Come cambia il processo penale: notifiche, ruolo del pm e sanzioni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 marzo 2019 Le prime notizie da Via Arenula. La riforma del processo penale a cui sta lavorando il Ministero della giustizia rischia di comprimere molte della garanzie per l’imputato attualmente presenti nel codice di rito. L’elaborato di via Arenula infatti, da quanto si è potuto apprendere, ricalcherebbe fedelmente le proposte avanzate a suo tempo dall’Associazione nazionale magistrati ed aspramente criticate dai penalisti. Entro marzo, comunque, la bozza definitiva dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri ed il quadro sarà più chiaro. Fra i punti principali, va fin da ora sicuramente segnalato l’ulteriore rafforzamento del ruolo del pubblico ministero. Sarebbero inoltre previsti nuovi paletti alle impugnazioni ed il ripristino, per la pubblica accusa, della possibilità dell’appello incidentale. Uno degli “accorgimenti” per velocizzare il processo riguarderebbe poi il sistema delle notifiche. Non potendo lo Stato garantire che queste vengano effettuate in maniera precisa e puntuale, si è deciso per una soluzione drastica: tagliarle. Dopo la prima, direttamente all’imputato, tutte le altre dovrebbero quindi essere fatte al difensore, sollevandolo da responsabilità per omessa o ritardata comunicazione all’assistito, per fatti attribuibili alla responsabilità di quest’ultimo. Così scritta la norma evidenzia alcuni profili di criticità con riferimento all’articolo 6 Cedu, quello riguardante il diritto ad un equo processo. L’art. 420-bis cpp stabilisce oggi le regole per il processo in absentia. Essere presenti al processo è un diritto rinunciabile; la rinuncia deve essere frutto di una libera scelta dell’imputato; la conoscenza del procedimento penale a carico dell’imputato deve essere dimostrata (e non più presunta dal mero accertamento della regolarità della notifica); la conoscenza del procedimento può essere dedotta, in modo inequivoco, da alcuni fatti. Questi, in sintesi, i principi ispiratori della norma in questione. Con le modifiche previste dall’esecutivo, il ruolo dell’avvocato diventerebbe centrale, soprattutto nei casi riguardanti le difese d’ufficio. Una riflessione sarà necessaria, anche alla luce di un’altra riforma recentemente approvata, quella del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. In tema di velocizzazione del processo, chi si aspetta che vengano introdotte sanzioni per il pm che non rispetti i termini delle indagini preliminari rimarrà deluso. Tutte bocciate le proposte in tal senso. Come quella, presentata in questi mesi da insigni giuristi, di prevedere la prescrizione del processo, con la nullità degli atti compiuti nelle varie fasi dopo un determinato periodo. Resta, ma solo sulla carta, la possibilità per la Procura generale di avocare le indagini per inerzia del pm. Una disposizione voluta dal precedente esecutivo che, in concreto, non ha mai avuto attuazione. Spazza-corrotti rivista, penalisti e Forza Italia convincono il governo di Errico Novi Il Dubbio, 9 marzo 2019 Pronti ritocchi per evitare la beffa del carcere a chi ha patteggiato. Nella “spazza corrotti” si apre qualche spiraglio. Almeno per quelle parti della legge segnate dai più chiari profili di incostituzionalità. Grazie all’iniziativa congiunta di Unione Camere penali e Forza Italia, il governo dovrebbe definire a breve un decreto interpretativo per evitare, quanto meno, che finisca in carcere chi aveva già presentato istanza per ottenere misure alternative, e che ne avrebbe avuto diritto con le norme esistenti prima della “riforma”. Non solo, perché sempre grazie a un’iniziativa assunta dall’Ucpi con la Camera penale di Como, un gip del Tribunale lombardo ha scarcerato un condannato finito in cella sempre a causa delle modifiche previste dalla spazza corrotti. È la dimostrazione che i tratti di illegittimità dell’ultima “legge anticorruzione” sono così evidenti da indurre a un pur parziale ripensamento lo stesso governo autore delle norme. Così come sono significative le scelte di alcuni Tribunali e della stessa Procura generale della Cassazione che, come segnalato su queste pagine, si sforzano di cercare interpretazioni costituzionalmente orientate della nuova legge. C’è dunque innanzitutto un atto ufficiale del ministero della Giustizia che preannuncia una “opportuna iniziativa” per “precisare” la norma che ha precluso le misure alternative ai condannati per corruzione. Precisazione che riguarderebbe le condanne divenute definitive prima dell’entrata in vigore della “spazza corrotti”. Via Arenula assume l’impegno nella risposta ufficiale a una mozione di Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Forza Italia. Il parlamentare azzurro aveva predisposto il proprio documento d’intesa con l’Unione Camere penali. Certo, come ricorda lui stesso in una nota, nella mozione si richiedeva di rendere le nuove norme “non applicabili per i fatti commessi prima della loro entrata in vigore”. Così si sarebbe evitata davvero la retroattività. Ma quella correzione, spiega Costa, “purtroppo è stata respinta dalla maggioranza” e così resta irrisolto “un tema che attiene alla libertà personale di chi ha fatto scelte processuali in vigenza di un regime giuridico e si trova a subire le conseguenze di norme divenute più sfavorevoli”. Lo stesso deputato di opposizione resta ora in attesa della “norma transitoria” annunciata dal ministero della Giustizia. Modifica che, dice, “senza il nostro intervento sarebbe rimasta lettera morta”. “È un pur parziale passo avanti”, spiega il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, “considerato che l’applicazione dell’articolo 4 bis ai reati contro la Pa aveva già prodotto conseguenze assurde: la Procura generale di Napoli, per esempio, aveva revocato la sospensione degli ordini di esecuzione concessa ai condannati che avevano chiesto le misure alternative al carcere”. Ma lo stesso Caiazza segnala “il caso di una scarcerazione appena avvenuta a Como: insieme con la Camera penale lombarda e il professor Vittorio Manes, abbiamo chiesto e ottenuto dalla gip Luisa Lo Gatto un’ordinanza favorevole a un condannato che aveva optato per l’abbreviato in modo da evitare il carcere ma che con le nuove norme era finito in cella. Un’ordinanza splendida, che ha dato un’interpretazione costituzionalmente orientata e che dimostra come, con l’impegno dei penalisti, si possano limitare gli effetti più irrazionali della spazza corrotti”. Violenza sulle donne, appello di Bonafede “Pene più severe, i partiti si uniscano” giustizianews24.it, 9 marzo 2019 “Sul tema della violenza sulle donne l’attenzione è altissima e stiamo spingendo per individuare sanzioni più severe”. Sanzioni più severe nei confronti di commette uno stupro. A margine del Consiglio Ue e nella Giornata internazionale delle donne, il ministero della Giustizia Alfonso Bonafede lancia “un messaggio a tutte le forze politiche di fare uno sforzo per poter arrivare all’approvazione all’unanimità di queste proposte”. È necessario, dice Bonafede, “raggiungere l’unanimità in Parlamento su questa proposta di legge sarebbe il risultato migliore di una democrazia, che di fronte ad un’emergenza sociale, sa trovare compattezza e non pensa ad alcuna ideologia e colore politico”. Sulla necessità di un inasprimento delle pene è intervenuto anche Edmondo Cirielli, Questore della Camera di Fratelli D’Italia: “La mia proposta di legge prevede un aumento secco di pena fino a un massimo di 12 anni, perché purtroppo dobbiamo tenere conto degli ‘svuota-carceri’, della legge Gozzini, di tutti gli strumenti che sostanzialmente riducono la pena”, ha affermato Cirielli. “Al di la’ del fatto che aumentiamo la pena - ha osservato - torniamo soprattutto al codice Rocco di epoca fascista che era fatto molto bene, perché non era un codice politico, era fatto da grandi giuristi. Di fatto, oggi la sinistra ha creato un reato che, con la scusa di elevare tutto ciò che attiene alla sfera sessuale al rango della violenza sessuale, e introducendo l’attenuante generica, si arriva a ridurre la pena persino in caso di violenza sessuale compiuta e completa”. “Noi invece - ha spiegato Cirielli - vogliamo tornare al passato, distinguendo cioè la violenza vera e propria che si compie con la congiunzione carnale che dà chiaramente tutt’altro danno psicologico alla vittima, rispetto agli atti di libidine violenta. Per gli atti di libidine violenta si lascia la pena com’è, da 5 a 10 anni, mentre per gli atti di congiunzione carnale si arriva dai 6 ai 12 anni e non si da’ la possibilità ai giudici di considerare il fatto di tenue gravità. Questo significa passare dalle parole ai fatti”. Le deputate del Movimento Cinque Stelle hanno, intanto, pubblicato su Facebook un video nel quale sono riassunte le otto proposte per tutelare le donne e punire chi commette violenza: l’istituzione della legge #CodiceRosso, nuovi fondi per le Pari Opportunità, una mappa dei centri antiviolenza e l’inserimento delle vittime nelle categorie protette. Prevediamo poi pene più severe per chi commette reati di maltrattamento, violenza a sfondo sessuale e stalking. Per le donne c’è tanto da fare e in questo non esistono confini, barriere e colori politici!”. Le otto proposte recano la firma dei deputati Elisa Scutellà, Iolanda Di Stasio, Carla Giuliano, Stefania Ascari, Valentina D’Orso, Angela Salafia, Francesca Businarolo, Elisabetta Barbuto, Maria Edera Spadoni, Valentina Palmisano e Piera Aiello. Violenze di genere, le leggi boomerang di Salvini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 marzo 2019 Il ministro fa propaganda sulla legittima difesa e sull’abolizione del rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo. Due provvedimenti che potranno solo peggiorare il contrasto alle aggressioni sulle donne. Aumentare le pene. La ricetta del governo giallo-bruno è prevedibilmente questa anche l’8 marzo. Salvini tiene una conferenza stampa allo scopo, con accanto l’avvocata e ministra leghista Bongiorno. La prima proposta per contrastare la violenza sulle donne è il disegno di legge firmato dal sottosegretario all’interno Molteni, leghista anche lui, che prevede la inapplicabilità del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo. “Uno scambio indecente”, secondo Bongiorno, visto che al termine del rito abbreviato per l’imputato che lo sceglie è previsto uno sconto di pena pari a un terzo. Nel rito abbreviato il giudizio si svolge esclusivamente sulla base delle prove raccolte durante le indagini. L’attinenza con le violenze di genere è relativa e soprattutto riguarda solo gli omicidi compiuti. Può avere effetti deterrenti? Difficile. Mentre è certo che allungherà i tempi delle indagini e dei processi, anche quelli per le violenze sulle donne. Oggi infatti più dell’80% dei giudizi che prevedono l’ergastolo come pena massima si svolgono con il rito abbreviato. Le Corti d’assise non riusciranno mai ad affrontare il nuovo carico se non assorbendo magistrati che nei tribunali ordinari si occupano degli altri reati, comprese le violenze in famiglia. Che costituiscono, come confermano gli ultimi dati, l’80% dei casi di violenza di genere (autori all’86% uomini al 70% italiani). La proposta Molteni, che potrebbe essere approvata definitivamente il prossimo mese, non prevede stanziamenti per aumentare gli organici. Così come non prevede risorse aggiuntive il famoso “codice rosso”, altra proposta del governo per la quale chi denuncia una violenza in casa deve essere sentita entro tre giorni dal pm. Ammesso che si sia un pm disponibile. Salvini del resto mette tra le proposte in grado di contrastare le violenze di genere anche le legge sulla legittima difesa, che invece avrà l’effetto di aumentare le armi nelle case e in mano agli uomini. E il ministro della giustizia Bonafede festeggia l’8 marzo annunciando “sanzioni più severe per chi commette stupri e reati violenti”. La pena massima già prevista, senza aggravanti, è di dieci anni. Può salire fino a 16. Il corrotto non è pericoloso come un boss, perciò la “spazza-corrotti” viola l’articolo 3 di Carlo Tremolada* Il Dubbio, 9 marzo 2019 La preclusione dei benefici imposta dalla nuova legge nega il principio di uguaglianza perché non si basa su una reale assimilabilità ai delitti di mafia. La carcerazione disposta nei confronti dell’ex Governatore Roberto Formigoni, a seguito della condanna definitiva per corruzione, ha riacceso il dibattito sulle forzature introdotte nel nostro sistema giuridico dalla legge 9 gennaio 2019 n. 3 recante “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione ed in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, meglio nota come “legge spazza-corrotti”. Roberto Formigoni - pur avendo superato i 70 anni di età - non ha potuto fruire (come avrebbe invece potuto sino a poche settimane fa) del regime di detenzione domiciliare previsto dalle norme sull’ordinamento penitenziario, a causa del fatto che la predetta legge, operando una sorta di inedita equiparazione tra delitti contro la Pa e delitti di criminalità organizzata, ha precluso anche ai condannati per corruzione, con efficacia immediata, l’accesso ai benefici penitenziari. Un’osservazione non ideologica della realtà consente di comprendere piuttosto agevolmente come la corruzione - fenomeno grave, beninteso - non rappresenti, tuttavia, quella piaga sistemica della quale i compilatori della legge vorrebbero convincerci. Secondo una recente indagine Eurispes, l’85% del campione intervistato, pur convinto che nel nostro Paese il livello del malaffare sia elevato, dichiara di non avere mai vissuto sulla propria pelle o su quella dei propri familiari episodi di corruzione. Ma l’opinabilità dell’approccio manifestato dalla “legge spazza-corrotti” non è solo in questo. Ciò che colpisce