La detenzione non è roba per ricchi di Valentina Stella Left, 8 marzo 2019 In nome della sicurezza si sacrificano diritti, avverte il Garante dei detenuti Mauro Palma. In carcere resta sempre più gente con una forte minorità sociale: analfabeti, chi non ha soldi per una tutela legale appropriata, o un domicilio da dare al magistrato per avere un permesso. L’Autorità garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale esiste per prevenire i fenomeni di tortura e altre pene o trattamenti crudeli inumani o degradanti nei luoghi di privazione della libertà (carcere, luoghi di polizia, centri per gli immigrati, Rems recentemente istituite dopo la chiusura degli Opg). È un organismo forse poco noto alle cronache (ma non ai lettori di Left) tuttavia fondamentale per monitorare quegli spazi al confine della nostra società, dove gli ultimi e i più deboli spesso escono fuori dal cono di luce delle garanzie. A presiedere l’Autorità c’è dal 2016 Mauro Palma. Lo abbiamo incontrato per fare il punto di quasi tre anni di attività. A proposito del caso Diciotti, il ministro Salvini ha dichiarato: “Se arrivasse un altro barcone rifarei ciò che ho fatto”. E alcuni esponenti dei 5Stelle hanno aggiunto che il sequestro dei migranti sulla nave della Guardia costiera è stato deciso in nome dell’interesse pubblico. Qual è il suo parere in merito? Se cominciamo a stabilire che in nome dell’interesse pubblico si possono violare le norme nazionali entriamo in un terreno estremamente scivoloso. l’ordinamento prevede una serie di norme, in parte di rango costituzionale. Il problema, in generale, è stabilire da parte dell’autorità giudiziaria se queste norme siano state violate oppure no. Qualora fosse stabilito che sono state violate in nome dell’interesse pubblico poco conta, in quanto non si possono violare i principi costituzionali per salvaguardare l’interesse pubblico. Sempre sul tema immigrazione, qual è la situazione nei Centri permanenti di rimpatrio (Cpr)? Siamo al fallimento di ciò che il decreto Minniti prevedeva, ossia che sarebbero dovuti essere piccoli, uno per regione, e non assomigliare ad un carcere. Per ora vedo raffazzonati adattamenti dagli antichi Cie (Centri di identificazione ed espulsione). Quando il tempo di permanenza nei Cpr arriva a sei mesi il problema diventa grande. Se è tollerabile, ad esempio, la mancanza di socializzazione per circa quattro settimane al loro interno, non lo è più quando arriva a sei mesi. Per ora quello che abbiamo appurato dalle nostre visite è che i Cpr sono distanti da quella idea del decreto 2017 a favore di strutture snelle; stiamo invece in presenza di una detenzione amministrativa. Passiamo al tema carceri. Al 31 gennaio nelle nostre carceri c’erano più di 60mila detenuti. Il sovraffollamento sta tornando ad essere un problema serio. Come mai? Poco fa guardavo i dati degli ingressi in carcere: sono diminuiti rispetto allo scorso anno. Nel 2018 sono entrate in carcere circa 47mila persone. Nel 2017 erano 49mila. Nel 2006 ne entrarono 81mila. Allora il problema del sovraffollamento non è a carico dei maggiori ingressi ma delle minori uscite. Perché escono di meno? In carcere c’è sempre più gente con una forte minorità sociale. Il carcere è sempre più “classista”. Rimangono dentro quelli che non hanno tutela legale appropriata, che hanno elementi di ignoranza rispetto alle regole, tanto è vero che in carcere è tornato l’analfabetismo, oppure semplicemente non hanno il domicilio da fornire al magistrato per il permesso. Quindi il sovraffollamento non interroga solo l’amministrazione penitenziaria ma innanzitutto il territorio affinché dia strutture di sostegno; poi interroga la magistratura di sorveglianza e poi il carcere. Si tratta di un problema che domanda realmente qualcosa alla società nel suo complesso. Il capo del Dap, Francesco Basentini, ha annunciato la costruzione di tre nuove carceri. Secondo lei è una soluzione adeguata? Ci sono tempi lunghi e numeri bassi in queste nuove costruzioni. Da un lato la società chiede sicurezza, dall’altro lato costruire carceri e avere nuovi posti è costoso, quindi dovremmo alzare le tasse. Noi dobbiamo interrogarci sugli altri strumenti: penso ai lavori socialmente utili per i reclusi e alle misure alternative. Lei presiede l’organo dal 2016. Volendo fare un bilancio di questi quasi tre anni, è lecito dire che si assiste ad un pericoloso arretramento sul tema dei diritti degli immigrati e dei detenuti? La situazione è peggiorata rispetto alle culture che ci sono intorno a questi problemi. Questo non è un problema solo italiano, ma appartiene allo scenario internazionale. All’epoca della complessità come valore, quella delle generazioni precedenti, si sta sostituendo quella della semplificazione forzata: chi è più decisionista ed evita la complessità dei problemi riscuote molto più successo. E un altro aspetto che mi lascia molto perplesso è che sta passando una idea di non sopportazione di chi pone problemi. È chiaro che la società è complessa, come lo è il tema immigrazione che ha a che vedere anche con la sicurezza urbana. Ma questa complessità non può essere superata da una semplificazione del tipo “chiudiamo i porti” o “cacciateli”. Lei ha subìto pesanti attacchi personali a seguito della presentazione della relazione sul 41bis. Ma il fenomeno dell’hate speech tocca in generale i soggetti più deboli: detenuti e immigrati. Come si può invertire la tendenza? Contrastando determinati fattori che possono apparire minori ma che per me sono importantissimi: io ho osteggiato un certo tipo di linguaggio che mi rendo conto venir fuori nei momenti di rabbia - penso ai quei vari “marcire in carcere” - e in questo la stampa ha una certa responsabilità perché si punta alla lite per far salire l’audience. Occorre una grande igiene del linguaggio a partire dal riconoscersi come una comunità in difficoltà. C’era un vecchio slogan: restiamo umani. Altrimenti si stabilisce una sorta di rapporto di inimicizia che va a riguardare i migranti, le persone detenute. Non sminuisco affatto il tema della sicurezza, ma contemporaneamente non bisogna perdere la bussola dei valori fondamentali che tengono insieme una collettività. Il governo ha ipotizzato di introdurre i referendum propositivi anche in materia penale. Lei cosa ne pensa? Ci sono certe materie in cui il plebiscitarismo non mi piace perché si tratta di questioni che richiedono la responsabilità di chi ha il mandato politico, anche con la funzione di dare una direzione al pensiero comune. Lo Stato deve garantire il punto di equilibrio tra esigenze diverse. Non dimentichiamo che tra Cristo e Barabba la piazza scelse di salvare Barabba. Lei oltre ad essere un giurista, nasce come matematico. In mondo dominato dalle fake news e come ha precedentemente detto dalle semplificazioni, quanto la scienza può aiutare a governare i fenomeni complessi? Credo che la scienza aiuti molto, soprattutto sul piano regolativo, ossia quello delle norme. Sul piano dei diritti fondamentali fu il logico Bertrand Russell a dare vita al famoso Tribunale Russell internazionale contro i crimini di guerra in Vietnam. Quando bisogna creare gli equilibri in materia di regolamentazione l’approccio un po’ freddo ma scientifico aiuta. Poi è chiaro che anche lo scienziato deve fare un bagno di umanità nel momento in cui agisce nei contesti umani e non in quelli di laboratorio. “Non siamo ai livelli della Torreggiani, ma il sovraffollamento è una realtà” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2019 Per il Garante Mauro Palma bisogna garantire effettivamente i 6 metri quadrati. “Purtroppo vige una cultura “cella-centrica”, dove si pensa che tutta la vita debba svolgersi all’interno della camera”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Basentini ha dichiarato che il sovraffollamento negli istituti penitenziari è un falso problema. Perché? Presto detto. “Adottando come parametro di riferimento i criteri e le prescrizioni dettati dagli organismi internazionali - ha spiegato Basentini, infatti, la capacità ricettiva degli istituti penitenziari è di gran lunga superiore alla soglia dei 60.000 detenuti, che attualmente vivono nelle carceri italiane”. Ma è vero? Il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma spiega a Il Dubbio che se adottassimo sulla carta il parametro del Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT) - che prevede come superficie minima desiderabile almeno 6 mq per la cella singola e 4 mq pro capite per la cella multipla - il problema rimarrebbe invariato. “Anche perché - sottolinea Palma - non si può fare un discorso puramente geometrico, perché in questo modo in maniera astratta potremmo mettere diversi detenuti in una unica cella e ciò non è possibile farlo concretamente, a meno che non si abbattano le mura per fare un enorme camerone”. Quindi cosa fare? Palma conferma che il problema è quello di garantire effettivamente i 6 metri quadrati, cosa che di fatto non avviene. Ma è vero poi, come alcuni scrivono, che il nostro sovraffollamento non sarebbe stato censurato dagli organismi internazionali se non avessimo avuto come parametro di riferimento i nove metri quadri? Il Garante smentisce questa affermazione. “Noi siamo stati sentenziati dalla Corte europea dei diritti umani, perché in quel momento avevamo ben 15 mila detenuti sotto la soglia minima dei tre metri quadri”. Infatti, va ricordato, che la Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani (ricorsi nn. 43517/ 09, 46882/ 09, 55400/ 09; 57875/ 09, 61535/ 09, 35315/ 10, 37818/ 10) - adottata l’8 gennaio 2013 con decisione presa all’unanimità - ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso, come è noto, riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Siamo fortunatamente ben lontani da quei numeri, però - come conferma il Garante Nazionale - il trend del sovraffollamento è in crescita. C’è anche un altro problema da scongiurare. “Non si può nemmeno pensare - spiega sempre il Garante di spalmare i detenuti su tutti gli istituti penitenziari dislocati nel territorio italiano per compensare il sovraffollamento che varia di carcere in carcere”. Il Garante si riferisce al rispetto della territorialità della pena, garantita dal nostro ordinamento penitenziario e rafforzata dalla recente riforma. “Bisogna pensare che va garantito anche il rispetto della territorialità della pena secondaria”, osserva Palma. Fa l’esempio dei detenuti reclusi per associazione mafiosa che ovviamente devono essere reclusi in un posto lontano dal suo territorio di appartenenza. “Ma una volta che si è stabilito in un carcere dove ha cominciato a instaurare rapporti con la Asl di competenza e altri attori del luogo, non può essere continuamente trasferito presso altre carceri come se fosse un pacco postale”. Quindi, in sostanza, anche abbassando i parametri di riferimento (e il Garante stesso dice che basterebbero rispettarli, non sulla carta, ma nella realtà), il sovraffollamento risulterebbe invariato. “Purtroppo - sottolinea - vige una cultura “cella-centrica”, dove si pensa che tutta la vita debba svolgersi all’interno della camera”. Palma fa l’esempio delle carceri spagnole dove le celle sono piccole, ma durante il giorno sono chiuse e il detenuto viene occupato a svolgere mansioni fuori dalle celle. “Da noi dovrebbero implementare la sorveglianza dinamica, non ridurla, proprio per non far sostare il detenuto tutto il giorno all’interno della cella”. Mauro Palma ribadisce ciò che disse durante l’ultimo congresso del Partito Radicale: “Le entrate sono stabili, ma sono diminuite le uscite”. Diversi sono i fattori per il quale diverse migliaia di detenuti sono dentro, nonostante hanno i presupposti per avere pene alternative al carcere. “C’è il fattore di marginalità sociale - spiega Palma, ovvero che non hanno la possibilità e strumenti per accedere, poi c’è il fattore culturale visto che se si tende a criminalizzare le misure alternative, la magistratura tende a darle di meno”. Il Garante tiene a precisare che non siamo assolutamente ai livelli della famosa sentenza Torreggiani, ma i detenuti dentro gli istituti sono in aumento e il sovraffollamento è crescente con punte del 120 percento. “Anche dentro uno stesso carcere - conclude Palma - convivono tipologie di sezioni che presentano punte maggiori di sovraffollamento tra di loro”. Quando si entra in un carcere femminile si trovano storie che sembrano di un’altra epoca di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2019 Qualche giorno fa ero nel carcere femminile di Rebibbia e mi sono trovata a parlare con alcune donne detenute. Una di loro commentava la paura che già immaginava di avere quando, tra pochi mesi, avrà finito la sua pena e la rilasceranno per le vie trafficate di Roma. Paura del rumore delle macchine, paura ad attraversare la strada. Metteva da parte i soldi per un taxi che la accompagnasse alla casa famiglia pur di non prendere l’autobus. Non doveva essere una grande criminale, pensavo io. Un’altra, non più giovanissima, mi raccontava di aver fatto varie brevi carcerazioni a causa di piccoli furtarelli che compiva per sopravvivere. Affermava con orgoglio di non voler andare a vivere in una struttura, di essere una persona indipendente. Ma i servizi sociali non volevano rimandarla ad abitare nel garage senza acqua corrente dove alloggiava prima. Lei però - sottolineava - li sapeva maneggiare i soldi, una volta aveva avuto 900 euro. Lavorava. Sperava di lavorare ancora. C’era stato un problema. Mi ha mostrato di sfuggita la mano senza un dito che teneva nascosta nella manica. Più tardi ho citato a un’operatrice l’incidente sul lavoro. No, non si era trattato di questo. Il dito glielo aveva staccato il compagno di un tempo. Quando si entra in un carcere femminile, ancor più di quando si entra in uno maschile, ci si trova di fronte a storie che sembrano arrivare da un’altra epoca e da un altro Paese. Una piccola e piccolissima delinquenza, pene brevi e spesso ripetute, fragilità, abusi, povertà, marginalità sociale, legami famigliari allentati o distrutti dallo stigma che la carcerazione porta con sé per una donna ancor più che per un uomo. A tutto questo si aggiunge spesso il baratro, il dolore atroce, il senso di colpa per la lontananza dai figli. “Non sono una brava donna”, rideva un’altra signora incrociata a Rebibbia, “altrimenti non stavo qua. Ma quando sono uscita dal carcere l’altra volta non avevo nulla, non c’era nulla che potessi fare e nessuno che mi aiutasse. Per vivere sono tornata a spacciare. Ma adesso è diverso, ora ho in mano un lavoro concreto”. Si riferiva al fatto che in carcere ha lavorato all’orto, ha imparato a curare le piante, è certa che verrà presa in un’azienda agricola. Non so se ciò accadrà. Mi auguro di cuore di sì. Ma so che l’istituzione potrebbe riuscire a dare una prospettiva a moltissime di queste donne, a evitare che tornino a delinquere alla fine della pena. Non si tratta di pericolose criminali, ma di persone che provengono da una marcata situazione di esclusione che il carcere rischia troppo spesso di approfondire ulteriormente. Le carceri e le sezioni femminili devono riempirsi di attività volte alla futura reintegrazione sociale. Attività autenticamente formative che non si limitino al taglio e cucito, attività raccordate con il mercato del lavoro esterno, con la formazione, con l’istruzione. Un’occasione è stata persa dalla recente riforma governativa dell’ordinamento penitenziario, che vedeva tra i punti della delega parlamentare quello - disatteso - di introdurre norme specifiche per venire incontro ai bisogni delle donne detenute. Molto si sarebbe potuto fare. Qualcosa - una banalità - la si potrebbe fare anche a situazione normativa invariata: le carceri interamente femminili in Italia sono solo quattro. La maggioranza delle donne detenute è reclusa in sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Spesso piccole sezioni cui la direzione dedica poca attenzione, concentrando le risorse umane ed economiche sulla parte maschile dell’istituto, ben più numerosa. I corsi scolastici, lo sport, le attività ricreative, la formazione professionale: tutto viene organizzato per le sezioni maschili. Ma basterebbe consentire a donne e uomini di seguire insieme un corso scolastico o di lavorare insieme per risolvere questo problema. La pratica della separazione diurna è veramente anacronistica e insensata. Detto tutto ciò, una domanda rimane al fondo di ogni riflessione sulla detenzione femminile: ma perché le donne delinquono tanto meno degli uomini? In Italia le donne detenute sono poco più del 4% della popolazione carceraria totale. E ciò accade più o meno in tutto il mondo. Tante le spiegazioni tentate. Perfino quella secondo la quale noi donne