Sovraffollamento nelle carceri: facciamo chiarezza di Francesco Basentini* gnewsonline.it, 7 marzo 2019 Nel mantenere la massima attenzione sul tema delle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, con particolare riferimento al rispetto delle esigenze di spazio dei detenuti, non si può non avvertire il bisogno di fare chiarezza sul tema del sovraffollamento della popolazione detentiva, sovente trattato in maniera assolutamente opinabile. Nonostante l’azione dell’Amministrazione penitenziaria sia quotidianamente concentrata e diretta alla risoluzione dei tanti problemi e delle tante criticità, connessi al mondo delle carceri, molti trattano il sovraffollamento come una di tali criticità, adombrando il dubbio che l’Amministrazione non rispetti le prescrizioni fissate dalle convenzioni internazionali e dalle sentenze delle autorità giudiziarie, italiane ed europee. Al contrario di quanto molti affermino, quello del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani è un falso problema, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista dimensionale-logistico. Adottando come parametro di riferimento i criteri e le prescrizioni dettati dagli organismi internazionali, infatti, la capacità ricettiva degli istituti penitenziari è di gran lunga superiore alla soglia dei 60.000 detenuti, che attualmente vivono nelle carceri italiane. Infatti, per una scelta di cautela e di prudente gestione degli spazi detentivi, il ministero della Giustizia con circolare del 17 novembre 1988 decise di stabilire - quale indice del tutto interno - un livello di “capienza regolamentare”, adottando come parametro di riferimento quello indicato dal Decreto del Ministero della Sanità del 5 luglio 1975 per le civili abitazioni (ossia, 9 mq per il singolo detenuto, ai quali andavano aggiunti altri 5 mq per ogni detenuto in più): dunque, un indice dimensionale ben più elevato di quello, pari a 3 mq, utilizzato dalle organizzazioni sovranazionali e dalle corti europee, quale soglia minima al di sotto del quale può esserci trattamento inumano e degradante. Il “sovraffollamento”, più volte censurato in diversi sedi non istituzionali, altro non è che il superamento della capacità regolamentare (quella dei 9 mq per singolo detenuto, più 5 mq per ogni ulteriore detenuto). Atteso che, in base alla capienza regolamentare, lo spazio effettivo a disposizione di ogni detenuto è di gran lunga superiore ai limiti minimi imposti, tanto dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu) quanto per il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt), non è dato comprendere quale rilevanza giuridica o politica possa essere riconosciuta alle opinioni e alle proteste che vengono sollevate sul predetto tema. Del resto, se le medesime opinioni avessero trovato un sostegno giuridico, è facile immaginare quali e quante sarebbero state le condanne inflitte allo Stato italiano in materia. Si consideri, inoltre, che quasi tutti gli altri Paesi europei si sono dati parametri di calcolo differenti, spesso ben più bassi dei 9 mq + 5 mq considerati in Italia. Per dovere di informazione totale, si sottolinea che la Cedu non ha mai indicato un valore numerico inderogabile, ritenendo di non poter “quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione. Esso può infatti dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto”. D’altro canto, il Cpt chiede uno standard minimo di 4 mq. per detenuto, raccomandando che le celle occupate da una sola persona non misurino meno di 7 mq: in uno studio effettuato da giuristi della Cancelleria della Cedu su vari rapporti del Cpt, emerge la raccomandazione di uno spazio minimo accettabile di 6 mq. per un solo occupante, di 9 mq. per due occupanti e di 4 mq. per detenuto con riguardo a spazi più ampi. Anche se calcolata in base a queste ultime indicazioni, la capienza degli istituti penitenziari italiani non soffrirebbe di alcuna condizione di sovraffollamento. *Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria La difficile vita in cella delle 2.600 detenute italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2019 Analisi dell’Unione europea delle cooperative, su dati del Ministero della Giustizia, per la giornata delle donne. L’ingresso di figure femminili nel personale, anche con ruoli di direzione ha avuto un impatto importante nel percorso verso una nuova e migliore attenzione al tema. “Sono oltre 2.600 le donne che passeranno la festa dell’ 8 marzo in una cella delle carceri italiane e fra di loro ci sono 49 mamme con 53 bambini al seguito”. È quanto emerge da un’analisi di Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, su dati del ministero della Giustizia in occasione della Giornata internazionale dedicata alle donne di domani. “Su un totale di 60.348 detenuti - spiega Uecoop - le “quote rosa” rappresentano poco più del 4% e sono concentrate principalmente in Lombardia, Campania e Lazio”. Rispetto ai detenuti maschi, rileva Uecoop, “le donne vivono una situazione più delicata sia, spesso, per la gestione dei rapporti con la famiglia sia per i legami con i figli dentro e fuori il carcere, con problemi aggravati per le detenute straniere”. Inoltre, si sottolinea nell’analisi, “una volta scontata la pena e uscite dal carcere esistono difficoltà di reinserimento con una dinamica che aumenta il rischio di recidive criminali”. Per questo, secondo Uecoop, “è necessario potenziare tutti quei progetti di reinserimento e di percorsi professionali che permettono ai detenuti di provare a ricostruirsi un futuro e una vita nella legalità sia da soli sia magari aggregati in cooperative. Orticoltura, sartoria e ristorazione sono i settori dove più frequentemente le detenute compiono percorsi di professionalizzazione”. In questi anni “le donne - conclude Uecoop - nelle diverse iniziative nelle quali sono state coinvolte hanno saputo mostrare grandi capacità organizzative che, se indirizzate nella giusta direzione, possono dare un contributo importante alla crescita della società”. La detenzione femminile è stato un aspetto, soprattutto nel passato, molto trascurato. Nella società libera non è corretto - riferendosi alle donne - parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega molto bene l’ultimo rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché “il carcere - si legge nel rapporto - è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi, con regole definite attorno a tale pensiero e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere”. Alcuni anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato all’interno della sua struttura organizzativa un apposito settore dedicato alla riflessione sul tema della detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia in anni recenti e purtroppo il Garante nazionale si è trovato di fronte ad alcune situazioni limite in cui, per esempio, quattro donne erano ristrette in un Istituto di ben più di centocinquanta uomini. Ma qualche passo in avanti è stato fatto. L’ingresso, fondamentale, di figure femminili nel personale, anche con ruoli di direzione e di comando della Polizia penitenziaria ha avuto un impatto importante nel percorso verso una nuova e migliore attenzione al tema, anche per i suoi riflessi sulla detenzione in generale. Ma “ancora molta strada deve essere fatta - si legge nel rapporto del Garante - perché ovunque il punto di vista femminile sia colto come fattore significativo per ripensare il carcere nel suo complesso e la sua quotidiana gestione, superando antiche maschiliste impostazioni”. Non a caso, si sottolinea, che mai una donna è stata a capo dell’Amministrazione penitenziaria. La religione della “certezza della pena” e i limiti costituzionali del legislatore di Daniele Caprara* Il Dubbio, 7 marzo 2019 C’è da chiedersi se le norme che assecondano l’aggressività di una parte del “comune sentire” rispettino il limite della discrezionalità o forzino l’articolo 25 della carta. La recente affermazione di un Ministro, secondo il quale la fattispecie che prevede un trattamento sanzionatorio di minor gravità per le ipotesi di cessione di modiche quantità di stupefacenti “è un aiuto prezioso per gli spacciatori... (che) vengono arrestati e in serata sono già liberi”, al di là della ruvidità, rivela un tratto che caratterizza le iniziative dell’attuale esecutivo, e si inserisce in un più ampio disegno che individua nel carcere il punto di approdo. L’effetto tenaglia ottenuto dal pressoché contestuale innalzamento generalizzato della cornice sanzionatoria di molti delitti, unitamente alla previsione di pene accessorie perpetue e all’aumento dei casi nei quali l’esecuzione della pena comporta l’immediata e indiscriminata carcerazione, o per i quali è impossibile il ricorso a misure alternative, costituisce l’epifenomeno di un progetto politico ormai nettamente delineato. Abbandonate le sponde della prospettiva rieducativa, frainteso il concetto di certezza della pena - offerto al pubblico nella sua accezione gergale - il legislatore sembra superare ogni barriera per avviarsi verso una nuova meta che non solo istituisce il canone della retributività quale fine unico della sanzione, ma soprattutto ignora totalmente il senso di proporzione. La strada intrapresa, che elegge la funzione di difesa sociale come preminente sul rispetto delle posizioni individuali, è destinata a confrontarsi con il quesito relativo ai vantaggi che una scelta siffatta consenta di ottenere: se essa giustifichi i danni all’individuo e ai suoi diritti fondamentali. Se possa, per eterogenesi dei fini, determinare danni alla società in misura maggiore rispetto ai vantaggi ottenuti. Perché, se eleggiamo l’esemplarità delle pene come parametro della sanzione e il “marcire in carcere” come modalità esecutiva delle stesse, il quesito dovrà pur essere risolto. Anche perché, a tacer d’altro, tale scelta, indifferente all’evoluzione del comune sentire giuridico, prima ancora che ai precetti fondamentali, sconta una scarsa memoria del panorama nel quale versavano gli istituti carcerari nazionali prima dell’intervento della legge Gozzini, e appare ignara dei dati statistici che hanno negli anni evidenziato come siano state proprio le misure risocializzanti a consentire il progressivo abbattimento della recidiva e minori costi per la società. L’irrazionalità delle scelte del nuovo corso trova - di tutta evidenza - quale unico scopo quello di dare attuazione a esigenze di giustizia assoluta, inesorabilmente tese a elidere qualsiasi interesse verso la futura vita del condannato, destinato all’oblio, se non ad una morte civile di fatto. Pare lecito domandarsi, a questo punto, se gli interventi legislativi che assecondano l’aggressività espressa da una parte del sentimento popolare - forse veicolato e sollecitato da alcuni processi di coltivazione mediatica - rispettino il limite della discrezionalità o usino in modo distorto le prerogative istituite dall’articolo 25 della Costituzione, sconfinando nell’arbitrio. In attesa che qualcuno arresti la deriva rancorosa della vendetta. Perché la pena non sia mai disgiunta dalla speranza. Perché, nella fretta, non siano buttate via anche le chiavi dell’equilibrio. *Past president Camera penale La Spezia Il bilancio partecipativo entra in carcere (a Bollate). Ed è una cosa bellissima di Irene Dominioni linkiesta.it, 7 marzo 2019 L’obiettivo del crowdfunding è raccogliere 20mila euro per lo sviluppo di due proposte pensate dai detenuti per migliorare la vita nel carcere. Un’iniziativa per far “incontrare” cittadini e detenuti, superando i pregiudizi degli uni e stimolando la fiducia degli altri verso le istituzioni. Di bilancio partecipativo abbiamo già avuto modo di parlare. Un’attività che mette direttamente nelle mani dei cittadini l’opportunità di dire la propria, di fare proposte e, democraticamente, di decidere come spendere una quota di budget per la propria città. Milano si è già messa in gioco in questo senso, e recente è pure la notizia dell’inserimento dei progetti del Bp nel piano triennale delle opere pubbliche che verrà approvato entro la fine di marzo. Ma il bilancio partecipativo non si ferma alla dimensione cittadina, e anzi, adesso fa ulteriori passi avanti. Perché per la prima volta questa forma di democrazia diretta entra in carcere, più precisamente a Bollate. E stavolta il progetto è veramente innovativo (oltre che inedito). Non solo perché per la prima volta i carcerati potranno elaborare proposte e votare progetti per migliorare concretamente la propria vita quotidiana all’interno del carcere. Ma anche e soprattutto perché il budget per la realizzazione dei progetti vincitori proviene da fuori, dalla libera volontà dei cittadini che, attraverso un crowdfunding, decidono di contribuire direttamente al benessere dei reclusi. Il progetto, che prende il nome di “Idee in fuga”, è stato pensato e sviluppato da Bi-Part, impresa sociale incentrata su forme di partecipazione civica ed esperta in particolare di bilancio partecipativo. L’ideatore del progetto è Giorgio Pittella, mentre Stefano Stortone, fondatore di Bi-Part, ne è il coordinatore. “Abbiamo voluto creare un progetto che avesse il detenuto come vero protagonista della comunità, che potesse creare e consolidare le relazioni fra i detenuti e con tutti i soggetti coinvolti”, spiega Pittella. L’iniziativa, infatti, vede