dell’intervento normativo è soprattutto il marcato contrasto con quei principi costituzionali che rappresentano in ogni ordinamento democratico il limite alla discrezionalità del legislatore nelle scelte di politica criminale. Qualche breve osservazione può svolgersi con riferimento a quello che parrebbe essere il profilo di incostituzionalità di maggiore peso: il contrasto delle norme della “spazza-corrotti” con il principio di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) e la violazione del principio della irrinunciabile funzione rieducativa della pena (art. 27, 3 co. Cost.). In breve: l’articolo 1, comma 6 della legge in questione ha inserito la fattispecie di corruzione nel novero dei reati “ostativi” alla sospensione dell’ordine di carcerazione ed alla concessione dei benefici penitenziari, estendendo ai condannati per tale reato quella peculiare presunzione di pericolosità che il legislatore aveva già previsto per i condannati per reati di mafia e di criminalità organizzata. Ora, ciò che rende una simile opzione legislativa confliggente con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza - e con il principio di cui all’art. 27, terzo comma della Costituzione, comportando un’ingiustificata preclusione all’accesso alle misure non detentive atte a compiere la finalità rieducativa della pena - sta nel fatto che quella presunzione di massima pericolosità che equipara i condannati per corruzione ai condannati per reati di mafia non pare basata su evidenze empiriche che giustifichino, per fenomeni strutturalmente diversi, il medesimo rigore e le medesime limitazioni alla libertà personale. Del resto, è la Corte Costituzionale a ricordare - nella sentenza 265 del 2010 - che “le presunzioni legali, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie o irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”. Non vi è dubbio che il Giudice delle Leggi avrà molto di cui occuparsi nei prossimi mesi. *Avvocato Caso Cucchi, la perizia nascosta alla famiglia e “in uso” dall’Arma di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 marzo 2019 Il pm Musarò deposita in Corte d’Assise una relazione autoptica preliminare coperta da segreto istruttorio ma nota ai carabinieri. L’avv. Anselmo non aveva potuto leggere il testo usato, secondo l’accusa, dai militari. Nello strano mondo all’incontrario che emerge sempre di più ad ogni udienza del processo bis ai carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi la notte del 15 ottobre 2009 (morto il 22 ottobre all’ospedale Pertini), i vertici dell’Arma possono tutto o quasi. Possono anticipare il parere del medico legale che esegue l’autopsia, dandone conto parzialmente e stravolgendone il senso, in modo da indurre in errore perfino il governo chiamato a riferire in Parlamento. E possono accedere ad atti tenuti segreti dagli inquirenti perfino agli avvocati della parte offesa, in quanto coperti da segreto istruttorio. A darne prova, producendo i documenti finiti sepolti per anni, è stato ieri il pm Giovanni Musarò. Per seguire il filo dipanato dall’abile magistrato antimafia con la sua indagine integrativa sul depistaggio che sarebbe stato messo in atto dai vertici dell’Arma, bisogna fare attenzione alle date. Il 23 ottobre 2009 il medico legale Dino Tancredi, l’unico perito già nominato a quel tempo, esegue il primo esame autoptico insieme al consulente di parte, il dott. Carmelo Raimondo. Ma “per rispettivi impegni” il verbale di inizio autopsia (che prende atto delle domande poste dal pm Vincenzo Barba e anticipa le difficoltà a dare risposte certe, tanto da prevedere la richiesta di medici specialisti in ausilio) verrà steso e firmato solo il 6 novembre successivo. Alle 17:40 del 30 ottobre però viene depositata in procura una relazione autoptica preliminare nella quale il prof. Tancredi dà conto, tra le altre cose, delle tracce di sangue nello stomaco e nella vescica, delle fratture della vertebra lombare L3 e della prima vertebra coccigea, di una “lesività a carattere contusivo” sul cranio, di “multiple escoriazioni con crosta” sul corpo e sulle estremità. Tutte lesioni “compatibili con una caduta” di “natura accidentale o eteroindotta”. Mentre le “ecchimosi periorbitali” sembrano, secondo i medici legali, non essere dovute a un trauma contusivo diretto locale ma forse al trauma frontale. In ogni caso, spiegavano i periti, non si poteva dedurre un nesso causale tra l’evento traumatico e la morte, “non emergendo attualmente elementi obiettivi” in tal senso. Un documento, questo, che non venne allegato alla relazione finale stesa il 7 aprile 2010 dal collegio di periti presieduto dal prof. Arbarello, nominato proprio per risolvere ogni dubbio. E che viene oscurato anche agli occhi del legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo, quando il 5 novembre 2009 chiede di poterlo visionare: “È coperto da segreto istruttorio”, rispondono in procura. Eppure il 30 ottobre 2009 l’allora comandante del Gruppo Roma, il generale Alessandro Casarsa - che ieri, chiamato a testimoniare, si è avvalso della facoltà di non rispondere, come pure hanno fatto il tenente colonnello Luciano Soligo e il capitano Tiziano Testarmata, tutti indagati per falso - scrive un appunto che servirà al generale Vittorio Tomasone per emanare, due giorni dopo, il 1° novembre 2009, una nota in cui si anticipavano di sei mesi le conclusioni a cui avrebbe dovuto arrivare il collegio peritale, negando “segni macroscopici di percosse”, riconducendo ad una “patologia epatica o renale” le tracce di sangue nello stomaco e nella vescica, e indicando nell’operato dei medici la possibile concausa di morte del povero Cucchi. Ça va sans dire che la credibilità delle relazioni peritali successivamente scritte “è irreparabilmente inficiata”, come ha fatto notare lo stesso pm Musarò che ha chiesto di preservare questo processo dai vizi introdotti nel precedente. Di tutt’altro avviso invece i legali degli imputati, in particolare l’avvocato Giosuè Naso che difende il maresciallo Roberto Mandolini, comandante della caserma Appia a cui appartenevano i carabinieri che eseguirono l’arresto. Naso perde le staffe perché “questo processo sta diventando quello che temevo, un luogo per ratificare le indagini della procura”, dice. E, battibeccando con il pm, aggiunge: “Qui si sta insinuando che erano tutti d’accordo per alterare la realtà. Me ne ricorderò quando andremo al processo Casamonica - afferma con aria di sfida l’avvocato che difende anche in quel dibattimento gli imputati - dove le indagini sono state condotte dai carabinieri. Anche lì - ammette Naso, una volta tra i migliori avvocati di Roma - i carabinieri hanno picchiato, ma in quel caso lei, dott. Musarò, non se n’è accorto”. Può darsi. Ciò che è sicuro però è che neppure l’allora comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali, non indagato e sentito ieri come teste, si accorse di nulla quando, su ordine dei suoi superiori, il 27 ottobre 2009 raccolse le annotazioni di tutti i militari che avevano avuto contatto con Stefano Cucchi. Il giorno prima, infatti, dal Comando regionale del Lazio aveva ricevuto l’Ansa che dava notizia della conferenza stampa di Luigi Manconi e Patrizio Gonnella, indetta per rilanciare i dubbi e le denunce della famiglia Cucchi. Il mancato fotosegnalamento? “Non è obbligatorio - risponde al pm Unali - comunque il detenuto, che era già stato fotosegnalato in precedenza, era stato poco collaborativo”. Nessuno scrisse però questo particolare nelle annotazioni di servizio. E nessuno denunciò Cucchi per resistenza a pubblico ufficiale. “Perché la sua, mi dissero, era una resistenza passiva, non fisica”, risponde il maggiore, senza tema di smentite in questo caso. “Alla stazione Appia - riferisce infine Unali - c’era tensione, la notizia aveva fatto clamore e si aspettava a breve la lista degli indagati”. Droghe. Dalla Consulta un segnale forte e chiaro contro il populismo penale di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 marzo 2019 La Corte costituzionale lancia un messaggio molto chiaro al ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e a tutta la maggioranza gialloverde: il populismo penale ha un limite, rappresentato dai principi basilari della nostra Costituzione come la proporzionalità, la ragionevolezza e la finalità rieducativa della pena. In una sentenza (n. 40) depositata ieri, con relatrice Marta Cartabia, infatti, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 73, primo comma, del Testo unico sugli stupefacenti, dove si prevede come pena minima la reclusione di otto anni per il reato ordinario di spaccio di droga, e ha deciso di abbassare la pena a sei anni alla luce dei pressanti inviti rivolti al legislatore negli ultimi anni affinché modificasse la norma, rimasti inascoltati. In particolare, la Corte ha rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce “un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione)”. La sentenza della Consulta contiene un monito indiretto, ma di grande rilevanza, nei confronti del ministro Salvini, che proprio nei giorni scorsi ha annunciato un disegno di legge per rafforzare il contrasto allo spaccio di droga che mira a eliminare nei fatti la lieve entità, aumentando la pena massima da quattro a sei anni anche per chi dovesse essere trovato in possesso di pochi grammi di cannabis, e rimuovendo la possibilità al giudice di disporre per i tossicodipendenti una pena alternativa al carcere. Nella miglior tradizione del populismo penale, la riforma è stata annunciata dal leader della Lega all’indomani di un fatto di cronaca: il caso di Porto Recanati, dove una coppia è morta in seguito a uno scontro con un’auto guidata da uno straniero con precedenti per droga. Vista la pronuncia di ieri, è possibile ipotizzare che se la riforma che aumenta la pena minima per i casi di lieve entità andasse in porto, questa sarebbe bocciata dalla Consulta in virtù del mancato rispetto del principio di proporzionalità della punizione rispetto alla condotta illecita. “La sentenza della Corte è in chiara controtendenza contro le derive populiste nelle quali siamo immersi - ha notato con efficacia Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, da sempre impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti - Il diritto non può affidarsi a categorie ad esso estranee. Non si possono prevedere pene a caso a seconda degli umori e dei bisogni di consenso”. Insomma, di fronte al populismo penale del governo della forca, la Consulta ha voluto ribadire con decisione il proprio ruolo di garante dell’ordinamento costituzionale e democratico del paese. E l’impressione è che lo scontro con l’esecutivo sia appena cominciato. Droghe, la Consulta ferma Salvini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 marzo 2019 La Corte costituzionale corregge il minimo di otto anni per lo spaccio grave: sproporzionato e contrario al fine rieducativo delle pene. Il ministro ha appena annunciato l’intenzione di alzarle. C’è un ministro, il solito Salvini, che vuole alzare le pene per lo spaccio di droga ed eliminare i casi di lieve entità. E c’è una Corte costituzionale che, con sentenza depositata ieri, stabilisce l’incostituzionalità della pena minima di otto anni per i casi ordinari di spaccio. Perché pena troppo alta, dunque contraria ai principi di proporzionalità e ragionevolezza (rispetto alle altre pene) e perché in contrasto con la funzione rieducativa della detenzione. Dalla Consulta arriva uno stop alle intenzioni del ministro dell’interno, annunciate appena lunedì scorso. Stop preventivo, visto che il disegno di legge della Lega non è stato ancora depositato in parlamento. La Corte costituzionale è intervenuta sulla base del ricorso presentato dalla Corte di appello di Trieste; l’imputato in primo grado è stato condannato a quattro anni per il possesso a fine di spaccio di cento grammi di cocaina. Ha stabilito che la pena minima di otto anni di reclusione attualmente prevista per lo spaccio nei casi di non lieve entità è troppo alta perché pari al doppio di quella massima, quattro anni, prevista per i casi di lieve entità (la lieve entità è relativa alla quantità e qualità delle sostanze). Secondo i giudici delle leggi, redattrice Marta Cartabia, l’esistenza di una così ampia divaricazione condiziona il giudice di merito che deve sanzionare i tanti casi che si collocano in una “zona grigia” tra la lieve e la non lieve entità. La Consulta è intervenuta con una sentenza “manipolativa additiva” che ha sostituito alla pena minima di otto anni quella di sei, desumendola da altre disposizioni di legge. Ha dovuto farlo perché il quadro legislativo sulle droghe è particolarmente complicato, soprattutto a seguito di una sentenza della stessa Corte che nel 2014 ha cancellato la Fini-Giovanardi. È tornata così la distinzione della Jervolino-Vassalli tra droghe pesanti e droghe leggere, e per quanto riguarda le prime la distinzione tra la pena di otto-venti anni per i casi più gravi e uno-quattro anni per i casi meno gravi. In origine anche per i casi meno gravi la pena massima era di sei anni, ma due successivi interventi al di fuori della legge Fini-Giovanardi (che era la conversione di un decreto sulle Olimpiadi di Torino…) hanno abbassato la pena edittale a quattro anni e sono rimaste in vita anche dopo la sentenza di incostituzionalità del 2014. Per la Corte costituzionale l’intervento “additivo”, inconsueto, si è reso indifferibile perché “è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio”, invito contenuto in una sentenza della Consulta del 2017. Una risolutezza di intervento che indica una possibile strada anche sul fine vita, visto che nel decidere sul caso Cappato-DJ Fabo la Corte ha lanciato una simile sollecitazione al parlamento. Fin qui vana. “È una sentenza in controtendenza alle derive populiste, il diritto non