saremmo così inferiori da non essere capaci neanche di commettere un reato. Ma sia questa che quelle senz’altro maggiormente sensate non riescono a essere davvero soddisfacenti. Credo che se ci interrogassimo profondamente sulla questione potremmo capire molte cose della nostra convivenza sociale. *Coordinatrice associazione Antigone La radicalizzazione jihadista in carcere: un rischio anche per l’Italia di Francesco Marone ispionline.it, 8 marzo 2019 Martedì 5 marzo Michaël Chiolo, un detenuto radicalizzato del carcere di alta sicurezza di Alençon - Condé-sur-Sarthe, nel nord della Francia, ha ferito gravemente due guardie penitenziarie con un coltello di ceramica. Secondo le autorità d’Oltralpe, l’uomo avrebbe urlato “Allahu akbar” durante l’aggressione e avrebbe avuto l’intenzione di vendicare la morte di Chérif Chekat, il responsabile dell’attacco jihadista a Strasburgo dell’11 dicembre 2018. Convertito all’Islam, Chiolo si sarebbe radicalizzato in carcere e proprio in carcere avrebbe conosciuto e frequentato Chekat. La ministra della Giustizia francese ha confermato la natura terroristica dell’attacco. Questo episodio drammatico porta di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica il fenomeno della radicalizzazione jihadista in carcere, da anni una questione critica in tutta Europa, e non solo. Come è noto, una delle principali preoccupazioni è costituita dal rischio - purtroppo già tramutatosi più volte in realtà - che soggetti radicalizzati possano indottrinare e mobilitare altri detenuti “comuni”. In effetti, l’esperienza della reclusione può persino diventare una sorta di opportunità per proseguire la propria “lotta” estremistica, facendo, per così dire, di necessità virtù. In generale, i processi di radicalizzazione possono chiaramente essere favoriti in un contesto particolare come quello carcerario, che spesso è già caratterizzato da frustrazioni e risentimenti personali, condizioni di vulnerabilità ed emarginazione sociale e rigidi vincoli e limitazioni istituzionali. Le motivazioni che possono innescare una trasformazione dei sistemi di credenze e dei comportamenti di un detenuto, incluso un processo di radicalizzazione jihadista, sono varie e possono comprendere ricerca di significato e identità, desiderio di sfidare le autorità o il sistema in generale, ma anche bisogno di protezione fisica. Oltretutto, eventuali problemi di carattere organizzativo in prigione possono aggravare i rischi di radicalizzazione. Tali criticità possono interessare tutti i detenuti in generale (ad esempio, sovraffollamento, carenza di risorse umane e finanziarie, ecc.), ma anche - per quanto in modo non intenzionale - i detenuti musulmani nello specifico, tanto più se stranieri (per esempio, eventuali limiti nella preparazione culturale del personale penitenziario e/o difficoltà nella gestione delle esigenze legate alla pratica religiosa. Come delineato in una recente analisi Ispi, il problema della radicalizzazione jihadista in carcere riguarda anche l’Italia, per quanto su scala minore rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale come la Francia e il Regno Unito. In generale, secondo gli ultimi dati ufficiali (aggiornati al 28 febbraio 2019), in Italia i detenuti sono 60.348, distribuiti in 190 strutture penitenziarie. I detenuti stranieri sono 20.325, ovvero circa un terzo del totale (33,7%) e le nazionalità più rappresentate sono, in ordine decrescente: Marocco (3.762 detenuti), Albania (2.594), Romania (2.534), Tunisia (2.047) e Nigeria (1.588). Prendendo in considerazione i Paesi di origine, è possibile stimare che più di un detenuto su cinque possa essere di fede musulmana. Secondo la Relazione del Ministero della Giustizia del 2018, tra i detenuti di origine musulmana, “7.169 sarebbero ‘praticanti’”, ossia effettuavano la preghiera attenendosi ai principi della propria religione. Tra questi musulmani “praticanti”, 97 rivestivano la figura di imam, conducendo la preghiera, 88 si erano posti in evidenza come “promotori” (ovvero si erano proposti, nei confronti della Direzione del proprio istituto penitenziario, “come portavoce o paladini delle istanze degli altri detenuti”) e 44 si erano convertiti all’Islam durante la detenzione. La ricerca sulla radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane è ancora piuttosto limitata. Tuttavia, la minaccia potenziale appare seria anche nel nostro Paese, specialmente negli ultimi anni. Basti ricordare, per esempio, che Anis Amri, l’autore del grave attacco terroristico al mercatino di Berlino del 19 dicembre 2016, aveva avviato il suo percorso di radicalizzazione jihadista proprio nelle carceri siciliane, dopo esser stato condannato alla reclusione per reati non legati all’estremismo. Un anno fa la Relazione Annuale 2017 del sistema di intelligence italiano confermava autorevolmente che gli istituti carcerari rappresentano “fertile terreno di coltura per il “virus” jihadista, diffuso da estremisti in stato di detenzione”. L’ultima Relazione del Ministro della Giustizia sull’Amministrazione penitenziaria, pubblicata poche settimane fa, contiene nuovi interessanti dati a questo riguardo. Innanzitutto, il documento segnala che, alla data del 18 ottobre 2018, risultano essere presenti 66 detenuti imputati e/o condannati per reati afferenti al “terrorismo internazionale di matrice islamica” e specifica che costituiscono “il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. Questi soggetti sono inseriti in uno dei tre circuiti di Alta Sicurezza (AS) istituiti nel 2009, l’AS2, riservato a “soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza”. Nel complesso, i detenuti ascritti a questo circuito, includendo anche i soggetti reclusi per terrorismo interno (di estrema sinistra, di estrema destra e anarchico), risultano 94. Attualmente sono dislocati presso apposite sezioni degli istituti penitenziari di Rossano (Cs), di Nuoro e di Sassari, mentre una sezione femminile è presente presso la Casa circondariale dell’Aquila, con due detenute presenti. In aggiunta, in considerazione dell’innalzamento della minaccia terroristica, nel corso degli anni il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia - avvalendosi del Corpo della Polizia Penitenziaria (e, in particolare, di un suo reparto specializzato, il Nucleo Investigativo Centrale, NIC, istituito nel 2007) - ha adottato una serie di misure di vigilanza, sorveglianza, osservazione e controllo, di natura preventiva, volte a contrastare il fenomeno in carcere. Di particolare rilevanza appare lo strumento del monitoraggio di detenuti associati al rischio di radicalizzazione jihadista sulla base di tre distinti “livelli di analisi”: “primo livello - classificato Alto - raggruppa i soggetti per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o di reclutamento”; secondo livello - classificato Medio - raggruppa i detenuti che all’interno del penitenziario hanno posto in essere atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadista e, quindi, ad attività di proselitismo e reclutamento”; terzo livello - classificato Basso - raggruppa quei detenuti che, per la genericità delle notizie fornite dall’Istituto, meritano approfondimento per la valutazione successiva di inserimento nel primo o secondo livello ovvero il mantenimento o l’estromissione dal terzo livello”. L’ultima Relazione del Ministero della Giustizia rileva che i soggetti sottoposti al monitoraggio, alla data del 19 ottobre 2018, sono complessivamente “478, di cui 233 sottoposti al 1° livello - Alto, 103 al 2° livello - Medio e 142 al 3° livello - Basso”. Secondo il documento, questi detenuti “provengono principalmente da Paesi quali Tunisia (27,70%), Marocco (26,07%) Egitto (5,91%) e Algeria (4,68%) e hanno, per buona parte, un’istruzione medio-bassa”. L’individuazione di un processo di radicalizzazione jihadista costituisce il primo strumento utile per l’attività di prevenzione, tramite l’applicazione di diverse misure specifiche. Tra queste misure particolare rilievo ha assunto l’espulsione dal territorio nazionale. L’ultima Relazione del Ministero della Giustizia osserva che “dal 1° gennaio 2018, sono stati espulsi, all’atto della loro scarcerazione, ben 79 detenuti ritenuti pericolosi, in un trend che registra una continua e costante crescita”. Per quanto riguarda, in particolare, le espulsioni amministrative per ragioni di sicurezza dello Stato, strumento divenuto centrale nell’attività antiterroristica italiana, è stato recentemente e autorevolmente sottolineato che nel 2017 su un totale di 105 cittadini stranieri espulsi dall’Italia 29 provenivano dal monitoraggio carcerario (pari quindi al 27,6%), mentre nel 2018 il numero è salito a 48 monitorati su 126 allontanamenti adottati (38,1%). Questi numeri confermano la rilevanza del problema della radicalizzazione jihadista in carcere anche in Italia. Di fronte a queste nuove sfide, le autorità nazionali stanno hanno intensificato il loro impegno per identificare e contrastare la minaccia. Questi sforzi abbracciano non soltanto attività di identificazione e monitoraggio della radicalizzazione violenta in prigione e interventi per la gestione di soggetti considerati pericolosi dopo la scarcerazione, ma anche programmi di formazione del personale e iniziative di rieducazione e reintegrazione dei detenuti. A questo proposito, è importante sottolineare che, nonostante il fatto che gran parte dell’attuale discorso sulle carceri e la radicalizzazione sia generalmente negativo, le carceri non rappresentano solo una minaccia. Infatti, possono offrire un contributo positivo nell’affrontare i problemi dell’estremismo violento nella società nel suo complesso. Nel nuovo processo penale limiti ad appelli e notifiche di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 I principi di delega oggetto del confronto con Anm e Camere penali hanno come obiettivo il taglio della durata dei processi penali. La lunghezza nell’anno giudiziario 2017/2018 è cresciuta in primo grado del 17,5% (da 369 a 396 giorni), mentre l’appello ha registrato una riduzione del 3,4% dei tempi di definizione (da 906 a 861 giorni), pur attestandosi su valori elevati dai quali deriva il notevole tasso di incidenza delle prescrizioni nel grado, pari al 25% circa (25,8% nel 2017 e 24,8% nel primo semestre del 2018) delle definizioni Rafforzamento dei riti alternativi, limiti all’appello, potenziamento del ruolo del Pm, responsabilizzazione delle parti. Il tutto con un obiettivo chiaro: tagliare i tempi di durata. Lo schema di legge delega sul processo penale, al quale sta lavorando il ministero della Giustizia, rappresenta un passaggio chiave sul piano tecnico certo, ma anche politico. Entro marzo dovrà essere presentato in consiglio dei ministri, insieme ai criteri di delega per accelerare i giudizi civili, ed è tuttora oggetto di un confronto sia con l’Anm sia con le Camere penali. Lo snodo è certo delicato, anche perché all’entrata in vigore di misure acceleratorie è legato il destino di una misura chiave per la politica della giustizia targata 5 Stelle come la prescrizione. Nel merito, il pacchetto di misure recepisce alcune delle proposte formalizzate dall’Associazione nazionale magistrati e già contestate dai penalisti. A partire dalla modifica del sistema di notificazioni all’imputato che rappresentano, nella lettura dell’Anm, uno dei principali fattori di dilazione del processo e di ripetizione di atti, con conseguente slittamento dei tempi, avvicinarsi della prescrizione e disfunzioni per tutti i soggetti coinvolti nel processo. La causa sta nel meccanismo delle dichiarazioni ed elezioni di domicilio, che può prestarsi ad abusi e utilizzo strumentale, che ci si propone ora di abrogare. Infatti la bozza dei principi di riforma del processo penale prevede che tutte le notificazioni all’imputato successive alla prima siano effettuate al difensore, anche attraverso l’utilizzo della polizia giudiziaria. Difensore che sarebbe poi liberato da responsabilità per omessa o tardiva comunicazione all’assistito imputabile alla condotta di quest’ultimo. Quanto alle soluzioni per evitare la celebrazione di troppi dibattimenti, altra causa di rallentamento dei tempi storicamente poco coerente con il modello accusatorio, la bozza introduce, per le contravvenzioni, una diminuzione della pena fino alla metà su richiesta delle parti. Identica diminuzione poi, fino alla metà, se il patteggiamento è chiesto dalle parti nella fase delle indagini preliminari. E poi, estensione a 180 giorni dalla iscrizione della notizia di reato per potere chiedere il giudizio immediato; allargamento delle ipotesi in cui è possibile formulare la richiesta stessa a nuovi reati e al caso in cui la persona sottoposta a indagini preliminari è soggetta a misura cautelare diversa dalla detenzione. Ancora, e sul fronte delicato delle impugnazioni, a dovere essere estesi sono i casi di inappellabilità alle sentenze di condanna o di proscioglimento per reati sanzionabili solo con pena pecuniaria; sentenze di condanna a sanzione pecuniaria come risultato di una conversione di pena detentiva; sentenze di proscioglimento per reati punti con pena alternativa; condanne sostituite con lavori di pubblica utilità. Tra le cause di inammissibilità andrebbe poi introdotta la manifesta infondatezza dei motivi di appello ed eliminata la possibilità di presentare motivi aggiuntivi. Spazio anche a sanzioni per le parti private che hanno proposto un appello inammissibile. A venire ripristinata sarebbe poi la possibilità di appello incidentale da parte del Pm. L’Italia come il Far West, la Camera dice sì all’omaggio di Salvini alla lobby delle armi di Checchino Antonini Left, 8 marzo 2019 D’ora in poi la difesa sarà “sempre” legittima qualora ci si trovi “in uno stato di grave turbamento”. Più pistole per tutti, oppure pistole di cittadinanza (ovviamente per cittadini bianchi), sicuri ma da morire. Il medioevo è servito all’ora del tè quando la Camera approva il disegno di legge sulla legittima difesa aprendo uno squarcio nel tessuto giuridico, civile e morale di questo Paese. E si avvicina il pagamento della cambiale che Salvini ha firmato alla lobby delle armi leggere, orgoglio italico, anzi padano. “È un sacrosanto diritto per le persone perbene, di cui si parla da anni e che sarà legge entro questo mese”, dice Salvini. Dal 26 marzo il provvedimento passerà al vaglio del Senato per la terza lettura. Il provvedimento è passato con 373 voti favorevoli, 104 contrari e 2 astenuti. Al voto sono scoppiati gli applausi dei deputati di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. I deputati berlusconiani, anche se “avremmo voluto un testo più forte” (Gelmini disse), hanno le loro ragioni a esporre lo striscione: “Finalmente una cosa di destra”. Mentre la sponda destra, Fratelli d’Italia, ha votato sì ma “con rammarico” perché la considera “un compromesso al ribasso”. Quei 54 pentastellati che non hanno votato - Per i post-grillini è un altro rospo ingoiato, un segno della subalternità dell’attuale partito di maggioranza relativa al suo straripante socio di minoranza. “Sicuramente questa è una legge della Lega - aveva detto Di Maio in mattinata - quando si vota la legge sula legittima difesa, che è una legge che sta nel contratto e che per questo porteremo avanti perché noi siamo leali, non è che ci sia tutto questo entusiasmo nel M5s”. Prova a metterci una pezza il capogruppo M5s alla Camera, Francesco D’Uva, ma non è convincente: “Che nessuno si metta in testa che con questa legge ci sarà il Far West. Ci sarà sempre un’indagine e spetterà sempre al giudice valutare la legittimità della difesa. Una cosa è certa: è compito delle forze dell’ordine tutelare i cittadini e la loro sicurezza. Con questa legge di sicuro i processi sulla legittima difesa saranno più veloci”. Dai tabulati risulta che 29 deputati di M5s sono “in missione” e quindi sono assenti giustificati; altri 25 non hanno invece partecipato al voto. Un gruppo di pentastellati è rimasto in Transatlantico entrando in aula solo dopo la proclamazione del voto. Dai registri i parlamentari M5s che non hanno partecipato al voto sono: Giuseppe Brescia, Luciano Cantone, Vittoria Casa, Andrea Caso, Maurizio Cattoi, Sebastiano Cubeddu, Sara Cunial, Rina De Lorenzo, Chiara Ehm Yana, Luigi Gallo, Veronica Giannone, Angela Ianaro, Generoso Maraia, Maria Marzana, Leonardo Salvatore Penna, Riccardo Ricciardi, Cristian Romaniello, Gianluca Rospi, Francesca Anna Ruggiero, Francesco Sapia, Doriana Sarli, Giulia Sarti, Gilda Sportiello, Davide Tripiedi, Gloria Vizzini. Archivio disarmo e Antigone: “Ora siamo tutti meno sicuri” - “Investigatori, magistrati, giuristi ed esperti concordano sul fatto che non vi è alcuna necessità di una nuova legge sulla legittima difesa. La