coinvolti i carcerati di Bollate nelle loro sezioni sia maschili che femminili, coordinati dal personale del carcere e da quello di Bi-Part, e sostenuti dal Comune di Milano (che ha concesso il patrocinio) oltre che da una serie di “testimonial”, da Lucia Castellano, ex direttrice del carcere, a Don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova e promotore di interventi sociali. Ma anche da un gran numero di designer che, sotto la guida dell’illustratrice Marcella Peluffo, hanno ideato e donato delle illustrazioni inedite legate al tema del progetto e acquistabili in edizione limitata per sostenere la raccolta fondi. E proprio qui viene il bello. Perché Idee in fuga è stato pensato proprio per fare sì che siano gli stessi cittadini a mettersi in gioco, donando liberamente per l’acquisto delle illustrazioni, ma anche attraverso offerte libere tramite il sito, per consentire di mettere insieme i fondi necessari per realizzare le opere vincitrici. Il budget previsto è di 10mila euro per ciascuno dei due progetti (uno frutto del lavoro della sezione maschile del carcere, uno per quella femminile) da realizzare a partire da settembre 2019. Una vera e propria “gara di solidarietà”, come l’ha definita anche Lorenzo Lipparini, assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open data del Comune di Milano in occasione dell’evento di lancio, tenutosi a Base Milano il 28 febbraio, e anche un modo per “costruire comunità non solo nel carcere ma anche all’esterno, coinvolgendo quante più persone possibili”, aggiunge Stefano Stortone. “L’incontro tra la comunità e il carcere è un’esperienza molto profonda”, ha dichiarato in occasione dell’evento Catia Bianchi, educatrice e responsabile delle attività culturali all’interno del carcere, e “intesa soprattutto ad abbattere pregiudizi”. Non a caso, infatti, il progetto è pensato sia per promuovere all’esterno la conoscenza della vita e dei bisogni dei detenuti, ma anche per generare nuovi circoli di fiducia da parte dei carcerati verso l’istituzione penitenziaria. L’idea per il progetto (nata già a settembre 2016) viene proprio da lì. “È stata un’amica che lavorava a Bollate a spiegarmi come i problemi in carcere ci siano, ma la fiducia verso il personale da parte dei detenuti è molto scarsa”, spiega Pittella. La scommessa, dunque, è a maggior ragione forte: “In carcere è faticoso pensarsi in maniera sufficientemente libera. Chiedere di essere presente e partecipe in un luogo dove la libertà non ce l’hai è la vera sfida di questo progetto”, aggiunge Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica di Milano e una dei testimonial del progetto. Ancora una volta, il carcere di Bollate si conferma come realtà veramente innovativa tra le istituzioni carcerarie italiane. Dopo le esperienze di teatro carcere e del ristorante InGalera, la casa di reclusione aggiunge un ulteriore tassello ad un puzzle di attività che fanno parte di “un progetto a monte” che è anche la carta vincente di Bollate, secondo le parole di Catia Bianchi. “Malgrado le persone siano tutte diverse e ci sia un via vai continuo di detenuti, a differenza di altri istituti a Bollate ciascuno può portare il proprio pensiero e rapportarsi con l’autorità. Così il carcere diventa come una famiglia”, specifica Angela Tommasin, ex detenuta che a Bollate ha trascorso quattro anni, più uno prima al carcere di Monza, poi chiuso. Idee in fuga prende il via il 5 marzo, con il lancio delle assemblee informative nei vari reparti del carcere. A partire dalla settimana successiva saranno invece organizzate le assemblee di deliberazione per iniziare a sviluppare e mettere insieme le proposte. A differenza del processo di bilancio partecipativo normale (che per definizione avviene su internet), a Bollate tutto avverrà inizialmente su carta, anche se i progetti saranno poi caricati sul sito dell’iniziativa, per rendere partecipi anche i cittadini dei progressi fatti. L’idea è di votare le proposte finali per maggio, continuando poi la raccolta fondi per attuare i due progetti vincitori a settembre. “L’obiettivo del crowdfunding è raccogliere 20mila euro, ma tutto quello che verrà donato in più andrà comunque a finanziamento dei progetti, lasciandone solo il 50% come compenso a Bi-Part”, conclude Stortone. Idee in fuga, infatti, è finora stato sviluppato e sostenuto (in termini di energie e tempo) in forma completamente gratuita da parte della startup. “Noi lo facciamo perché ci crediamo profondamente. Ora speriamo che con il crowdfunding arrivino anche i fondi necessari”. Da adesso, quindi, la palla passa in mano ai cittadini. Che sia tramite l’acquisto di una delle illustrazioni donate dai designer o attraverso una donazione spontanea, l’occasione per dare il proprio contributo c’è. Ché la libertà, in fondo, passa anche da qui. Naspi a due vie per i detenuti occupati di Carla De Lellis Italia Oggi, 7 marzo 2019 L’indennità di disoccupazione non spetta se i detenuti lavorano per il carcere, mentre è riconosciuta se l’attività è svolta per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Non ne hanno diritto se lavorano per il carcere; spetta, invece, quando lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Lo precisa l’Inps nel messaggio n. 909/2019, sulla base dei chiarimenti forniti dal ministero del lavoro e da quello della giustizia, nonché dei più recenti indirizzi giurisprudenziali in materia. Il lavoro nel sistema penitenziario. I chiarimenti prendono origine dal dlgs n. 124/2018 (norme sull’ordinamento penitenziario). Il provvedimento, spiega l’Inps, stabilisce tra l’altro che negli istituti penitenziari va favorita in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Dispone, inoltre, che la durata delle prestazioni lavorative non può superare gli ordinari limiti di lavoro e che sono garantiti il riposo festivo, quello annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale. La corte di cassazione, inoltre, pronunciandosi sui diritti ai detenuti che svolgono lavoro alle dipendenze dell’istituto penitenziario, ha affermato che tale lavoro “non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. L’attività, infatti, ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione” (cassazione, sez. penale, sentenza n. 18505/2006). Naspi a due vie. Alla luce di ciò, l’Inps precisa che ai detenuti, che svolgano lavoro retribuito all’interno e alle dipendenze della struttura penitenziaria, non può essere riconosciuta la Naspi in occasione di periodi d’inattività; mentre, è fatto salvo il diritto alla Naspi ai detenuti in caso di rapporto di lavoro svolto con datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. In merito, l’Inps ricorda che, secondo quanto disposto dalla legge n. 56/1987, i detenuti che già godevano del diritto all’indennità di disoccupazione prima che iniziasse lo stato di detenzione continuano ad averne diritto anche durante il periodo di detenzione, salvi i casi di revoca giudiziale della prestazione. I contributi. Sul piano contributivo, inoltre, l’Inps precisa che gli istituti penitenziari sono comunque tenuti al versamento della contribuzione contro la disoccupazione a favore dei detenuti che svolgono attività alle loro dipendenze. E che questa contribuzione sarà utile, nelle ipotesi di cessazione involontaria da un rapporto di lavoro con datori di lavoro diversi dall’istituto penitenziario, ai fi ni della Naspi (ovviamente qualora rientrante nel periodo di quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione). Gli omosessuali vanno in sezioni “omogenee” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2019 Il Giudice di sorveglianza di Spoleto ha accolto il reclamo di un recluso. L’uomo era insieme a sex offenders, collaboratori di giustizia e altri con particolari esigenze di protezione e non poteva svolgere attività trattamentali. L’altro ieri il Dubbio ha affrontato le problematiche delle detenute transessuali e i ristretti Lgtb in generale. Con una recente ordinanza, l’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto ha accolto il reclamo di un detenuto omosessuale che era stato destinato dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria in una sezione protetta e promiscua, insieme a detenuti portatori di diverse e anche opposte esigenze di protezione (sex offenders, collaboratori di giustizia, ecc.). Il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi ha sottolineato come con la recente riforma dell’Ordinamento penitenziario sia stato riconosciuto il diritto, ex art. 14, comma 7 O. P. delle persone che abbiano dichiarato il proprio orientamento omosessuale (con dichiarazione rimessa alla sola scelta dell’interessato, anche al fine di fruire di colloqui e trattamento finalizzati alla tutela dei suoi rapporti familiari) ad essere allocate, ove lo richiedano per esigenze di sicurezza, in sezioni ‘ omogeneè e comunque alla partecipazione alle attività trattamentali. Di conseguenza è illegittima l’allocazione in sezioni promiscue, sia perché le stesse non assicurano piena protezione, attesa la detta promiscuità con detenuti portatori di diverse e anche opposte esigenze di protezione, sia perché nel caso concreto non assicura piena partecipazione al trattamento rieducativo. Accogliendo il reclamo, dunque, il giudice ha ordinato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il suo trasferimento in sezione omogenea entro il termine di 30 giorni e con obbligo di comunicazione al magistrato di sorveglianza. Il detenuto, nel suo reclamo, aveva lamentato di subire come una vessazione il proprio inserimento all’interno di una sezione “protetta” dell’istituto penitenziario, nella quale erano presenti anche detenuti separati dal resto della popolazione ristretta per la particolare tipologia di reati commessi, e aveva aggiunto di non essere posto in condizioni neppure di svolgere sufficienti attività trattamentali, che in quella sezione non sarebbero adeguatamente previste. La casa circondariale ha confermato l’avvenuto inserimento del detenuto all’interno della sezione definita come “protetti-promiscua” in ragione dell’orientamento sessuale dichiarato dall’interessato. Il magistrato di sorveglianza ha aggiunto che lo stesso appare polarizzato, nell’osservazione, sui timori legati alla propria condizione di persona omosessuale, invisa ai suoi connazionali, e sul desiderio di essere trasferito presso un altro carcere dove a suo dire poteva contare su molte opportunità risocializzanti. Il magistrato Gianfilippi ha accolto il reclamo, premettendo che è trattato nelle forme di cui all’articolo 35 dell’Ordinamento penitenziario, il quale - grazie alla recente riforma - esplicita ulteriormente il diritto che ciascun detenuto ha ad un trattamento penitenziario imparziale e non discriminatorio, aggiungendo un espresso riferimento al divieto di discriminazione dipese dal sesso, dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale. Il detenuto era stato ristretto nella sezione specifica solamente perché aveva dichiarato il proprio orientamento. In estrema sintesi, la protezione e quindi separazione dai detenuti per evitare di subire aggressioni e sopraffazioni sì. Ma assieme a detenuti che hanno le sue stesse esigenze di protezione. Ovviamente con la possibilità di compiere attività trattamentali assieme agli altri detenuti, sotto l’attento controllo degli agenti penitenziari. Ricordo di Don Peppe Diana. Parla l’Ispettore dei cappellani, don Raffaele Grimaldi di Gigliola Alfaro difesapopolo.it, 7 marzo 2019 Il 19 marzo cadrà il 25° anniversario del barbaro assassinio, per mano della camorra, di don Peppe Diana, parroco a Casal di Principe. Il ricordo di don Raffaele Grimaldi, ispettore dei cappellani delle carceri italiane, che è stato suo amico, dai tempi del seminario. Su iniziativa di don Raffaele in tutte le carceri si rifletterà e si pregherà per don Peppe, perché la sua figura “può aiutare i detenuti a rendersi conto del male fatto e a ravvedersi”. “Riflettere sul martirio di don Peppino Diana vuole essere un messaggio per risvegliare le coscienze e dire con forza che nessuno è padrone della vita dell’altro, nessuno può togliere e calpestare la vita di un altro essere umano. Ma, allo stesso tempo, è anche una giornata di preghiera per chiedere al Signore il dono della nostra conversione e il cambiamento della nostra vita”. Nasce con questo spirito l’iniziativa promossa dall’ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, che ha scritto una lettera a tutti i cappellani invitandoli a celebrare negli istituti penitenziari, una giornata in memoria, di riflessione e di preghiera, dedicata a don Peppe Diana. Si avvicina, infatti, il 25° anniversario della sua uccisione (19 marzo 1994) per mano della camorra, mentre si apprestava a celebrare la messa nella sua parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Un invito, quello di don Grimaldi, che parte dalla sua conoscenza personale di don Diana, suo amico di studi nel seminario di Aversa. L’ispettore generale dei cappellani parteciperà anche all’incontro “Per testimoniare la verità e la giustizia”, che si terrà lunedì 18 marzo, nel carcere di Secondigliano, a Napoli, a cui interverrà, tra gli altri, il vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo. Don Raffaele, quando ha conosciuto don Diana? Siamo stati in seminario nello stesso periodo: quando ci siamo conosciuti, io frequentavo il quarto ginnasio e Peppe il primo liceo. Era anche il mio prefetto. La nostra amicizia è nata proprio lì, in seminario. Ho di lui un bel ricordo: era un giovane scherzoso, vivace, schietto, ma anche irrequieto. Eravamo in seminario, ma il suo cuore era già proiettato al di là, molto attento anche a quello che accadeva fuori dal seminario, alle problematiche sociali, ma a quell’epoca i seminari erano più chiusi, quindi spesso entrava in conflitto con i superiori quando proponeva esperienze forti. Al tempo stesso, però, era un giovane di grande preghiera: lo ricordo così preso durante le adorazioni in comunità. Prima del sacerdozio, ha vissuto esperienze di forte spiritualità in comunità monastiche. Curava la sua vita spirituale anche nella contemplazione: quante volte l’ho visto in cappella da solo a pregare! Che sacerdote è stato don Peppe? Coraggioso, impegnato a fasciare le molte ferite degli uomini e nel recupero dei giovani, ai quali dedicava tutto il suo tempo e tutte le sue energie giovanili per servire la Chiesa. Ma non solo: dopo essere stati ordinati sacerdoti, nel 1992 io fondai il centro Regina Pacis a Giugliano e don Peppe nella sua parrocchia accoglieva poveri e immigrati. Sull’attenzione alle fasce più deboli era molto attivo, sensibilizzando anche la comunità e in particolare educando i giovani al servizio, all’accoglienza, all’amore per gli ultimi, sull’esempio di Gesù. In quel periodo andavamo insieme a cercare, in cascinali abbandonati, immigrati soli e disperati, che vivevano in condizioni precarie, senza corrente, per portare loro aiuti concreti e conforto. C’è poi l’impegno contro la camorra… Da parroco, a Casal di Principe, si è trovato a fare i conti con la drammatica pervasività della camorra nella vita del paese. Negli anni ‘90 a Casal di Principe, ma anche nel resto della Campania, c’erano faide e ammazzamenti, si viveva molto male, nel terrore, era terra di nessuno. L’impegno contro la camorra, quindi, per don Peppe è sempre legato al suo essere sacerdote, al suo essere pastore in mezzo alle pecore, e alla sua sensibilità. Il famoso documento ‘Per amore del mio popolo non tacerò’ nasce proprio per mettere un argine alla violenza. Cosa ricorda del giorno della morte? Quando quella mattina del 19 marzo 1994, si diffuse la tragica notizia della sua morte cruenta, fu veramente uno choc. Subito dopo l’uccisione di don Peppe con alcuni confratelli di Giugliano ci recammo subito nella parrocchia di San Nicola a Casal di Principe: il suo corpo non c’era più, ma ricordo ancora quella macchia enorme di sangue a terra in sagrestia. Per me fu terribile. Nel 1993 avevo iniziato il mio impegno come cappellano nel carcere di Secondigliano, ma per la morte del mio amico andai in crisi, non volevo andare più in carcere perché sapevo che in quella realtà c’erano persone che avevano ammazzato e non riuscivo a sopportarlo. Mi ha aiutato, allora, il mio padre spirituale. Cosa può dire oggi una figura come quella di don Peppe ai detenuti? Una figura come quella di don Diana può essere di sprone a chi si trova in carcere e ha compiuto delitti o violenze, distruggendo le vite degli altri, per prendere coscienza dei propri errori. Parlare di don Peppe come sacerdote, uomo di fede, generoso verso gli altri attraverso il dono di sé, come uomo di verità, che ha subito il martirio, è un modo per far riflettere sul male compiuto, mettere a nudo le proprie povertà e invitare al cambiamento interiore. Nelle carceri non dobbiamo andare a raccontare favolette, ma avere la forza e il coraggio di presentare figure forti e belle come quella di don Peppe, un testimone per i nostri tempi, capace, come è stato, di dare la vita per il Vangelo, un esempio di vita buona che aiuta a far crescere nelle persone, anche in quelle che si sono macchiate di gravi crimini, l’amore per Dio e per i fratelli. Sorvegliare e punire di Luca Sofri wittgenstein.it, 7 marzo 2019 Molte discussioni che facciamo di questi tempi a proposito di come ottenere dei risultati per il bene comune possono essere ricondotte a un tema più generale e millenario (come direbbe Di Maio), si tratti di come convincere le persone a credere ai dati e alla scienza, di come favorire un ricambio tra le classi dirigenti, di come favorire la civiltà e la buona educazione nei rapporti online, di come combattere l’evasione fiscale, di come fare avere uguali diritti alle donne, eccetera. Le nostre società democratiche, anzi, prima ancora la “convivenza civile”, il senso di comunità di cui beneficiano poi i singoli individui, il rispetto di determinate regole, sono tutte cose che costruiamo a partire da due approcci: l’educazione e la repressione. Quando la maggioranza di noi - attraverso la sua rappresentanza democratica, o un dibattito che crea consuetudini - crea delle regole, la loro applicazione è affidata a questi due percorsi. L’aspirazione ideale dovrebbe essere che l’educazione sia sufficiente, ma a seconda dei casi non lo è in misure variabili - siamo organismi imperfetti - e per questo prevediamo misure variabili di obbligata repressione. Per restare sugli esempi più spicci, le nostre culture convengono che ammazzare un’altra persona sia ingiusto e cattivo o che passare col rosso sia sbagliato e pericoloso: e la quasi totalità di noi condivide e registra queste cose e non ammazza nessuno e non passa col rosso, e le cose funzionano bene. Per quella minoranza che non fa proprie queste idee malgrado siano estesamente spiegate e motivate, creiamo i sistemi di amministrazione della giustizia, le sanzioni, le carceri, le multe, i deterrenti, i disincentivi. Poliziotto buono dovrebbe bastare - e quasi sempre basta - se no interviene poliziotto cattivo, sempre dentro regole di cattiveria che abbiamo stabilito e condiviso. Più una società, o una regola, è capace di educare le persone, meno ha bisogno di sorvegliarle e punirle. Non solo sulle cose più puntuali o violente, naturalmente: anche sui progressi civili e di convivenza. Le quote rosa - non entriamo nel merito, sto facendo degli esempi - sono una forma di repressione dell’incapacità eccezionale da parte della società di educarsi al rispetto dei diritti delle donne. Le regole contro i troppi mandati da sindaco o governatore sono una repressione di una nociva inclinazione dei partiti a sottrarsi a un proficuo ricambio delle classi dirigenti. Più una società, o una regola, è capace di educare le persone, più serena e proficua per tutti è la convivenza: la repressione è necessaria e utile come protezione rispetto a una quota di fallimento nell’educazione, ma non può diventarne alternativa o scorciatoia. Più lo diventa, più le nostre società si spostano da convivenze civili a stati di polizia. Di recente c’è un grande dibattito su come comportarsi nei confronti di chi - dalle persone intorno a noi ad alcune classi dirigenti contemporanee - rifiuta i principi della ragione, della scienza, della logica, dell’informazione adeguata, del rispetto del prossimo, cose che ritenevamo e molti di noi tuttora ritengono indiscutibili, e su cui fondiamo la stessa educazione scolastica, quella per definizione: e una scuola di pensiero sempre più estesa va predicando che debba prevalere a un certo punto la repressione, “contro certa gente”. Sono molto incline a pensare che alla legittimazione di questo approccio concorra il suo essere facile, pigro, ed ego-soddisfacente. Ma a parte questo, contiene uno sdoganamento della repressione come prima scelta, come metodo - poliziesco - che non interviene più a rimediare a una quota di fallimento dell’educazione, dopo che l’educazione abbia fallito in tutti i modi a sua disposizione e con tutto l’impegno necessario. Ma diventa la scelta prioritaria: ed è una tentazione che ha ampie zone di sovrapposizione con la storica inclinazione umana a creare nemici, avversari, capri espiatori. “Sorvegliare e punire” ci viene più facile che non insegnare e convincere (o farsi convincere): e ci sono politici, giornali, e cercatori di consenso che ci costruiscono piccole e grandi fortune, sul desiderio di repressione piuttosto che sul bisogno di educazione (ci sono persino gli odiatori degli odiatori, ormai; e uno che ha avvilito “ama il tuo prossimo” sostenendo che la sua implicazione sia “non amare il tuo diverso”). Crearci comunità sempre più piccole, minoranze autocompiaciute, in guerra contro grandi nemici esterni, è più consolante e facile (anche a sinistra) che allargare quelle comunità e sentirsi parte di qualcosa di meno esclusivo e speciale ma straordinariamente più proficuo e prezioso - a saper sollevare lo sguardo - come è una grande maggioranza solidale sui principi e sulle regole. Nelle grandi e nelle piccole cose - pensate alle ronde grammaticali manganellanti che imperversano online - stiamo creando un mondo di guardie e ladri (spesso le stesse persone si comportano da entrambi), dimenticandoci che quello era un gioco da bambini divertente perché le pensavamo figure eccezionali: e che l’idea sarebbe che il 99% di noi non sia né ladro né guardia. E sia contento di non esserlo e non doverlo essere. Silenzi e dissensi, la legittima difesa va avanti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 marzo 2019 La Camera approva la legge bandiera di Salvini, con i 5 Stelle costretti a un unico intervento e la destra che si riabbraccia. Di Maio: “Non c’è tutto questo entusiasmo”. Tra i grillini 25 assenti ingiustificati. Sarà fronda anche al senato, ma al riparo di numeri non a rischio. Ce l’hanno fatta, Lega e 5 Stelle sono riusciti ad approvare una legge alla camera senza mai intervenire in aula - i trenta secondi di martedì dell’anziano liberal-leghista Basini sono l’eccezione sfuggita al controllo. La legittima difesa ha ridotto al silenzio assoluto i 5 Stelle e i leghisti, cioè la maggioranza. Loquaci solo le opposizioni, quelli di Fratelli d’Italia e Forza Italia nel tentativo di intestarsi la riforma. Quelli di Leu, inorriditi per le “martellate alla civiltà giuridica”. E quelli del Pd, impegnati a far dimenticare che nella scorsa legislatura avevano tentato una cosa simile. Ma i due mutismi non sono identici. Quello leghista è il silenzio di chi ha afferrato un boccone saporito e non vuole lasciarlo cadere. Quello grillino è l’annichilimento delle vittime che per tutta la mattina e il primo pomeriggio di ieri hanno cercato di rendersi invisibili in aula. Restando fuori, nei corridoi e alla buvette, rientrando di corsa per votare e non sempre e non tutti: tante le assenze. O sprofondando negli scranni, a sfogliare siti o guardare programmi tv (Porta a Porta della sera prima, con ospite leghista). Aspettando che finisse. È finita che un 5 Stelle è dovuto intervenire per forza, per la dichiarazione di voto, ed è stato estratto il deputato Di Sarno. Ha letto un testo di due pagine, studiato a dovere con l’evidenziatore rosa: “Stiamo per approvare un provvedimento largamente dibattuto, tanto nelle sedi istituzionali dagli addetti ai lavori che nelle case degli italiani, dai nostri concittadini”. Dibattuto da tutti, tranne che dai deputati 5 Stelle. Applausi timidissimi. Giubilo ed esultanza invece nei banchi leghisti, per un giorno riuniti a quelli alla loro destra (Fratelli d’Italia) e alla loro sinistra (Forza Italia) con i berlusconiani a sottolineare il concetto srotolando striscioni: “Finalmente una cosa di centrodestra”. Ai banchi del governo solo sottosegretari leghisti. Poi la scena si è ribaltata, quando la camera è passata a discutere la legge sul voto di scambio. Modestissima contro partita grillina alla legittima difesa. Lì sono usciti i governanti leghisti ed entrati i 5 Stelle e di nuovo consegna del silenzio per i deputati di maggioranza. Un governo in due tempi. Nel voto finale mancano 25 sì dei 5 Stelle, assenti ingiustificati che si aggiungono a un’abbondante fetta del gruppo in missione, 29. Molti di loro - Sportiello, Vizzini, Sarli, Gallo, Ehm, Brescia, Cunial - avevano anticipato la contrarietà al provvedimento. Per la prima volta, dunque, prende corpo un dissenso consistente. Dissenso comodo, perché reso ininfluente dal voto favorevole della destra. Ma stavolta più trasparente, tanto che alcuni - il presidente della prima commissione Brescia, ad esempio - sono rimasti in aula senza però inserire la tessera elettronica. Anche il presidente della camera e capo corrente Fico è riuscito a non esserci per gran parte del dibattito, era in Russia, poi è tornato ma non si è presentato all’inizio delle dichiarazioni di voto. Proprio lui che aveva invitato a leggere politicamente le sue assenze al tempo del decreto sicurezza. Pizzicato dal deputato di +Europa Magi, Fico è risalito a presiedere proprio alla fine. I voti favorevoli sono stati 373 (167 della maggioranza e 106 delle opposizioni) e quelli contrari 104. Una fronda grillina si annuncia già al senato, dove la legge dovrà tornare per la terza lettura - e sarà la prima volta in questa legislatura per una legge di iniziativa parlamentare. Ma malgrado i numeri più risicati per la maggioranza a palazzo Madama, il dissenso sarà di nuovo ininfluente grazie al soccorso dell’opposizione di destra. Forza Italia ha gradito assai questo ritorno al vecchio ordine delle cose, con Salvini nell’abbraccio del centrodestra. Anche se avrebbe voluto di più, tipo