può affidarsi a categorie ad esso estranee - ha commentato Patrizio Gonnella di Antigone, la Corte ci ricorda come in ambito penale il faro debba essere la proporzionalità e la funzione rieducativa”. “Dalla Consulta è arrivata la migliore risposta agli annunci di Salvini”, ha aggiunto l’ex senatore radicale Marco Perduca. La Consulta dichiara incostituzionali le pene per gli spacciatori: “sono troppo alte” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2019 La questione di illegittimità è stata sollevata in un giudizio per detenzione di circa 100 grammi di cocaina. “I principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria, e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale”. Sono i principi costituzionali ai quali si ispira la sentenza che definisce sproporzionata la pena minima di otto anni prevista per il reato che punisce lo spaccio di stupefacenti per le cosiddette “droghe pesanti”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 40 depositata ieri (relatrice Giudice Marta Cartabia), ha dichiarato illegittimo l’articolo 73, primo comma, del Testo Unico sugli stupefacenti (D. P. R. n. 309 del 1990) là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei. La Corte ha anche dovuto sottolineare che “è rimasto inascoltato il pressante invito al legislatore affinché si procedesse rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio”, anche in considerazione “dell’elevato numero di giudizi pendenti e definiti aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti”. In particolare, la Corte ha rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione). La rimodulazione da otto a sei anni del minimo edittale per i fatti non lievi è stata ricavata dalla normativa in materia di stupefacenti. Questa misura, infatti, è stata ripetutamente considerata adeguata dal legislatore per i fatti “di confine”, posti al margine delle due categorie di reati. La dichiarazione di incostituzionalità arriva dopo che la Corte, con la sentenza n. 179 del 2017 aveva invitato in modo pressante il legislatore a risanare la frattura che separa le pene per i fatti lievi e per i fatti non lievi, previste, rispettivamente, dai commi 5 e 1 dell’articolo 73 del d.P.R. 309 del 1990. Quell’invito è rimasto però inascoltato cosicché la Corte ha ritenuto ormai indifferibile il proprio intervento per correggere l’irragionevole sproporzione, più volte segnalata dai giudici di merito e di legittimità. La questione di illegittimità costituzionale è stata sollevate nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto una fattispecie di detenzione di circa cento grammi di cocaina, occultati all’interno di tre condensatori per computer, contenuti all’interno di un pacco proveniente dall’Argentina. È stata la Corte d’appello di Trieste ha sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto con gli art. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4bis del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272. Ma, come detto, sempre in sei anni il legislatore aveva individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti”, vigente il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d.l. n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”. In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi. Sì alle Regioni parte civile nei delitti di mafia di Francesco Cerisano Italia Oggi, 9 marzo 2019 Le regioni possono costituirsi parte civile nei processi penali riguardanti delitti di stampo mafioso commessi nel territorio. Le leggi regionali che prevedono questo obbligo non incidono sul potere del giudice di valutare la legittimazione dell’ente a costituirsi parte civile né tantomeno si sovrappongono alle norme dell’ordinamento che fondano l’azione risarcitoria e ne disciplinano l’esercizio nel processo penale. Lo ha deciso la Corte costituzionale nella sentenza n. 41/2019 (redattore Giulio Prosperetti) depositata ieri in cancelleria. La Consulta ha respinto, dichiarandolo non fondato, il ricorso della presidenza del consiglio dei ministri contro l’art.2, comma 1 della legge del Veneto n. 1/2018. Secondo palazzo Chigi la norma sarebbe stata incostituzionale, per violazione dell’art.117 Cost. in quanto avrebbe violato la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia dell’ordinamento penale, contrastando con l’art. 74 del codice di procedura penale secondo cui il titolare dell’azione civile ha una mera facoltà e non un obbligo di costituirsi parte civile nel processo. Secondo la Consulta, tuttavia, alla legge regionale veneta “non può attribuirsi alcun rilievo di carattere ordinamentale o processuale, non incidendo essa né sul potere del giudice di valutare la legittimazione della regione a costituirsi parte civile nel processo penale, né potendosi ritenere che essa si sovrapponga a quelle norme dell’ordinamento che fondano l’azione risarcitoria e che ne disciplinano l’esercizio nel processo penale”. Ad avviso dei giudici delle leggi, dunque, la norma impugnata “esaurisce la sua funzione all’interno della regione” e, in quanto tale, “appare espressione, del tutto legittima, del potere di indirizzo politico-amministrativo spettante al consiglio regionale nei confronti degli altri organi dell’ente”. Da ultimo la Consulta ha osservato che la legge regionale veneta impugnata replica il contenuto di identiche disposizioni di leggi di altre regioni (Piemonte, Puglia, Umbria, Liguria e Sicilia) che hanno stabilito l’obbligatorietà della costituzione di parte civile nei processi penali celebrati per delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso commessi nel territorio regionale. Dichiarato infondato il ricorso contro la legge Veneta, anche le altre leggi regionali sulla materia possono dirsi al riparo da declaratoria di incostituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost. Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella di Mario Trudu Il Dubbio, 9 marzo 2019 Un ergastolano sardo ci racconta lo stupore di rivedere il mondo. Era il 9 gennaio, quando presentai la richiesta di permesso di necessità. Era morto mio cognato Marchioni Pietro, marito di mia sorella Trudu Raffaela. Il giorno dopo verso le 13,30 mi annunciarono che il permesso mi era stato concesso e che circa mezz’ora dopo mi avrebbero accompagnato. Puntuali, dopo un po’ partimmo per Arzana, il paese in cui ero nato e dove vivono i miei cari. Salimmo su un blindato molto diverso da tutti gli altri che avevo conosciuto e usato in una vita intera, i miei ultimi 40 anni. Diverso nel senso che, anche se dalla distanza di sicurezza a cui ero costretto, riuscivo a vedere attraverso il parabrezza venirmi incontro tanta bellezza, mentre sugli altri blindati venivo collocato dentro una piccolissima scatola occupata solo dal buio più totale, dove per evitare le peggiori sensazioni chiudevo gli occhi, e se avessi potuto in quei momenti avrei spento anche il mio cervello, ed io di viaggi immerso nel nulla ne ho fatti tanti. Uscito dal carcere dopo poche decine di metri imbucammo la SS131 direzione Nuoro - Sassari, e vedere tutta quella campagna e leggere tutti quei cartelli stradali che mi venivano incontro, mi procurava una strana sensazione, come se tutto mi ricordasse qualcosa, ma non capivo cosa… La mia memoria in questi ultimi anni è andata scemando, sicuramente gli effetti distruttivi del carcere a cui sono stato costretto per così lungo tempo. Sì, è vero, ho perso la memoria, ma sappiate che almeno a me è rimasta la dignità. Attraversi quel deserto sconosciuto, attraversai dei tunnel, cunicoli scavati sottoterra con una miriade di lucine che lampeggiavano dentro i miei occhi come degli spiedi infuocati che mi bruciavano, e mi davano anche la sensazione di trovarmi in piena campagna in una notte buia al massimo, rischiarata solo dalle lucciole. All’uscita di uno di questi antri bui, comparve davanti ai miei occhi Preda Leana, monumentale pietra collocata sul Gennargentu al limitare dei territori di Arzana, Gairo e Seui. La punta più alta del Gennargentu (Predas Carpias) era tutta innevata, c’era tanta neve, e se per qualche motivo si apriva lo sportello della macchia entrava un freddo cane. La temperatura doveva essere molto vicina allo zero, se non sotto. Arrivati al bivio Carmine prendemmo la strada per Arzana. Tutto era cambiato. Se pur luoghi da me frequentati in un lontano tempo, non mi riusciva di riconoscere con certezza quei posti. Svoltata una curva a gomito (prima de su paris de istancas) davanti ai miei occhi si presentò un vasto panorama, bellissimi luoghi che conoscevo. Mi sarebbe piaciuto dire ai miei accompagnatori di fermare un po’ la macchia per ammirare tanta straordinaria bellezza, ma non dissi niente. Chissà come avrebbero interpretato la mia richiesta, magari avrebbero potuto pensare che avevo un piano per la fuga, ma… ahi me! il tempo delle fughe, alla mia età, è volato via insieme alla tanta galera e non tornerà mai più. Arrivati al ponte de su Molina, imbucarono una strada nuova che io non conoscevo… (e come avrei potuto! La strada era stata aperta una decina di anni dopo la mia forzata assenza) e in un attimo fummo al cimitero, proprio nel momento in cui seppellivano mio cognato Pietro. Mi fecero scendere dalla macchina davanti all’entrata del cimitero, luogo di pace e di tanti misteri, e credo anche di tante paure, sapendo che un giorno quel luogo desolatamente solo sarà la nostra casa per l’eternità. C’erano tante macchine parcheggiate e tantissima gente, che scrutavo e mi scrutava senza che ci conoscessimo. Entrai dentro questo enorme parcheggio incontrando i miei familiari e tante altre persone. Ci abbracciamo con i miei e raccolsi le condoglianze di tutti gli altri. Prima che finisse la funzione della tumulazione, fui scortato a casa di mia sorella in attesa che gli altri rientrassero dal cimitero. Percorremmo la strada in discesa fino al ponte de Niedha e prendemmo sulla sinistra imboccando la strada del corso, e fatte poche decine di metri svoltammo a destra percorrendo un tratto della via M. Virgilio, arrivati di fronte alla casa di zio Giovanni Nieddu detto (cara niedda), svoltammo a destra passando davanti alla casa di zio Giuseppe Arzu (scorgia molentes), un po’ più avanti c’era la casa di zia Beatrice Tascedda (vedova Mereu), al suo fianco c’era la casa di Antonio Doa detto (meurrone), lì appresso la casa di Cesare Stochino (maceto), Cecilia Usai (pringiutu), Giuseppe Pirarba (su re Orodas), Angelo Doa (casta mala) e parcheggiamo nel cortile della nostra vecchia casa dove io e le mie sorelle con mio fratello Danilo venimmo al mondo. Vedere quelle vecchie rovine mi riportò indietro nel tempo, quando giocavamo spensierati e felici con gli altri bambini del vicinato, e provai un dolore tremendo. Entrai in casa di mia sorella Raffaela accompagnato dalle mie bellissime pronipoti, Roberta e Federica. Se non fosse stato per loro, confuso come ero, credo che non avrei trovato nemmeno la porta di casa. Ci abbracciamo tutti. Erano presenti anche i figli e la moglie di mio nipote Adriano morto da vari anni. Si avvicinò la figlia maggiore, Anita. Ma io le dissi: “Ciao Samuè”. E lei: “Guarda che io sono Anita, Samuela è mia madre”. Che confusione avevo fatto! Samuela mi era rimasta impressa nella memoria come l’avevo vista la prima volta che la incontrai, e la figlia Anita era identica alla madre quando aveva la sua età. Stessa confusione feci con mia nipote Martina che non avevo mai incontrato… scambiai il marito per il fratello… Questo per dirvi quanto possono essere distruttivi 40 anni di carcere. Il tempo è corso via mentre io sono stato sempre fermo, eppure sono stato sempre convinto che stavo affrontando bene la situazione, convinto di camminare a passo con il tempo. Che illusione la mia! Forse ho pensato di poter fermare il tempo e di riprendermelo al mio risveglio dal coma. Tutto sbagliato. E per questo dico a tutte le persone in difficoltà: non lasciatevi ingannare, state al passo con il tempo, meglio anticiparlo che rimanere indietro, cercate di vivere tutto, ogni cosa nel momento in cui accade. Non lasciatevi scavalcare dal tempo come ho fatto io, o vivrete nel passato senza vedere il presente, che è la cosa che serve di più. Senza il presente non si vive, anzi è invisibile il vivere. Di confusioni ne ho fatte tante quel giorno… con i nomi, i volti, le parentele… Spero mi abbiano capito, e perdonato per tanta confusione. Ma dovete sapere che i miei vuoti di memoria non sono stati causati solo dal tempo che mi ha allontanato sempre di più dal tempo della vita. La causa di tanta rovina in me è anche e soprattutto la compressione senza limiti che mi ha imposto questo stato. Dopo circa un’ora e mezza ci rimettemmo nuovamente in viaggio. Destinazione nuovamente il ricovero di animali abbandonati in cui vivo da “secoli”. Attraversammo tutto il paese e vi dico che ho vissuto minuti di vera paura. Tutte le strade ero convinto che si fossero ristrette, che le case che le affiancavano volessero franarmi addosso. Tutto mi percuoteva la vista venendomi incontro a velocità sostenuta, come punte aguzze che volevano piantarsi nel mio petto. Io penso che quelle strade mi apparissero così strette a causa dei miei ricordi (lontani 40 anni), molto diversi, forse anche perché non si vedeva altro che macchine parcheggiate. La carreggiate erano invase da macchine, che erano d’intralcio non solo ai mezzi come quello su cui viaggiavo io, ma sarebbe stato difficoltoso anche per un pedone muoversi fra tanta “civiltà”. Credo che se non fosse per le persone incontrate a casa di mia sorella, avrei pensato che il mio amato paese fosse abitato solo da macchine, mostri di ferro. Persone in giro non se ne vedeva una. Certo secoli fa, quando ancora appartenevo al mondo dei vivi, di macchine non se ne vedevano tante. Ecco, in quei pochi minuti serviti per attraversare il paese, vedendo tutti