proposta vorrebbe eliminare definitivamente il principio di proporzionalità tra il bene minacciato dall’autore del reato e il bene offeso - spiegano decine di associazioni e intellettuali in un appello promosso da Archivio disarmo e Antigone, vorrebbe assicurare una sorta di immunità a chi usa le armi contro un presunto ladro. Si tratta di una grave forzatura della legge. Il principio di proporzionalità ha una sua origine costituzionale. Non si possono mettere sullo stesso piano la vita e la proprietà privata. La proposta mira poi a evitare l’intervento del giudice. L’azione giudiziaria è obbligatoria, non si può impedirne l’avvio sulla base di una presunzione di innocenza di chi uccide una persona. È il giudice a dovere sempre verificare i fatti. Il suo intervento è ineliminabile: in un Paese democratico solo un giudice può verificare l’esistenza effettiva di un’intrusione e accertarsi dell’identità e del ruolo della persona uccisa. Così com’è concepita, la riforma della legittima difesa metterà a rischio la sicurezza di tutti determinando un aumento esponenziale delle armi in circolazione e una conseguente maggiore probabilità del loro uso. Una silenziosa corsa dei cittadini ad armarsi individualmente non è la soluzione. Come dimostra l’esperienza degli Stati Uniti, la diffusione delle armi da difesa personale non fa altro che diffondere il senso di insicurezza e di sfiducia nelle istituzioni”. Le nuove norme - Il comma due dell’articolo 52 del Codice penale, secondo il ddl, dice dunque che è possibile utilizzare “un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo” per la difesa legittima della “propria o altrui incolumità” o dei “beni propri o altrui”. Viene inoltre introdotta un’ulteriore presunzione all’interno dello stesso articolo 52, in base alla quale sarebbe sempre da considerarsi in stato di legittima difesa colui che, legittimamente presente all’interno del proprio o dell’altrui domicilio (da intendersi in senso ampio, quale luogo ove venga esercitata attività commerciale, imprenditoriale o professionale), agisca al fine di respingere l’intrusione posta in essere dal malintenzionato di turno con violenza o minaccia. La legge interviene poi sull’articolo 55 del codice penale relativamente alla disciplina dell’eccesso colposo, escludendo, nelle varie ipotesi di legittima difesa domiciliare, la punibilità di chi, trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità. Viene poi modificato l’articolo 624 bis del codice penale, prevedendo che nei casi di condanna per furto in appartamento e furto con strappo, la sospensione condizionale della pena sia subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. Vengono inoltre rese più severe le sanzioni per una serie di reati contro il patrimonio: furto in abitazione, furto con strappo e condotte aggravate; rapina e ipotesi aggravate e pluriaggravate; e in caso di violazione di domicilio si considera aggravata quando è commessa con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato. Infine la legge interviene sulla disciplina civilistica della legittima difesa e dell’eccesso colposo, specificando che, nei casi di legittima difesa domiciliare, è esclusa in ogni caso la responsabilità di chi ha compiuto il fatto: in tal modo l’autore del fatto, se assolto in sede penale, non è obbligato a risarcire il danno derivante dal medesimo fatto. Si prevede, inoltre, che nei casi di eccesso colposo, al danneggiato sia riconosciuto il diritto ad una indennità, calcolata dal giudice con equo apprezzamento tenendo conto “della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato”. Infine viene introdotto il patrocinio a spese dello Stato in favore di colui che sia stato assolto, prosciolto o il cui procedimento penale sia stato archiviato per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo di legittima difesa. È poi previsto che nella formazione dei ruoli di udienza debba essere assicurata priorità anche ai processi relativi ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose verificatisi in presenza delle circostanze di legittima difesa domiciliare. Poco entusiasmo tra gioiellieri, tabaccai e benzinai - Gioiellieri, tabaccai e benzinai sebbene siano tra le categorie di commercianti più esposte ad attacchi criminali, sono contrari a trasformarsi in “giustizieri” e a impugnare la pistola. Invocano piuttosto maggiore sicurezza da parte delle istituzioni e chiedono inasprimento e certezza delle pene verso i malviventi che vengono assicurati alla giustizia. È quanto emerge da un’inchiesta dell’Adnkronos, svolta in occasione della discussione alla Camera del disegno di legge sulla legittima difesa. Numerosi sono gli episodi in cui i gioiellieri sono rimasti vittime ma a differenza di altri, si sentono un po’ più sicuri in quanto protetti da porte blindate e telecamere “deterrenti per il malvivente che magari può aver paura di vedersi bloccata la via di fuga”. “Siamo contrari, in linea di massima, ad armarci: vogliamo evitare il Far West”, ha detto Steven Tranquilli, direttore di Federpreziosi-Confcommercio. “Con una pistola puntata contro può capitare che si reagisca in preda all’emotività, all’ansia - prosegue Tranquilli - come capitò al gioielliere Carlo Barducci di Firenze che venne ucciso durante un tentativo di rapina nel suo negozio di via Strozzi il 20 dicembre 1992”. Oggi gli assalti alle gioiellerie vengono effettuati da veri e propri commandos di 6, 8 rapinatori a volto coperto, a bordo di furgoni e i gioiellieri avrebbero preferito “un inasprimento e della certezza delle pene”, cosa peraltro prevista dal nuovo disegno di legge. Una posizione quella della Federpreziosi che rispecchia quella di Confcommercio a livello generale. “La morte di una persona, qualunque sia la colpa, è una tragedia. Magari l’esasperazione e l’emotività possono portare a compiere gesti che mai avremmo voluto compiere”, afferma Anna Lapini, incaricata per la legalità e la sicurezza di Confcommercio. “Può accadere che dopo la persona non è più la stessa e magari è costretta a chiudere la propria attività, sia per una questione morale e anche perché non può sostenere le spese legali qualora debba subire un processo”. “Allo Stato noi chiediamo di garantire la sicurezza - aggiunge Lapini - ma dove questo non avviene è chiaro che deve contribuire ad aiutare gli imprenditori alle spese legali e in questo senso, la nostra richiesta formulata nel corso di un’audizione parlamentare, è stata accolta. Una norma che potrà permettere alle aziende di continuare a lavorare perché le statistiche ci dicono che il 95% di chi si trova in tali condizione chiude”. Tabaccai e benzinai avanzano richieste simili sul minor uso del contante nei loro esercizi per aumentare la sicurezza. “Noi chiediamo la diminuzione e, se possibile, l’azzeramento del contante ma per ottenere ciò dovrebbero diminuire le commissioni sulle carte e i costi dei Pos”, lamenta Paolo Uniti, segretario generale di Figisc Confcommercio. “In Italia il 50-60% dei clienti dei distributori di carburanti pagano in contanti - prosegue Uniti - mentre nel resto d’Europa chi paga con il bancomat è il 90%”. Nelle tabaccherie “circolano ancora molti, troppi, contanti”, sottolinea Giovanni Risso, presidente Fit-Confcommercio chiedendo “un occhio di riguardo su questo aspetto, per abbassare le commissioni sulle carte che gli esercenti devono pagare”. Tutti comunque dichiarano la propria contrarietà “ad armarsi, non è sicuro né per noi né per i clienti”. Anche Maurizio Invigorito, il tabaccaio di Afragola, che ha subito 12 rapine in tre anni, ribadisce la sua posizione: “Sono un obiettore di coscienza non potrei mai avere il coraggio di sparare, non avrò mai un’arma - sostiene Invigorito - altrimenti mi sarei arruolato nelle forze dell’ordine”. Solo il 10% di chi ha un’attività commerciale possiede un’arma e si riduce la quota di chi è propenso a dotarsene in futuro, secondo una recente indagine condotta da Gfk per la Confcommercio da cui emerge inoltre che il 92% dei negozianti è favorevole all’inasprimento delle pene. La “nuova” legittima difesa passa ancora dal giudice di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 Dopo l’approvazione alla Camera di mercoledì scorso, le modifiche al codice penale in materia di legittima difesa sono da considerare sostanzialmente definitive: l’ulteriore passaggio al Senato sarà solo per la rettifica della copertura finanziaria della difesa dell’aggredito, che nella nuova formulazione passa in carico allo Stato (articolo 8 del progetto di legge A.C. 1309-A). A uscire parzialmente ridisegnata è la legittima difesa domiciliare - cioè la combinazione tra l’articolo 614 del codice penale e l’articolo 52, già interessati dalla riforma del 2006 - grazie a un maquillage semantico sul “rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa” che sarà “sempre” sussistente. Tuttavia la norma deve essere letta in continuità con il suo seguito (rimasto immutato) che prevede la necessità, per l’uso di “un ‘arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo” di difendere “la propria o la altrui incolumità oppure i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. Pertanto il vaglio di un giudice sarà ancora inevitabile sui tre punti nevralgici della proporzionalità della difesa “aggressiva”: 1) la difesa della propria o altrui incolumità 2) oppure dei beni propri o altrui 3) la mancata desistenza dell’azione criminale (per esempio la fuga) e la contemporanea permanenza del pericolo di aggressione. Verificati questi presupposti, il pm - archiviando in fase di indagine preliminare - o il giudice in fase di udienza dovranno riconoscere “sempre” la proporzionalità nell’uso di un’arma a fini di difesa. A tale proposito, in particolare sul bilanciamento dei beni giuridici in questione, la giurisprudenza di Cassazione ha da tempo assodato che i “beni” oggetto di aggressione individuati dall’articolo 52 (e che giustificano la reazione violenta) sono la vita e l’incolumità delle persone presenti nel domicilio: anche se non citati espressamente nella norma, il riferimento si trova nei lavori preparatori della legge 59/2006. Quanto al bilanciamento tra beni (diritti) dell’aggredito e dell’aggressore, la stessa dottrina ha più volte ammesso un disallineamento, nel senso che l’uccisione di un assalitore può essere legittima come reazione a un tentativo/minaccia di violenza sessuale. A proposito di violazione di domicilio (da intendere in senso allargato, anche ufficio, azienda, negozio) la difesa sarà “sempre” legittima se posta in essere per respingere un’intrusione violenta, o con minaccia o uso di armi o altri mezzi di coazione fisica. Anche questi presupposti dovranno essere vagliati dal magistrato inquirente e, nel caso di esercizio dell’azione penale, dal giudice preliminare o dibattimentale. L’”eccesso colposo” viene neutralizzato se chi ha esagerato nella difesa domiciliare lo ha fatto per il “grave turbamento” provocatogli dal pericolo in atto. La fase di valutazione giudiziale della legittima difesa, che quindi non è nè potrebbe essere rimossa dalla legge in esame, vede un aggiustamento solo nel capitolo delle spese: l’indagato per eccesso colposo sarà difeso a spese dello Stato se la sua azione sarà valutata come “legittima”, quindi con archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. La variazione di bilancio calcolata dagli uffici legislativi, e per la quale si è reso necessario il nuovo passaggio al Senato, è di circa 600 mila euro per il 2019 e di 456 mila euro a regime per gli anni successivi. Modifiche anche alla legittima difesa del codice civile (articolo 2044), nel senso che verrà esclusa ogni responsabilità patrimoniale nel caso di reazione (legittima) all’intrusione domiciliare, mentre se l’aggredito cadesse nell’”eccesso colposo” (articolo 55 del codice penale) all’aggressore-danneggiato sarà dovuta un’indennità (e non un risarcimento) la cui misura è “rimessa all’equo apprezzamento del giudice” che terrà conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato”. Coerente con il ridisegno della sicurezza domiciliare è infine l’innalzamento delle pene, sia minime sia massime, per tutti i delitti predatori, compresa la rapina e lo scippo violento. Legittima difesa. L’avvocato: “Non cambia nulla, se non la percezione del cittadino” di Laura Pasotti Redattore Sociale, 8 marzo 2019 L’analisi di Luigi De Fatico, penalista membro dell’Associazione giovani avvocati. “Il punto è che ci deve essere un’aggressione, non basta trovarsi il ladro in casa per invocare la legittima difesa. Se c’è un fatto di sangue, ci dovrà essere un’indagine e un processo”. “Questa norma, dal punto di vista giuridico, cambia veramente poco. Ciò su cui incide è la percezione che il cittadino ha della legittima difesa”. Luigi De Fatico, avvocato penalista e membro dell’Aiga, l’Associazione italiana giovani avvocati, ai microfoni di Radio città del capo ha commentato l’approvazione da parte della Camera del disegno di legge sulla legittima difesa. Il provvedimento è stato modificato a Montecitorio e quindi deve tornare al Senato per il via libera definitivo. Due cambiamenti riguardano il testo dell’articolo 52 del Codice penale: è stato aggiunto un “sempre” per precisare che la proporzionalità tra offesa e difesa “sussiste sempre” se l’aggressione avviene in casa o sul luogo di lavoro. Ed è stato previsto un quarto comma che stabilisce che la difesa è sempre legittima se qualcuno sta respingendo un’intrusione con violenza o minaccia. “Giuridicamente cambia davvero poco perché la proporzionalità è sempre prevista nei casi di legittima difesa - precisa De Fatico. Il punto è che ci deve essere un’aggressione, non basta trovare un ladro in casa per far scattare la legittima difesa. Invece, da come è stata pubblicizzata questa norma, sembrerebbe che si sia creata una zona franca in casa dove i cittadini possono commettere qualsiasi reato se entra un ladro”. E aggiunge: “In caso di fatti di sangue, ci sarà sempre un pubblico ministero che indaga, si dovrà accertare se c’è stata legittima difesa o si tratta di un’omicidio e ci sarà un giudice che deve decidere. Si andrà sempre a processo”. Il terzo cambiamento riguarda l’articolo 55 sul reato di eccesso colposo di legittima difesa: la riforma stabilisce che non può essere colpevole di eccesso di legittima difesa chi si è difeso da un’aggressione nella sua abitazione. “Non credo che scomparirà l’eccesso colposo, si dovrà sempre valutare in un processo”, dice De Fatico. Ciò che preoccupa l’avvocato però è la maggiore facilità di accesso alle armi: “L’anno scorso ci sono stati 17 omicidi in abitazioni, temo che la corsa alle armi porti a un incremento di questi reati”. Violenza contro le donne: le leggi ci sono, l’applicazione non funziona di Simona Rossitto Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 La Corte di assise di appello di Bologna, qualche giorno fa, ha dimezzato la pena di un uomo accusato di femminicidio, motivando la riduzione con la “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia per la partner. Un caso che ha fatto clamore ma che è solo uno dei molti, troppi casi, in cui la giustizia non riesce a tutelare adeguatamente le donne vittime di violenza maschile. L’indagine realizzata da Ipsos, d’altra parte, ci dice che il 75% degli italiani non ha fiducia negli strumenti di contrasto esistenti. Ma davvero sulla violenza maschile contro le donne siamo in Italia al punto zero sul fronte di leggi e tutele? Che cosa si è fatto e che cosa si può e deve ancora fare per contrastare una piaga che miete in media un femminicidio ogni tre giorni? A questi interrogativi dà una risposta l’ebook di Alley Oop, patrocinato dal dipartimento per le Pari opportunità, intitolato “#hodettono/2”, da oggi scaricabile gratuitamente on line. Dal punto di vista normativo l’Italia vanta una cornice solida, a partire dalla ratifica della Convenzione di Istanbul avvenuta nel 2013. Una risposta alle prescrizioni della Convenzione è arrivata infatti con la legge numero 119 del 2013, più nota come legge anti femminicidio. Una pietra miliare nella lotta alla violenza di genere che arricchisce il codice di aggravanti e amplia le misure di tutela. Il testo di legge prevede anche lo stanziamento di risorse, in parte destinate ai centri anti violenza. Non solo. Al momento ci sono quattro proposte di legge alla Camera, oltre a un piano strategico anti violenza per il triennio 2017-2020 in via di attuazione. La bontà del nostro impianto normativo è riconosciuta unanimemente, anche se ci sono lacune da colmare, tra le quali la mancanza di coordinamento tra processo penale e civile. Sono carenze che potrebbero essere riempite proprio dalle nuove proposte di legge, anche se c’è chi sottolinea come una