l’inversione completa dell’onere della prova a favore di chi spara per difendersi in casa. O i corsi di tiro a domicilio a cura delle forze dell’ordine proposti dal deputato Bond, Dario Bond. Unico imbarazzo per i deputati di Forza Italia quando, dopo un po’ che applaudivano a ritmo con i leghisti, questi hanno cominciato a gridare “Salvini, Salvini”. Al che gli azzurri hanno improvvisato un “Silvio, Silvio” del tutto fuori contesto: Berlusconi di questa legittima difesa non sa nulla. Il capo leghista intanto twittava: “Altra promessa della Lega mantenuta”. E i 5 Stelle, immobili oltre che muti, sprofondavano completamente nei loro banchi, battezzati da Di Maio: “Non è che ci sia tutto questo entusiasmo”. Legittima difesa, che cosa cambierà con la riforma di Dino Martirano Corriere della Sera, 7 marzo 2019 Le regole in arrivo per chi reagisce alle “violazioni” del proprio domicilio. Maglie più strette per i magistrati. Una norma solo sulle donne. Chi si difende con un’arma in casa da un’aggressione, causando danni fisici al ladro o al rapinatore, anche in futuro sarà sottoposto a indagini e ci sarà sempre un giudice che valuterà se archiviare o rinviare a giudizio. Ora però, per il magistrato, le maglie interpretative si stringono: nella legittima difesa domiciliare, già rafforzata nel 2006 (dalla Lega) e nel 2017 (dal Pd), adesso si considera “sempre sussistente” il rapporto di proporzionalità tra offesa e difesa. “Agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica”. Cosa è il “grave turbamento” - Nei casi di legittima difesa domiciliare si esclude la punibilità di chi, trovandosi in condizioni di minorata difesa o in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo (assalti notturni, figli minori in casa, donne sole aggredite, etc.), commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità. Il concetto di grave turbamento è anche legato all’età della persona che si difende. Sarà comunque sempre un giudice a valutare la fattispecie in cui è autorizzato il ricorso a “un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo” per la difesa legittima della “propria o altrui incolumità” o “dei beni propri o altrui”. Atti “proporzionati” - La proporzionalità “sempre presunta” tra la difesa e l’offesa per chi viene aggredito in casa ma anche in un negozio o in ufficio, ottenuta grazie alla modifica dell’articolo 52 del codice penale, metterebbe sullo stesso piano beni primari come la vita, la salute, l’incolumità personale (tutelati anche quando appartengono a un soggetto che commette un reato) e beni patrimoniali. Dunque, ora la legge tende a ritenere proporzionata qualunque difesa a prescindere dall’attualità del pericolo (il rapinatore è armato oppure no), dai mezzi con cui si attua la reazione (armi da fuoco o altri oggetti contundenti), dai beni giuridici in gioco. Le pene più pesanti - È previsto l’inasprimento delle pene per una serie di reati predatori. Nel caso di condanna per furto in appartamento e furto con strappo (scippo), la sospensione condizionale della pena deve essere subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. La pena edittale prevista per la violazione di domicilio passa da 1-5 anni a 2-6 anni se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone ovvero se il colpevole è palesemente armato. Chi si introduce in un edificio per rubare sarà punito con una pena più severa (da 4 a 7 anni). Aumenta di un anno la pena minima per le rapine (6-20 anni). Quello che un ministro dell’Interno non può fare: armare una gogna di Michele Anzaldi* Avvenire, 7 marzo 2019 Giulia Pacilli, 22 anni, è una ragazza come tante: studia, si interessa di teatro, va in palestra e, occasionalmente, come tutti i giovani partecipa alle manifestazioni cittadine. Una delle nostre figlie. Si direbbe una persona tranquilla. Eppure da tre giorni la sua vita è diventata un inferno e non solo per lei ma anche per i suoi genitori e tutti i suoi cari. Avete capito di chi si tratta: sì, è la ragazza che alla manifestazione di sabato 2 marzo a Milano ha mostrato un piccolo cartello che ha fatto indispettire il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ecco allora che il Ministro della Repubblica Italiana con la delega all’Interno, ossia alla protezione degli italiani, decide di dare una lezione a Giulia. E così, come nella scena della Ciociara di De Sica, decide di postare la foto della ragazza con il suo cartello e di darla in pasto ai suoi follower sui social: esposta alla gogna per farla insultare, violentare psicologicamente e farla minacciare. Una scena orrida e selvaggia proprio come quella perpetrata dai “goumier”, cioè i soldati coloniali francesi rimasti tristemente famosi nel sud del Lazio nel corso della Seconda guerra mondiale, che usano violenza nei confronti della madre impersonata da Sofia Loren e di sua figlia. Un atto indegno nei confronti di una giovane che potrebbe essere nostra figlia. Una brutta pagina perpetrata dal ministro competente. Pagina grave, gravissima. Il nostro sistema ha una serie di gradualità che dovrebbero garantire che dinnanzi a una barbarie simile, quella di un ministro nei confronti di una semplice studentessa, ci possa essere il ridimensionamento e il ripristino della tranquillità della vita della ragazza e della sua famiglia. Invece in questi giorni non abbiamo sentito una parola. Neanche una. Non una parola e neanche un tweet, che ormai non si nega a nessuno: avrebbero potuto farlo, quel tweet di condanna o di solidarietà alla giovane e ai suoi cari, il presidente del Consiglio Conte, il vicepresidente del consiglio Di Maio, la ministra Bongiorno in passato impegnata in prima persona sul tema della tutela delle donne. Quel tweet avrebbe potuto farlo la ministra della Difesa da cui primariamente dipende l’Arma dei Carabinieri e soprattutto è una donna, Elisabetta Trenta, o avrebbe potuto farlo il ministro dell’Istruzione Bussetti, poiché ricordiamoci che parliamo di una studentessa di 22 anni. Ma tralasciamo questi insensibili nonché autorevoli responsabili di Governo. Sarebbe bello se arrivasse un segnale almeno dalle numerose istituzioni preposte a garantire la tranquillità delle persone: non un provvedimento, non un fiore, anche solo una semplice telefonata... Il sistema Paese sembra aver lasciato sola una ragazza di 22 anni per non dispiacere l’arrogante di turno. Tutto molto brutto e inspiegabile ai nostri figli. Sembra un’altra era da quando il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella il 14 maggio 2015 all’Arsenale della Pace rivolgendosi ai giovani diceva: “Siate liberi e non abbiate paura di dire qualcosa di scomodo, fuori dal coro, o apparentemente impossibile, quando gridate e cantate per la fratellanza tra gli uomini, per la pace. Il mondo siete voi. Come qui all’Arsenale. In definitiva, nessuno deve sentirsi ospite a casa sua”. Io nel mio piccolo presenterò un’interrogazione e scriverò al capo della Polizia postale, che è una donna. Non voglio sentirmi ospite ma soprattutto non voglio essere complice o spettatore della barbarie dei “goumier” del web. *Deputato del Pd Risponde Marco Tarquinio, direttore di Avvenire Non spetta di certo a me rispondere a un’interrogazione annunciata. Ma la veemente e accorata lettera che mi ha fatto avere l’onorevole Michele Anzaldi - collega giornalista che ormai da sei anni è parlamentare della Repubblica - mi spinge ad aggiungere qualche parola su temi che, come i lettori sanno bene, considero molto importanti. Non ci si stupirà, dunque, se confermo di essere completamente d’accordo con Anzaldi sulla intollerabile violenza e sull’aspra asocialità della gogna “social”. E ci si stupirà ancor meno se torno a dire di considerare anch’io speciale e non negoziabile la responsabilità che dovrebbe usare in ogni suo atto e in ogni dichiarazione l’uomo politico che diventa ministro dell’Interno, ovvero colui che - prima di ogni altra cosa - si assume l’onore e l’onere di esercitare il ruolo di garante politico-istituzionale della piena libertà e sicurezza di ogni persona che si trovi sul territorio italiano, avversari compresi. Anzi, secondo valori e spirito della nostra Costituzione, avversari per primi. Purché non si tratti di nemici della democrazia e della sicurezza pubblica e dell’integrità e dignità, fisica e morale, altrui. Scrivo e dico queste cose da molto tempo e, purtroppo, negli ultimi mesi sono stato indotto a farlo a più riprese commentando parole e atti del ministro e vicepremier Matteo Salvini. Che continua ad agire e a parlare più da capo politico che da ministro. Nessuno, tantomeno io, posso chiedergli di non essere se stesso e di non reagire a fischi e attacchi che ogni politico inevitabilmente - mi viene da dire: naturalmente - riceve assieme a consensi e applausi. Ma a nessuno lui, uomo potente e deciso a usare di tutte le possibili tutele di cui gode (come ha dimostrato nel caso dell’autorizzazione a procedere per il “sequestro” delle persone a bordo della nave “Sea Watch”), deve far patire il peso inevitabilmente schiacciante della propria posizione di forza istituzionale sommato a quello della irresponsabile gestione della bacheca dei “ricercati”, contro il o la “wanted” di turno. E invece questo continua ad accadere. Qualunque cosa dicano gli altri, il ministro dell’Interno può dire e fare molte cose, ma non esporre chicchessia e soprattutto un semplice cittadino al pubblico ludibrio. E invece questo è successo in più situazioni. Oltre al caso recentissimo della ventiduenne e del suo provocatorio cartello anti-razzista di cui mi scrive Anzaldi cito quello, di fine novembre, con protagoniste e vittime altre tre studentesse. Anche stavolta dico chiaro e tondo come la penso: capisco l’intenzione delle manifestanti eppure non mi piacciono gli slogan di quei cartelli innalzati contro Salvini (rifiuto totalmente le rime di novembre, evocanti piazzale Loreto, trovo tanto paradossale quanto urtante la scritta di sabato 2 marzo), ma mi piace infinitamente di meno che in entrambe le occasioni, secondo modalità collaudate, sia stata scatenata contro le contestatrici una rabbiosa caccia virtuale, che si è sviluppata con insostenibili pesantezze e volgarità. “Se la sono cercata, se l’è cercata... “, ho sentito e sento dire e persino ringhiare. È la solita, vecchia, odiosa scusa con cui si tenta di giustificare l’ingiustificabile. Insisto: il primo a doverla far finita è chi ha più potere. Se non lo fa, anche se le “distrazioni” sembrano tante e incomprensibili, ne resta a sua volta marchiato. I magistrati hanno il diritto di esprimersi di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2019 Contrariamente a quanto pensa Salvini, giudici e Anm possono intervenire, difendersi e anche criticare le leggi. Due sono gli episodi che negli ultimi giorni hanno acuito lo scontro tra i magistrati e il ministro degli Interni Matteo Salvini e che hanno anche messo in discussione il diritto di esternazione dei magistrati. Il primo è la visita in carcere del ministro al detenuto condannato per tentato omicidio in danno di un ladro “catturato” dalla vittima, percosso, fatto inginocchiare e gravemente ferito con un colpo di fucile. La visita e la manifestazione di solidarietà del ministro sono comportamenti assolutamente impropri che, a differenza di quanto sostenuto dalla corrente di destra della Associazione Nazionale Magistrati, delegittima l’operato dei magistrati poiché fa passare il messaggio (inveritiero) - e strumentale a fini politici/elettorali - di una ingiusta condanna nei confronti di chi era scriminato dalla legittima difesa. Del tutto corretto è stato, quindi, l’intervento del Procuratore della Repubblica di Piacenza finalizzato a ristabilire celermente la verità dei fatti e a difendere la funzione giurisdizionale legittimamente svolta. Peraltro, secondo la legge disciplinare, sono vietate le dichiarazioni dei magistrati solo se riguardino soggetti coinvolti in procedimenti che siano ancora in corso di trattazione ovvero trattati e non definiti con provvedimento non oggetto di impugnazione, laddove il caso in questione era stato definito con sentenza della Corte di Cassazione del 16 febbraio (che confermava la condanna per il reato di tentato omicidio), a nulla rilevando che sia avvenuto o meno il deposito delle motivazioni. Il secondo episodio è costituito dalle dichiarazioni del presidente dell’Anm critiche nei confronti della nuova normativa sulla legittima difesa che hanno provocato la reazione del ministro Salvini, il quale ha dichiarato che non spetta ai magistrati stabilire se, e in quali termini, una legge debba o meno essere approvata e, comunque, “si facessero eleggere”. Al di là dell’abusata espressione “si facciano eleggere” - che sta a evocare un (pericoloso) primato della politica sul primato della legge - si osserva che la Anm, (come qualsiasi cittadino, anche se magistrato), ha il diritto, ex articolo 21 della Costituzione, di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Pertanto, essa può, legittimamente, criticare qualsiasi provvedimento legislativo adottato o in corso di approvazione, senza che ciò costituisca ingerenza dell’ordine giudiziario nei confronti di altro organo costituzionale, per il semplice motivo che l’Anm è un’associazione di categoria avente natura privatistica. Quindi l’Anm, attesa la sua natura di sindacato