quei disastrosi cambiamenti, tutte quelle case diroccate, per me è stato come attraversare tanti secoli. Tutto quel cambiamento non poteva essere avvenuto nei soli 40 anni della mia assenza. Penso che sicuramente è passato molto più tempo. Sono solo io a essermi fermato senza capire bene da quanto sono parcheggiato in questi musei statali dell’orrore. Che effetti disastrosi, direi quasi allucinanti, fanno vivere 40 anni di prigione! E che notte da incubo quando, al rientro, dopo aver cenato andai a letto. In quell’agitato sonno mi sono trovato nuovamente in paese dove io ero l’unico sopravvissuto, anzi io e un branco di cani agguerriti. Tutto il resto erano macerie, delle case che conoscevo fin da ragazzo non ne era rimasta una in piedi, non c’erano più macchine, ciò che rimaneva di loro era un ammasso di lamiere accartocciate Per tutta la notte sono stato assalito da quei cani e io a cercare di difendermi con un bastone, ma loro non mollavano, vedevano in me un lauto pasto, e mi costringevano a indietreggiare, finché dopo ore di terrore non sono finito in un buco che si era formato fra le macerie. Lì era talmente buio che anche i cani avevano paura a entrarci e mollarono la loro preda, e menomale che in quel momento mi sono svegliato da quell’incubo, se no chissà cos’altro avrei dovuto affrontare. Già le cose d’affrontare non mi mancano, per esempio la galera, questa vendetta di uno stato orbo, e incubo peggiore non esiste. Ma se ho potuto superare quella notte terribile, sono certo che continuerò a superare l’incubo in cui sono costretto da 40 anni. Ferrara: tenta il suicidio in carcere l’omicida di Olga Matei, rischia la vita in rianimazione di Martin Miraglia estense.com, 9 marzo 2019 Michele Castaldo, l’omicida della ex che aveva ricevuto il dimezzamento della pena per aver agito “in una tempesta emotiva dettata dalla gelosia”, era detenuto a Ferrara. L’uomo aveva ingerito sostanze tossiche in cella lunedì. È ricoverato in gravi condizioni nel reparto di rianimazione ospedaliera dell’ospedale di Cona dopo aver tentato il suicidio mentre era detenuto al carcere dell’Arginone Michele Castaldo, il 57enne reo confesso dell’omicidio a Riccione, il 5 ottobre del 2016, della sua ex compagna Olga Matei e che, recentemente, aveva ricevuto il dimezzamento della pena in secondo grado poiché aveva agito a seguito di una “tempesta emotiva determinata dalla gelosia” che secondo i giudici della Corte d’Appello di Bologna avrebbe attenuato le sue responsabilità. Il fatto, del quale si apprende solo ora, risalirebbe a lunedì: gli uomini della polizia penitenziaria lo avrebbero trovato privo di sensi sulla sua branda, disponendo quando l’attivazione del 118 e il suo trasferimento in ospedale. La notizia, rilanciata dalle agenzie di stampa, è stata pubblicata in origine dalla pagina Facebook della trasmissione Quarto Grado che proprio stasera aveva programmato il commento delle motivazioni della sentenza di appello e che aveva trasmesso in diretta la fiaccolata a Riccione in ricordo della vittima organizzata dalle sue amiche. L’uomo, a quanto si apprende da alcuni organi di stampa, avrebbe ingerito una sostanza tossica e sarebbe in coma. Fonti ospedaliere contattate da estense.com non commentano tali indiscrezioni ma confermano che l’uomo sarebbe in pericolo di vita. Nella mattinata di venerdì l’avvocato di Rimini Monica Castiglioni, suo difensore, aveva ricevuto dall’uomo una lettera scritta a mano nella quale annunciava la volontà di porre fine alla sua vita nella quale si legge “la chiudo qui altrimenti sembra che mi voglio giustificare”, dopo aver spiegato di sentirsi demonizzato, e compaiono le richieste di rendere pubblica la missiva e di spargere in mare le ceneri. La stessa avvocatessa era poi recentemente finita nel mirino di alcuni haters che hanno suggerito di “averlo aiutato” ad ottenere lo sconto di pena. Castaldo aveva commesso l’omicidio della donna, con la quale aveva una relazione da circa un mese, strangolandola a mani nude. Per il fatto era stato condannato a 30 anni di reclusione per omicidio aggravato dai futili motivi. In secondo grado il procuratore generale aveva richiesto la conferma della pena, ma la Corte ha deciso per la condanna a 16 anni dopo aver applicato le attenuanti considerata la confessione dell’uomo e, come detto, la gelosia dell’uomo idonea a uno sconto di pena “a causa delle sue poco felici esperienze di vita una soverchiante tempesta emotiva e passionale che si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio”. Roma: la Sindaca Raggi “detenuti a lavoro per rifare le strisce pedonali” Il Messaggero, 9 marzo 2019 “Detenuti a lavoro sulle strade di Roma per pulire caditoie e rifare la segnaletica orizzontale”. È quanto annunciato dalla sindaca di Roma Virginia Raggi. sulla sua pagina Facebook scrive: “Prosegue così il progetto #MiRiscattoperRoma per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti della Casa circondariale di Rebibbia. L’iniziativa, portata avanti da Roma Capitale e dal Ministero della Giustizia, vede il coinvolgimento anche di Autostrade per l’Italia che ha formato i detenuti per un periodo di tre mesi, fornendo l’equipaggiamento e la strumentazione necessaria per realizzare le attività su strada”. I detenuti sono stati impiegati anche per la cura del verde. “Dopo il lavoro portato avanti per ripristinare il decoro di parchi e giardini attraverso operazioni di sfalcio e pulizia delle aree verdi adesso i detenuti stanno dando un valido supporto per la manutenzione ordinaria della nostra città. Questo progetto rappresenta un’occasione per dare la possibilità ai detenuti di reinserirsi nella società e rendersi utili per la collettività. Un messaggio che è stato recepito dai detenuti come loro stessi affermano nel video che vi mostro e che documenta la loro attività nel quartiere di Primavalle, nella zona ovest della città. Dalle loro testimonianze emerge chiaramente come questa sia un’esperienza altamente formativa che apprezzano e che li sta aiutando nel loro percorso di reinserimento nella società. Il progetto è partito come una sfida che abbiamo voluto lanciare e nella quale abbiamo creduto: un’iniziativa importante che sta dando ottimi risultati per i detenuti e anche per la città”. Napoli: carceri, i sindacati a Poggioreale “qui i reparti più sovraffollati d’Europa” La Repubblica, 9 marzo 2019 I delegati: “Queste condizioni penalizzano il corretto e sereno svolgimento delle attività quotidiane e incidono sul benessere psicofisico del personale, fino al punto di rischiare la vita”. Una delegazione dei sindacati della polizia penitenziaria ha effettuato ieri una visita ispettiva nel carcere di Napoli Poggioreale, al termine della quale è stata constatata la situazione di disagio in cui lavorano gli agenti. “Una situazione - hanno sottolineato i sindacalisti, che hanno anche incontrato il direttore e il comandante del carcere - dovuta prioritariamente alla forte carenza di personale e un eccessivo sovraffollamento dei reparti, che non ha eguali in Europa. È ovvio che queste condizioni penalizzano fortemente il corretto e sereno svolgimento delle attività quotidiane che incidono in modo nefasto sulla sicurezza dell’istituto e sul benessere psicofisico del personale, fino al punto di rischiare la vita”. Le organizzazioni sindacali, in attesa di risposte dai vertici politici, hanno sospeso l’astensione dalla mensa ordinaria di servizio, pur confermando lo stato di agitazione con interruzione delle relazione sindacali. “È evidente - dichiarano. che se non arriveranno a breve termine risposte concrete, la protesta assumerà connotati più incisivi”. Taranto: “carcere sovraffollato”, i Radicali incontrano i parenti dei detenuti laringhiera.net, 9 marzo 2019 “Seicento quaranta detenuti in pianta stabile a fronte di una capienza regolamentare di 306 unità, primo carcere in Italia per sovraffollamento”. I radicali a Taranto, questa mattina alle 11, incontreranno i parenti dei detenuti. Rita Bernardini, ex parlamentare, membro della presidenza del Partito Radicale, insieme ad una delegazione pugliese composta da Anna Briganti, Giovanni Zezza, Davide Scranno, Andrea Trisciuoglio, Loris Suriano, Alberico Nobile, Mario Calzolaro, Michele Pronesti, sarà in Città Vecchia, in Vico Trentacani. “Vista la grave situazione di sovraffollamento della casa circondariale di Taranto - si legge nel comunicato dei Radicali - al 28 febbraio 640 detenuti in pianta stabile a fronte di una capienza regolamentare di 306 unità, primo carcere in Italia per sovraffollamento, Rita Bernardini e la delegazione di militanti pugliesi, lunedì prossimo alle 10 entrerà in carcere per una visita ispettiva autorizzata dal Dap”. Questa sera, intanto, (ore 19) la delegazione radicale parteciperà ad un dibattito dal titolo “Canapa pianta proibita”. L’incontro si terrà all’Archeotower di via Veneto, sempre a Taranto. Rovigo: i Cinque Stelle “stop al carcere minorile, il progetto non è fattibile” polesine24.it, 9 marzo 2019 I grillini già in contatto con il ministro Bonafede perché “il progetto non è fattibile”. Il progetto di fattibilità del carcere minorile di Rovigo, in via Verdi, al posto della vecchia casa circondariale è stato già affidato a una società di project per una spesa di 800mila euro, mentre il ministero della Giustizia ha stanziato 5 milioni per ristrutturare l’edificio. Ma ci sono movimenti “romani” per bloccare l’arrivo dell’istituto penitenziario per minorenni nell’ex carcere oramai abbandonato tre anni fa. Lo dichiara Francesco Gennaro, ex consigliere dei 5 Stelle, che con il suo gruppo ha già preso contatti con il presidente della Commissione Giustizia, l’onorevole Francesca Businarolo, originaria di Villa Estense (Padova) e con lo stesso ministro Alfonso Bonafede per riconsiderare l’idea. “Ho seguito il dibattito sul trasferimento del tribunale, con le varie proposte quelle del presidente del tribunale Risi, che lo vorrebbe al Censer e degli avvocati in difesa del centro storico - premette l’ex consigliere grillino - Il punto è che per parere condiviso da varie istituzioni, tra cui anche Livio Ferrari, presidente del centro di ascolto San Francesco, che coordina il volontariato sulle carceri, il carcere minorile lì non va bene per due motivi essenziali: le carceri minorili hanno bisogno di ampi spazi come palestre e campi di calcio, altrimenti questi giovani già in disagio diventano aggressivi e non possono esprimersi”. L’altro motivo è che “a fianco di un carcere minorile ci vuole una città che abbia un tessuto di imprese e associazioni organizzate per poter fare la rieducazione di questi ragazzi impegnati con Treviso”. L’obiettivo è agire sul ministro della giustizia, perché cambi destinazione d’uso. “Per noi l’ex carcere dovrebbe essere restaurato e recuperato per andare incontro alle esigenze degli avvocati e ampliare l’attuale tribunale di via Verdi, senza spostamenti drastici che andrebbero a svuotare il centro”. Catania: come cambia la sanità penitenziaria nel territorio giornalelora.it, 9 marzo 2019 Il commissario straordinario dell’Asp di Catania ha incontrato ieri i direttori degli Istituti penitenziari della provincia per discutere sul modello organizzativo e sul miglioramento dei servizi sanitari nelle carceri. Catania - Il modello organizzativo per l’assistenza sanitaria penitenziaria e il miglioramento dei servizi connessi sono stati i temi al centro dell’incontro, presso la Direzione generale dell’Asp di Catania, fra il manager dell’Azienda sanitaria catanese, dott. Maurizio Lanza, e i direttori degli Istituti penitenziari della provincia. Il modello organizzativo per l’assistenza sanitaria penitenziaria e il miglioramento dei servizi connessi sono stati i temi al centro dell’incontro, presso la Direzione generale dell’Asp di Catania, fra il manager dell’Azienda sanitaria catanese, dott. Maurizio Lanza, e i direttori degli Istituti penitenziari della provincia. “Avvertivo la necessità di questo incontro - ha detto il dott. Lanza - per confrontarmi sul modello di sanità penitenziaria che stiamo realizzando, in modo da apportare, grazie al confronto con i direttori degli Istituti di pena, quei miglioramenti che saranno ritenuti necessari per rendere il modello ancora più confacente e utile ai bisogni delle strutture”. Intervenuti all’incontro: la dott.ssa Elisabetta Zito (direttore della Casa circondariale di Piazza Lanza), il dott. Giuseppe Russo (direttore della Casa circondariale di Bicocca), la dott.ssa Maria Randazzo (direttore dell’Istituto penale per minorenni di Bicocca), la dott.ssa Carmela Leo (direttore dell’Istituto penale per minorenni di Acireale), la dott.ssa Giorgia Gruttadauria (direttore della Casa circondariale di Caltagirone), la dott.ssa Milena Mormina (direttore della Casa circondariale di Giarre). Presenti per l’Asp di Catania, il direttore sanitario, dr. Gaetano Mancuso, e la responsabile dell’UOS di Sanità penitenziaria, dr.ssa Salvatrice Riillo. La riforma della medicina penitenziaria, con il conseguente trasferimento delle competenze al Servizio sanitario regionale, ha prodotto un cambiamento profondo del modello organizzativo e operativo dei servizi sanitari all’interno delle carceri. L’Asp di Catania è l’azienda sanitaria che, in Sicilia, ha preso in carico il più alto numero di Istituti penitenziari. Sin dal suo insediamento, il manager dell’Azienda sanitaria catanese ha voluto che si specificasse la scelta organizzativa aziendale per garantire e ottimizzare costantemente l’erogazione di livelli essenziali e uniformi di assistenza ai detenuti. “Il modello assistenziale che abbiamo realizzato - ha spiegato il dott. Lanza - è quello di un poliambulatorio, di base e specialistico. Ogni poliambulatorio, sotto il profilo organizzativo, fa riferimento al direttore del Distretto sanitario di zona. Le linee di indirizzo operative