pochi mesi. Molte donne sole. Asaad al-Jafeer, lavora con la Libyan Red Crescent, aiutava le famiglie a Garden City. Cerca di aiutarli anche in strada. “È una situazione insostenibile. Gli uomini rischiano di essere rapiti, e costretti a combattere dalle milizie. Le donne, rischiano di essere abusate sessualmente”, dice mostrando i materassi sporchi a terra, e i secchi di acqua sporca anch’essa - che sostituisce un bagno che non c’è. Per usare un bagno le donne e i bambini vanno in moschea. Almeno per lavarsi, una volta ogni tanto. Asaad al-Jafeer dice di sollecitare da mesi le Nazioni Unite, ma di non ricevere risposta. “Le responsabilità delle Nazioni Unite sono enormi in Libia. Li vedi in televisione, gridare che non vogliono più vedere persone morire in mare. Mi chiedo quale sia la differenza tra vederli morire in mare e lasciarli morire in strada. Si riempiono la bocca di parole come “diritti umani”. Qui ci sono gli umani, i diritti dove sono?”. L’ufficio di registrazione dell’Unhcr è proprio dall’altra parte della strada. Le famiglie hanno deciso accamparsi lì per essere più vicine alla sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite, e bussare e provare a chiedere informazioni. A chiedere a che punto sono le pratiche, chiedere di essere aiutate. A chiedere di essere evacuati, portati via da un paese in guerra. Perché in Libia si combatte e di notte, dalla strada, si sentono e si vedono i bombardamenti dei quartieri vicini. Così ogni giorno le donne si mettono in fila di fronte alla sede di Unhcr, mostrano i loro fogli di registrazione, ma tornano sempre a mani vuote sui loro materassi sporchi. Vicino ai secchi d’acqua con il logo dell’Oim. Con la paura di morire sotto una bomba. Perché, dice Asaad, “a Tripoli ormai non c’è un posto dove non potrebbe avvenire un bombardamento. Queste persone hanno deciso di vivere qui perché c’è una base militare e pensano così di proteggersi dalle milizie ma le basi militari sono le prime a essere bombardate da Haftar, pensa cosa significhi essere una donna sola con un marito rapito e una bambina di sei mesi che da quando è nata dorme in strada”. Naima, 25 anni, era a Qasr bin Gashir quando è iniziata la guerra, sua figlia era nata da sei giorni, suo marito rapito dalle milizie per la seconda volta. Il quartiere era immediatamente diventato un teatro di scontro tra milizie contrapposte, proprio il centro di detenzione di Qasr bin Gashir era stato assaltato da milizie che hanno ferito alcuni dei migranti detenuti. È stato solo il primo degli attacchi che hanno colpito i centri dove vengono imprigionati i migranti. Naima viveva nella stessa area, è scappata via, sola con una neonata. Di suo marito da allora ha perso le tracce. La prima volta che le milizie l’hanno rapito è stato portato a Sebha e costretto a lavorare per un gruppo armato finché la sua famiglia in Sudan non ha trovato il modo di pagare un riscatto sufficiente per farlo liberare. Non ha mai voluto parlare delle violenze subite, quando l’hanno liberato, non ha mai più camminato bene con la gamba sinistra. E delle cicatrici sulla schiena non ha mai dato spiegazione a sua moglie. Oggi, dopo il secondo rapimento, Naima è sola e vive come le altre famiglie in mezzo alla strada, con sua figlia che ora ha sei mesi: “sono spaventata perché so che non c’è un posto dove possiamo scappare. Vado ogni giorno alla sede di Unhcr e chiedo aiuto, e così pure alla polizia libica e così pure alla sede di Oim. Voglio sapere se mio marito sia vivo, se sia finito in un centro di detenzione. Sono arrivata al punto di sperare che sia in prigione ma vivo, piuttosto che temere che sia stato costretto a combattere e sia morto e io potrei non saperlo mai”. Poi culla la sua bambina, Naima, e guarda una donna, incinta di nove mesi, sola anche lei e che come lei vive sotto un ponte, e dice: “Piangiamo continuamente. Sappiamo che nessuno ci aiuterà, come nessuno ha aiutato i sopravvissuti di Tajoura”. Il due luglio scorso alle 11 e 30 di sera, un bombardamento ha colpito il centro di detenzione di Tajoura, a Tripoli. Dentro c’erano 600 persone. Il bilancio di quell’attacco fu drammatico, 53 migranti morti, almeno 130 feriti. Mohammed era lì quella notte, è scappato dal Ghana un anno fa, due tentativi di attraversare il mare, per due volte intercettato dalla Guardia costiera libica e riportato indietro. È sopravvissuto al bombardamento del centro di detenzione, è scappato correndo sopra i cadaveri di altri sfortunati come lui, si è nascosto per evitare che le milizie lo forzassero a combattere e un mese fa ha provato ad attraversare il mare di nuovo, ma la Guardia costiera libica lo ha catturato e portato indietro. Oggi