delle “toghe”, da un lato ben può liberamente manifestare e svolgere critiche - anche se è preferibile che le esternazioni del Presidente siano precedute da delibere dell’organo esecutivo che esprima la volontà dell’associazione, dall’altro non ha alcun diritto di chiedere - come spesso avvenuto (anche allorquando il ministro di Giustizia ha preannunciato la riforma del Csm) - di essere consultata nell’iter di formazione di una legge che riguardi, comunque, la magistratura (ivi compresa la riforma dei codici), non avendo alcuna competenza in merito, salvo che non si tratti di interloquire su aspetti attinenti le strutture e l’organico dei magistrati e del personale ausiliario e, cioè, su tutto quello che concerne il “servizio” da discutere con il ministro cui, ex articolo 110 della Costituzione, “spettano l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla Giustizia”. Questo, nel rigoroso rispetto dei ruoli. Legge Merlin salva, tra ipocrisie e conquiste di Carlo Nordio Il Messaggero, 7 marzo 2019 La decisione della Corte Costituzionale di “salvare” la legge Merlin era prevedibile per due ragioni. La prima, che la Corte sul punto si era già pronunciata più volte. La seconda, che una legge può essere inadeguata e nociva - e la legge Merlin lo è - ma non per questo contrastare con la Costituzione. Anzi, bene ha fatto la Corte a dare una risposta netta. Una risposta netta senza suggerire interpretazioni, né integrazioni o correzioni. L’abrogazione di questa legge è questione squisitamente politica e la Corte non deve né può sostituirsi all’inerzia del legislatore. Ma per spiegare perché essa sia inadeguata e nociva sarà bene ricostruirne la storia. I postriboli, come è noto, erano sempre esistiti. Il fascismo ne aveva fatto una sorta di punto d’onore, conciliando il maschilismo di regime con la tutela della salute e il controllo sociale. E la stessa Chiesa, pur condannando la lussuria in genere e quella extraconiugale in specie, aveva dimostrato un’indulgenza benevola, considerando che la solidità del matrimonio, insidiata dalle inesauribili fantasie umane, poteva esser meglio garantita indirizzando le trasgressioni in luoghi assistiti dal sanitario e vigilati dall’autorità. Nel dopoguerra, la senatrice socialista Angelina (Lina) Merlin iniziò la battaglia per la chiusura di queste case. Le motivazioni erano due: tutelare la dignità della donna, ed evitare che il proletariato “scivolasse verso la sfrenatezza”. Sul punto la senatrice citò Lenin, manifestando così l’arcigno moralismo dei totalitarismi etici, che si propongono di educare il suddito secondo i voleri della collettività organizzata. Il dibattito durò dieci anni, e vide parecchi dissidenti all’interno del medesimo partito. Anche qui le obiezioni erano due, simmetriche alle ragioni della Merlin: che la legge vulnerava le libertà individuali, e che avrebbe, di fatto, aggravato i problemi. Benedetto Croce, non sospetto di libertinismo postribolare, concluse pragmaticamente che mantenere i lupanari aperti era il male minore. Ma la legge passò, con l’approvazione, più o meno convinta, dei democristiani. Essa non puniva - né punisce - la prostituzione in quanto tale, ma solo il suo sfruttamento o la sua agevolazione. Espressione quest’ultima evanescente ed ambigua, che ha spesso generato incertezze applicative. Nel frattempo la situazione è completamente mutata, con il fenomeno dell’immigrazione irregolare. Migliaia di ragazze sono state portate in Italia e ridotte di fatto in schiavitù a beneficio delle più spregiudicate organizzazioni criminali. Non è vero che vengano tutte ingannate sulla natura del lavoro. Molte sanno benissimo che finiranno sulla strada. Ma pensano di farlo a proprio profitto e in condizioni di autonomia mentre, una volta arrivate, vengono costrette sotto le minacce più turpi a consegnare quasi tutte le entrate ai loro sfruttatori. Un commercio ignobile che né le leggi né le forze dell’ordine riescono a impedire. Dal canto suo, l’Europa si è organizzata. Consapevole che l’etica sessuale è prerogativa dell’individuo, ha liberalizzato quasi dappertutto la prostituzione. Cosicché il nostro Paese è circondato da Stati, come Slovenia, Croazia, Austria e la stessa Svizzera, dove il turismo sessuale degli italiani ha assunto i caratteri di un esodo continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico. Ai confini del Friuli i bordelli hanno sostituito i vecchi distributori di benzina a basso costo, e la clientela italiana disperde cospicue risorse finanziarie in flussi ingenti e incontrollati. Possiamo concludere che la complessiva sottrazione tributaria derivante da questa attività in Italia e all’estero coprirebbe il contestato reddito di cittadinanza. Che fare allora? Predicare che la prostituzione ferisce la dignità femminile significa recitare una favola vuota, confondendo la scelta individuale di una donna adulta con lo sfruttamento ricattatorio organizzato dagli schiavisti criminali. Al contrario, l’organizzazione volontaria di questa attività non recherebbe nessun oltraggio a chi vi si dedicasse con una risoluzione libera e consapevole. Non eliminerebbe tutti i problemi, ma li ridurrebbe considerevolmente; e produrrebbe introiti da impiegare proprio a sostegno dei soggetti più deboli, convertendo, come abbiamo detto altre volte, i vizi privati in pubbliche utilità. Rimane reato agevolare o sfruttare prostituzione di Giovanni Galli Italia Oggi, 7 marzo 2019 La Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha deciso le questioni sulle norme antiprostituzione sollevate dalla Corte d’appello di Bari e discusse nell’udienza pubblica del 5 febbraio 2019. In attesa del deposito della sentenza, l’ufficio stampa della Corte fa sapere che le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, puniti appunto dalla legge 20 febbraio 1958, n. 75, sono state dichiarate non fondate. Le questioni, ricorda una nota, erano state sollevate con specifico riferimento all’attività di prostituzione liberamente e consapevolmente esercitata dalle cosiddette escort. I giudici baresi sostenevano, in particolare, che la prostituzione è un’espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un’attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarrebbe a compromettere l’esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta, colpendo condotte di terzi non lesive di alcun bene giuridico. La Corte costituzionale ha ritenuto che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di politica criminale operata con la legge Merlin, quella cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino. Inoltre, la Corte ha ritenuto che il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale. Indennizzi Pinto senza sollecito di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2019 La sentenza della Corte costituzionale 34/2019. Chi ha presentato ricorso in Corte d’appello per irragionevole durata di un processo davanti al Tar o al Consiglio di Stato può ottenere l’indennizzo previsto dalla legge Pinto anche se non aveva sollecitato una rapida conclusione del giudizio amministrativo. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza 34/2019, depositata ieri. La materia ha subìto rilevanti modifiche, per arginare le numerose richieste di indennizzo che, nella materia del pubblico impiego (con liti collettive), coinvolgevano numerosi ricorrenti allo scadere dei termini massimi di giudizio (tre anni per il primo grado e due per l’appello). Gli importi per ogni anno di ritardo (non meno di 400 euro e non più di 800) raggiungevano livelli rilevanti per l’erario, con frequenti distorsioni dovute al sovrapporsi di due liti di eccessiva durata: la prima per ottenere l’indennizzo e la seconda, anch’essa ultrannuale, per ottenere l’effettivo pagamento. Per rimediare in parte ai problemi, una norma del 2008 (l’articolo 54 del Dl 112) subordinava l’indennizzo ad un adempimento del privato ricorrente: aver formulato a suo tempo una particolare domanda (l’istanza di prelievo), volta a sollecitare la definizione della lite stessa. Senza l’istanza di prelievo, il ricorrente si presumeva negligente e quindi veniva privato dell’indennizzo qualora la lite avesse superato i limiti massimi di durata. Ora la Corte costituzionale elimina questo adempimento, precisando che l’istanza di prelievo non poteva ritenersi una prova di diligente gestione della lite. In conseguenza, l’indennizzo della legge Pinto spetta anche a chi, chiedendo l’indennizzo tra il 2008 ed il gennaio 2016, si era visto eccepire la mancanza dell’istanza di prelievo. Solo dal 2016 (legge 208/2015, articolo 1, comma 777) l’istanza di prelievo è diventata un adempimento necessario, da presentarsi almeno sei mesi prima del limite (tre e due anni) di durata massima dei procedimenti. Intercettazioni indirette dei parlamentari: ok all’autorizzazione della Camera Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2019 Corte costituzionale - Sentenza 6 marzo 2019 n. 38. Non è incostituzionale la norma che impone al giudice di chiedere alla Camera di appartenenza del parlamentare l’autorizzazione a utilizzare in giudizio, come mezzi di prova, i tabulati telefonici di utenze intestate a terzi, venute in contatto con quella del parlamentare. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza 38 (relatore Nicolò Zanon) depositata ieri, spiegando che il riferimento, nel terzo comma dell’articolo 68 della Costituzione, a “conversazioni o comunicazioni” induce a ritenere che siano coperti dalla garanzia costituzionale anche i dati ad esse “esteriori”, in quanto “fatti comunicativi” ricavabili da un tabulato: data e ora delle conversazioni o delle comunicazioni, durata, utenze coinvolte. Del resto, il termine “comunicazioni” ha, tra i suoi comuni significati, quello di “contatto”, “rapporto”, “collegamento”, ed evoca proprio i dati e le notizie che un tabulato telefonico è in grado di rivelare. La questione era stata sollevata dal Gip del Tribunale di Bologna, secondo il quale il terzo comma dell’articolo 68 della Costituzione imporrebbe l’autorizzazione della Camera solo per sottoporre i membri del Parlamento a intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, senza menzionare i tabulati. La legge ordinaria avrebbe quindi esteso illegittimamente l’ambito di applicazione della prerogativa costituzionale. La Corte costituzionale, però, non è stata d’accordo. Tra l’altro, la sentenza rileva che la ragion d’essere della garanzia costituzionale non è la tutela della privacy del parlamentare bensì della libertà della funzione che egli esercita, in conformità alla natura delle immunità parlamentari, dirette a proteggere l’autonomia e l’indipendenza delle Camere rispetto a indebite invadenze di altri poteri e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti in favore di chi è investito della funzione. Per queste ragioni, la garanzia si estende all’utilizzo in giudizio del tabulato telefonico, in quanto atto idoneo a incidere sulla libertà di comunicazione del parlamentare. Roma: madre omicida di Rebibbia, non ci sarà azione disciplinare per i vertici del carcere di Enrico Lupino Il Messagggero, 7 marzo 2019 Prosciolte la direttrice della Casa circondariale, la sua vice e il capo delle guardie. Erano state sospese dopo il duplice infanticidio nel carcere di Rebibbia. Ma ora la direttrice della casa circondariale femminile Ida Del Grosso, la sua vice, Gabriella Pedote, e la vicecomandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti, sono state prosciolte in sede disciplinare. La decisione di sospendere i vertici dell’istituto era stata presa in via precauzionale dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nell’immediatezza del fatto e prima che venisse aperto il procedimento. Circostanza che aveva anche comportato per le tre la riduzione dello stipendio. Quindi, ora, potrebbero chiedere un risarcimento e potrebbero addirittura decidere di denunciare il ministro per abuso d’ufficio. È il 18 settembre 2018 quando Alice Sebesta, detenuta tedesca di 33 anni, lancia sulle scale i due figli. La più piccola, di soltanto sei mesi, morirà sul colpo. Il fratellino, di poco più grande, morirà dopo un disperato tentativo di rianimarlo da parte dei medici del Bambino Gesù. In via Arenala la gravità del fatto aveva portato il ministro a decidere per la sospensione. In sede disciplinare, tuttavia, è emerso che i vertici del penitenziario avrebbero avvertito per due volte la Asl dello stato psichico della Sebesta, già con precedenti ricoveri presso strutture psichiatriche in Germania. Ed è per questo motivo che il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il pm Eleonora Fini avevano iscritto nel registro degli indagati la specialista dell’azienda sanitaria locale con l’ipotesi di omissioni di atti d’ufficio. All’epoca, i sindacati avevano protestato contro la decisione del ministro che, a loro giudizio, non avrebbe tenuto conto delle “carenze strutturali e finanziarie” del carcere. Gli atti con cui il gip Anna Minunni aveva convalidato l’arresto della Sebesta avevano raccontato gli ultimi momenti dei due piccoli: la donna li aveva uccisi “lanciandoli dalle scale e subito dopo sbattendoli entrambi sul pavimento”. La madre non solo “aveva lasciato cadere nel vuoto i propri figli”, ma aveva anche inveito contro di loro, prima di “percuoterli