iperproduzione di norme non sia la soluzione. C’è poi da considerare che altri disegni di legge, come il ddl Pillon al Senato, sembrano andare nella direzione opposta a quella della maggior tutela prevista dalle proposte alla Camera. Rischiando di minare la protezione delle vittime. “Nel nostro Paese - ricorda, nella prefazione all’e book, Vincenzo Spadafora, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità - il delitto d’onore è stato abolito solo nel 1981 e la legge italiana riconosce nella violenza sessuale un delitto contro la persona solo dal 1996, prima di allora lo stupro era considerato un reato contro la morale pubblica! I diritti delle donne negli anni hanno faticato ad avanzare e purtroppo tuttora faticano ad affermarsi”. Se le leggi ci sono, quindi, perché le donne vittime di violenza faticano a trovare giustizia? Il problema sta nell’applicazione delle norme, in quello che succede in aula, in ciò che accade concretamente alla donna che va a denunciare, ai rischi che corre - proprio denunciando - rispetto per esempio all’affidamento dei figli. Perché ad applicare le leggi sono le persone, con la loro cultura, le loro idee e - spesso - i loro pregiudizi. In questo senso, pesa l’insufficienza di investimenti e risorse da destinare, ad esempio, alla formazione di quanti vengono in contatto con le donne vittime di violenza. Ma guardiamo i numeri: secondo i dati del Csm, il 31% delle procure ha sezioni o collegi specializzati; nei tribunali la percentuale scende al 17 per cento. Proprio la mancata conoscenza delle dinamiche insite nel circolo della violenza sulle donne è alla base di valutazioni erronee che possono avere conseguenze gravissime per le vittime. Così come il mancato coordinamento tra procedimento civile e penale: basti pensare a una causa civile per l’affidamento dei figli che viaggia su un binario separato da quella penale, in caso di violenza domestica. Migliorare le norme, dunque, non basta. Superare la visione arcaica e patriarcale della donna è fondamentale per combattere la violenza maschile: affinché il problema possa essere risolto, va affrontato da molteplici punti di vista, come lo stesso Csm nelle sue linee guida sul tema, auspica fortemente. Un approccio multidisciplinare è quello proposto del piano strategico anti violenza 2017-2020 promosso dal dipartimento per le Pari opportunità e in via di attuazione, che sviluppa i tre pilastri della legge del 2013, cioè prevenzione, punizione dei colpevoli e protezione delle vittime. La violenza contro le donne non è un’emergenza, ma un fenomeno strutturale e, come tale, va trattato, puntando sull’istruzione, investendo in formazione e offrendo sostegno, anche economico, alle donne che vogliono uscire dal tunnel della violenza. Senza dimenticare i percorsi per recuperare gli uomini maltrattanti, fondamentali perché il cambiamento sia davvero profondo e condiviso. “In questi mesi - afferma Spadafora - mi sono mosso per dare gambe alla Strategia Nazionale contro la violenza sulle donne, istituendo la Cabina di Regia politica e il Comitato tecnico di confronto tra istituzioni centrali, territoriali e associazioni. Presto tutto questo lavoro si concretizzerà in un Piano Operativo con azioni, risorse economiche, soggetti responsabili e tempi certi”. E sul tema dei fondi necessari precisa: “le risorse del Dipartimento per le Pari Opportunità, oltre alle attività già previste nel Piano antiviolenza, verranno impiegate per assicurare un aiuto economico immediato per quelle donne che non essendo autonome rischiano di rimanere silenti in quanto ricattabili”. Legge spazza-corrotti, i “superprocuratori” scendono in campo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 marzo 2019 I “super procuratori” d’Italia sono pronti a scendere in campo per tentare di risolvere alcune delle criticità dello “spazza-corrotti”. Prima fra tutte l’introduzione dei reati contro la Pubblica Amministrazione nell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, quindi tra i reati ostativi, tranne la liberazione anticipata, a tutti i benefici penitenziari. È stato Riccardo Fuzio, procuratore generale della Corte di Cassazione, ad annunciare che il prossimo 14 e 15 marzo, durante la periodica riunione a piazza Cavour fra i vertici degli Uffici requirenti, si discuterà su come gestire questa parte della riforma che sta mietendo “vittime” in tutti i Tribunali del Paese. Come ha detto Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, il cittadino che a suo tempo ha fatto delle scelte processuali ben precise si sente ora “ingannato” dalla Stato. “Non si cambiano in corsa le regole del gioco”, aveva aggiunto Caiazza, stigmatizzando l’assenza di qualsiasi norma transitoria al riguardo. Chi, indagato per reati contro la PA, aveva infatti concordato con il magistrato un patteggiamento, con conseguente sospensione della pena, ha visto spalancarsi le porte del carcere. Lo spazza-corrotti, entrato in vigore dall’oggi al domani senza alcuna norma transitoria, sta causando poi moltissimi problemi agli Uffici di sorveglianza. Aver equiparano tali reati a quelli per mafia e terrorismo ha anche effetti sorprendenti. Il condannato a pene elevate per, ad esempio, omicidio volontario potrà godere dei benefici penitenziari, mentre chi dovrà scontare anche una pena ben più modesta per reati contro la PA dovrà farlo solo ed esclusivamente in carcere senza che sia possibile verificare il suo percorso di reinserimento. La modifica, come ricordato, si sta applicando anche ai reati commessi prima della entrata in vigore della legge, vedasi quanto accaduto all’ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni. Tralasciando eventuali profili di incostituzionalità della norma, essa sta incidendo anche sul grave problema del sovraffollamento delle strutture carcerarie, già al collasso. “Il pubblico ministero deve garantire il puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale e garantire l’applicazione del giusto processo”, ha ricordato Fuzio. “I procuratori generali - ha aggiunto - devono vigilare e sollecitare in tutte le Procure l’applicazione dei principi del giusto processo”. “Non si tratta in questo caso di interpretare la norma ma sollecitare una riflessione”, ha quindi sottolineato il procuratore generale della Cassazione, ricordando infine come sia necessario “comprendere che il processo penale non si conclude con la sentenza di condanna ma con l’applicazione della pena” Da Roma e Napoli la bussola per l’agente sotto copertura di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 Invitano a una certa cautela nell’utilizzo di due dei punti qualificanti della recentissima legge anticorruzione le circolari delle Procure di Roma e Napoli. I due uffici, infatti, guidati da Giuseppe Pignatone e Giovanni Melillo, prendono in considerazione il tema delle operazioni sotto copertura e quello della nuova causa di non punibilità prevista per chi, dopo esserne stato autore, ci ripensa e denuncia fatti e responsabili. Quanto al primo punto, le circolari si preoccupano innanzitutto di individuare gli uffici di polizia giudiziaria che possono utilizzare la possibilità dell’agente sotto copertura, introdotto dalla legge 3/19. E così, via libera alle strutture specializzate in altre materia (droga, criminalità organizzata, riciclaggio, eversione), quando l’accertamento di un reato contro la pubblica amministrazione emerge in via “incidentale”, in indagini che riguardano in partenza altri oggetti. Mentre, negli altri casi, potranno svolgere la funzione di agente sotto copertura gli ufficiali di polizia giudiziaria che appartengono ai servizi previsti dall’articolo 56 del Codice di procedura penale in ambito soprattutto provinciale, con esclusione di tutti gli altri. Immediata e, anzi, il più possibile preventiva deve essere la comunicazione dell’operazione alla Procura. Comunicazione che deve riguardare le modalità di svolgimento, i nominativi dei soggetti che partecipano all’operazione, e i risultati. In alcune circostanze (utilizzo di documenti, identità o indicazioni di copertura) la comunicazione deve avvenire entro 48 ore dall’inizio dell’attività. In materia di corruzione (e, in genere, in rapporto ai reati per i quali non esistono strutture investigative a livello nazionale), quando non è già intervenuto il pm nel corso delle indagini, circostanza che impone il consenso dell’organo dell’accusa per l’effettuazione dell’operazione sotto copertura, deve essere sempre data notizia, anche in forma orale, nei casi d’urgenza, al Procuratore della Repubblica territorialmente competente, “al fine di evitare intromissioni in eventuali (altre) attività d’indagine esistenti presso i singoli uffici inquirenti e di inserire - ove possibile - lo strumento dell’undercover nella più ampia strategia d’indagine”. Con riferimento alla nuova causa di non punibilità, le circolari sottolineano la necessità della genuinità della denuncia che deve essere caratterizzata dall’assenza di preordinazione, da volontarietà e spontaneità. Soprattutto l’accento cade sul primo aspetto, mettendo in evidenza come è la stessa legge a escludere la non punibilità se la denuncia è stata preordinata rispetto alla commissione del reato. Un chiaro indizio, nella lettura dei due procuratori, della determinazione del legislatore di non dare ingresso surrettizio alla figura dell’agente provocatore. Cruciale poi il passaggio dei contenuti della denuncia al pubblico ministero. La riabilitazione speciale e il percorso riabilitativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2019 La Cassazione annulla con rinvio un provvedimento di rigetto. La finalità dell’istituto, secondo i giudici, è proprio quella di eliminare ogni effetto pregiudizievole della condanna e garantire un facile reinserimento. Il minore che faccia richiesta di riabilitazione speciale ha diritto a una valutazione, il più esaustiva e personalizzata possibile, degli indici favorevoli che possano essere espressione del suo percorso di riabilitazione. Solo dando conto di ciò, la motivazione della decisione del Tribunale di Sorveglianza per i minorenni si potrà considerare esaustiva. Questa è la decisione della Corte di Cassazione Sezione Prima, che, con sentenza n. 9425/ 2019, ha annullato con rinvio il provvedimento di rigetto del Tribunale di Sorveglianza per mancanza di motivazione. Secondo la Corte, il Tribunale non aveva dato spazio alla possibilità di un rinvio, pur essendoci alcune perplessità sull’allontanamento effettivo del minore dall’ambiente delinquenziale in cui aveva commesso il fatto che lo vedeva coinvolto nel reato associativo. Il tema è quello della riabilitazione speciale prevista dall’art 24 Regio decreto legge 1404 del 1934 convertito in legge 835/ 1935: si tratta della norma la quale stabilisce che, per i fatti commessi dai minori degli anni 18 - sia in caso di condanna che di proscioglimento - è ammessa una riabilitazione speciale, che fa cessare le pene accessorie e tutti gli altri effetti preveduti da legge. La Corte ha sorretto l’annullamento, facendo riferimento alla preminente funzione dell’istituto della riabilitazione speciale, che è quello di assicurare il pieno reinserimento in società del minore, condannato per fatti commessi da minorenne: la finalità dell’istituto in questione sarebbe, per la Corte, proprio quella di eliminare ogni effetto pregiudizievole della condanna e garantire un facile reinserimento dell’infra-venticinquenne. Per questo, gli aspetti speciali e la funzione della riabilitazione speciale sono, come osserva la Corte, resi evidenti anche dal fatto che la stessa procedura possa essere avviata d’ufficio e senza particolari formalità, così come dall’ampio raggio di valutazione delle circostanze favorevoli e dal maggior numero di effetti che la decisione porta con sé. Questo favore del legislatore è rivolto infatti a consentire all’istante, proprio perché giovane e condannato per fatti commessi da minorenne, di reinserirsi più agevolmente con riguardo al percorso rieducativo e sociale. È la Corte che richiama a questo proposito l’irrinunciabile principio, che la Consulta aveva fatto proprio nelle diverse sentenze che si sono succedute (n. 46/ 1978, 78/ 1989, 143/ 1996, 182/ 1991, 128/ 1987, 222/ 1983), per cui il sistema della giustizia minorile sia caratterizzato dalla “prognosi individualizzata”, come richiesto dall’art 31 della Costituzione che si occupa di garantire la “protezione della gioventù”. La riabilitazione speciale, così prevista, è infatti in linea con la garanzia costituzionale del diritto del giovane condannato ad avere una valutazione concreta in ragione della suprema finalità di salvaguardarne il reinserimento. A ciò si ispira la stessa legge, che autorizza il giudice senza formalità né termini, e riconoscendogli un vero e proprio potere dovere, a rinviare l’udienza (ovviamente senza andare oltre il venticinquesimo anno di età, nel caso il minore che avanzi la richiesta abbia compiuto i 18 anni, altrimenti il Tribunale di Sorveglianza per i minorenni non sarebbe più competente a decidere) se ritiene che la prova, per decidere dell’avvenuta rieducazione, appaia al momento non sufficiente per acquisire una conoscenza che invece, con un approfondimento, potrebbe essere più esaustiva per dare un ragionato conto della sua decisione. Nel caso concreto, infatti, il Tribunale aveva rigettato l’istanza, senza alcun rinvio, osservando che al momento “non erano definitivi e palesi gli esiti di un percorso che richiederebbe un tempo maggiore per essere appropriatamente rilevato”, pur tuttavia esprimendo una “certificata assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata” e riconoscendo al giovane gli “sforzi sinceri di un suo distanziamento dal passato delinquenziale, grazie all’adesione ad uno specifico progetto di emancipazione dedicato ai minori inseriti in famiglie di ‘ ndrangheta, all’allontanamento da quel contesto territoriale, alla volontà di avviare nel luogo di attuale residenza attività lavorative di natura autonoma”. Italia condannata dalla Cedu per aver inflitto il carcere a un giornalista di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 La detenzione nei casi di diffamazione a mezzo stampa è incompatibile con l’articolo 10 della Convenzione europea sulla liberà di espressione. L’Italia, nel prevedere la condanna al carcere ad Alessandro Sallusti, all’epoca dei fatti direttore di “Libero”, ha violato la Convenzione perché la sanzione del carcere è sproporzionata e può essere ammessa solo nei casi di incitamento all’odio e alla violenza. La vicenda parte dalla condanna di Sallusti per diffamazione a mezzo stampa e per omesso controllo, a 14 mesi di carcere e a un’ammenda di 5mila euro, nonché a un risarcimento danni di 30mila euro. Dopo aver scontato alcuni giorni ai domiciliari, il ricorrente aveva ottenuto dal presidente della Repubblica la conversione della detenzione in un’ammenda e si era poi rivolto alla Corte europea (ricorso 22350/13). D’altra parte, ricorda la Corte, l’Italia, nel caso Belpietro e nella sentenza Ricci, è stata già condannata per violazione dell’articolo 10 proprio per la previsione del carcere ma che non può riguardare - per la Corte - l’omesso controllo nei casi di diffamazione. L’Italia dovrà versare al ricorrente 12mila euro e 5mila per le spese. Resta da vedere se il Parlamento procederà alla modifica legislativa. Guida in stato di ebbrezza grave, legittimo punirla meno del rifiuto dell’alcoltest di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 Quasi quasi conviene rifiutare di sottoporsi all’alcoltest. Quantomeno se si è sicuri di aver bevuto molto e quindi c’è una ragionevole possibilità di incappare nelle più severe tra le sanzioni previste:?quelle che scattano quando il tasso alcolemico supera 1,5 grammi/litro. Infatti, a volte la Cassazione interpreta il complicato e articolato sistema sanzionatorio in modo favorevole a chi decide di sottrarsi al controllo. Non che non ci siano pesanti conseguenze anche per chi rifiuta, ma il danno può comunque essere ridotto. È il caso della sentenza 10038/2019, depositata il 7 marzo dalla Quarta sezione penale della Cassazione, che conferma la legittimità della revoca della patente prevista per chi viene trovato con un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l dall’articolo 186, comma 2, lettera c) del Codice della strada. La sua illegittimità era stata ipotizzata dalla difesa di un imputato, che aveva osservato una disparità di trattamento rispetto al caso del rifiuto di sottoporsi al test: il comma 7 dell’articolo 186 stabilisce che in questo caso la sanzione accessoria è “solo” la sospensione della patente da uno a due anni (la revoca c’è solo per chi commette lo stesso reato un’altro volta nell’arco di un biennio). La