si trova nel centro di detenzione di Trik al Sikka, a Tripoli, uno dei centri nominalmente gestiti dal ministero dell’Interno libico che ha un ufficio preposto alla gestione delle facility, il Dcim, Department anti illegal migration. Benvenuti all’inferno gridano uomini e bambini al di là di due cancelli di grate, Benvenuti all’inferno. Gridano, implorano, pregano di essere portati via. Perché il centro è luogo di abuso. Perché - dicono - c’è una stanza chiusa a chiave col lucchetto, dove vengono tenuti quelli che i giornalisti e le organizzazioni umanitarie non devono vedere. Vediamo la stanza, vediamo i lucchetti. Chiediamo - invano - che qualcuno li apra. Mohammed ha vissuto abusi per mesi, sia nei centri di detenzione legali sia in quelli illegali, al confine sud, nel deserto e sulla zona costiera. Li ha subiti anche a Tajoura, dove - dice - “i miliziani potevano entrare indisturbati nonostante fosse un edificio sotto il controllo del governo. I guardiani sono minacciati o in accordo con le milizie, e molte volte i guardiani di notte aprivano le porte ai miliziani che portavano via indisturbati gruppi di migranti per ridurli a schiavi, o per minacciare le loro famiglie in cambio di denaro”. Oggi Mohammed indossa ancora i vestiti della notte in cui è stato catturato dalla Guardia costiera, sui suoi abiti ci sono i segni del sale. Sono passate tre settimane, ha perso le scarpe in mare e da allora è scalzo. Nel centro di detenzione di Trik al Sikka ci sono circa 300 persone, la quasi totalità nella sezione maschile, che è una gabbia, di fatto, ci sono reti ovunque, anche nell’area esterna. Ci sono sei bagni per tutti. Tre sono intasati. A terra uomini malati che non ricevono cure, un ragazzo invalido che non riesce a muovere nessuna delle due gambe. In fondo all’unica stanza qualcuno prega, gli altri stesi su materassi luridi consumano il passare del tempo e gridano quando si sente un rimbombo da lontano. Sono bombe, perché a sette chilometri c’è la linea del fronte. Mohammed ha gli occhi di una persona che ha visto la morte, due volte, ed è vivo, solo apparentemente. Ha gli occhi di un reduce, e un filo di forza che è l’istinto di sopravvivenza, il ricordo di sua moglie e dei suoi figli. “L’ultima volta che ci siamo parlati è stata la notte che ho provato ad imbarcarmi”, racconta, “poi quando mi hanno portato qui i soldati mi hanno portato via i pochi soldi che mi erano rimasti e il telefono. Mia moglie non sa dove sia, né se io sia vivo o morto”. Stati Uniti. Operatore umanitario rischia 10 anni di carcere per aver aiutato due migranti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 novembre 2019 La prima volta non era andata secondo le aspettative. Allora, la giustizia statunitense riprova a criminalizzare la solidarietà e la compassione. Scott Warren, un cittadino dell’Arizona, professore di Geografia e volontario dell’associazione “No more deaths”, rischia 10 anni di carcere solo per aver fornito cibo, acqua e vestiti puliti a due migranti provenienti dal Messico, che rischiavano di morire - come accaduto migliaia di altre volte - nel deserto di Sonora, nei pressi del confine. Il primo processo era terminato il 2 luglio con un nulla di fatto, dato che otto dei 12 giurati avevano chiesto l’assoluzione di Warren mentre il verdetto richiedeva l’unanimità. Tra due giorni, martedì 12 novembre, si ricomincia: di fronte al tribunale federale di Tucson, Warren dovrà rispondere dell’accusa di aver “dato ospitalità” (ossia, nascondendoli alle autorità) a due migranti irregolari nella città di Ajo, dove vive, fornendo loro assistenza umanitaria. Si tratta dell’ennesimo capitolo di una storia ormai lunga: l’abuso del sistema giudiziario, da parte dell’amministrazione Trump, per minacciare, intimidire e punire coloro che difendono i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo lungo il confine tra Usa e Messico. Brasile. Lula libero riaccende la speranza di Roberto Livi Il Manifesto, 10 novembre 2019 Il simbolo di un continente in fiamme che ha un disperato bisogno di giustizia sociale. Lula libero riaccende le speranze in Brasile e in America latina. “Viene restituito un uomo diventato un simbolo”, commenta l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica. Un simbolo di dignità, giustizia e uguaglianza sociale. Di lotta alla povertà e di sovranità nazionale. Uscito dal carcere dopo 580 giorni di prigionia, l’ex presidente brasiliano lo ha ribadito. “Non è me che hanno voluto incarcerare, ma un’idea”. E quell’idea di giustizia sociale e di integrazione dell’America latina è disposto a portarla avanti “con più forza di prima”. Appena fuori dal carcere di Curitiba Lula è già l’anti