violentemente”. Secondo il racconto dell’indagata la violenza sarebbe stata motivata dal fatto di volerli “mandare in paradiso” e di “proteggerli dalla mafia”. La Sebesta, rappresentata dall’avvocato Andrea Palmiero, si trovava in carcere per effetto di un’accusa di spaccio: era stata trovata sulla tangenziale insieme a due nigeriani e con dieci chili di marijuana. La storia clinica della donna avrebbe documentato oltre dieci anni di ricoveri e cure presso centri specializzati in patria: un elemento che avrebbe indotto il gip, anche per la sicurezza della stessa indagata, a far piantonare la Sebesta giorno e notte. Perugia: comincia dalla cucina il recupero dei detenuti al carcere di Capanne umbriajournal.com, 7 marzo 2019 Dentro, dietro le sbarre, ci sono i lavoranti: lo “spesino”, “lo scopino”, lo “scrivano”, ma in realtà nessuno fa un vero lavoro. Il lavoro che nobilita, a usare una frase fatta, o che riabilita, come nel caso di persone detenute per espiare una pena: i carcerati. Alle persone detenute nel Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia di Capanne è stata data questa occasione: formarsi e prepararsi per un lavoro vero, come quello svolto “fuori”, per la figura professionale di “Addetto alla cucina”. Opportunità è offerta a dieci detenuti under 30 anni - L’opportunità è offerta a dieci detenuti under 30 anni età del reparto penale dell’istituto perugino, un corso di formazione professionale della durata di 255 ore promosso e gestito dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro di Perugia grazie al finanziamento messo a disposizione dall’Agenzia regionale politiche attive del lavoro della Regione Umbria. Un corso di cucina quindi per studenti molto particolari: i giovani detenuti del carcere di Perugia. I piatti che vanno per la maggiore? Pasta, pane e pizza. Soprattutto pizza: “Quando la facciamo è davvero una festa”, spiega uno dei docenti chef. Il corso si svolge in una cucina apposita: partecipano dieci allievi preventivamente selezionati. “Lavoriamo con i ragazzi più tranquilli: i ferri del mestiere possono essere anche molto pericolosi”. Lezioni tutti i giorni, dal lunedì al venerdì : “Facciamo tutto quello che si fa fuori, preparazione e pulizia cibo, cottura, pulizie - a turno - incluse. Dopo le lezioni, mangiamo quanto cucinato. Purtroppo non possiamo condividere anche con gli altri ragazzi, per precise ragioni di sicurezza. Bisogna capire che la giornata di un detenuto ruota attorno a 3 momenti: colazione, pranzo e cena. Il cibo gioca un ruolo fondamentale, non vanno sottovalutate le conseguenza della sua gestione”. Grazie alla professionalità, all’impegno e alla pazienza di affermati chef di comprovata esperienza i detenuti si esercitano nella preparazione di piatti sempre più elaborati. Tutti i giorni per tre ore al giorno sono impegnati nel laboratorio di cucina avendo l’occasione di apprendere a cucinare attraverso lezione sia pratiche che teoriche. Il prossimo maggio si svolgerà la cena evento “Le Golose Evasioni” giunta alla sua quinta edizione, un appuntamento specialissimo tramite il quale gli allievi, supportati dai loro insegnanti, prepareranno una cena aperta alla cittadinanza durante la quale offriranno un saggio delle competenze acquisite. La cuffia bianca, i guanti, qualcuno con la mascherina, intenti ai fornelli o a fare il primo razionamento del cibo che poi, sotto lo sguardo attento del docente, verrà attentamente valutato. “Questa attività - dichiara Luca Verdolini, coordinatore del progetto - rappresenta una educazione al lavoro che è premessa per il futuro, quando per il detenuto le porte del carcere si apriranno definitivamente, scontata la pena. E che sia un metodo efficace di recupero sociale - aggiunge - lo dimostrano i dati sulla recidiva: per chi si è impegnato in una attività formativa e lavorativa è del 10 per cento. Negli altri casi è del 70 per cento”. Tra gli allievi cuochi, Giuseppe, campano, 26 anni, è uno dei più entusiasti: “Devo ringraziare chi mi ha offerto questa opportunità. Si ricomincia solo se c’è qualcuno che crede in te e che ti fa prima comprendere la gravità dell’errore commesso. Non puoi iniziare di nuovo -aggiunge - se sei ancora convinto che quanto hai commesso era giusto. Io non ho fatto una cosa giusta”. Avellino: il carcere di Ariano Irpino è totalmente da chiudere di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 7 marzo 2019 Dossier al Governo sulle peggiori strutture in Campania. Carceri, situazione esplosiva in Campania. Quadro allarmante soprattutto in Irpinia, a rischio chiusura la struttura di Ariano per motivi di sicurezza e mancanza di personale. Lo afferma senza mezzi termini il segretario generale regionale Campania Uilpa Polizia Penitenziaria Domenico De Benedictis. “Abbiamo riscontrato la presenza di istituti fatiscenti ovunque. Questo di Ariano Irpino, in modo particolare, è totalmente da chiudere. Mancano le unità lavorative, di pomeriggio è completamente aperto, con pochissime forze, come baluardo della sicurezza. Chiediamo interventi urgenti da parte del Governo. Vogliamo segnali tangenti in questa regione. La Campania, non è da sottovalutare. È una terra che da sempre produce purtroppo criminalità, ed occorre quindi mantenere alta l’attenzione. Allo stato attuale ci troviamo di fronte ad una situazione esplosiva. Quasi tutti gli istituti, sono allo stesso livello di Ariano Irpino, dove la struttura si presenta arcaica, rispetto a quelle più moderne. Ma la sofferenza maggiore la si ha con le risorse umane. Manca tutto, fondo per gli straordinari, manutenzione dei fabbricati. Da Poggioreale alle aree interne ci troviamo di fronte ad una situazione molto allarmante e ad altissimo rischio.” Una manifestazione di protesta congiunta, attraverso una serie di visite ai luoghi di lavoro nei diversi istituti penitenziari della regione, al fine di documentare le precarie condizioni lavorative dei poliziotti penitenziari, con acquisizione dei brogliacci e riprese foto-video. Le delegazioni, composte dalle segreterie regionali, raccoglieranno le risultanze delle visite ispettive in un dettagliato dossier che sarà inoltrato alle autorità politiche e amministrative affinché prendano coscienza di una situazione oramai non più sostenibile. La protesta iniziata in Campania sta facendo eco a livello nazionale, nella giornata di lunedì infatti anche le segreterie generali e nazionali, su impulso di quelle regionali, in un documento congiunto, hanno proclamato lo stato di agitazione nazionale con interruzione delle relazioni sindacali che culminerà in un grande manifestazione di protesta il giorno 27 marzo a Roma con una conferenza stampa. “La protesta ormai dilaga ed è giunta a vertici politici e amministrativi, il cui perdurante silenzio ed immobilismo ha contribuito ad aggravare ulteriormente il disagio lavorativo degli uomini e delle donne in divisa”. La delegazione è così composta: Osapp, Uil-Pa PP, Sinappe, Fns-Cisl, Uspp Ugl, Cnpp, rappresentata rispettivamente da V. Palmieri, D. De Benedictis, P. Gallo, E. Strino, C. Auricchio, A. Napoletano. Milano: “Fa’ la cosa giusta!”, tra il mare e il cielo c’è la terra di Luca Martinelli Il Manifesto, 7 marzo 2019 “Dalle intolleranze alimentari a quelle sociali”: al via da domani la mostra mercato del consumo critico. Ne parliamo con la direttrice Miriam Giovananza. Gli ultimi dodici mesi segnano un cambiamento profondo “nel cuore delle persone, sono stati sdoganati cattivi sentimenti, cattive politiche come il decreto Sicurezza, di cui iniziamo a misurare gli effetti, e si stanno moltiplicando i costruttori di muri, e in questo contesto - spiega Miriam Giovanzana - sono curiosa di capire il clima che si respirerà dentro Fà la cosa giusta! 2019”. La fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, che si tiene a Fiera Milano City da venerdì 8 a domenica 10 marzo, è arrivata alla sedicesima edizione. “Da quand’è nato, il M5S è sempre stato fuori dalla fiera a raccogliere firme per le sue iniziative, questo è un luogo d’incontro in cui l’accento è messo sulla fiducia e non sulla paura, e spero che questa visione resista, ne sono fiduciosa”, sottolinea Giovanzana, che guida Terre di Mezzo, il soggetto che dal 2004 organizza Fà la cosa giusta!. Quest’anno la mostra mercato occupa un’area di 32mila metri quadrati, con 10 aree tematiche e alcune sezioni speciali. Dall’Abitare Green alla Cosmesi naturale e biologica, passando per il Pianeta dei piccoli e lo Street Food; dall’Economia circolare allo Spazio donna. Al cuore della fiera ci sono i 450 incontri del programma culturale, “un momento per respirare insieme buone idee, e costruire fiducia reciproca” spiega Giovanzana. Dopo il successo del 2018 (91mila visitatori, il 30 per cento in più dell’anno precedente) Terre di Mezzo ha deciso di confermare l’ingresso gratuito: “È una scommessa. Ci ha convinto constatare che nel 2018 sono entrate molte persone nuove. Uno dei nostri obiettivi, fin dall’inizio, era quello di poter contaminare la società, e credo che senza barriere all’ingresso si possa facilitare la partecipazione” aggiunge Giovanzana. Nel 2019, il filo rosso che corre in fiera è il tema delle intolleranze. E non poteva essere altrimenti, osservando i cambiamenti in Italia e nel mondo (con le politiche del presidente Usa Trump), e in vista delle elezioni europee che potrebbero portare a Bruxelles un gran numero di “sovranisti”, di conservatori e razzisti. Non c’è solo il tema dell’accoglienza e dei migranti, però: una sezione dell’area “Mangia come parli” (cibo di qualità da filiere corte e locali, in larga parte biologiche) è dedicata alle intolleranze alimentari, che rappresentano una forma di patologia che nel nostro Paese coinvolge milioni di persone, causando grandissime sofferenze non solo su chi ne è colpito ma anche sulle famiglie e sulle società. “Siamo andati alla ricerca di produttori che interpretano il tema delle intolleranze alimentari leggendone le cause, e quindi che rispondano a partire dalla qualità del cibo, che si declina nel rispetto dell’ambiente e delle relazioni sociali. Un parallelo che vediamo, col tema della migrazioni, è la necessità di leggere le cause” spiega Giovanzana, e ammette come non è stato facile - nel 2019 - trovare chi provi ad affrontare questa forma di intolleranze andando oltre lo stereotipo del “senza”, che sia senza glutine o altri allergeni. La ricerca delle cause e soluzioni sostenibili sarebbe una risposta possibile anche di fronte all’emergere di fenomeni di intolleranza di tipo sociale. “La preparazione di un’edizione della fiera dura quasi un anno. Negli ultimi mesi abbiamo visto erodersi un vero patrimonio di convivenza civile e abbiamo deciso di rispondere”, racconta Giovanzana. L’incontro più importante della fiera, “Uomo in mare: storie e diritti (negati) dei migranti nel mediterraneo” (è in programma sabato 9 marzo alle 18) vedrà l’intervento di Cristina Cattaneo, medico legale impegnata da anni a dare un nome alle vittime del mediterraneo, un gesto di minima umanità, fondamentale per restituire loro l’identità negata e permettere alle famiglie di poter elaborare il lutto, di Giorgia Linardi, portavoce della Ong Sea Watch, che svolge attività di ricerca e salvataggio nel mediterraneo centrale, e di Alessandra Sciurba di Mediterranea saving humans. Una delle due sale convegni, inoltre, è dedicata a Teresa Sarti Strada, la moglie di Gino, fondatrice e presidente di Emergency, morta nel settembre 2009, dieci anni fa: “Ricordarci di queste persone vuole dire tenere vivo un orizzonte che avremmo voluto costruire, e che invece di avvicinarsi oggi si allontana. È importante fare memoria, perché tutto si tiene, dalle montagne italiane che si spopolano (in fiera c’è una sezione speciale dedicata ai territori resistenti, ndr) ai porti che si popolano di migranti, al mare di morti evitabili” spiega Miriam Giovanzana. Per aiutare a leggere questa complessità, ma anche a cercare soluzioni, per la prima volta a Fà la cosa giusta! nel 2019 ci sarà un “salotto buono”, uno spazio coordinato dal Ciai (Centro italiano aiuti all’infanzia) per incontrare le famiglie che hanno accolto un rifugiato, e in particolare i minori non accompagnati, scoprire le difficoltà ma anche il valore che questo modello d’accoglienza ha per tutta la comunità. Saranno presenti numerose esperienze, da quelle coordinate dal comune di Milano a Welcome refugees. Il modello è semplice: le famiglie condividono il proprio vissuto e le competenze maturate. Una forma di scambio, ma senza mercato. “Di fronte all’intolleranza, rispondiamo con l’accoglienza, l’unica strada su cui continuare” conclude Giovanzana. Ostinatalmente alla ricerca di un mondo migliore. Trieste: il carcere di si racconta con “A Tu per Tu”, volume curato da Pino Roveredo di Zeno Saracino triesteallnews.it, 7 marzo 2019 Il mondo carcerario di Trieste, nascosto alla cittadinanza se non nei suoi episodi di cronaca, emerge dalle parole e dai disegni del libro “A Tu per Tu”, frutto di un laboratorio di scrittura curato dalla cooperativa Reset all’interno della Casa Circondariale della città. La sezione maschile e femminile hanno dimostrato creatività e capacità di scrittura, capitanate rispettivamente da Giuliano Caputi e da Lucia Vazzoler, con un supervisore d’eccezione, Pino Roveredo. Il volume raccoglie ogni