Cassazione non si dilunga nel motivare la sua decisione: si limita ad affermare che la pronuncia della Corte d’appello è corretta, riportandola. E i giudici di secondo grado avevano semplicemente osservato che il reato di guida in stato di ebbrezza determina un pericolo per la collettività, mentre quello di rifiuto di sottoporsi al test frappone ostacoli ai controlli. Dunque, i giudici non considerano che il rifiuto è potenzialmente un modo per nascondere il proprio stato di ebbrezza. Alla luce di questo, emerge che le due fattispecie hanno una ratio diversa l’una dall’altra. Quindi il legislatore può sanzionarle in modo diverso, secondo la propria discrezionalità. Non è la prima volta che la Quarta sezione rimarca la differenza tra positività al test e rifiuto di sottoporvisi. Fece lo stesso quattro anni fa, per motivare la sentenza 15184/2015, con cui stabilì che il raddoppio del periodo di sospensione della patente previsto per chi guida un veicolo non suo può essere applicato solo se si accerta lo stato di ebbrezza e non anche in caso di rifiuto del test. Un’altra pronuncia che induce a pensare, cinicamente, che convenga rifiutare il test. In realtà, non bisogna dimenticare che ciò di solito può valere per l’ebbrezza più grave, per la quale sono previste le sanzioni più alte in assoluto. Tra 0,81 e 1,5 g/l, infatti, il trattamento è sempre pesante, ma un po’ meno. E tra 0,51 e 0,8 l’illecito non è penale, ma amministrativo (anche se comunque comporta il pagamento di 544 euro, la sospensione della patente da tre a sei mesi e la decurtazione di 10 punti). Emilia Romagna: l’Associazione PGXXIII chiede impegno per misure alternative parmatoday.it, 8 marzo 2019 Chiesto il riconoscimento del modello Cec, l’istituzione di un registro delle associazioni che accolgono detenuti, l’accreditamento delle strutture e un contributo economico. Ok da tutti i gruppi politici a impegno su queste richieste. In commissione audizione anche del Coordinamento teatro carcere. Audizione in commissione Cultura, scuola, formazione, lavoro, sport e legalità, presieduta da Giuseppe Paruolo, dell’associazione comunità papa Giovanni XXIII sul progetto Comunità educante con i carcerati (Cec) e sull’attività del Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna. Giorgio Pieri della papa Giovanni XXIII ha spiegato in commissione che il Cec è un progetto di rieducazione rivolto ai carcerati. Si tratta - ha spiegato - di un programma alternativo alla carcerazione che ha l’obiettivo primario di far emergere e valorizzare, anche con la collaborazione di numerosi volontari, le potenzialità delle persone coinvolte e, al termine del percorso, reinserirle a tutti gli effetti nel mondo del lavoro. L’Associazione, fondata da don Oreste Benzi, gestisce, in Emilia-Romagna, quattro strutture: a Forlì e a Coriano, Saludecio e Taverna di Monte Colombo, nel riminese. Con il nostro programma, ha quindi evidenziato Pieri, “la recidiva si riduce notevolmente, passando dal 75% al 15% circa, e i costi si abbassano considerevolmente, considerato che una persona in carcere costa 200 euro al giorno mentre nelle nostre case il costo è di 35 euro”. La Regione Emilia-Romagna, ha aggiunto, “non ha risposto alle nostre richieste: con un contributo finanziario ci sarebbe già la disponibilità ad accogliere 10mila persone in più”. Chiediamo, ha concluso, “il riconoscimento del nostro modello, l’istituzione di un registro delle associazioni che accolgono detenuti, l’accreditamento delle nostre strutture e un contributo economico per portare avanti la nostra attività”. Dopo Pieri è intervenuto Daniele, giovane ex detenuto che ha aderito al progetto Cec e che ha descritto la sua esperienza: “Ho incontrato persone che hanno dato un volto diverso alla mia vita e ho capito che la vita ha un altro valore. Spero che un numero crescente di giovani possano sfruttare questa opportunità”. In commissione Sabrina Spazzoli e Amaranta Capelli hanno poi parlato dell’attività del Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna, struttura che lavora per costruire una rete fra le realtà teatrali che operano nelle carceri della regione, favorendone la visibilità e le interazioni con il territorio. Aderiscono al progetto, hanno spiegato le due relatrici, le strutture carcerarie di Reggio Emilia, Modena, Forlì, Ferrara, Ravenna, Parma e Bologna, sia la Dozza sia il carcere minorile, oltre alla casa di reclusione di Castelfranco Emilia. L’iniziativa coinvolge attori e registi professionisti e vede compagnie teatrali operare in carcere con attori detenuti. Ogni anno partecipano al progetto più di 150 carcerati. Per ogni programmazione le date, all’interno e all’esterno delle strutture detentive, sono circa 30-40. Il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, sul tema rieducazione ha sottolineato l’importanza delle misure alternative. Ha poi spiegato di avere recentemente visitato le strutture della papa Giovanni XXIII parlando di “risultati importanti” anche per il metodo applicato: “Il punto di forza è il patto tra la comunità e le persone che vi accedono”. Ha anche riferito che oltre 800 detenuti potrebbero già ora aderire a questi programmi. Positivo il giudizio di Marighelli anche sul progetto del Coordinamento teatro carcere: “sono evidenti i cambiamenti in chi aderisce a questi progetti che mettono al centro la disciplina e la cura di sé stessi”. Il presidente Paruolo ha quindi raccolto la richiesta della papa Giovanni XXIII: “Il problema va preso in carico seriamente, vogliamo incoraggiare queste realtà virtuose con risposte efficaci”. Anche Giuseppe Boschini (Pd) ha parlato di “impegno a fare le cose che ci sono state chieste, prevedendo risorse già nell’assestamento di bilancio di luglio, e sottolineando che la politica non deve avere paura di affrontare anche tematiche impopolari”. Katia Tarasconi (Pd) ha evidenziato che “costa meno rieducare piuttosto che costruire nuove carceri e che con l’applicazione di progetti come quello della papa Giovanni XXIII lo stato risparmierebbe più di 500mila euro al giorno”. Anche Gain Luca Sassi (Misto) ha ribadito l’importanza di sostenere questo tipo di progetti: “auspico la redazione di un atto per andare incontro alle richieste dell’Associazione”. D’accordo anche Andrea Bertani dei Cinque Stelle, che ha parlato della necessità di “far coesistere il concetto di certezza della pena con quello del recupero”. Pure Michele Facci (Misto-Mns) ha manifestato “ampia disponibilità a collaborare, sostenendo che le risorse si possono trovare e le istituzioni pubbliche devono supportare le finalità rieducativa del carcere”. Occorre, ha aggiunto il consigliere, “censire tutte queste realtà virtuose”. Stessa cosa per Marco Pettazzoni (Ln): “C’è la nostra disponibilità a redigere un provvedimento che vada in questa direzione”. Valentina Ravaioli (Pd) sul teatro nelle carceri, ha ribadito la necessità di diffondere all’esterno questo tipo di progetti: “sono percorsi che hanno una valenza culturale importante, per cui dobbiamo favorire questo tipo di comunicazione rendendola maggiormente fruibile all’esterno”. Padova: “Viaggio nelle carceri” della Consulta, Luca Antonini al Due Palazzi Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2019 Venerdì 15 marzo 2019, a Padova, presso la Casa di Reclusione N.C. (Via Due Palazzi, n. 35/a), a partire dalle ore 10.00 il giudice della Corte costituzionale Luca Antonini incontrerà i detenuti, nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Lo comunica la Corte con una nota. Nel teatro dell’Istituto, prosegue il comunicato, dopo una lezione che prenderà spunto dal frammento di Costituzione “manifestare liberamente il proprio pensiero”, il giudice risponderà alle domande che i detenuti vorranno rivolgergli. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018 e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri tra i giudici e i detenuti in diverse carceri italiane. Il primo si è svolto il 4 ottobre 2018 a Rebibbia Nuovo complesso. A seguire, sempre nel 2018, San Vittore, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Nel 2019, dopo Sollicciano, Potenza e Padova seguiranno le carceri di Napoli e Bologna. Bolzano: nuovo carcere, sì ai soldi per il progetto, ex Pascoli ferme di Paolo Campostrini Alto Adige, 8 marzo 2019 Il polo penitenziario vicino all’aeroporto è inserito tra i cantieri considerati strategici mentre non si fa cenno del Polo bibliotecario Bessone: “In corso incontri con i progettisti. Forse 2 mesi per avviare la parte esecutiva e probabilmente fine anno per l’inizio dei possibili lavori”. Il carcere è salvo. Quello nuovo che sorgerà vicino all’aeroporto. Condotte, dopo un lungo tergiversare tra prestiti promessi e negati, garanzie reali e immaginate, ha pronto il suo salvataggio. Otto istituzioni finanziarie, tra cui Intesa San Paolo, Unicredit, Banco Bpm, Cdp, si sono dette finalmente disposte a firmare il prestito ponte che sarà garantito dallo Stato. Al Mise, il ministero dello sviluppo, si sono risolti nel ritenere i 60 milioni messi a disposizione sufficienti per avviare alcune opere ritenute strategiche “per la tenuta complessiva del sistema infrastrutturale”. Nella sostanza: Roma non intende abbandonare Condotte. La novità, che consente alla Provincia di liberare l’orizzonte dei suoi progetti, è che il carcere di Bolzano risulta inserito tra le commesse garantite dal prestito. Il polo penitenziario viene citato accanto ad una ferrovia e ad una autostrada in Algeria, alla Città della Salute a Sesto San Giovanni, al traforo del Brennero, alla nuova stazione di Firenze dell’alta velocità. Altre partecipazioni di minoranza saranno invece liquidate, come ad esempio il 31% ancora in mano a Condotte del consorzio Cociv. C’è dunque il nuova carcere ma non c’è il Polo bibliotecario ex Longon questa è la sostanza, vista da Bolzano. Nel corso delle ultime, affannate, giornate in cui si è raggiunto il compromesso che salva opere ritenute strategiche mentre delle ex scuole non è stato fatto cenno. Questo non significa esclusione ma un grosso freno alle certezze sul suo futuro. Bessone: “Sì, c’è il via libera” - L’assessore provinciale ai Lavori pubblici Massimo Bessone conferma: “Sono in corso incontri con i progettisti di Condotte ma tra concessione e progetto esecutivo parlerei di non più di alcuni mesi”. Forse due per avviare la parte esecutiva e probabilmente fine anno per i possibili lavori. “Quando Condotte presenterà il progetto modificato leggermente secondo le prescrizioni necessarie ad ottenere la concessione edilizia anche da parte del Comune - spiega Bessone - stipuleremo il contratto. Allora inizierà il cantiere”. I 60 milioni assicurati a Condotte in crisi serviranno a fornire le risorse per la continuità dei lavori delle commesse già firmate oltre a fornire garanzie occupazionali. Inizialmente l’asticella era stata fissata ad un valore superiore (190 milioni) ma poi si è reso evidente un problema di copertura del fondo di garanzia delle grandi imprese in crisi presso il ministero. I 60 garantiranno comunque la continuità del portafoglio commesse “alleggerito” - Una volta ottenuto il via libera dal Mise, potrebbe aprirsi la fase delle manifestazioni di interesse per Condotte. Per ora - secondo quanto riferisce Il Sole 24 Ore - hanno mostrato di voler concorrere all’acquisizione il gruppo Illimity di Corrado Passera affiancato dal gruppo costruzioni Rizzani de Eccher. La cordata è interessata ad una cornice di commesse di oltre 800 milioni. Tra gli altri, anche private equity come Soundpoint Capital affiancato da Origoni, Gruppo, Cappelli. Da Bolzano, infine, vista l’esperienza passata, Bessone si da tempo: “ Parlo di un paio di mesi perché dobbiamo valutare eventuali ricorsi e pure la fideiussione in fase di stipulazione del contratto. Ma il carcere ora ha la strada sgombra”. Non così le ex Pascoli. A questo punto la Provincia potrebbe elaborare una exit strategy aprendo ai secondi classificati nel bando di concorso. Reggio Calabria: minori, il garante Mattia plaude la ludoteca al carcere “Panzera” calabriapost.net, 8 marzo 2019 E sollecita l’individuazione di “case famiglia protette” sul territorio. “Il tema dei “bambini invisibili” condannati a vivere i loro primi anni di vita in carcere è un tema molto dibattuto, nonostante la legge di riforma del 2011. La nascita degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) non può essere la sola risoluzione alla problematica. Intanto, qui a Reggio plaudiamo la splendida iniziativa dell’inaugurazione della ludoteca presso la sezione femminile della Casa circondariale “Panzera”, che ha visto come protagonisti la sua dirigenza, il Soroptimist International d’Italia e l’Unicef”. Ad affermarlo, in occasione del taglio del nastro della “Ludoteca Spazio Libero” realizzata presso la struttura carceraria di San Pietro e del successivo convegno, è stato il Garante Metropolitano per l’Infanzia e l’Adolescenza Emanuele Mattia. “Quella messa in campo al “Panzera” è una positiva azione sinergica di contrasto alla povertà educativa e di ampliamento delle prospettive culturali dei minori che condividono con la madre la detenzione, della quale non possiamo che essere estremamente soddisfatti. Ma il tentativo di individuare “case famiglia protette”, ancora non presenti nel Reggino, sono il chiaro esempio di una mancata attenzione alla particolare problematica che unisce una pluralità di elementi: il diritto della persona, benché in carcere, a non essere lesa nella sua dignità; la garanzia della duplice finalità della pena, punitiva e preventiva, ma anche rieducativa; la prospettiva di vita futura del soggetto ristretto; il dovere dei genitori di educare i figli; il diritto del bambino ad essere accudito dalla madre; il diritto del primo a vivere con le seconda in un contesto esterno a quello carcerario idoneo a garantire la sua integrità psico-fisica e la sua salute” ha detto il Garante davanti alla Presidente nazionale del Soroptmist International d’Italia Patrizia Salmoiraghi e alla sua omologa reggina Laura Giovine, al Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Calabria Massimo Parisi, alla Presidente provinciale dell’Unicef Alessandra Tavella, alla Garante Comunale per l’Infanzia e l’Adolescenza Giovanna Campolo e al Garante dei Diritti delle Persone private della libertà personale Agostino Siviglia. “La “Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia” stabilisce che “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private, dei tribunali o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” e la “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” dell’Autorità Garante Nazionale per l’Infanzia sostiene che “nessun bambino con padre o madre in carcere deve sentirsi diverso, né deve essere lasciato solo ad affrontare il distacco, la perdita, il confronto con gli altri. Il giudizio e la condanna del genitore diventa talora una condanna a essere indicati come figli di un detenuto. Sono figli fragili, che non devono trasformarsi in bambini e ragazzi a rischio. Hanno tutti bisogno di essere sostenuti, informati e aiutati”. Questi principi animano l’azione dei diversi soggetti istituzionali e sociali, come testimoniato dalla bella realtà creata al “Panzera”. E questi continueranno sempre più a ravvivare la nostra attenzione verso gli infanti e gli adolescenti. Ragusa: una convenzione per avviare detenuti a lavori di pubblica utilità novetv.com, 8 marzo 2019 Sarà firmata una convezione tra la Direzione della Casa Circondariale di Ragusa, il Comune di Ragusa e la Magistratura di Sorveglianza per la promozione, su base volontaria, di lavori di pubblica utilità da parte dei detenuti. Alla base dell’accordo la realizzazione del progetto “Dal carcere un aiuto alla città” mirato all’attuazione di percorsi riabilitativi e di reinserimento sociale. Sarà a cura del Comune di Ragusa svolgere il percorso di formazione per i detenuti preposti ai lavori di pubblica utilità, fornire tutti gli strumenti e quanto necessario allo svolgimento in sicurezza delle attività, indicare docenti, mansioni, orari, funzionari di riferimento e luoghi di svolgimento delle prestazioni lavorative e segnalare i referenti del progetto che mensilmente si faranno carico di verificare e relazionare sul suo andamento. La Direzione della Casa Circondariale di Ragusa si impegna ad individuare i detenuti da inserire nel progetto, a redigere il programma di trattamento del detenuto da inserire nell’attività lavorativa, sulla base del programma predisposto dal Comune, inviandolo al magistrato di sorveglianza per l’assegnazione al lavoro di pubblica utilità ed a svolgere i controlli necessari per verificare la corretta partecipazione dei detenuti al progetto. Firenze: otto marzo in carcere