vengono impartite dall’UOS di Sanità penitenziaria che assicura l’omogeneità degli interventi e la proporzionalità delle risorse in base ai bisogni di ciascuna Casa circondariale o Istituto penale”. Il dott. Lanza ha anche annunciato che nelle prossime settimane sottoporrà, all’attenzione dei direttori degli Istituti penitenziari, per le opportune valutazioni, un Regolamento per l’assistenza sanitaria penitenziaria. Sono state discusse e affrontate, inoltre, alcune criticità, in ordine al potenziamento e a alla gestione delle risorse professionali, e all’incremento di alcune specialistiche ambulatoriali. Si è, in particolare, puntata l’attenzione sui servizi di psicologia, psichiatria e Sert, e sulla tutela dei diritti dei detenuti. I direttori degli Istituti penitenziari hanno sottolineato la necessità di concentrare il bisogno di salute all’interno dei presidi carcerari, in modo da garantire maggiore sicurezza al sistema e hanno rappresentato l’urgenza di provvedere alla sottoscrizione di protocolli operativi, per ciascuna struttura, relativi all’assistenza sanitaria di base e alla prevenzione del rischio suicidario nelle carceri. L’incontro si ripeterà a cadenza bimestrale per un costante monitoraggio di tutte le attività programmate e per l’implementazione di ulteriori progetti di miglioramento. Pistoia: nel carcere di Santa Caterina in Brana con gli avvocati pistoiesi di Ilaria Lumini reportpistoia.com, 9 marzo 2019 La festa della donna, ieri, è stata festeggiata al carcere di Santa Caterina in Brana di Pistoia. Un carcere maschile (sono circa 90 detenuti, pena massima cinque anni - reclusi nella casa circondariale di via dei Macelli) diretto da una donna, Loredana Stafanelli, e con cinque operatrici di Polizia Penitenziaria su un organico di 53 unità. Ed è stata la presidente dell’ordine degli avvocati di Pistoia, Cecilia Turco, a richiedere la visita e ad accompagnare - assieme al comandante del reparto di Polizia Penitenziaria, Mario Salzano - il consiglio dell’ordine in un percorso iniziato già con Immaginati Avvocato (l’anno scorso era stata organizzata una cena in carcere con magistrati, avvocati e detenuti). Un viaggio percorrendo i corridoi, visitando la biblioteca, la palestra e il campo sportivo. Fino alle camere detentive. “Ringrazio a nome dell’ordine degli avvocati di Pistoia la direzione del carcere per questa visita - ha sottolineato la presidente (a Pistoia la prima in questo delicato ruolo) Cecilia Turco - Oggi, festa della Donna, siamo qui per rendere omaggio a tutto il personale femminile. Il carcere è un luogo di pena, un luogo duro, un luogo di lavoro. Noi avvocati abbiamo a cuore, come i poliziotti della penitenziaria, i principi della nostra Costituzione. La difesa è il nostro lavoro, senza il nostro lavoro tutto sarebbe più ingiusto”. La grossa porta automatica di colore rosso, in ferro pesante, è l’entrata del carcere di Pistoia. È un carcere piccolo con quattro reparti destinati alla media sicurezza, alla semilibertà, al transito-isolamento ed alla custodia attenuata. L’istituto, costruito negli anni 30, è stato riaperto dopo la chiusura di un anno e mezzo per i danni causati dalla bufera di vento del 5 marzo 2015. Sono una novantina, i detenuti al Santa Caterina in Brana e oltre la metà sono extracomunitari. Quasi tutti sono dentro per droga. “Gli italiani - ci spiega una poliziotta - oltre alla droga, sono in carcere per reati finanziari o per stalking”. La maggior parte di loro sono giovani, dai 20 ai 40 anni. Il più anziano ne ha 88, ed è pistoiese. I corridoi del carcere hanno le pareti chiare. Le porte delle camere detentive sono verdi. Al piano terra ci sono celle da due posti. Al piano superiore arrivano fino a sei: tre letti a castello, un tavolo con sedie, due armadietti per ogni detenuto, un bagno, un piccolo cucinotto con fornellino da campeggio e televisione. Sono gli stessi detenuti che si occupano quotidianamente della pulizia della cella (oltre alle pulizie previste settimanalmente dalla struttura carceraria). Poi c’è la biblioteca con il sistema di catalogazione dei libri della biblioteca San Giorgio, la palestra che è sia teatro, che luogo di svago (c’è un biliardino). Una sala polivalente quindi che avrebbe bisogno di qualche miglioria: non ci sono termosifoni, i bagni non funzionano, la pavimentazione è da rifare; una spesa di circa 50mila euro. Poi c’è il piccolo campo sportivo, dove per due volte la settimana i detenuti giocano a calcetto e una volta a settimana la ginnastica. Al carcere di Santa Caterina in Brana i detenuti si autogestiscono. Un’autogestione tenuta sempre sotto controllo dai poliziotti della penitenziaria. Le camere detentive si aprono alle 8 e fino alle 19 il detenuto è libero di andare dove vuole nella struttura: in biblioteca, in palestra, al campo sportivo. La settimana è scandita dai colloqui con l’avvocato, o dalla visita di qualche familiare. C’è il corso di italiano, che per tanti è un vero e proprio corso di alfabetizzazione. C’è un piccolo giardinetto con i giochi per bambini, per quando i figli vengono a trovare i loro padri. C’è una chiesa. La maggior parte dei detenuti è di religione cristiana, ce ne sono solo tre del Maghreb e quindi la presenza dell’Imam non è richiesta. Ragusa: il progetto “Dal carcere un aiuto alla città” gdmed.it, 9 marzo 2019 Una convenzione per avviare detenuti a lavori di pubblica utilità. Sarà firmata una convezione tra la Direzione della Casa Circondariale di Ragusa, il Comune di Ragusa e la Magistratura di Sorveglianza per la promozione, su base volontaria, di lavori di pubblica utilità da parte dei detenuti. Alla base dell’accordo la realizzazione del progetto “Dal carcere un aiuto alla città” mirato all’attuazione di percorsi riabilitativi e di reinserimento sociale. Sarà a cura del Comune di Ragusa svolgere il percorso di formazione per i detenuti preposti ai lavori di pubblica utilità, fornire tutti gli strumenti e quanto necessario allo svolgimento in sicurezza delle attività, indicare docenti, mansioni, orari, funzionari di riferimento e luoghi di svolgimento delle prestazioni lavorative e segnalare i referenti del progetto che mensilmente si faranno carico di verificare e relazionare sul suo andamento. La Direzione della Casa Circondariale di Ragusa si impegna ad individuare i detenuti da inserire nel progetto, a redigere il programma di trattamento del detenuto da inserire nell’attività lavorativa, sulla base del programma predisposto dal Comune, inviandolo al magistrato di sorveglianza per l’assegnazione al lavoro di pubblica utilità ed a svolgere i controlli necessari per verificare la corretta partecipazione dei detenuti al progetto. La Spezia: il carcere una “pena aggiuntiva”? Se ne parla il 22 marzo in Sala Dante cittadellaspezia.com, 9 marzo 2019 Ci saranno docenti e studiosi di diritto penitenziario e penale, avvocati e rappresentanti di associazioni e Onlus. Nel tempo dei diritti negati e del dibattito attualissimo sulle pene e sulla reclusione intesa come “soluzione unica” è opportuno, per quanti cedono nella Giustizia e nel Diritto, interrogarsi non solo sulle leggi ma anche sulla loro applicazione che prevede, in molti casi, la carcerazione fino all’ergastolo. “Il dibattito non è nuovo e nasce già nel settecento ma è diventato, soprattutto negli ultimi decenni, uno degli indicatori della qualità dello “stato di diritto” e del livello di civiltà di un Paese. Così è soprattutto quando il carcere non sembra più una pena da scontare e diventa, per le sue caratteristiche e per le condizioni di chi vi è costretto, una pena aggiuntiva. Il carcere, si potrebbe dire, diventa un problema nel momento in cui viene presentato come una - rectius - la soluzione” dice Daniel Monni, anticipando i temi del convegno che si svolgerà il 22 marzo nella Sala Dante (Via Ugo Bassi,4) con inizio alle ore 15.30. L’iniziativa è stata voluta dall’associazione Liberarsi Onlus unitamente a Ristretti Orizzonti e dalla Comunità Papa Giovanni XXIII con uno scopo dichiarato: focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema come il carcere e la carcerazione che illustri studiosi hanno definito “il lato più oscuro del diritto penale”. Il carcere, come momento di espiazione che spesso si colloca al confine con una ulteriore “afflizione, è argomento dibattuto non solo fra gli studiosi del diritto e gli operatori della giustizia a tutti i livelli, ma anima anche il dibattito politico e sociale perché è esemplificativo dei principi ispiratori di indirizzi e scelte che prevedono la detenzione e la privazione di diritti individuali. Il convegno non sarà solo un’occasione aperta a tutti di approfondimento da un punto di vista giuridico e filosofico ma offrirà anche l’opportunità di ascoltare testimonianze dirette tanto di avvocati e penalisti quanto di chi il carcere lo ha vissuto nell’espiazione di una pena. Il programma prevede interventi di Luca Bresciani (docente di Diritto Penitenziario e Procedura Penale presso l’Università di Pisa), Daniel Monni (studioso di diritto penale), Carmelo Musumeci (ergastolano che durante ha conseguito tre lauree ed è autore di diversi romanzi e pubblicazioni), Pasquale Zagari (ergastolano), Ornella Favero (direttrice di Ristretti Orizzonti), Giuliano Capecchi (Presidente Associazione Liberarsi) e Nadia Bizzotto (Comunità Papa Giovanni XXIII). Sarà l’occasione, per una intera Comunità, di riflettere sul come e perché il carcere ha iniziato ad essere un problema nel momento in cui è divenuto una o, meglio, la soluzione e se sia realmente quel male necessario di cui non possiamo fare a meno e, proprio per questo, può essere un evento formativo, utile per tutti, compresi i giovani. Nell’ambito del convegno sarà presentato il volume “Illuminato Fichera. La libertà nell’era del carcere” firmato da Daniel Monni e Carmelo Musumeci. Napoli: convegno sulle carceri, il libro nero della riforma a metà Il Mattino, 9 marzo 2019 Un confronto a più voci sulle condizioni delle carceri nel distretto napoletano, alla luce della pubblicazione del libro “La riforma dell’ordinamento penitenziario” (sui decreti legislativi del 2 ottobre del 2018). Sono intervenuti gli autori del testo, gli avvocati Riccardo Polidoro, Gabriele Terranova, Franco Villa; il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati Antonio Tafuri, il presidente della camera penale Ermanno Carnevale, l’avvocato Anna Ziccardi (carcere possibile). Ad animare il dibattito, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia, la penalista Sabina Coppola (consigliere della camera penale), il penalista Massimo Vetrano (commissione carcere) l’avvocato Domenico Ciruzzi (già vicepresidente dell’unione camere penali). Approcci e metodi diversi, che hanno comunque stigmatizzato i limiti della riforma dell’ordinamento penitenziario. Benevento: incontro seminariale su “Costituzione e funzione della pena” realtasannita.it, 9 marzo 2019 “L’integrazione sociale del condannato”. In occasione del ciclo dei seminari multidisciplinari organizzati per i 70 anni della Costituzione dall’Università Giustino Fortunato, la cattedra di Diritto penale propone l’incontro seminariale dal titolo “Costituzione e funzione della pena. L’integrazione sociale del condannato”. La giornata si aprirà con i saluti del rettore dell’UniFortunato, Angelo Scala, del presidente Acli Benevento, Danilo Parente, e di Giuseppe Maria Palmieri, docente di Diritto penale dell’Università Giustino Fortunato, che presenterà l’incontro. Si confronteranno sul tema anche Marianna Adanti, vicedirettore della Casa Circondariale di Benevento e Carlo Longobardo, docente di Diritto penale all’Università Federico II di Napoli, con la moderazione del giornalista Alfredo Salzano. Interverranno anche Michelangelo Fetto, presidente Compagnia Stabile Solot di Benevento e Giuseppe De Vincentis, protagonista del docu-film “Fine pena. Il futuro oltre le sbarre”, che verrà proiettato durante la seconda parte dell’incontro. Il docu-film “Fine pena. Il futuro oltre le sbarre”, realizzato dalla Compagnia Stabile Solot all’interno della Casa Circondariale di Benevento nell’ambito del progetto “Limiti” (finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale), ruota attorno alle storie di quattro detenuti, scelti, fra gli altri, per la reale volontà di cambiamento e per la capacità dimostrata nel saper trasformare i propri limiti in prospettive e possibilità di autorealizzazione. L’obiettivo del lavoro è stato quello di inserire un gruppo di giovani operatori culturali in un contesto che si propone di riabilitare, nella società, giovani in condizioni di disagio. Il progetto “Limiti”, è stato presentato al pubblico nel dicembre 2014 e ha coinvolto operatori e detenuti in qualità di attori impegnati in un laboratorio teatrale che è durato 6 mesi. Le cattedre di Diritto penale dell’Università Giustino Fortunato di Benevento e dell’Università Federico II di Napoli, con i propri studenti, hanno partecipato in più occasioni al laboratorio teatrale all’interno della Casa circondariale di Benevento al fine di favorire ed arricchire la formazione degli studenti su temi importanti quali, su tutti, la funzione di reinserimento sociale prevista dalla Costituzione. Napoli: “Adotta uno scrittore”, Lorenzo Marone incontra i detenuti di Secondigliano Gazzetta di Napoli, 9 marzo 2019 I libri sono mondi in formato tascabile, in grado di regalare attimi di libertà e di evasione a chi ha l’ardire di iniziarli e perdercisi. Ma hanno anche il potere, se non di condurci in un altrove, quantomeno di ridipingere le nostre gabbie, mentali o fisiche, rendendole sostenibili. Con questo intento “Adotta uno scrittore”, progetto del Salone Internazionale del Libro sostenuto dall’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte, da anni porta gli autori del panorama contemporaneo italiano