genere di sperimentazione, dal flusso di coscienza, alle lettere, a racconti e cronache. Presente un’intervista all’attrice Lella Costa, elaborata dai detenuti stessi. Infine, a impreziosire e connettere una così eterogenea collezione, ritroviamo i disegni realizzati dalle donne del carcere, curati dall’artista Francesco Zardini. Il volume - quasi un periodico nella forma e proposta - è il primo di quattro: si tratta, come racconta Pino Roveredo, di “notizie per vivere o sopravvivere “A Tu per Tu”, dentro gli angoli ristretti del carcere, nelle correnti d’aria, dentro un tempo senza misura, e spesso nell’indifferenza sociale: lontano dagli occhio dalla coscienza, ma soprattutto lontano dalla cultura del recupero”. Stefania Grimaldi, Presidente della cooperativa sociale Reset, evidenzia come nella pubblicazione “la vita fa da trama editoriale. Emerge un universo narrativo che emoziona e accompagna chi legge nella ricerca di un senso”. Non ci si è preoccupati eccessivamente di stile e forma, in quanto si desidera “azzerare qualunque pretesa stilistica provando a buttare giù i muri del giudizio e del ben pensare. A percorrere i ponti si guadagnano nuove mete e nuovi orizzonti”. Il volume è disponibile in download gratuito sul sito di Radio Fragola e in alcuni luoghi a Trieste, come Il Posto delle Fragole. I successivi tre volumi verranno pubblicati nel corso del 2019. Alghero: sabato il convegno “La Chiesa in carcere, salvati dalla fede” castedduonline.it, 7 marzo 2019 Punto di riferimento fondamentale sarà il Documento base di pastorale nell’ambito del penale e prassi di misericordia elaborato a più mani dai cappellani delle carceri italiane con la supervisione dell’Ispettore generale. Sabato 9 marzo 2019, con inizio alle ore 9.00, nella Sala conferenze de “Lo Quarter” (Largo San Francesco) in Alghero, promosso dalla Diocesi di Alghero-Bosa - con il patrocinio della Fondazione Alghero e del comune di Alghero - si terrà un convegno dal titolo “Chiesa in carcere, salvati dalla fede”. Lo scopo è quello di coinvolgere la comunità cristiana in un percorso di attenzione verso la realtà del carcere per sentirla come parte integrante del cammino della Chiesa Diocesana. Infatti il soggetto di una pastorale carceraria è la comunità cristiana tutta. Punto di riferimento fondamentale sarà il Documento base di pastorale nell’ambito del penale e prassi di misericordia elaborato a più mani dai cappellani delle carceri italiane con la supervisione dell’Ispettore generale. Papa Francesco sostiene (E.G. n. 270) che “Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza”. Parteciperanno all’incontro: don Mario Ildefonso Chessa, cappellano casa di reclusione di Alghero (presentazione e introduzione); don Raffaele Grimaldi Ispettore nazionale cappellani delle carceri (Liberare l’uomo con la forza del Vangelo, per umanizzare la giustizia penale); Marcella Reni presidente “Prison fellowship Italia Onlus” (Progetto Sicomoro: un esempio virtuoso). Sono previsti, inoltre, interventi di don Giampaolo Muresu coordinatore dei cappellani delle carceri della Sardegna; Mario Bruno sindaco di Alghero; Franco Deiana direttore Caritas Diocesi Alghero-Bosa; Elisa Milanesi direttore casa di reclusione “G. Tommasiello” Alghero; Carmelo Piras direttore casa di accoglienza “Giubileo 2000” Alghero; Antonello Brancati comandante corpo di P.P. Casa di reclusione “G. Tommasiello” Alghero. Pesaro: il carcere accoglie la formazione di allievi arbitri rugby di Giuseppantonio De Rosa viverepesaro.it, 7 marzo 2019 Da Villa Fastiggi di Pesaro parte la sperimentazione nazionale. Lo Sport svolge un ruolo insostituibile nella promozione della persona, essenziale per riacquistare un ruolo positivo nella società: responsabilizza al valore delle regole coloro che le hanno violate e propone la possibilità di esserne garanti sui campi da gioco. Ecco quindi che un corso gratuito per allievi arbitri rugby, svolto all’interno del carcere, aperto anche alla comunità libera, assume un significato innovativo e coraggioso, non esente da difficoltà che dovranno trovare giusta soluzione; sarà la Casa Circondariale di Pesaro ad ospitare tale formazione, articolandola in lezioni d’aula che si svolgeranno nelle giornate del 16, 23 marzo e 6, 13 aprile. Accogliendo la proposta del gruppo sportivo “Extra - Social Rugby”, che da tre anni propone nell’Istituto la pratica e la conoscenza del gioco, la Direzione ha così scelto d’incrementare le proprie attività trattamentali, cogliendone l’alto valore educativo e ponendo questa come prima esperienza nazionale nel suo genere. “Con tale scelta - dichiara la Dr.ssa Enrichetta Vilella, responsabile dell’Area Pedagogica di Villa Fastiggi - intendiamo valorizzare l’impegno formativo-educativo del carcere di Pesaro a favore dei detenuti, in conformità con il dettato costituzionale e relativamente alla funzione della esecuzione della pena, tenuto conto dei valori di condivisione, appartenenza e rispetto che caratterizzano la disciplina sportiva del Rugby”. L’attività rientra nel protocollo firmato tra la Federazione Italiana Rugby e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che mira non solo al miglioramento della condizione psico-fisica della popolazione detenuta, ma anche al riconoscimento delle diversità culturali e dei rapporti interpersonali. “Abbiamo offerto con convinzione il patrocinio a tale iniziativa - sostiene la Dr.ssa Daniela De Angelis, coordinatrice F.I.R. per i Progetti di Responsabilità Sociale - ritenendola peculiare per il consolidamento del protocollo “Rugby oltre le sbarre” che ad oggi coinvolge quindici istituti sparsi sul territorio nazionale e con numerose altre realtà in attesa di aggiungersi”. Sarà comunque necessario vagliare un programma che conceda ai detenuti abilitati al ruolo di allievo arbitro la possibilità di dirigere partite all’interno dei penitenziari che ospitano squadre non solo agonistiche e, con il ritorno in libertà, l’opportunità di essere inseriti in sezioni arbitrali tramite deroghe specifiche alle vigenti normative. Convinto anche il sostegno del Comitato Rugby Marche e del suo Presidente, Maurizio Longhi, che affida la didattica a Giuseppe Biocca e Davide Gatta, rispettivamente coordinatore regionale C.N.Ar. e responsabile della formazione, entrambi arbitri nazionali. “Nel nostro sport - spiega Biocca - l’arbitro è considerato un partecipante al gioco, uno che scende in campo per divertirsi assieme a giocatori e spettatori; deve però assicurare l’incolumità fisica dei partecipanti, garantendo l’equa contesa del pallone e in questo sta il suo essere giudice incontestabile dei fatti e delle regole. Anche da neofiti, il corso rappresenta il canale giusto per conoscere il gioco e apprendere quanto serve per interpretarlo al meglio... riservando anche molte occasioni di crescita professionale!”. Una scommessa importante anche per i partecipanti che arriveranno dall’esterno, decisi a vincere la diffidenza verso la realtà carceraria e chi la popola, con la sospensione del giudizio personale e la condivisione alla pari di un’esperienza sportiva. Che non è solo scoperta di un ruolo nuovo, ma anche - e soprattutto - di un diverso compito. *Allenatore F.I.R. Coordinatore corso rugby “Extra - Social Rugby” Siena: confronto detenuti-artisti agenziaimpress.it, 7 marzo 2019 Massimo Lopez e Tullio Solenghi in carcere a Santo Spirito a Siena. I due attori hanno incontrato i detenuti della casa di reclusione senese grazie ad un progetto del Cpia “Sandro Pertini” di Poggibonsi che gestisce la scuola del carcere. “Si è trattato - commenta Manuela Becattelli dirigente del Centro - di un progetto che prevede occasioni di confronto e crescita per i detenuti. Poco più di due settimane fa c’era stato Stefano Fresi, mentre sono stati ospiti anche Simone Cristicchi e ancora una volta Tullio Solenghi. Lo scorso hanno venne organizzata una serie di incontri con gli scrittori toscani di romanzi gialli. I detenuti incontrano gli attori nel teatro del carcere, fanno domande che poi riportano nel loro giornalino”. Testimonianze in scena - Come ricorda il coordinatore del progetto e insegnante del Cpia, Claudio Marini, “Tullio Solenghi era già venuto nel carcere senese due anni fa. Ed è voluto tornare. Il diritto penale parlerebbe di recidiva. Per Massimo Lopez invece era la prima volta. Dopo i convenevoli di rito i due artisti si sono esibiti nelle loro imitazioni più famose: da quella di vecchia data di Stanlio e Ollio a quella più recente dell’incontro dei due papi (Benedetto XVI e Francesco). Hanno raccontato del loro vagabondare per tutti i teatri d’Italia portando in scena parte della loro storia e alcune novità”. Scambio tra detenuti e artisti - Positivo è stato il contatto tra gli attori e i detenuti. “La costante di tutti gli incontri fatti finora - continua Marini - è stata quella del continuo scambio tra detenuti e artisti, di un dialogo che inizia timido e che diventa via via più confidenziale. E se parli della storia di Lopez e Solenghi, se nomini Lopez e Solenghi senti da subito che manca qualcosa. È come un sonetto senza il sirma, un valzer in due quarti. Ecco allora che la prima domanda di un detenuto non poteva che ricordare il talento, la bellezza e la simpatia della prematuramente scomparsa Anna Marchesini. I tempi del trio. Lopez- Marchesini-Solenghi. Tullio e Massimo hanno raccontato della profonda amicizia che li univa, artisticamente e umanamente, e proprio per questo non hanno mai pensato a una sostituzione. “Se perdi un fratello o una sorella, non ti verrebbe mai in mente di sostituirlo” ha chiosato un commosso Solenghi”. Durante l’iniziativa si sono poi esibiti sul palco anche alcuni ragazzi del gruppo di teatro del carcere con le Tragedie in due battute di Achille Campanile coordinate dal regista Altero Borghi, spettacolo al quale hanno assistito Lopez e Solenghi. Per l’eutanasia in Commissione groviglio di nodi etici e giuridici di Marcello Palmieri Avvenire, 7 marzo 2019 Una grande confusione, sotto il profilo antropologico, ma prima ancora normativo. È quanto sta emergendo dalle prime audizioni degli esperti nelle Commissioni riunite Affari sociali e Giustizia della Camera, impegnate a discutere il disegno di legge di iniziativa popolare promosso dai radicali sull’eutanasia e il suicidio assistito, cercando di trovare una soluzione che soddisfi i requisiti fissati dalla Corte costituzionale nell’ordinanza interlocutoria pronunciata lo scorso novembre. I giudici costituzionali, nella sostanza, avevano chiesto al Parlamento di consentire ai malati con prognosi infausta, afflitti da gravi sofferenze, di poter morire “con dignità” quando vogliono. Tuttavia, come ha spiegato ai deputati Lorenzo D’Avack, giurista e presidente del Comitato nazionale di bioetica, l’organo consultivo del Governo, nella pronuncia della Corte “si unisce senza particolare distinzione l’articolo 580 del Codice penale, che riguarda l’aiuto al suicidio, con il 579 che parla, invece, di omicidio del consenziente”. Il primo caso è quello che ha dato vita al processo costituzionale, partito dal radicale Marco Cappato che, dopo aver accompagnato a morire in Svizzera dj Fabo, si era autodenunciato ai Carabinieri di Milano. Il secondo, invece, potrebbe forse descrivere - anche se con profili un po’ più dubbi - quanto messo in atto dall’anestesista Mario Riccio quando, richiesto di farlo, staccò il respiratore di Piergiorgio Welby alla fine del 2006 per ottenerne la morte. “Bisogna chiarire - è l’invito di D’Avack- se si voglia intervenire sul primo o su entrambi”. A recuperare il bandolo della matassa non sembrano aiutare le parole pronunciate nelle Commissioni riunite da Piergiorgio Donatelli, membro del direttivo della Consulta nazionale di bioetica: a suo avviso “chi si oppone a eutanasia e suicidio assistito ritiene che lo status di libertà decisionale dell’individuo termini prima della vita stessa”. Nelle Commissioni riunite sono stati sentiti anche i rappresentanti del Consiglio nazionale forense (Cnf), dell’Organismo congressuale forense (Ocf) e dell’Unione delle camere penali italiane. Al di là dei vari pareri espressi, resta fermo il disorientamento di D’Avack: tanto più che il procedimento avviato da Cappato aveva per oggetto l’articolo 580 del Codice penale, mentre la stessa Consulta, nel veicolare al Parlamento le istanze dell’esponente radicale, ha voluto suggerire alle Camere di non intervenire su questa norma bensì sulla 219 (la legge sul biotestamento), che al momento dell’ordinanza era in vigore da nemmeno un anno. Il piano (anche) giuridico della questione è sempre più ingarbugliato, e il termine fissato dalla Corte al Parlamento al 24 settembre per legiferare appare ogni giorno sempre più incongruo rispetto alla posta in gioco. Questa settimana, intanto, niente audizioni: a impegnare la Camera sono il reddito di cittadinanza e “quota cento”. Droghe. Ddl Lega, Bortolato: “non scaricate sul carcere i problemi della società” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 7 marzo 2019 Il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato: “L’attuale legge antidroga contribuisce al 28,3% degli ingressi in carcere e al 33,5% delle presenze. Numeri imponenti che chiamano a un intervento sulla legge come priorità, ma non in senso ulteriormente repressivo”. E le conseguenze