per porre attenzione alla detenzione femminile di Associazione Progetto Firenze Ristretti Orizzonti, 8 marzo 2019 Oggi, 8 marzo, una delegazione di Progetto Firenze si recherà in visita ispettiva nel carcere fiorentino di Sollicciano. Un’iniziativa, organizzata in stretta collaborazione con il Partito Radicale, dedicata in particolare alla delicata condizione detentiva femminile. Pur a fronte di ripetute segnalazioni, per esempio, la condizione delle madri detenute nel carcere fiorentino è sempre la stessa, costrette, come sono, a crescere i propri figli in carcere nonostante la legge preveda per esse e i loro piccoli l’istituzione di appositi istituti a custodia attenuata (Icam). Nel corso della visita la delegazione valuterà con attenzione anche la situazione generale del carcere di Sollicciano, all’interno del quale le condizioni di sovraffollamento continuano a peggiorare. Al 28 febbraio i detenuti ristretti erano 758 di cui 103 donne e 495 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 500 persone. La delegazione sarà composta dagli attivisti di Progetto Firenze, Grazia Galli, Sandra Gesualdi, Emanuele Baciocchi, Massimo Lensi e Luca Maggiora (Segretario della Camera Penale di Firenze), e dai consiglieri comunali Donella Verdi e Tommaso Grassi del gruppo “Firenze riparte a Sinistra”. Nota per la stampa: L’uscita della delegazione è prevista per le 15.00. Non essendo convocata una conferenza stampa, per eventuali domande e approfondimenti vi preghiamo di contattarci al 3343482188 dopo le 15.00. Roma: l’8 marzo lo raccontano le “Voci dal carcere” orticaweb.it, 8 marzo 2019 L’appuntamento è per oggi, otto marzo, giornata per la celebrazione della donna, ma il luogo non sarà una pizzeria per festeggiare, o una piazza per incontrarsi e fare shopping. Unicef e Asl Roma 4, si sono unite per dare voce, e ascoltare le voci, delle donne che nel giorno della festa della donna, stanno scontando la loro pena nel Carcere di Civitavecchia, sezione femminile. “Voci dal carcere, riflessioni ed emozioni dietro le sbarre”. Saranno le stesse detenute a determinare le tematiche dell’incontro culturale che si terrà nella mattinata dell’otto marzo. Poesie, letture, danza, musica, tutte forme di espressione artistica che le donne potranno scegliere per esprimersi e condividere una esperienza con gli altri. “Dedichiamo parte del nostro tempo agli altri, per mandare un messaggio importante. In questo caso, il desiderio di comunicare le proprie emozioni, tramite l’arte, un’esigenza di tutti, una possibilità per le donne, anche private della loro libertà, di dar voce al bisogno di esternare. Saremo lì per ascoltarle e condividere questa esperienza insieme” Così afferma Pina Tarantino, responsabile del comitato Unicef di Civitavecchia e litorale Roma Nord, da sempre impegnata nelle attività di volontariato a sostegno delle categorie più fragili. “In un giorno come quello dell’otto marzo, che negli ultimi anni è diventato una festa che celebra il consumismo, è importante non dimenticarsi di quelle donne che risultano ‘invisibili’ alla società. La Asl Roma 4 è impegnata in progetti e sostegno al carcere, come ha dimostrato negli ultimi anni, appoggiando iniziative culturali, educative e volte alla prevenzione della salute” così afferma il commissario della Asl Roma 4 Giuseppe Quintavalle. Saranno presenti il Direttore Patrizia Bravetti e l’educatore Paolo Maddoni. Ambasciatrice della Asl Rm4 Marika Campeti, che donerà una copia del suo romanzo femminile “Il Segreto di vicolo delle Belle” alla casa circondariale, un romanzo che invita a profonde riflessioni, trattando tematiche importanti che ruotano intorno alla vita delle donne, la tolleranza, il perdono, il coraggio, la lotta contro la violenza. Venezia: 8 marzo, festa per detenute e bimbi al carcere femminile della Giudecca Il Gazzettino, 8 marzo 2019 La giornata internazionale della Donna sarà festeggiata oggi anche al carcere femminile della Giudecca. L’associazione di volontariato penitenziario Il Granello di Senape, in collaborazione con l’associazione Fondamenta delle Convertite, le cooperative sociali Il Cerchio e Rio Terà dei Pensieri, il sostegno di Coop Alleanza 3.0, ha organizzato un pomeriggio di festa per le novanta recluse e per i bambini presenti con le loro madri. L’iniziativa è inserita nel programma del Marzo Donna del Comune. La manifestazione, non aperta al pubblico, inizierà alle 15 con l’attrice, Michela Mocchiutti, che si esibirà in un monologo dal titolo Arrangiati; l’incontro proseguirà poi con la musica del bluesman veneziano, Mattia Balboni.Verrà poi offerto un rinfresco preparato dalle volontarie e dai volontari, saranno consegnati doni e fiori. È prevista la partecipazione di numerosi ospiti, amici e amiche che seguono e apprezzano le attività del carcere della Giudecca. Voghera (Pv): dipinti dei detenuti in mostra, per un 8 marzo contro la violenza di genere vogheranews.it, 8 marzo 2019 Alla Sala Pagano una mostra/installazione dell’associazione Chiara con i dipinti dei detenuti. In occasione dell’8 Marzo, Festa della Donna, il Centro antiviolenza C.H.I.A.R.A di Voghera, allestirà dall’8 al 10 marzo, alla Sala Pagano, una mostra contro la violenza di genere realizzata con i dipinti dei detenuti della Casa Circondariale cittadina. Il progetto è stato presentato nella sede del sodalizio dalla presidente Cristina Boffelli, dalle psicologhe Martina Acerbi e Antonella Franchetti e dall’arteterapeuta Valentina Usala. “La nostra associazione si occupa della violenza di genere e dell’ascolto delle donne vittime di abuso - ha spiegato la presidente -. Una parte dell’attività riguarda però anche la formazione, l’informazione e soprattutto la prevenzione della violenza. Quest’anno, grazie ad una bando della Regione legato alle Pari opportunità, grazie all’attività delle nostre collaboratrici, siamo riusciti a realizzare un progetto di prevenzione e recupero che vede coinvolte le scuole cittadine e il carcere”. Il progetto si intitola “La donna tra archetipi e stereotipi”, e punta a dare un’immagine corretta della donna e al tempo stesso a liberarla da quelle credenze stereotipate e da quei luoghi comuni che volte sono all’origine della violenza di genere. La mostra che si terrà nello spazio espositivo di piazza Cesare Battisti sarà soltanto l’evento conclusivo di un progetto articolato che si è svolto nei mesi scorsi, e che ha visti coinvolti tre istituti scolastici (il Gallini, il Maserati e il Santa Chiara), e con loro un gruppo di detenuti (11 in tutto) del carcere cittadino. Per ciò che riguarda la parte rivolta alla casa circondariale, le operatrici di Chiara hanno svolto diversi incontri con i detenuti su diversi temi legati alle pari opportunità: dalla violenza di genere, alla comunicazione non violenta; al valore delle differenze di genere; all’immagine stessa della donna. Durante gli incontri sono anche state fatte lezioni di arte e di pittura, durate le quali i detenuti sono stati condotti a rappresentare la donna ispirandosi alle poesie di Alda Merini; ai colori usati da Frida Kahlo (soprattutto il rosso), ai fili di lana impiegati nelle sue opere dell’artista sarda Maria Lai. Obiettivo ultimo dell’esposizione (e del progetto in generale): dimostrare la necessità di creare una rete di rapporti e di contatti fra tutti i soggetti della società, così da giungere più facilmente a prevenire questa specifica tipologia di violenza. Per tale motivo, la mostra di quadri alla Sala Pagano in realtà sarà una sorta di “istallazione”: in cui tutte le opere pittoriche realizzate dai carcerati saranno (fisicamente) collegate tra loro da un filo di lana (rosso) - all’interno della quale il visitatore potrà muoversi - proprio a simboleggiare la necessità di fare Rete sul territorio fra tutti i soggetti che possono ruotare attorno ad un atto di violenza, così da scongiurarlo. Il taglio del nastro della mostra, alla presenza anche del sindaco Carlo Barbieri, si terrà venerdì 8 marzo alle ore 18. La presentazione della mostra e del suo significato avverrà invece sabato 9 marzo alle ore 16, con la partecipazione del direttore della casa circondariale di Voghera. L’evento sarà condotto dalla Vicepresidente del Centro Antiviolenza Ilaria Fontana e vedrà la partecipazione di due giovani musicisti Alessandro Di Caccamo e Riccardo Civini membri della Chitarrorchestra Citta di Voghera. L’apertura al pubblico sarà nelle giornate di sabato 9 e domenica 10 marzo prevista dalle ore 10 alle ore 19. “Il figlio del boss. Una storia vera” di Pasquale Mauri. Una infelice vita quotidiana di Andrea Colombo Il Manifesto, 8 marzo 2019 “Il figlio del boss. Una storia vera” di Pasquale Mauri, con la giornalista e scrittrice Graziella Durante, per Cairo edizioni. Non è Gomorra. Non ci sono soldati che aspirano a sostituire i boss facendogli la pelle, non ci sono diagrammi del “Sistema” svelati. Di agguati mortali ce n’è uno soltanto: quello in cui viene ammazzato Vincenzo Mauri, temuto boss di Sant’Anastasia nel vesuviano, padre di Pasquale Mauri, autore con la giornalista e scrittrice Graziella Durante di “Il figlio del boss. Una storia vera” (Cairo, pp.206, euro 14). Quella di mauri è in effetti una storia vera che si legge come un romanzo, per merito della penna agile della giornalista ma anche perché la vicenda è romanzesca in sé. Racconta la Camorra vista dal suo lato della barricata, dall’interno, in una dimensione di quotidianità registrata da un uomo che, pur non essendo mai stato coinvolto attivamente nel sistema camorrista, ne è stato condizionato in tutto e per tutto sin da una infelice infanzia. Il 28 dicembre 2004 è proprio lui, Pasquale, ad accompagnare il padre al circolo dove Vincenzo “Settevite”, soprannome dovuto all’essere scampato nei suoi 58 anni di vita a ferite e agguati in eccedenza, passa i pomeriggi giocando a tressette. Pasquale viene richiamato di corsa poco dopo: quando arriva al circolo il padre è già morto. Stavolta le sette vite non sono bastate e ci ha rimesso la pelle anche un poveraccio, colpevole solo di essere seduto al tavolo da gioco sbagliato. Il libro di Pasquale Mauri inizia con questa sanguinosa esplosione di violenza. Non ce ne saranno altre e tuttavia l’intera storia di questo ragazzo che il padre ha deciso non debba seguire le sue orme, e che per natura e carattere non le avrebbe affatto seguite volentieri, è segnata da una violenza continua, onnipresente e sorda. È una violenza che non deflagra ma diventa condizione esistenziale, tanto permanente da non essere quasi più percepita, invisibile, impalpabile e avvolgente come l’aria. Don Vincenzo entra ed esce di prigione. Per Pasquale viaggiare significa spostarsi da una Casa circondariale all’altra insieme alla nonna, unico affetto in un’infanzia spoglia. Il boss si è fatto largo con le maniere spicce ed è stato ripagato con la stessa moneta. Lo hanno ferito più volte gravemente, così l’ombra della morte, di una vendetta trasversale che potrebbe colpire oltre a lui anche chi gli si trova casualmente vicino, accompagna Pasquale per tutta l’infanzia e la prima giovinezza. Il padre lo ha protetto da una vita da camorrista, in compenso lo ha condannato a una galera di lusso. Può uscire solo in alcuni orari pomeridiani. Anche quando cresce, pochi hanno il coraggio di frequentarlo sfidando il rischio di una pallottola vagante. Il peggio però è la situazione di isolamento e deserto emotivo che circonda questo figlio di un camorrista estraneo tanto al mondo del padre quanto a quello “normale”. Vincenzo è un padre-padrone incapace di dimostrare affetto. Geloso e possessivo, quando si è lasciato con la madre di Pasquale le ha impedito di incontrare il figlio, che la crede morta. Pasquale è ancora quasi un bimbo quando scopre che la donna è viva ed è tornata nella sua Inghilterra. Ritrovarla diventa un’ossessione che non lo abbandonerà più e lo spingerà a sfidare il padre e le sue tiranniche leggi. La ricerca quasi ossessiva di questa madre sconosciuta, che col mondo di Vincenzo e della Camorra non ha nulla in comune, nasconde e veicola l’inseguimento disperato di quella parte di se stesso che in Pasquale è sepolta e di quella vita emotiva che gli è stata negata. Il figlio del boss è una storia personale e intima: il racconto di un salvataggio che non era affatto scontato in partenza e che Pasquale Mauri si è dovuto conquistare lottando. Ma narra lo stesso, più di tante inchieste-fotocopia, la realtà della Camorra: la sua cultura, spesso condivisa tacitamente per paura o per complicità anche dal mondo che camorrista non è, la sua “normalità” quotidiana, i riflessi devastanti che ha sulla vita di chi per sorte di quel mondo fa comunque parte, pur senza impugnare la pistola. Il grande merito di questo libro è stracciare, senza affidarsi all’abituale retorica, il velo di mitologia bugiarda che troppo spesso ammanta la criminalità organizzata mettendone a nudo la verità: una tremenda aridità. L’8 marzo è sciopero nazionale: si fermano scuole, sanità, trasporti ferroviari e aerei Corriere della Sera, 8 marzo 2019 Per tutta la giornata, garantite le fasce protette. Sul sito del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti si possono consultare le aziende del settore che aderiscono e gli orari delle proteste, in aggiornamento. Per l’8 marzo a Roma si prospetta un venerdì di fuoco, che infiammerà l’Italia intera da nord a sud nella Giornata internazionale della donna. L’Italia al femminile - e non solo - sciopera e scende in piazza e al fianco della mobilitazione proposta da “Non una di meno” e degli eventi organizzati da Cgil, Cisl e Uil si fermano: trasporti locali, regionali, nazionali e aerei. Sciopero generale anche per il mondo della scuola, della ricerca e della sanità nazionale. Sul sito del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti si possono consultare le aziende del settore che aderiscono e gli orari delle proteste, in aggiornamento. A Roma i cortei - A Roma, due gli appuntamenti del mondo del lavoro al femminile: il corteo promosso da “Non una di meno” e il seminario sulla contrattazione di genere organizzato da Cgil, Cisl e Uil. Prima tappa della protesta sarà alle 9 al ministero della Salute, con le donne che metteranno come tema centrale del presidio la qualità delle condizioni di lavoro di operatrici e operatori sanitari e la “richiesta di consultori e ospedali laici, aperti e finanziati, senza obiettori”. Ma è sciopero generale anche per i Cobas e domani si fermerà anche tutto il personale dipendente del settore sanitario nazionale, garantendo però “adeguati livelli di funzionamento dei servizi pubblici mediante l’erogazione delle prestazioni indispensabili”. Alle 10,30 la protesta targata “Non una di meno” si sposterà al ministero del Lavoro per richiedere “un salario minimo europeo, un welfare universale, congedi retribuiti e obbligatori per una maternità veramente condivisa; contro la discriminazione delle donne nel mercato del lavoro e la disparità salariale”. Alle 17 invece, l’apertura del corteo in piazza Vittorio. La manifestazione passerà per via Carlo Alberto, piazza Santa Maria Maggiore, via Liberiana, piazza dell’Esquilino. E ancora, via Cavour e via dei Fori Imperiali, fino alla meta di piazza Madonna di Loreto. Sul carro femminista saliranno diversi sindacati, ad eccezione di Cgil, Cisl e Uil che hanno deciso di dar vita a un’iniziativa unitaria nazionale. Stop treni e aerei - Il ministero dei Trasporti annuncia diverse possibili proteste al livello nazionale, dal trasporto ferroviario a quello aereo. Il personale Alitalia sarà in sciopero dalle 10 alle 14, altre compagnie si fermeranno invece per 24 ore. Trenitalia sciopererà da mezzanotte del 7 alle 21 dell’8, garantendo però servizi essenziali (dalle 6 alle 9 e dalle 18 alle 21) tra cui, treni regionali, Leonardo Express (Roma Termini- Fiumicino) e Frecce. Anche l’Anas, sotto la sigla sindacale Cobas, si fermerà per 24 ore. Sul sito di Atm si legge che per i suoi dipendenti lo sciopero inizierà alle 8:45 e finirà alle 15, per poi riprendere dalle 18 fino al termine del servizio. Roma, in materia trasporti, maglia nera per gli scioperi: Ama, Atac, Cotral e Roma Tpl. Sempre sotto le sigle di Cobas e Usb, Cotral fa sapere che vi sarà “astensione delle prestazioni lavorative dalle 8,30 alle 17 e dalle 20 a fine servizio. Saranno però garantite tutte le partenze fino alle 8,30”. Sciopero taxi dalle 8 alle 22 - Si aggiungerà poi anche lo sciopero dei taxi, dalle 8 alle 22. A fermarsi domani anche il sistema scolastico, con diverse sigle sindacali coinvolte: Usi, Usb Confederazione, Cobas con adesione dell’Anief, Cub Confederazione Unitaria di base e Sgb. La redazione Dire Donne dell’Agenzia di Stampa Dire, infine, indice lo `sciopero delle