nelle scuole carcerarie piemontesi. Dopo l’esperienza nazionale dello scorso anno, che ha visto l’adozione di Carlos Spottorno presso la Casa di Reclusione di Pontremoli, per l’edizione 2019 rinnova la sua rete grazie alla collaborazione con il Cesp (Centro studi scuola pubblica - Rete nazionale delle scuole ristrette) e la amplia al Sud Italia, grazie alla collaborazione con la Fondazione Con il Sud, coinvolgendo quattro scuole carcerarie: la Casa Circondariale Secondigliano a Napoli, la Casa Circondariale Ettore Scalas di Cagliari, la Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo e l’Istituto Penale Minorile E. Gianturco di Potenza. “I giovani che partecipano ad Adotta uno scrittore hanno una grande opportunità: quella di appassionarsi alla lettura e alla cultura, due strumenti fondamentali per essere liberi e poter scegliere che cosa diventare - afferma il Presidente dell’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte Giovanni Quaglia. L’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte è da sempre al fianco di questo progetto, perché fa crescere nuovi semi di sapere, dialogo e bellezza nelle scuole e in alcuni luoghi-simbolo di fragilità e marginalità, come gli istituti carcerari, in modo che il valore della lettura possa coinvolgere anche chi è più in difficoltà”. “La letteratura è bellezza, potenzialmente a disposizione di tutti ma non sempre accessibile - sottolinea Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud. Educare a riconoscerla, portandola in luoghi come le carceri minorili vuol dire consegnare a tanti ragazzi, che hanno vissuto e vivono tuttora una situazione di svantaggio, uno strumento di liberazione. Siamo convinti che attraverso la cultura si possano aprire opportunità vere di riscatto”. Le prime adozioni, in programma entrambe martedì 12 marzo, sono presso la Casa Circondariale Secondigliano - Istituto Tecnico Commerciale Caruso di Napoli e l’Istituto Penale per Minorenni (Ipm) “E. Gianturco” all’interno dell’Istituto Penale Minorile E. Gianturco di Potenza. Il primo ha adottato Lorenzo Marone, avvocato e autore, tra gli altri, de La tentazione di essere felici (Longanesi, 2015), Magari domani resto (Feltrinelli, 2017), Cara Napoli (Feltrinelli, 2018). Un incontro significativo, quello tra Marone e i reclusi, per un autore originario della città che lo adotta, e che instaurerà con i reclusi una relazione, durante i tre incontri in programma, fatta di letture, scambi liberi, confronti e dialoghi. Un percorso che culminerà con riferimenti al romanzo Un ragazzo normale (Feltrinelli, Premio Giancarlo Siani 2018) di Marone, ambientato anch’esso nella Napoli del Vomero, quartiere in cui lo scrittore è cresciuto. La vita del protagonista Mimì e della sua famiglia si intrecciano con quella coraggiosa di Giancarlo Siani, vittima di un attentato di camorra proprio nel 1985, anno in cui le vicende sono ambientate. Ma per precisa scelta dell’autore, questo non vuole essere un libro su Giancarlo Siani quanto un percorso da fare con lui, attraverso la storia di una famiglia ordinaria, di un bambino speciale e di un contesto storico che è quello degli anni Ottanta. Ciò che Marone riesce a tratteggiare con abilità e con il consueto garbo che lo contraddistingue è senz’altro la scintilla che abita nel cuore e nella mente di Mimì, la forza propulsiva che lo porta a coltivare grandi sogni, senza paura, piuttosto con la spavalderia e qualche volta l’arroganza di chi nulla teme di fronte all’ideale primario di giustizia che lo anima. Sarà invece Gaetano Cappelli lo scrittore, in uscita per Marsilio con La vedova, il santo e il segreto del pacchero estremo, commedia brillante e irriverente che consente di svelare segreti, paradossi e follie del mondo dell’arte contemporanea, che si recherà all’Istituto Penale per Minorenni (Ipm) “E. Gianturco” all’interno dell’Istituto Penale Minorile E. Gianturco di Potenza, sua città d’origine, per tre incontri. Gli autori adottati nelle Case di Reclusione del Sud Italia sono: Lorenzo Marone dall’Istituto Tecnico Economico “E. Caruso” presso la Casa Circondariale Secondigliano di Napoli (prossimi appuntamenti: 3 e 16 aprile); Flavio Soriga dal Cpia 1 presso la Casa Circondariale Ettore Scalas di Cagliari (in fase di definizione); Evelina Santangelo dal Cpia 1 presso la Casa di Reclusione Pagliarelli di Palermo (prossimi appuntamenti: 29 marzo, 17 aprile e 2 maggio); Gaetano Cappelli dal Cpia 1 presso l’Istituto Penale Minorile E. Gianturco di Potenza (prossimi appuntamenti: in fase di definizione). “Adotta uno scrittore” ha accresciuto la sua notorietà negli anni e i suoi numeri riflettono l’azione energica e costante. 340 gli autori adottati, 336 le classi, 4 le case di reclusione, a cui si aggiungono 1 ospedale, 1 sede universitaria, per un totale di 10.374 studenti coinvolti. 138.000 è invece il numero dei ragazzi entrati gratuitamente al Salone Internazionale del Libro grazie all’Associazione. Venezia: Festa della donna anche in carcere. L’On. Pellicani “fare di più per i bambini” di Marta Gasparon Il Gazzettino, 9 marzo 2019 Porre l’attenzione su una realtà troppo spesso dimenticata al di là di ogni retorica. Questo il motivo della visita di ieri dell’on. Nicola Pellicani, ieri in visita nel carcere femminile dell’isola della Giudecca. A fornire l’occasione è stato il pomeriggio di festa per detenute e amici organizzato in occasione dell’8 Marzo dal Granello di Senape, insieme alle diverse associazioni e cooperative che operano all’interno del luogo detentivo da più di vent’anni. Con lui, tra gli altri, anche l’assessore alla Coesione sociale Venturini e il presidente della Municipalità Martini. “Queste realtà di volontariato evidenzia Pellicani sono molto attive e hanno consentito di fare della Giudecca, una delle uniche tre strutture in Italia esclusivamente femminili, una realtà pilota per ciò che riguarda le attività lavorative e i laboratori”. Tra queste la cura dell’orto di prodotti biologici certificati che vengono venduti all’esterno del carcere settimanalmente, la lavanderia e la sartoria. E tra le circa 90 detenute, più di 60 sono impegnate in attività di questo tipo. “Va fatta chiarezza afferma sulla tragica scomparsa dell’agente penitenziaria Maria Teresa Trovato Mazza, detta Sissy, ma la vicenda non deve interferire su quanto si sta svolgendo di positivo nel carcere”. La riflessione di Pellicani continua in merito all’Icam uno dei pochi nel nostro Paese dove all’interno dell’istituto penitenziario mamme e bimbi fino ai 6 anni vivono insieme e che, nonostante assomigli più ad un asilo che ad una prigione, rappresenta pur sempre una limitazione della libertà dei minori. “Una proposta che lanceremo a livello nazionale come Pd è quella di un osservatorio per capire come questi bambini vivono il loro percorso educativo e formativo e vedere di trovare una soluzione perché non possono ricadere su di loro colpe che non hanno. Insomma, a questi bambini bisogna garantire un futuro normale”. Un ambiente positivo e collaborativo, quello della Giudecca, parere espresso anche dalle detenute. Tuttavia, come sottolinea Pellicani, sono evidenti delle carenze dal punto di vista infrastrutturale. Urgente appare la dotazione di un sistema di videosorveglianza. “Una carenza che deve essere colmata, il cui intervento è richiesto dalle agenti penitenziarie stesse che vedrebbero così alleggerito il proprio lavoro”. E quello dello spazio riservato al personale circa 100 gli agenti è un altro problema che deve essere affrontato: nella caserma sono infatti 5 per stanza. “Di tutti i problemi individuati nel corso di questa mia visita e di quella precedente, presenterò al Ministro della Giustizia un’interrogazione urgente: questo fa parte del mio impegno per la città”, le parole di Pellicani che ha incontrato anche Manuela Cacco e Susanna Lazzarini, entrambe ritenute responsabili di reati molto gravi e protagoniste di recenti fatti di cronaca nera. Se la prima ribadisce la sua difficoltà ad accettare la realtà dell’ambiente carcerario, pur riconoscendo di trovarsi bene alla Giudecca dove frequenta anche corsi di estetista e di maschere, la seconda impegnata in cucina dice che vorrebbe lavorare ancora di più per poter saldare i debiti che non vuole lasciare ai figli. “È bello vedere anche quest’anno tanti ospiti. Quella di oggi il commento di Antonella Reale, direttrice del carcere è una giornata serena e in questo momento credo che la parola serenità sia importante in quanto ultimamente non l’abbiamo vissuta molto. Confidiamo di ritrovarla presto”. Castrovillari (Cs): mimose alle detenute, il dono del Vescovo Savino di Domenico Marino Avvenire, 9 marzo 2019 “A te donna, prigioniera del male che ti colse da colpevole o vittima, ridotta a giorni da scontare in detenzione: un rametto di mimosa con il profumo della primavera ti rechi l’annuncio del riscatto pagato per te e tutti da Gesù, il Signore, trafitto sulla croce. Ogni colpa è redenta la libertà restituita e garantita. Anche tu, figlia dell’unico Padre, sei beata!”. Lo ha scritto il vescovo di Cassano all’Jonio, Francesco Savino in un messaggio che ha consegnato ieri mattina alle detenute del carcere di Castrovillari, dove il presule si reca spesso. In occasione della festa della donna, il vescovo Savino ha portato nel penitenziario anche mazzi di mimose. Negli anni passati aveva ricordato l’8 marzo sulle strade della Piana di Sibari, tendendo la mano alle troppe ragazze che vendono il loro corpo per poche decine di euro. “Cara sorella, la Chiesa di Cassano è anche con te, se vuoi. Con tutte voi per segnare una svolta e dare inizio a un percorso di liberazione. Sottrarsi alla violenza di cui sei vittima”, era scritto per offrire loro un’occasione di tirarsi fuori dal gorgo della prostituzione. Come certamente significativa è stata la Lettera che il vescovo di Cassano all’Jonio ha dedicato per questa Quaresima al tema “la Croce di Cristo, essenza delle Beatitudini”. Pozzuoli (Na): una margherita per le donne, “pizzata” in carcere con le detenute ilmeridianonews.it, 9 marzo 2019 È stata una “Festa delle donne” che non dimenticheranno tanto facilmente le detenute del carcere Femminile di Pozzuoli che oggi hanno partecipato alla “pizzata” organizzata dalla “Pizzeria Rione Terra” in collaborazione con la parrocchia “Santa Maria della Consolazione”. Oltre 200 pizze margherita sono state cucinate nel forno a legna del carcere e servite ad altrettante detenute che per un giorno hanno potuto riassaporare la tradizione della vera pizza napoletana. La manifestazione, denominata “8 marzo: una margherita per le donne”, è il frutto di una sinergia tra chiesa e imprenditoria locale finalizzata alla socializzazione e all’integrazione. “Abbiamo voluto regalare una giornata alle detenute nel giorno della festa delle donne. -spiega Padre Pier Paolo Mantelli, parroco della chiesa “Santa Maria della Consolazione” - Seguiamo le linee di don Fernando Carannante e facciamo del nostro meglio per dare loro un sostegno con diverse iniziative tra i quali il corso di lettura portato avanti dalla nostra operatrice Francesca Di Bonito”. Le pizze sono state offerte e servite dallo staff della “Pizzeria Rione Terra” insieme a un gruppo di volontari che hanno fornito la materia prima, realizzato gli impasti e servito ad ogni donna (personale carcerario compreso) le pizze. “Il nostro obiettivo era quello di regalare una giornata di socialità all’insegna del buon cibo e della tradizione napoletana. Vista la buona riuscita dell’evento l’anno prossimo riproporremo questa iniziativa” conclude Massimo Avallone, titolare della Pizzeria “Rione Terra”. Volterra (Pi): teatro in carcere, il progetto “Per aspera ad astra” news.in-dies.info, 9 marzo 2019 Il progetto sperimentale “Per aspera ad astra” parte dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, raggiungendo livelli di eccellenza. L’iniziativa nasce con l’obiettivo di tracciare un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. L’esperienza di Armando Punzo testimonia come sia possibile lavorare in questi contesti nell’interesse del teatro, delle arti e dei “mestieri del teatro”, oltre che per le finalità rieducative e risocializzanti. La divulgazione e la promozione del “teatro in carcere” significa anche permettere di abbattere la separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile, così da creare un clima di consapevolezza rispetto al compito che essi assolvono: operare per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop realizzati all’interno degli Istituti di Pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di Polizia e del personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. Il progetto, promosso e sostenuto da Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio Spa, comprende sei compagnie di teatro carcere e sei Fondazioni di origine bancaria: oltre alla Compagnia della Fortezza (Casa di Reclusione di Volterra) - Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, anche Opera Liquida (Casa di Reclusione di Milano Opera) - Fondazione Cariplo, Teatro dei Venti (Casa Circondariale di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia) - Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Compagnia degli Scarti (Casa Circondariale di La Spezia) - Fondazione Cassa di Risparmio di La Spezia, Baccanica (Casa Circondariale di Palermo) - Fondazione con il Sud, Teatro e Società (Casa Circondariale di Torino) - Compagnia di San Paolo. Opera Liquida, fondata e diretta da Ivana Trettel, è attiva dal 2009 nella Casa di Reclusione Milano Opera dove produce spettacoli originali a partire da temi di scottante attualità. È composta da detenuti ed ex detenuti, che negli anni, uscendo, hanno voluto continuare a fare teatro. L’ultima produzione affrontata, anche grazie a Per aspera ad astra, è stata “Disequilibri circensi”, con un anteprima lo scorso giugno al Castello Sforzesco e il debutto nello Stabile in Opera, il teatro da 400 posti del carcere, in una serata sold out, durante la 7° Edizione del Festival “Prova a sollevarti dal suolo”, per pubblico misto di detenuti e civili, lo scorso ottobre. Lo spettacolo, ambientato in un circo, parla di distanze, di diversità, di migrazioni, non solo di quelle fisiche, ma anche di quelle emotive. Spettacolo vincitore del premio “Enea Ellero per il Teatro Sociale 2018”, sarà in scena il prossimo 5 maggio a Campo Teatrale, a Milano. Diverse le repliche in corso anche della precedente produzione: “Undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama”, contro la violenza sulle donne. Attualmente la compagnia è impegnata sulla nuova produzione “Noi guerra!”