Bolsonaro, il presidente dell’odio razziale e di genere, l’uomo degli agrari che deforestano e dell’integralismo pentacostale, delle armi a tutti. E del vassallaggio agli Stati uniti di Donald Trump, dimostrato tre giorni fa votando all’Onu a favore del criminale embargo a Cuba (in compagnia di Israele). Lula è un simbolo anche per un continente che da più di un mese è in fiamme. Non si tratta però di un ottobre rosso. Non è l’immagine di Che Guevara che viene innalzata, né i manifestanti intonano L’Internazionale. La ribellione e il malessere che partono a ridosso del Rio Bravo e si estendono fino alla Patagonia e che accomunano popolazioni indigene e giovani, donne e classi medie, è contro una politica neoliberista che li spinge in basso - nella miseria una parte sempre più consistente, il 10,2% dei 600 milioni di abitanti - e comunque tutti più lontani da un élite socioeconomica che si appropria di gran parte della ricchezza. E del futuro dei giovani, con una politica ambientale pericolosamente asservita al dogma della società dei consumi. Il subcontinente latinoamericano non è l’area più povera del pianeta, ma quella con maggiore diseguaglianza. Dei dieci paesi con indice Gini - misura la diseguaglianza socioeconomica - più alto solo due non sono latinoamericani (Sudafrica e Ruanda). Se a questa situazione si aggiunge che l’America latina è la regione più colpita dalla crisi globale - secondo l’Fmi crescerà dello 0,2% - si capisce perché la scintilla che accomuna i focolai di ribellione sia il “ya basta” dei giovani cileni, che vogliono farla finita con l’eredità di Pinochet e dei Chicago Boys. I quali come scrive Joseph Stglitz (Il prezzo della diseguaglianza) per trent’anni hanno predicato che le politiche neoliberiste avrebbero prodotto una ricchezza più rapida i cui benefici si sarebbero poi trasmessi verso il basso, assicurando un miglioramento della vita per tutti. Stiglitz prevedeva che l’evidenza dei fatti - ovvero che tale politica produce soprattutto diseguaglianza - avrebbe portato alla sfiducia nelle élites dirigenti e avrebbe eroso lo stato di diritto. Il disprezzo della politica dei governi e dei governanti non implica però una disaffezione dalla medesima. Al contrario le lotte in corso - specie in Cile - e i risultati delle ultime elezioni dimostrano che vi è una società civile che vuole essere protagonista politica. Solo che quanto avviene non può essere interpretato (solo) secondo l’asse sinistra/destra. Secondo Marta Lagos, direttrice di Latinobarometro - “oggi le popolazioni non votano per la destra e la sinistra, ma per chi propone soluzioni ai loro problemi”. Le politiche redistributive attuate dai governi progressisti durante il decennio della “marea rosa” latinoamericana - seguita alla prima elezione di Lula nel 2003 - continuate poi in Venezuela e Bolivia non hanno cambiato l’asse di sviluppo estrattivista basato sullo sfruttamento delle commodities. E parallelamente non hanno incrementato la partecipazione dal basso e una cultura politica diffusa. Lula è libero, ma non assolto. Solo se verrà annullata la condanna emessa in secondo grado potrà tornare attivamente alla politica e scendere in campo per riconquistare la presidenza del Brasile. Ma già, come diceva Mujica, può rappresentare quel leader progressista e pragmatico in grado di raccogliere la voce che sale dalle rivolte popolari. A lui fanno riferimento i leader della “marea rosa” - Mujica, Correa (Ecuador), Lugo (Paraguay), Roussef (Brasile) che si sono riuniti ieri a Buenos Aires assieme a un’altra ventina di leader progressisti del Gruppo di Puebla chiamati a raccolta dal neoeletto presidente Alberto Fernandez per tracciare un programma di integrazione dell’America latina e politiche economiche e sociali per affrontare la crisi che attanaglia il subcontinente. Non vi partecipano i leader di Cuba, come pure del Venezuela e del Nicaragua, che della pattuglia progressista formano l’ala radicale. Ma L’Avana, assieme a Caracas, rimane il primo fronte ad assorbire gli attacchi che vengono dal potente vicino del Nord. Quanto avviene in Bolivia, dove è in corso un golpe programmato da mesi dall’ambasciata Usa e condotto dai comitati civici guidati da Camacho, che minacciano una secessione dei tre grandi centri - Santa Cruz, Cochabamba e Sucre - nel caso che il presidente Evo Morales non si dimetta, preoccupa particolarmente il vertice cubano. Sono 187 le misure che Donald Trump ha messo in atto contro l’isola da quando è stato eletto. L’embargo è diventato una spietata guerra economico-commerciale, senza però far capitolare Cuba. In clima di elezioni presidenziali, un’escalation dell’interventismo di Trump non è da escludere.