parole´, pubblicando lanci tutti fotografici. Uno sciopero particolare nato per uno stupro, cresciuto contro ogni forma di oppressione di Lea Melandri Il Manifesto, 8 marzo 2019 8 marzo. Lo sciopero che oggi riempirà le piazze di tante città del mondo è del tutto particolare, come il femminismo che lo promuove da tre anni. In Argentina, il 19 ottobre 2016 a far incrociare le braccia alle donne che daranno vita alla rete “Ni Una Menos”, non sono la disparità salariale o le discriminazioni sul lavoro, ma lo stupro e l’omicidio di una sedicenne, Lucia Pérez. Scrive Angela Davis: Il femminismo implica “una quantità di generi, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare”. Se è uno sciopero quello che l’8 marzo riempirà le piazze di tante città del mondo, è sicuramente uno sciopero del tutto particolare, così come particolare e sorprendente è il femminismo che lo promuove ormai da tre anni. La novità è già nel suo atto di nascita, in Argentina, il 19 ottobre 2016. A far incrociare le braccia alle donne che daranno vita alla rete Ni Una Menos, non sono la disparità salariale o le discriminazioni sul lavoro, ma lo stupro e l’omicidio di una sedicenne, Lucia Pérez. E allo stupro si aggiungerà in seguito la richiesta di legalizzazione dell’aborto. Con quella risposta imprevista prendeva corpo un accostamento inedito tra realtà che siamo abituati a considerare separatamente: la violenza contro le donne e le rivendicazioni sindacali, i residui arcaici di un dominio maschile che passa attraverso le vicende più intime e il sistema di sfruttamento che è alla base dell’accumulazione capitalistica. Esperienze rimaste per secoli legate al privato e al destino femminile, come la sessualità e la maternità, incontrandosi con organizzazioni di carattere sociale ed economico era inevitabile che si modificassero reciprocamente. Non era la prima volta che la politica veniva scossa e ridefinita da quel retroterra che ha creduto di lasciarsi alle spalle, consegnato a una sorta di immobilità geologica. Con la “dissidenza giovanile” del Sessantotto e col femminismo diventavano “già politica” la persona, la vita dei singoli e quella materia segreta, imparentata con l’inconscio, che sta tra natura e storia. La ricerca di “nessi” tra forme diverse di oppressione e di dominio, e il riconoscimento che il sessismo le attraversa tutte, sia pure spesso in modo conflittuale, allora non fu possibile, e si è dovuto aspettare mezzo secolo per assistere a un singolare scambio delle parti: il femminismo che si appropria dello sciopero, rimasto finora legato a rivendicazioni sindacali, mentre sotto i suoi slogan si vengono a collocare soggetti politici diversi, accomunati dalla volontà di liberare il mondo da violenze sessuali e di genere, ingiustizie sociali, odio razziali, cattiva educazione, devastazione ambientale, governi autoritari. “Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo” è già in sé una dichiarazione che va oltre la specificità della violenza sessista. Dice della svalutazione di quella metà del genere umano a cui è toccato in sorte l’identificazione col corpo, con la funzione riproduttiva della specie, la cura dei figli, della famiglia e della casa, un lavoro non visto come tale ma come “dono d’amore”. Ma dice anche della violenza con cui una parte sempre più esigua degli umani ha costruito la sua ricchezza: colonizzando, sfruttando, impoverendo la maggioranza dei propri simili. Lo sciopero, come astensione da tutte le attività produttive e riproduttive, diventa così una straordinaria pratica non solo di rivendicazioni economiche, ma di autocoscienza collettiva, la scoperta di una verità che sappiamo e che continuamente cancelliamo: una giornata senza le donne, i migranti, i lavoratori malpagati, i precari, e il mondo si fermerebbe. Scrive Angela Davis nel suo libro “La verità è una lotta costante” (Ponte alle Grazie, 2016): “Il femminismo implica molto di più che non la sola uguaglianza di genere. E implica molto di più del genere. Deve implicare una coscienza riguardo al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, ai post-colonialismi e all’abilità, e un quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare”. Negli appelli e documenti di “Non Una di Meno” si legge che lo “sciopero è di tutti”. Sarebbe riduttivo intendere questa affermazione solo come alleanza tra movimenti diversi, ognuno con la propria identità, o, al contrario, come inglobamento di tutti dentro la lotta delle donne. Se il femminismo si può considerare oggi il principale “riferimento” per un processo di liberazione comune a molteplici soggettività, è perché le sue pratiche -il partire da sé, l’attenzione al corpo, ai sentimenti, all’interiorizzazione di quegli stessi bisogni che vengono coltivati dall’apparato di dominio- permettono di interrogare le contraddizioni che si aprono quando le diverse appartenenze, di sesso, genere, razza, classe, vengono calate nel vissuto personale, nell’esperienza dei singoli. Sappiamo che si può essere al medesimo tempo anticapitalisti e razzisti, antirazzisti e misogini, omofobi. La radicalità e la forza del femminismo sta nell’attraversare le lotte, mantenendo ferma l’idea che non c’è modificazione del mondo se non si intacca quel sedimento di storia che ogni singolarità incarnata si porta dentro, se non si sottrae alla solitudine e al silenzio il peso di violenze considerate finora come “private” e “naturali”. Non si può costruire uno sciopero, scrive Non Una di Meno di Torino, dentro e fuori casa, uno sciopero dai/dei generi, “se non partendo da noi, dalle nostre vite, dai nostri vissuti (…) muovendo da sé non si può che incontrarsi e incrociarsi, anche nelle differenze e nella distanze” Sappiamo bene che lasciare per qualche ora il posto di lavoro non è come allontanarsi dalla cura di un bambino, di un anziano o un malato, e questo vale in particolare per le donne, per lo più straniere, badanti e colf, presenti ormai in molte famiglie. Per questo è importante, come scrivono Marie Moise e Sara R.Farris (Jacobin n.2, primavera 2019) che lo sciopero non venga inteso “come mera astensione dal lavoro di cura, ma come pratica collettiva di interruzione della privatizzazione, femminilizzazione razzializzazione di quel lavoro”. Altrettanto significativo, sotto l’aspetto sia materiale che simbolico, è che in quella giornata siano gli uomini, possibilmente nelle piazze dello sciopero a prendersi cura dei figli e del cibo, prefigurando una convivenza sociale che assume come responsabilità collettiva quella che è stata la consegna “naturale” della dipendenza e fragilità umana a un sesso solo. Chi sono gli uomini che picchiano le donne di Elena Testi L’Espresso, 8 marzo 2019 Normali, misogini, sadici. Sono padri, mariti, ma prima di tutto figli. Non riescono ad amare e maltrattano le partner per vendetta. A volte, accettano di essere aiutati, ma non prima di aver negato qualsiasi responsabilità. Le ammissioni arrivano centellinate, ma quando il velo si spezza, il percorso può dar loro di nuovo la dignità. Attende il momento giusto. Si apposta. Tra le mani un bastone. La osserva da lontano, poi si avvicina e colpisce. Una volta, due volte. Continua fino a quando lei non sviene. L’asfalto accoglie il corpo offeso dalla violenza. Lui scappa, sentendo degli occhi indiscreti pronti a fermare quello che si potrebbe tramutare in un omicidio. Sale in auto e va in commissariato. “L’ho picchiata”, confessa in un atto liberatorio. “Mi aveva lasciato”, spiega. Un’ossessione costante per quella donna, arrivata da un posto lontano. Prima stalker, poi aggressore, subito dopo carcerato. E infine pronto a un percorso di riabilitazione. Uomini normali, uomini misogini, uomini sadici. Padri, mariti, ma prima di tutto figli. Non c’è età. Il motivo, a volte, rimane sconosciuto. Bisogna prendere il loro passato, stenderlo in lunghe sedute di psicoterapia per comprendere da dove e chi ha innestato il virus dell’odio contro le donne che sfocia in offese ripetute, in percosse, in atteggiamenti ossessivi. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat sono 2 milioni e 800 mila le vittime di violenza da parte di un partner o un ex partner. Una mattanza in crescita che può arrivare all’atto più brutale: il femminicidio. Percorrono i corridoi del Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti, a volte spinti dalle stesse vittime, in altri casi, rarissimi, capiscono da soli che esiste un problema. Accettano di essere aiutati, ma non prima di aver negato qualsiasi responsabilità. Le ammissioni arrivano centellinate, ma quando il velo si spezza, il percorso può dar loro di nuovo la dignità di padri, mariti, fidanzati. Ha più di 30 anni e la tendenza a distruggere ogni rapporti per gelosia retroattiva. Il problema è la presenza degli ex fidanzati. “Duro massimo un mese, poi non riesco ad andare avanti. Voglio imparare ad amare”, si è presentato così subito dopo aver pronunciato il suo nome. Colto, raffinato, ma schiavo dell’antica pretesa che una donna deve essere illibata, pura e casta. Difficile distruggere i costrutti mentali, l’arcaica visione. “Si sentono vittime delle donne che hanno al loro fianco - spiega Andrea Bernetti, responsabile del Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti -, picchiare e offendere diventa una vendetta del loro sentirsi oppressi e non oppressori”. La violenza trova una giustificazione, un appiglio per essere legittima. Nelle menti di questi uomini incapaci di amare si instilla la certezza di non essere loro gli aguzzini. Ha più di 40 anni, una carriera brillante, si innamora e dopo quattro anni di relazione, sposa una donna che ha un figlio. Neanche un anno e lei si tramuta in una zavorra da “mantenere”, un essere che “è non in grado di allevare quel figlio avuto da una precedente relazione”, una donna che gli ruba il tempo, prima dedicato a “cena, uscite con gli amici, aperitivi”. Ma lui non ha colpa delle percosse, degli insulti costanti, lui è l’unica vittima. E allora capire il problema diventa difficile, anzi difficilissimo. In alcuni casi quasi impossibile. Il più delle volte sono figli calpestati da genitori poco attenti o violenti. Crescono con l’esempio di un padre che ha vessato la madre, credono che lo schema uomo-padrone e donna-sottomessa possa essere ripetuto, poi le certezze si sgretolano di fronte alla realtà. Il contesto economico non ha importanza: ricchi o poveri, tutti possono essere violenti. La combo letale si manifesta per motivi socio-culturali e, in alcuni casi, relazioni complesse con le proprie compagne. Ha poco più di trenta anni. È fuggito per il terrore di entrare in un giro sbagliato. Alla violenza fisica preferisce la distruzione di tutto ciò che lo circonda. Non conosce limiti, non ha regole. È convinto che la madre dei suoi figli debba vivere ai margini: non parlare, non intromettersi nelle scelte, non lavorare. La rabbia è costante. Il punto di rottura arriva quando, lei esasperata, chiama il 112. Arrivano i carabinieri e trovano la casa completamente distrutta. I figli vengono portati in una casa famiglia. Lui decide di andare al Centro, lei non lo lascia. Iniziano il percorso insieme. Ma non sempre c’è chi è in grado di perdonare. L’amore per sé stessi e per i figli prevale. C’è lui, sadico, ipnotizzato dalla distruzione. L’infanzia con una madre che non ha concesso nulla, neanche un incoraggiamento. Inizia una storia con l’intento di maltrattare ogni donna. Una vendetta che si consuma in mesi di sdegno, valige gettate dalla finestra e poi un repentino pentimento che dura il tempo di ricominciare il gioco dall’inizio. Il suo odio lo porta a non riconoscere l’autorità del genere femminile. Ed eccolo mentre rimane muto davanti alla psicologa oppure la paga e fugge via o la insulta per il gusto di farlo. “Molti - sottolinea sempre Andrea Bernetti - si sentono destabilizzati di fronte all’emancipazione femminile, comprendono che questa epoca ha tolto loro il potere dell’autorità. Usano la forza per riportare la società a uno stadio embrionale in cui l’uomo per sentirsi tale non ha bisogno di dimostrare nulla”. La donna viene vista madre, oggetto di tentazione, un cosa da possedere senza contraddittorio. Ha preso una mazza. Ha iniziato a colpirla in testa. La paura costante che lei potesse tradirlo. È un messaggio spedito da un collega che fa esplodere definitivamente la frustrazione. Il tormento diviene quotidiano, fino a quando la maestra del figlio non si rende conto dell’inaspettato. Lui ha tentato la cura, ma la presenza di uno spettro costante lo ha reso prigioniero. Ogni regalo, una violenza se non ripagato con gratitudine. Ogni sorriso, l’inizio di un litigio se percepito poco sincero. Lei è stata costretta ad andare in una casa rifugio. È un bollettino di guerra senza armistizio. Sono solo cinquanta gli uomini che hanno deciso quest’anno di capire come fermare la violenza. “Non si può costringere nessuno - chiosa Andrea Bernetti - ma forse in alcuni casi si potrebbe dare una scelta a queste persone. Chiedere loro se intendono intraprendere un percorso”. Ma ancora sembra esserci spazio solo per raptus o “tempeste emotive”, come nella sentenza della Corte d’Appello di Bologna per il femminicidio di Olga Matei. Gli psicologi di strada: “La gente è più sola ed è aumentata l’aggressività” Redattore Sociale, 8 marzo 2019 L’analisi di Laura Baccaro, presidente dell’associazione “Psicologo di strada” di Padova. “Mentre in passato si rivolgevano a noi quasi esclusivamente persone senza dimora o in condizione di povertà importante, ora si è ampliato lo spettro delle persone che sentono di non farcela più da sole”. In calo i casi di stalking. “La gente è più sola ed è aumentata l’aggressività. Negli ultimi anni è diventata trasversale la povertà economica: mentre in passato si rivolgevano a noi quasi esclusivamente persone senza dimora o in condizione di povertà importante, ora si è ampliato lo spettro delle persone che sentono di non farcela più da sole. Contemporaneamente, la figura dello psicologo non riesce ancora a uscire dal pregiudizio che la circonda, in base al quale rivolgersi a un professionista è uno stigma”. È l’analisi di Laura Baccaro, presidente dell’associazione “Psicologo di strada” di Padova. L’associazione, che riunisce psicologi, mediatori linguistici e culturali, counsellor e operatori, volontari da anni si occupano di assistenza psicologica a migranti o a persone in difficoltà, a chiunque viva situazioni critiche dal punto di vista dell’inserimento e dell’integrazione nella società. Dal 2014 gestisce lo sportello stalking, un servizio alle vittime e a coloro che vengono accusati di questo reato. “La nostra attività rappresenta una sorta di pronto soccorso per le persone che vivono in condizione di disagio relazionale, di solitudine e che hanno bisogno di ascolto e accompagnamento”. Lo sportello stalking è attivo da cinque anni. Nel 2017, ultimi dati a disposizione, si sono presentate per chiedere aiuto 35 persone, perlopiù italiane (71%), di cui la maggior parte inviate dalle forze dell’ordine. 