. Ancora una volta, secondo la nostra cifra stilistica, lo spettacolo non affronta il tema della guerra solo come fenomeno sociale o storico. Attiviamo la nostra lente di ingrandimento emotiva, anche per scoprirne risvolti più profondamente umani. Per comprendere quali siano i processi che portano una persona a fare la guerra a sé stesso, diventando così il proprio peggior nemico. Nel tentativo di quell’aggancio empatico che permetta una riflessione profonda in chi vorrà ascoltarci. Il laboratorio teatrale si svolge per tutto l’arco dell’anno e comprende il laboratorio drammaturgico, fucina dalla quale componiamo le nostre drammaturgie collettive. Grazie al Progetto Per aspera ad astra, oltre alla formazione degli attori abbiamo potuto realizzare anche un corso di formazione professionale per tecnici audio luci, condotto da Luca De Marinis e Domenico Ferrari e Alessia Gennari per la parte teorica di Storia della tecnica. Questo ha permesso, oltre che di formare i tecnici, di accoglierne un paio stabilmente in compagnia e di avere competenze interne, per la gestione delle attrezzature del teatro, che sono state incrementate, con anche interventi di ristrutturazione del palco. Il terzo laboratorio avviato è stato quello di Costume teatrale. In perfetta sinergia con il Direttore della I Casa di Reclusione Milano Opera, dott. Silvio Di Gregorio, abbiamo allestito una sala dedicata, con macchinari professionali. Il laboratorio di formazione professionale, condotto da Salvatore Vignola, stilista d’alta moda, e Silvia D’Errico, docente di modellistica e sartoria. Il gruppo si è dedicato alla progettazione dei costumi, per la nuova produzione di Opera Liquida “Noi guerra!”. Il lavoro è ancora in corso con straordinari risultati. Seminatori d’odio, la “peste” che si propaga nel terzo millennio di Giuseppe De Marzo Il Manifesto, 9 marzo 2019 “Lettera a un razzista del terzo millennio”: l’ultimo testo di don Luigi Ciotti, per le edizioni Gruppo Abele. “Il tempo che viviamo è segnato da una dittatura dell’effimero, da un eterno presente in cui tutto accade senza lasciare traccia. Conta l’emozione, il clamore, la polemica del momento, ma poi tutto finisce lì, soppiantato da altre emozioni, clamori, polemiche. Calato il polverone dell’emergenza, il passaggio che si offre ai nostri occhi è sempre lo stesso, solo più desolante e trascurato. I tempi sono bui e le prospettive ancor più fosche. Ma non abbandoniamo la speranza, a patto che non sia generica e di maniera”. È uno dei passaggi dell’ultimo testo di don Luigi Ciotti, appena uscito in libreria: Lettera a un razzista del terzo millennio (edizioni Gruppo Abele). Circa 80 pagine scritte dando del tu, come spesso fa il fondatore del Gruppo Abele e di Libera. Una lettera densa di riflessioni, ricca di spunti, severa e giusta nei giudizi, che non cede a semplificazioni e scorciatoie. Un testo diretto, in cui vengono smontati luoghi comuni e ipocrisie, ma che allo stesso tempo chiede a ciascuno di noi un impegno ulteriore: “Non possiamo e non dobbiamo accettare il mondo così come è”. Abbiamo bisogno di gesti esemplari e conflittuali, con il limite del rispetto della dignità e dell’integrità fisica delle persone, perché “oggi sono le leggi a dare diritto di cittadinanza al razzismo”. Don Ciotti evidenzia come, da tempo, le misure sanzionatorie prevalgano su quelle di inclusione, nonostante la loro inefficacia: vedi la Turco-Napolitano, a cui ha fatto seguito la Bossi-Fini, il Testo Unico sull’immigrazione, il decreto Minniti-Orlando, sino al decreto Salvini. La vera posta in palio è la messa in discussione dell’universalità dei diritti e, dunque, l’idea stessa di uguaglianza. “Non si persegue più una politica per il bene comune e per la dignità delle persone, mentre ci si vanta di perseguitare e di essere cinici”, afferma. Una Lettera la sua che non fa sconti a nessuno, in cui emergono chiare le responsabilità della fase in cui siamo. Per don Ciotti “il razzismo è a volte provocato o alimentato da situazioni di disagio reale, sfruttate dai seminatori di odio; per rimuoverlo non basta richiamare solidarietà e principi, ma bisogna affrontare concretamente i problemi con proposte e risposte efficaci, avendo come obiettivo non la solidarietà ma il diritto e la giustizia sociale per tutti”. Usare le categorie del diritto e della giustizia aiuta a smontare le grandi ipocrisie e bugie con cui viene fabbricato il consenso dei seminatori d’odio - “invasione”, “prima gli italiani”, “aiutiamoli a casa loro”. Nel testo, emergono le responsabilità di chi ha governato in questi ultimi vent’anni, di “una politica che svende l’etica in cambio del potere quando alimenta e sfrutta le paure invece che ragionare e lavorare per risolvere i problemi a partire dalla loro complessità”. Don Ciotti mette insieme le cause e gli effetti delle migrazioni con le “falle” del sistema economico, denunciandone i limiti. Ad esempio sappiamo che decine di milioni di persone a causa dei cambiamenti climatici sono costrette a lasciare le loro case. Senza alternative radicali continueranno a migrare, “ma di alternative radicali non si vuole parlare perché bisognerebbe dire e riconoscere le responsabilità del modello economico liberista, la sua insostenibilità sociale e ambientale che ci porta proprio in questa situazione”. Chi ha potere oggi nasconde le proprie responsabilità e le sposta sui più deboli. L’autore denuncia poi le colpe del sistema nella costruzione del populismo, così come ne smonta le ragioni. Allo stesso tempo, ricorda che in assenza di una politica fondata su una visione complessiva, sistemica e interdisciplinare sia più facile diffondere la “peste” del rancore e del razzismo grazie all’aumento delle disuguaglianze, causato proprio dalle stesse politiche economiche dei seminatori d’odio. Producendo così le condizioni per invocare l’uomo forte, descritte come l’anticamera del fascismo. “Il fascismo che riemerge è il sintomo di una democrazia malata e di una politica che non serve più il bene comune. L’impegno deve essere di tutti e non limitato alla solidarietà. Si deve accogliere ed allo stesso tempo denunciare le cause dell’esclusione ed operare per eliminarle”. Nella “Lettera”, don Luigi ci esorta a ricostruire una civiltà che vive una profonda crisi di umanità. E lo fa con estrema franchezza, senza semplificazioni, indicando l’unica strada possibile: organizzare il dissenso e trasformarlo in progetto. Un progetto che deve partire dalle persone discriminate ed escluse, per ribellarci contro il conformismo, il condizionamento continuo, l’assopimento delle coscienze, ripartendo dalle relazioni e dalla conoscenza. “Trattate dagli uomini come schiave”. Stefania commuove Mattarella di Michela Tamburrino La Stampa, 9 marzo 2019 Cerimonia al Quirinale con i racconti delle torture subite. Il presidente: “Basta assistere inerti”. Girate di spalle per una vergogna non loro. Stefania e Hope, ironia di un nome, Speranza, che qui è un monito, fanno tremare di sdegno e commozione un parterre in gran parte femminile. Il salone dei Corazzieri al Quirinale profuma di mimosa per le celebrazioni dell’8 marzo. Loro due, che il presidente della Repubblica Mattarella si è detto “onorato” di ospitare, non si offrono agli sguardi indiscreti delle telecamere. Sono portatici di storie scabrose, costrette a prostituirsi, abusate, ingannate offese quando erano ragazzine. Girate, schiena al pubblico, non hanno potuto vedere l’effetto che le loro parole di pietra hanno prodotto. Lacrime dagli occhi lucidi della figlia del Presidente, Laura, del Presidente del Senato Casellati e della deputata pentastellata Carla Ruocco e occhi lucidi anche per un uomo, Vincenzo Spadafora che per il Governo ha la delega alle pari opportunità, per la prima volta un uomo come ha sottolineato con orgoglio parlando di diritti acquisiti delle donne che non possono essere messi in discussione. Il tema scelto quest’anno, “Mai più schiave”, declinato in atti d’orrore con donne protagoniste, ha avuto nelle due testimonianze il punto di sintesi più toccante. “Mi chiamo Stefania, ho 24 anni e vengo dalla Bulgaria”. Poi la cronistoria pacata di sogni spezzati e di una vita che chiedeva solo cibo quotidiano. L’arrivo in Italia con la promessa certa di un lavoro, invece la strada, le violenze fisiche e morali, i lobi degli orecchi mozzati, i capelli strappati, le piaghe sul corpo e la pancia bucata da chi le saltava addosso con i tacchi a spillo. Nessuno parla, gli occhi cercano terra, il Presidente Mattarella è turbato. Le accuse di Stefania e poi della nigeriana Hope sono fotocopie della stessa sciagura, avevano 17 anni quando l’incubo è cominciato, ragazzine che oggi accusano i clienti capaci di comprarle come carne al macello e ringraziano i carabinieri che le hanno salvate e la Comunità Papa Giovanni di Don Aldo Bonaiuto, anche qui un nome profetico, che le ha restituite alla vita. Le confortano le parole dure del Capo dello Stato che punta il dito contro “l’infame schiavitù del nostro secolo” e intima, “Nessuna tolleranza può essere mascherata da realismo o da opportunismo. La tratta va sradicata colpendo chi controlla il traffico delle schiave costrette a prostituirsi”. Ovazione anche quando ricorda Lina Merlin che sessant’anni fa dichiarò fuorilegge la prostituzione e che oggi, “sarebbe in prima linea contro la tratta di questo nostro tempo”. La sua battaglia, “che fu tappa importante nel cammino di liberazione della donna” va portata avanti: mai più “sfruttamento in qualsiasi campo, sociale e familiare”. Stefania e Hope lasciano il palco senza mostrarsi troppo ma la commozione è un virus dal facile contagio. Si stringono la mano. Festa grande, l’8 marzo quest’anno è il loro sorriso ritrovato. C’è ancora chi è giustiziato per droga, ma grazie all’Onu il fenomeno si riduce di Francesco Fabi* Il Dubbio, 9 marzo 2019 Le esecuzioni per reati non violenti, come il mero possesso di sostanze vietate, sono diminuite del 68 per cento grazie alla scelta delle nazioni unite di tagliare i fondi ai paesi che ancora ricorrono al patibolo. È stato pubblicato di recente il Rapporto annuale di Harm Reduction “La pena di morte per reati legati alla droga- 2018”. Accade purtroppo che le politiche repressive arrivino fino al punto di giustiziare persone per droga, e questo nonostante esista un limite, secondo gli standard internazionali, alla possibilità di applicare la pena di morte, ai soli “reati più gravi”. Un concetto che le Nazioni Unite hanno precisato con la definizione di reati “con conseguenze letali o estremamente gravi”, per cui le esecuzioni per reati di droga violano le norme internazionali sui diritti umani. Tant’è che, nel 2011, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) ha adottato delle linee guida perché sia posto termine agli aiuti al contrasto alla droga in quei Paesi in cui tale sostegno potrebbe facilitare le esecuzioni. Un certo numero di Stati europei, tra cui Regno Unito, Danimarca e Irlanda, ha già ritirato i finanziamenti a programmi dell’Unodc in Iran, primatista mondiale anche per esecuzioni per sostanze stupefacenti, e questo ha sicuramente contribuito alla revisione della normativa per contenere l’uso della pena di morte in questi casi. Eppure, come risulta dal Rapporto di Harm Reduction, ancora oggi 35 Stati mantengono la pena di morte per crimini di droga. La pena viene generalmente applicata per la coltivazione, produzione e traffico di sostanze. Purtroppo talvolta la pena si estende anche al loro solo possesso. Sono esclusi dal Rapporto i casi in cui si punisce con la pena di morte, ad esempio, l’omicidio connesso al traffico di droga, mentre lo studio si concentra su quei casi in cui la pena di morte viene applicata per crimini non violenti. Nella drammaticità della situazione, con le 91 persone giustiziate nel 2018 per crimini non violenti legati alla droga, emerge però il dato positivo del 68% in meno rispetto al 2017. Ha contribuito a questa decrescita principalmente una nuova legge in Iran dove le esecuzioni, fra il 2017 e il 2018 sono diminuite del 90% passando da 221 a 23. Più in generale fra il 2008 e il 2018 l’andamento del numero di esecuzioni ha registrato una crescita fra il 2008 e il 2010, passando da 168 a 706 casi, con valori altalenanti ma comunque mediamente alti fra il 2010 e il 2015, anno in cui si è raggiunto il record di 755 esecuzioni con una successiva decrescita fino alle 91 esecuzioni del 2018. Quattro i Paesi che hanno usato il patibolo per reati di droga lo scorso anno: Arabia Saudita, Iran, Singapore e Cina. Secondo-Harm Reduction, l’Arabia Saudita è stata responsabile del maggior numero di tali esecuzioni, mettendo a morte almeno 59 persone. L’Iran segue con 23 persone, poi Singapore, dove sono state messe a morte 9 persone. Quanto alla Cina, non vi sono dati tenuto conto che le notizie sulla pena di morte filtrano con difficoltà. In generale in questi anni queste esecuzioni per droga hanno rappresentato una percentuale consistente del totale delle esecuzioni compiute ogni anno nel mondo. Il