37 anni l’età media degli utenti. In tutto sono stati 13 i casi stalking, di cui 2 di tipo condominiale. Altri 8 i casi arrivati allo sportello con problemi inerenti la migrazione. Si è poi presentato un caso di violenza domestica e uno di accanimento mediatico. Nei 13 casi di stalking, il presunto autore era ex partner (6 casi, di cui 2 ex partner convivente), coniuge (1 caso), ma ci sono stati anche vicini di casa (2), amici (2), un conoscente. “Stiamo ancora finendo di elaborare i dati del 2018 - spiega la presidente Baccaro, ma abbiamo notato un calo fisiologico rispetto all’anno precedente”. Una diminuzione che Baccaro spiega così: “Quando è stato istituito il reato di stalking si pensava che potesse essere una risposta tutelante e immediata per le persone vittime, ma ne tempo si è visto che non era così. Lo stalking si è inserito, anche se non sempre in modo adeguato, nelle relazioni conflittuali dei maltrattamenti. Molte persone che si rivolgevano a noi avevano problemi poi condominiali, aspetto venuto a scemare grazie alla mediazione condominiale”. “Psicologo di strada” mette a disposizione la propria esperienza e competenza organizzando un corso per operatori di sportello di ascolto. Tre gli incontri: giovedì 21, 28 marzo e 4 aprile, dalle 15 alle 18 presso il Centro servizi volontariato in via Gradenigo 10 (Padova). Iscrizioni entro il 14 marzo, massimo numero di iscritti 25, contributo spese 30 euro. Droghe. Maisto: “La proposta della Lega cadrebbe sotto i colpi della Consulta” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 8 marzo 2019 Il presidente emerito del tribunale di Sorveglianza di Bologna commenta il disegno di legge annunciato da Salvini: “L’aumento delle pene non ha mai fermato gli spacciatori”. Gli effetti? “Sovraffollamento delle carceri, riduzione di operatività dei Serd e delle Comunità, aumento della sfiducia verso la magistratura”. “Ti becco a spacciare, vai in galera. Non esiste modica quantità. Sono i due slogan con i quali il ministro dell’Interno ha presentato il disegno di legge di modifica della già torturata legge sugli stupefacenti. Queste espressioni non sono soltanto chiaramente demagogiche, ma anche scorrette verso gli operatori di Polizia limitati al “beccaggio”. Errate per legge perché la modica quantità non esiste più. E infine infondate secondo le scienze perché non distinguono tra sostanze e nocività”. Si allarga il coro di “no” al disegno di legge annunciato dal vice premier Matteo Salvini, attraverso il quale la Lega propone di raddoppiare le pene previste per lo spaccio di droga e di intervenire sulla ‘modica quantità’. Francesco Maisto, presidente emerito del tribunale di Sorveglianza di Bologna, commenta per Redattore Sociale il testo proposto dal Carroccio. “Basta la semplice lettura degli articoli di modifica della legge - spiega Maisto - perché ritorni alla memoria quella ossessione ricorrente, come nella legge Fini-Giovanardi, una coazione a ripetere errori e drammi già sperimentati. In altri termini, si pensa che un ripescaggio della normativa già cancellata dalla Corte Costituzionale, possa riprendere vita con qualche accorgimento occulto. Ma così non può essere perché si ripeterebbe la situazione sulla quale intervenne la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 che dichiarò ‘l’illegittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti)”. “Ora, una certa quantità di sostanza, considerando il cosiddetto principio attivo, integra il reato previsto dall’articolo 73, comma 5 della legge sugli stupefacenti, cioè lo spaccio di lieve entità. L’articolo 280 del codice di procedura penale esclude che in tale ipotesi il giudice possa applicare la custodia in carcere (consentita solo quando la pena detentiva prevista dalla legge non è inferiore a 5 anni, mentre l’articolo 73, comma 5 prevede una pena detentiva massima di 4 anni). Con il disegno di legge, invece, le pene detentive passerebbero da un minimo di 3 ad un massimo di 6 anni e le multe da un minimo di cinquemila euro a un massimo di trentamila euro”. Il problema dello spaccio esiste, perché secondo lei la strada indicata dal ddl non è quella giusta? “Noi tutti vorremmo che non ci fossero più spacciatori per le strade e zone franche nelle periferie delle nostre città in cui prospera il mercato degli stupefacenti, ma non è questa la strada giusta perché l’aumento delle pene non costituisce un deterrente idoneo per fermare gli spacciatori. La proposta del ministro facilmente cadrebbe sotto i colpi della Corte Costituzionale quanto meno per violazione dell’articolo 3 e del principio di ragionevolezza. Non è razionale cancellare per legge ciò che sicuramente esiste nei fatti: lo spaccio di 1 grammo di hashish o la cessione di mezzo grammo di cocaina, magari fatta gratuitamente tra conoscenti, sono o non sono cosa diversa dalla detenzione, ad esempio, di mezzo chilo di stupefacente trovato insieme a mezzi per confezionamento ed altro? Se scomparisse la fattispecie di particolare tenuità, lo spaccio di 1 grammo di cocaina avrebbe la pena minima di 8 anni di reclusione. Cancellare con legge la differenza tra due fenomeni, oggettivamente diversi e con ben diverso disvalore e ben diversa pericolosità, sarebbe uno strappo non solo dei principi costituzionali ma del principio di realtà. Togliere proporzionalità al diritto penale vuole dire trasformarlo in uno strumento irragionevole ed illiberale, da Stato di Polizia”. Che effetti si registrarono con la legge Fini-Giovanardi e quali effetti potrebbe avere il nuovo disegno di legge? “Con la Fini Giovanardi non erano diminuiti i consumatori, non erano diminuiti i morti ma erano aumentati i detenuti per reati legati alla droga. E il risultato di questa nuova operazione inutilmente repressiva sarebbero: l’aumento del sovraffollamento delle carceri, una drastica riduzione di operatività dei Serd e delle Comunità di recupero, l’aumento della sfiducia del cittadino verso la magistratura, vista come lontana ed insensibile alle esigenze di sicurezza, l’aumento o sedimentazione del consenso a favore a favore di chi afferma di voler dare riscontro a quelle esigenze, l’aumento della confusione conoscitiva nella collettività circa le effettive competenze dei poteri dello Stato nel far fronte alle esigenze delle persone. Non ultimo, di conseguenza, un aumento del senso di incertezza e di ansia, prodromico a scelte non ponderate e responsabili del cittadino”. Droghe. Ddl Lega, Petrelli: “Il diritto penale non è strumento di propaganda politica” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 8 marzo 2019 L’ex segretario dell’Unione Camere Penali si schiera con i “no”: “La risposta repressiva è in fase di revisione anche nell’America di Trump per i costi elevati e per la sua inefficacia”. “Il diritto penale non dovrebbe mai essere usato come uno strumento di propaganda politica, con l’aumento delle pene utilizzato in chiave di rassicurazione dell’ansia indotta nell’opinione pubblica da singoli casi di cronaca”. Francesco Petrelli, fino a qualche mese fa segretario dell’Unione Camere Penali, commenta il disegno di legge a firma Lega con cui il Carroccio propone di contrastare lo spaccio degli stupefacenti raddoppiando le pene e abolendo la “modica quantità”. “Il principio di proporzionalità, come ci insegna la Corte Costituzionale, deve regolare la risposta punitiva ed è del tutto sproporzionato e contrario al buon senso irrogare pene elevate per condotte che possono essere davvero assai modeste. La risposta repressiva di massimo rigore del tipo ‘chi sbaglia paga e getto via le chiavi’ è in crisi anche nei paesi che per primi l’hanno promossa ed è in fase di revisione anche nell’America di Trump per i costi elevati e per la sua inefficacia”. Che effetto avrebbe il ddl sulle carceri italiane? “Una soluzione del genere, che sostituisce la prevenzione e il controllo del territorio con la repressione, avrebbe un effetto devastante sulle strutture carcerarie che soffrono di un endemico sovraffollamento con istituti di pena che versano in condizioni di collasso con poco personale e poche risorse”. Il governo risponde riprendendo la vecchia tesi, considerata un vicolo cieco dalla precedente proposta di riforma, della costruzione di nuove carceri. Cosa ne pensa? “Costruire nuovi carceri significa impegnarsi in un progetto dai tempi lunghissimi e incompatibili con simili riforme estemporanee, ma soprattutto significa dimenticare che appunto un carcere ha bisogno di operatori, agenti penitenziari, personale amministrativo: tutte figure che non sono disponibili. Significa investire enormi risorse in un progetto repressivo privo di senso, inefficace ed incostituzionale”. Migranti. “Salvati dalla Sea Watch a dicembre, ora detenuti a Malta” dire.it, 8 marzo 2019 Dopo l’epopea che gli ha tenuti bloccati per 19 giorni in mare, i migranti della Sea Watch e Sea Eye si troverebbero da ormai due mesi all’interno di un centro di detenzione di Malta. “Dopo essere state bloccate in mare per 19 giorni, la maggior parte delle 49 persone soccorse lo scorso dicembre dalle imbarcazioni di Sea Watch e Sea Eye si trovano da ormai due mesi all’interno del centro di detenzione (Irs) per richiedenti asilo di Marsa, a Malta”. È quanto denuncia Mediterranea Saving Humans, la piattaforma della associazioni italiane che con Nave Mare Jonio si alterna nel Mare Mediterraneo con le Ong Open Arms e Sea Watch. “Chiunque - aggiunge - ricorda lo spettacolo desolante offerto dai governi europei che per settimane, mentre a queste donne, a questi bambini, a questi uomini, non veniva permesso di sbarcare dalle navi che li avevano salvati, hanno negoziato la loro redistribuzione al di fuori di ogni quadro di legalità trattandoli come merce invece che come soggetti di diritto, o come esseri umani”. “La loro sorte è la dimostrazione di quanto questa prassi- prosegue Mediterranea- comporti la sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone coinvolte. Dalla mattina del 5 marzo molti di coloro che sono sbarcati a gennaio sono in sciopero della fame, per protestare contro il regime di detenzione de facto al quale sono illegalmente sottoposti e per chiedere che venga fatta chiarezza sulle procedure di ricollocazione che gli Stati membri stanno portando avanti attraverso meccanismi di selezione totalmente arbitrari. Apprendiamo dai racconti di chi si trova a Marsa che le delegazioni di Francia e Germania hanno escluso diverse persone dalla possibilità di essere trasferite in questi paesi, sulla base di motivazioni oscure e senza che il rifiuto venisse comunicato per iscritto, rendendo così impossibile agire per vie legali contro tale decisione. Altri invece non hanno avuto alcuna notizia in merito al loro trasferimento e non hanno avuto accesso nemmeno alla prima fase di questo meccanismo informale costituita da un’intervista condotta da funzionari degli stati di destinazione”. “Non è dato sapere quale sarà il destino di queste persone né quanto durerà il loro trattenimento e su quale base sia stato disposto, anche nei confronti di minori privi di figure familiari di riferimento e di nuclei familiari con bambini molto piccoli. Mediterranea Saving Humans chiede con forza che a questa detenzione arbitraria venga posta fine e che queste persone, dopo tanta sofferenza e tante violazioni subite, possano finalmente accedere ai loro diritti e iniziare la loro vita in Europa”. Russia. Contro le fake news una legge che minaccia la libertà di parola di Rosalba Castelletti La Repubblica, 8 marzo 2019 Anche Mosca dichiara guerra alle “false notizie”, ma attivisti e osservatori temono che, dietro ai proclami, si nasconda un’ulteriore stretta alla libertà di parola. In terza e ultima lettura la Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, ha approvato un pacchetto di leggi che vieta la diffusione di “notizie non verificate presentate sotto la guisa di fatti credibili” e i commenti oltraggiosi nei confronti dei simboli dello Stato, come bandiera e Costituzione, e delle “autorità”, incluso il presidente Vladimir Putin (nella foto, a cavallo insieme ad alcune poliziotte). Le pene per utenti di Internet e giornalisti vanno da multe al carcere e al blocco dei siti online. Per entrare in vigore, la legge deve essere approvata al Senato e siglata da Putin. Una formalità. Tanto che gli attivisti promettono proteste. “10 marzo, Mosca, viale Sakharov”, ha scritto il blogger anti-corruzione e oppositore Aleksej Navalnyj sulla sua pagina Facebook, dando appuntamento in piazza. “Hanno approvato leggi terribili su Internet che consentono di bloccare tutto. Il risultato di tutte queste leggi saranno una massa di multe pazzesche e serrature assurde”. Siria. I rifugiati siriani chiedono all’Aja di processare Assad La Repubblica, 8 marzo 2019 Processate Bashar al Assad per crimini contro l’umanità. Per la prima volta, un gruppo di 28 rifugiati siriani prova a portare davanti alla giustizia internazionale il dittatore siriano, accusato di aver commesso atrocità durante la guerra civile. I rifugiati - rappresentati da uno studio legale londinese e dal Guernica Centre for International Justice - hanno presentato due denunce alla Corte penale internazionale dell’Aja. Finora non era mai accaduto, perché la Siria non ha firmato lo statuto di Roma, il trattato internazionale che ha istituito il Tribunale dell’Aja e non è soggetta dunque alla sua giurisdizione. Ma una sentenza dello scorso anno ha aperto un varco legale. La Corte infatti si è pronunciata sulla presunta deportazione dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh. Il Myanmar come la Siria non è tra i firmatari dello Statuto di Roma, ma il Bangladesh lo è e il Tribunale penale internazionale può pronunciarsi sui crimini commessi nel Paese. “Lo stesso principio dovrebbe applicarsi alla Siria e alla Giordania”, ha spiegato l’avvocato Toby Cadman, visto che Giordania è tra i Paesi firmatari del trattato. Amnesty: “Il Consiglio dell’Onu prenda posizione sull’Arabia Saudita” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 8 marzo 2019 Amnesty International ha sollecitato gli Stati membri delle Nazioni Unite a prendere posizione nei confronti delle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita, aderendo a una dichiarazione prevista per oggi nel Consiglio dell’Onu dei diritti umani sulla repressione degli attivisti. “Chiediamo agli Stati, soprattutto a quelli alleati all’Arabia Saudita, di usare questa dichiarazione per sollecitare il rilascio immediato e incondizionato delle difensore dei diritti umani e di altre persone in carcere solo per aver criticato le autorità” ha dichiarato in un comunicato Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. La dichiarazione, prevista per oggi durante la sessione del Consiglio dell’ONU dei diritti umani, dovrebbe riguardare l’uso delle norme anti-terrorismo per criminalizzare chi esercita pacificamente il diritto alla libertà di espressione e di manifestazione e l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. “L’iniziativa del Consiglio dei diritti umani offre una rara opportunità agli Stati per prendere una forte posizione pubblica contro il lungo elenco di violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Gli Stati che resteranno in silenzio rischiano di venir meno alle loro responsabilità in un momento cruciale e di inviare alle autorità saudite il messaggio che potranno continuare a compiere gravi violazioni dei diritti umani senza che nessuno le chiami a risponderne”, ha aggiunto Morayef. Sud Sudan. Il cessate il fuoco non tiene e precipita la situazione di crisi Redattore Sociale, 8 marzo 2019 La situazione è ormai fuori controllo nella capitale Giuba e nelle altre zone del Sud Sudan, in guerra da dicembre 2013. Nonostante la firma di un cessate il fuoco, nel Paese si registrano esecuzioni sommarie, raid di gruppi armati e stupri di massa. E ora anche la carestia, aggravata dalla guerra. Precipita la situazione in Sud Sudan. Il cessate il fuoco firmato dal presidente Salva Kiir e dal leader dei ribelli, Riek Machar, non tiene. E così si torna a parlare di rapimenti ed esecuzioni. Il tutto aggravato da una carestia che sta colpendo il paese. Una situazione che è stata denunciata nei giorni scorsi anche dai vescovi del Sud Sudan, come riportato dall’agenzia Fides: “La pace dovrebbe garantire beni di prima necessità e servizi alla popolazione, ma questo non sta accadendo”. Esecuzioni capitali. Amnesty International ha fatto sapere che a febbraio, il mese in cui le violenze hanno raggiunto l’apice, sono state eseguite ben 7 condanne a morte, ossia tante quante l’intero 2018. E in alcuni casi le impiccagioni sono state fatte in assoluta segretezza e senza avvisare i parenti. Rischio fame. Nel loro più recente rapporto, Fao, Unicef e World Food Programme hanno fatto sapere che in Sud Sudan ci sono quasi sette milioni di abitanti in pericolo di sicurezza alimentare. Di questi, 860 mila sono minori. Dati in costante peggioramento: il numero di chi potrebbe essere presto malnutrito è cresciuto del 13% da gennaio 2018 a oggi. Le cause. Prima responsabile di questa situazione è la guerra, che di fatto impedisce alla popolazione di avere cibo. Gli scontri, inoltre, rappresentano spesso un ostacolo insormontabile per chi coltiva o si dedica all’allevamento. Per esempio, si prevede che la coltivazione di cereali, che lo scorso anno è servita al 61% delle persone, quest’anno non supererà il 52%. “Le proiezioni sono allarmanti e la sicurezza alimentare continua a peggiorare”, ha commentato Pierre Vauthier, rappresentante della Fao in Sud Sudan. Politica in alto mare. Nel paese africano continuano a registrarsi gravi episodi di violenza. Un report dell’Unhcr di metà febbraio, per esempio, ha denunciato 175 vittime di stupro nello Stato di Unity, una regione petrolifera caratterizzata da aprile 2018 dalle incursioni di una milizia legata al vicepresidente Taban Deng Gai, che agisce insieme a una divisione dell’esercito regolare. Ad aggravare la situazione, inoltre, ci sono formazioni politiche, con milizie al seguito, che si sono rifiutate di firmare la tregua. La storia. Il Sud Sudan ha conquistato l’indipendenza nel 2011 ed è ad allora che risalgono i primi motivi di conflitto, a partire dall’accesso al cibo e alla spartizione del potere politico. Una situazione che ha portato al progressivo sgretolamento interno sia del Movimento di liberazione del popolo sudanese, sia delle fazioni più vicine a Riek Machar e Taban Deng Gai.