rapporto, che analizza la situazione nei singoli Stati, mette anche in evidenza due tendenze generali opposte emerse in questi ultimi anni: da una parte vi sono state riforme che hanno portato ad una riduzione delle condanne a morte come ad esempio l’Iran; dall’altra parte una ripresa del sostegno politico a favore della pena di morte per reati non violenti legati alla droga come nel caso delle Filippine e dell’Indonesia da parte dei rispettivi presidenti Duterte e Joko Wedodo. Nel frattempo è intervenuta il 23 gennaio di quest’anno la decisione del Presidente dello Sri Lanka, Maithripala Sirisena, di riprendere, dopo 43 anni di sospensione, le esecuzioni per i narcotrafficanti. Importante è però leggere che è in corso un calo del supporto a queste pratiche da parte dell’opinione pubblica e questo aspetto fa ben sperare per il futuro. Le ragioni principali che permangono in quella parte di opinione pubblica favorevole alla pena di morte per reati connessi alla droga sono: che serve come deterrente (55%) e che favorisce la giustizia (37%), mentre un per un non trascurabile 7% “è che così si risolvono i problemi della droga”. Sta di fatto che la pena di morte è un retaggio del passato, un anacronismo per liberarsi dal quale Nessuno tocchi Caino con il Partito Radicale hanno portato al successo la moratoria universale delle esecuzioni capitali con una risoluzione che nel voto di dicembre da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha avuto il sostegno di 121 Paesi, mentre i contrari sono stati solo 35 e agli astenuti 32. Insomma, l’abolizione della pena di morte è un processo storicamente in atto che bisogna solo accelerare. Una politica di legalizzazione, anziché di repressione, dell’uso di sostanze stupefacenti darebbe un contributo enorme anche in questo senso. *Statistico, collaboratore di Nessuno tocchi Caino La sfida per la Norimberga siriana. “Porteremo alla sbarra Assad e i suoi” di Francesca Caferri La Repubblica, 9 marzo 2019 Nell’ufficio di Anwar al Bunni nel cuore di Berlino c’è un’unica fotografia. È quella di un uomo della sua stessa età, con i capelli grigi e lo sguardo lontano. Sotto all’immagine, una scritta in arabo e in inglese: “Avete visto quest’uomo?”. Segue numero di telefono. In realtà l’avvocato al Bunni non ha bisogno che qualcuno lo chiami per sapere che fine ha fatto l’uomo della foto: nell’ottobre del 2012 Khalil Maatouk stava andando a Damasco quando un gruppo di uomini in abiti civili lo ha fermato e portato via. Maatouk, legale specializzato in diritti umani, è stato visto l’ultima volta nel 2013 all’interno del Branch 325, famigerata prigione dei servizi segreti militari. “Il giorno in cui Khalil è scomparso ho capito che dovevo andar via: che se mi avessero preso di nuovo questa volta non ne sarei uscito vivo”. Anwar al Bunni, 60 anni, è un sopravvissuto: in carcere a Damasco ha passato sei anni, colpevole di aver promosso appelli in nome delle libertà civili. Due volte è sopravvissuto a tentativi di assassinarlo e in suo nome sono state lanciate campagne internazionali. Oggi questo signore affabile è dei più famosi avvocati siriani. Da sei anni vive a Berlino e ha un unico scopo: portare di fronte alla giustizia i responsabili della fine di Maatouk e degli altri 75mila siriani che, secondo Amnesty International, sono scomparsi nelle carceri del regime. Con la sconfitta definitiva dello Stato islamico ormai alle porte, il tema del futuro della Siria torna oggi di stretta attualità. Oltre alla vittoria sul terreno, due appuntamenti nelle prossime settimane consegneranno di fatto ad Assad il trionfo politico: a Bruxelles, l’Unione europea riunirà i Paesi donatori, quelli che ospitano i profughi (sei milioni) e rappresentanti della società civile per discutere di ricostruzione e futuro della Siria. In cui non si potrà prescindere dal presidente ritenuto responsabile della morte di decine di migliaia di persone. E a fine mese a Tunisi la Lega araba discuterà della riammissione di Damasco, espulsa nel 2011 per le violenze sui manifestanti. Ma se le cancellerie sembrano ansiose di voltare pagina, non così le vittime di otto anni di repressione e guerra civile: negli ultimi mesi le denunce contro Bashar al Assad e i suoi uomini si sono moltiplicate in tutta Europa. In Germania, Svezia, Francia, Austria e Spagna ci sono già procedimenti aperti contro il regime. E due giorni fa un gruppo di profughi per la prima volta ha presentato un esposto alla Corte penale internazionale dell’Aja perché indaghi sui crimini in Siria. “Vinceremo noi: porteremo i macellai di fronte alla giustizia. Ci vorrà tempo, ma non ho nessuno dubbio che ce la faremo”, dice senza esitazione al Bunni. Appellandosi al principio della giurisdizione universale, che consente di aprire processi contro i responsabili di crimini compiuti anche lontano dal territorio tedesco, e assistito dallo European center for constitutional and human rights (Ecchr), nel 2017 al Bunni insieme a 9 vittime ha presentato a Berlino una denuncia contro Damasco, la prima del genere. I risultati finora sono incoraggianti: un mandato di arresto contro Jamil Hassan, capo del servizio segreto militare siriano, e l’arresto di due funzionari siriani, che si nascondevano fra le decine di migliaia di profughi arrivati in Germania. Un’altra persona è stata arrestata in Francia. “Non c’è alternativa alla giustizia - commenta nel suo ufficio Wolfgang Kaleck, segretario generale della Ecchr - stiamo lavorando per il futuro. Il nostro modello è ciò che accadde al dittatore cileno Augusto Pinochet. Fu preso molto tempo dopo i crimini commessi, ma fu preso. Bashar al Assad, Ali al Mamlouk, il suo capo dei servizi segreti, e tutti gli altri, devono sapere che ogni volta che metteranno piede fuori dalla Siria ci sarà la giustizia internazionale ad aspettarli. Anche fra 20 anni”. Non dimenticare è l’imperativo che si è data Noura Ghazi Safadi, 37 anni: suo marito Bassel, uno degli animatori delle rivolte pacifiche del 2001, è stato ucciso nel 2015 a 34 anni nelle prigioni di Damasco. Noura lo ha saputo solo l’estate scorsa, quando il regime ha diffuso le liste di 8-9mila prigionieri morti. Mercoledì sarà a Bruxelles con il bus simbolo dell’associazione che ha fondato, Families for freedom, che porta in giro i volti delle vittime di Assad. “Non lasceremo che ci sia pace senza giustizia. Impediremo al mondo di dimenticare”, dice. Un pensiero condiviso da dozzine di registi, scrittori, intellettuali siriani della diaspora che negli ultimi mesi sul tema della giustizia e della memoria si sono interrogati ai quattro angoli dell’Europa. “Dovrà esserci giustizia - conclude al Bunni davanti alla foto del suo amico - il mondo deve capire che i massacratori non potranno essere parte del futuro della Siria. Se accadrà, fra qualche anno ne soffrirete anche voi: la rabbia, la frustrazione e la voglia di vendetta accecheranno un’intera generazione. Che anche a voi presenterà il conto”. Stati Uniti. Wikileaks, Chelsea Manning si rifiuta di testimoniare al processo: arrestata di Stefania Maurizi La Repubblica, 9 marzo 2019 Il Grand Jury ha stabilito che il rifiuto di Manning di collaborare è un oltraggio alla corte e pertanto va punito con la detenzione. Chelsea Manning finisce di nuovo in prigione per ragioni di coscienza. L’ex analista dell’intelligence Usa che ha passato i documenti segreti del governo americano all’organizzazione di Julian Assange, WikiLeaks, è stata rimandata in prigione per la sua scelta di non rispondere alle domande del Grand Jury di Alexandria, in Virginia, che vuole interrogarla in merito ai file che 9 anni fa passò a WikiLeaks. Il Grand Jury ha stabilito che il rifiuto di Manning di collaborare è un oltraggio alla corte e pertanto va punito con la detenzione di durata non meglio indeterminata “fino a quando non cambierà idea oppure fino a quando l’inchiesta del Grand Jury non sarà chiusa”. La sentenza è una vera e propria mazzata, considerando che, per la sua scelta di passare i documenti a WikiLeaks, Chelsea ha già subito un lungo processo davanti alla corte marziale, che l’aveva condannata a 35 anni. Lei ne ha scontati sette in una prigione militare in condizioni molto dure: i primi undici mesi furono così tremendi che il Rapporteur delle Nazioni Unite sulla Tortura, Juan Mendes, li condannò come “crudeli e inumani”. Di fatto, durante la detenzione, Chelsea Manning provò a suicidarsi due volte. Poi nel maggio 2017, uscì di prigione, grazie alla decisione del presidente Barack Obama di commutare la pena di 35 anni ai sette già scontati. La durissima prigione, però, ha lasciato segni molto profondi, tanto che l’anno scorso, mentre era ospite a Milano del Wired Festival, Chelsea avrebbe tentato di nuovo il suicidio. Non è difficile immaginare l’impatto che la nuova detenzione avrà su di lei. Eppure ha scelto di non collaborare con le autorità americane, che da ben nove anni tengono in piedi questa inchiesta del Grand Jury ad Alexandria per puntare a incriminare Julian Assange e la sua organizzazione per la pubblicazione dei documenti segreti. In particolare, i file passati da Chelsea Manning sono tra le rivelazioni più esplosive dell’organizzazione: il video “Collateral Murder”, in cui si vedeva un elicottero americano Apache sparare su civili inermi a Baghdad, mentre l’equipaggio rideva, 92mila documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, 391.832 file sulla guerra in Iraq, 251.287 cablo della diplomazia Usa e 779 schede segrete di tutti i detenuti di Guantánamo. Fin dal 2010, le autorità americane hanno provato a incriminare Assange e la sua organizzazione per queste pubblicazioni, ma l’amministrazione Obama ha di fatto accantonato il proposito: anche se ha sempre mantenuto in piedi l’inchiesta del Grand Jury di Alexandria, non ha mai proceduto all’incriminazione, anche perché non è chiaro come la giustizia americana possa incriminare WikiLeaks senza incriminare tutti i giornali, tra cui il nostro, che hanno pubblicato gli stessi documenti. Ora l’amministrazione Trump è tornata all’attacco e ci va giù molto pesante: due settimane fa, il Washington Post ha rivelato che uno dei sostenitori di Chelsea Manning, di nome David House, ha deciso di collaborare con le autorità americane rispondendo alle loro domande, mentre Chelsea oggi ha rifiutato ogni collaborazione. E rischia di pagare di nuovo un prezzo altissimo, semplicemente per aver rivelato la vera faccia delle guerre in Afghanistan, in Iraq e gli abusi della war on terror. Arabia Saudita. All’Onu 36 nazioni contro Riyadh per violazioni ai diritti umani La Repubblica, 9 marzo 2019 Per la prima volta un documento congiunto al Consiglio Onu per i diritti umani critica la potente monarchia del Golfo. C’è la firma di 28 Paesi Ue, Canada e Australia. Il rappresentante saudita: “È un attacco di natura politica”. Al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unric) un gruppo formato da 36 nazioni ha criticato con forza l’Arabia Saudita per i ripetuti casi di detenzioni arbitrarie, abusi e violazioni contro attivisti e dissidenti. Il comunicato congiunto emesso al termine della riunione è il primo documento “collettivo” di condanna verso Riyadh dalla nascita del Consiglio nel 2006. Esso chiede il rilascio di una decina di attivisti tuttora in carcere e maggiore cooperazione con il team di inchiesta chiamato a far luce sull’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi al consolato saudita di Istanbul. Immediata (e stizzita) è stata la replica della diplomazia saudita, che parla di attacco di “natura politica”. “L’interferenza negli affari interni - spiega Abdul Aziz Alwasil, rappresentante permanente all’Onu - con il pretesto di difendere i diritti umani è, in realtà, un attacco alla nostra sovranità”. Le crescenti preoccupazioni internazionali. Fra i 36 Paesi firmatari vi sono il Canada, l’Australia e tutte le 28 le nazioni che formano l’Unione europea, ma non gli Stati Uniti. Un fronte comune che testimonia le crescenti preoccupazioni internazionali verso le violazioni ai diritti umani e alla libertà di espressione perpetrate in seno alla monarchia sunnita. “Siamo preoccupati dall’uso delle leggi anti-terrorismo e da altre norme sulla sicurezza nazionale, che colpiscono individui i quali esercitano in modo pacifico i loro diritti e libertà”, si legge nel comunicato finale congiunto, letto dall’ambasciatore dell’Islanda Harald Aspelun. “I difensori dei diritti umani e i gruppi della società civile - prosegue il documento - possono e devono svolgere un ruolo vitale nel processo di riforma intrapreso dal regno”. La battaglia delle donne saudite. Le nazioni firmatarie concludono lanciando un appello alle autorità saudite per la liberazione di tutti gli attivisti. Fra questi, in concomitanza con la festa della donna che si celebra oggi 8 marzo, essi ricordano nove donne che si sono battute, fra gli altri, per il diritto alla guida e che in cella avrebbero subito violenze e abusi. Molte nazioni considerano Riyadh un alleato chiave nella regione mediorientale, spesso in funzione anti-iraniana. In passato le critiche per le violazioni ai diritti umani avvenivano solo nel contesto di colloqui privati, prive di ufficialità. Il documento di ieri rompe per la prima volta questi schemi. Le “riforme” di facciata di Bin Salman. La denuncia di detenzioni arbitrarie e violazioni ai diritti umani alle Nazioni Unite è solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi alle “riforme” di facciata promosse dal 33enne principe ereditario Mohammed bin Salman, nel contesto del programma Vision 2030. In realtà gli arresti di alti funzionati e imprenditori lo scorso anno, la repressione di attivisti e voci critiche, la guerra in Yemen con le vittime civili, anche bambini, e l’assassinio del giornalista dissidente Khashoggi gettano più di un’ombra su Riyadh.