sulle misure alternative? “Devastanti”. Da una parte all’altra d’Italia si moltiplicano i rilievi al disegno di legge annunciato dal vice premier Matteo Salvini per il contrasto allo spaccio di stupefacenti e che prevede il raddoppio delle pene e l’abolizione “della modica quantità”. Il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, commenta la proposta per Redattore Sociale. Presidente, come valuta le proposte contenute nel disegno di legge a firma Lega? “Mi sembra francamente che si faccia molta confusione in proposito: la ‘modica quantità’ non esiste più dal 1990, penso che il Ministro parlando di ‘abolizione della modica quantità’ intenda in realtà colpire anche il semplice consumo di stupefacenti e dunque l’uso personale. Premetto che non ho letto il testo del disegno di legge in questione ma solo le anticipazioni giornalistiche, da cui traggo tuttavia l’impressione negativa, ancora una volta, di una cultura politica fondata sulla convinzione che i problemi che la società non riesce a risolvere possono essere scaricati sul carcere. L’inasprimento delle pene anche per il piccolo spaccio, se è questo, al di là degli annunci, l’intento vero della legge, significa ancora una volta ‘carcerizzarè il problema, non volerne vedere le reali cause e le dinamiche sociali”. “È noto - prosegue Bortolato - che la sola legge antidroga già contribuisce al 28,3 per cento degli ingressi in carcere, e al 33,5 per cento delle presenze. Si tratta di numeri imponenti che chiamano innanzitutto a un intervento sulla legge antidroga come priorità, ma non in senso ulteriormente repressivo, e, secondariamente, sulla predisposizione di idonei programmi terapeutici alternativi al carcere. La prigione, senza considerare che non è infrequente la circolazione di droga anche al suo interno, non fa altro che esasperare il problema: del resto dopo l’arresto di uno spacciatore, ben presto un altro prenderà il suo posto perché il traffico è in mano a grosse organizzazioni criminali pronte a sostituire le piccole pedine dello spaccio: il problema non viene eliminato se non si colpiscono i pezzi più grossi della scacchiera”. Dopo un lungo lavoro di ricerca, un anno fa la firma di un protocollo d’intesa tra Conams e FederSerd per favorire le misure alternative nel caso di detenuti tossicodipendenti. Il ddl quali conseguenze potrebbe avere in questo ambito? “Devastanti: premesso che per il tossicodipendente, sia esso spacciatore o meno, e il più delle volte lo è, l’esecuzione penale dovrebbe sempre imperniarsi sulla “terapia”, denominatore comune di tutte le modalità di trattamento del detenuto tossicodipendente, ritengo che il modello attuale già sia costellato da una serie di limiti che si traducono in una concreta inaccessibilità o marginalità dell’offerta terapeutica extracarceraria, intesa a rimuovere l’eziologia del reato inibendone la recidiva, e su questo interveniva proprio il Protocollo che lei citava. Figuriamoci cosa potrà accadere con un inasprimento sanzionatorio che produrrà più carcere, meno terapia, meno programmi esterni in soggetti che, una volta espiata la pena, torneranno a consumare stupefacenti e a spacciare e dunque a commettere quei reati che si vorrebbero evitare, a meno di ipotizzare un ‘ergastolo’ per tutti, come del resto sembra ipotizzare lo stesso Ministro che vorrebbe vedere gli spacciatori scomparire dalla faccia della terra”. Il problema dello spaccio e delle zone franche nelle grandi città è reale. L’attuale legislazione consente un contrasto efficace o c’è bisogno di intervenire? Se sì, come? “Non si può negare il problema dello spaccio nelle piazze che in certe città è una vera emergenza: ma il problema è che, dall’altro lato, tossicodipendenza e carcere non si coniugano. È un dato inconfutabile, infatti, che il carcere acuisca in modo esponenziale le problematiche dell’individuo e che, soprattutto, il carcere abbia scarsi effetti deterrenti per chi è abitualmente dedito ad assumere sostanze stupefacenti ed è propenso a commettere reati per procurarsele. Il tossicodipendente grave, che è spesso anche spacciatore, non teme il carcere, potrei portare l’esempio di molti condannati che preferiscono il carcere alla comunità terapeutica, ma il dato è che la popolazione detenuta tossicodipendente comprende per lo più fasce marginali e problematiche: persone che vivono uno stato di svantaggio e di disagio per le quali, più che una risposta carceraria, sarebbero opportune politiche sociali di inclusione”. “Non mi nascondo - conclude Marcello Bortolato - che i reati commessi da soggetti affetti da tossico/alcol dipendenza a volte siano gravissimi, come quello di Recanati che ha occasionato questa forte reazione della politica ma anche quelli commessi in ambito endofamiliare a causa dell’eccessivo consumo di alcol, e che spesso rimangono impuniti. Ma la soluzione non può, ancora una volta, essere il carcere, soprattutto per chi ha prima di tutto necessità di essere curato. Nessuno ha la risposta pronta per risolvere il problema della diffusione ormai capillare della droga soprattutto fra i più giovani, dove provoca com’è noto i danni maggiori, ma una cosa è certa: per stroncare lo spaccio innalzare le pene per tutti è una risposta sbagliata, destinata al fallimento, tanto più a fronte di un sovraffollamento carcerario che già rischia, tra pochi mesi, di far scoppiare nuovamente le nostre carceri”. Droghe. Via la modica quantità? Il rischio concreto è quello di colpire anche i consumatori di Andrea Zirilli Il Secolo XIX, 7 marzo 2019 Anche nella lotta alla droga abbiamo un altro esempio di disaccordo nella compagine governativa. Il ministro dell’Interno presenta un Ddl che inasprisce le pene detentive ed economiche per chi spaccia, eliminando anche il concetto di modica quantità. Le pene detentive passano da un minimo di tre a un massimo di sei e le multe da un minimo di cinquemila ad un massimo di trentamila euro. Attualmente, il Decreto Lorenzin prevede la reclusione da sei mesi a quattro anni e multe da mille a diecimila euro e considera uso personale se la quantità di sostanza non è superiore ai limiti massimi indicati con decreto del ministero della Salute. In questi casi non è punito il possesso di sostanze stupefacenti. Eliminando il concetto di modica quantità, il rischio concreto è quello di colpire anche i consumatori. Qualche mese fa, il senatore M5S Matteo Mantero presentò invece un disegno di legge che prevedeva la legalizzazione della coltivazione, lavorazione e vendita delle droghe leggere. Entrambi i Ddl non danno risposte, ma intervengono in maniera parziale: togliendo la modica quantità si perseguono i clienti, l’anello debole della catena dello spaccio e si salvano i veri spacciatori e trafficanti. La legalizzazione, invece, non dà un colpo alla criminalità organizzata. Nessuna legalizzazione può dare luogo a un mercato senza regole. Il mercato legale della droga spingerebbe gli spacciatori a indirizzare la loro azione nel diffondere la droga a coloro che sono esclusi dal mercato legale, nel diffondere dosi superiori a quelle stabilite per legge, nel diffondere droghe nuove. Per combattere questo fenomeno in maniera efficace la risposta deve essere integrata: occorre pensare non solo all’offerta ma anche al lavoro di recupero e a un’azione di prevenzione che si traduca in un intervento sulla comunità nel suo insieme, affinché l’azione educativa, culturale e formativa coinvolga il più ampio numero di persone e non soltanto gruppi a rischio. Francia. Agenti in rivolta, i radicalizzati fanno paura anche in carcere di Daniele Zappalà Avvenire, 7 marzo 2019 Lo spettro persistente del jihadismo più radicale che si propaga dietro le sbarre; i sorveglianti delle prigioni in sciopero; un Paese che teme il ritorno dal Medio Oriente dei foreign fighters affiliati al Daesh. All’indomani della grave aggressione di due agenti di custodia, ferito con un pugnale da un detenuto radicalizzato nel carcere di massima sicurezza di Condé-sur-Sarthe, in Normandia, in Francia è esploso con veemenza il dibattito sulla porosità del sistema penitenziario rispetto al virus jihadista. Convocata dal Parlamento, Nicole Belloubet, ministra della Giustizia, ha promesso in giornata più indumenti protettivi per i sorveglianti e risorse per correggere le disfunzioni in un sistema penitenziario additato dalle agenzie internazionali anche per i tassi di sovrappopolazione carceraria che complicano quotidianamente il lavoro del personale. Intanto, l’inchiesta avanza sull’aggressione perpetrata da Michael Chiolo, 27 anni, nuovo simbolo della metamorfosi in prigione di un delinquente di “diritto comune” in feroce sodale schedato della ragnatela jidadista. Raggiunto in “un’unità di vita familiare” dalla moglie Hanane Aboulhana, che si diceva incinta, il detenuto, agli occhi dei sorveglianti, stava vivendo una nuova tappa all’insegna dell’intimità coniugale. Ma il movente recondito dell’incontro si è rivelato drammaticamente martedì mattina, spazzando all’improvviso pure l’ombra del nobile principio del diritto a una vita sentimentale accordato al detenuto. Con un coltello in ceramica, probabilmente occultato dalla donna nel falso pancione, la coppia ha aggredito e pugnalato i sorveglianti. Nel caso di Chiolo, al grido Allah Akbar, spiegando pure di agire per “vendicare Chérif Chekatt”, ovvero il terrorista dei mercatini di Natale di Strasburgo che aveva ucciso 5 persone, fra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi. Poi, per 9 ore, la coppia si era asserragliata nella struttura, prima di un blitz delle teste di cuoio durante il quale la donna è rimasta uccisa. Chiolo, finito in prigione nel 2012 per il sordido sequestro e omicidio di un anziano a scopo di rapina, aveva stretto un legame con Chekatt quando i due erano detenuti ad Epinal, nell’Est. Ieri, si è appreso che Chiolo, radicalizzatosi in pochi anni in prigione, aveva già minacciato spesso di “sgozzare” dei sorveglianti in altre strutture penitenziarie. Ma martedì, la potenziale pericolosità del giovane era stata probabilmente sottovalutata. Il personale penitenziario ha ampiamente aderito ieri al “blocco nazionale” delle carceri (riducendo i servizi all’indispensabile) chiesto dai principali sindacati di categoria, da tempo pure in vertenza per questioni salariali. Nelle stesse ore, gli esperti interrogati dai media analizzavano il fallimento di tutti i successivi tentativi per fare delle carceri francesi l’opposto di un luogo di radicalizzazione jihadista. Intanto, nel Paese, divampa il timore del ritorno dei foreign fighters francesi, reduci dall’arruolamento nel Daesh. Secondo un sondaggio Odoxa, due francesi su tre sono contrari persino al rientro di un centinaio di minori di jihadisti francesi in Iraq e Siria. Ma in questo caso, il governo si è detto aperto al rimpatrio, a cominciare dagli orfani, senza indicare date precise. Libia. Italia e Europa sono nelle mani di Haftar di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 marzo 2019 L’uomo forte della Cirenaica, come ormai viene comunemente soprannominato da tempo, si sta imponendo come il leader militare più importante del Paese. Le forze militari di Khalifa Haftar guadagnano il controllo delle maggiori arterie e centri urbani della Libia meridionale. Tutti i confini libici, tranne quello con la Tunisia, sono nelle sue mani. Con l’entrata dei suoi uomini nelle ultime ore a Umm el Aranib, un oasi posta un centinaio di chilometri a sud della cittadina di Sebah nel Fezzan occidentale, completano così la loro avanzata iniziata oltre due anni fa. Haftar si conferma non solo l’uomo forte della Cirenaica, come ormai viene comunemente soprannominato da tempo, ma anche il leader militare più importante del Paese. Per l’Italia, e l’Europa intera, questi sviluppi hanno una rilevanza centrale. Se infatti il confine della Libia meridionale con le strade dei migranti dall’Africa sub-sahariana sono a tutti gli effetti i “veri confini dell’Europa” allora Haftar diventa l’uomo chiave per il loro controllo. Nelle mani dei suoi soldati e delle tribù locali dei Tebu e Tuareg, oggi loro alleate, si trovano infatti i maggiori punti di passaggio da Egitto, Sudan, Ciad, Niger e Algeria. Confini difficili, desertici, dove chi coordina i posti di blocco ha il vero dominio sul transito di uomini e mezzi. Al momento le uniche zone non controllate da Haftar sono quelle con la Tunisia, dove ancora prevalgono le milizie tripoline e le forze locali legate al fronte politico dei Fratelli Musulmani. Ma da qui il traffico in arrivo dei migranti è praticamente nullo, se non quello in senso contrario di coloro che impossibilitati a partire dalle coste libiche scelgono di spostarsi in Tunisia nella speranza di imbarcarsi per l’Italia. Haftar inoltre dispiega i suoi uomini attorno ai pozzi di greggio e gas. Negli ultimi mesi si sono imposti su quelli di Sharara, dove operano la compagnia petrolifera nazionale libica (Noc) oltre a spagnoli e francesi, come anche su Elfil, ove si trova anche l’Eni. Libia: rivolta in un centro di detenzione di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2019 Soltanto la malafede di personaggi come i nostri attuali governanti può ancora ostinarsi a minimizzare la realtà delle condizioni in cui versano migliaia di persone rinchiuse nei centri di detenzione libici. Questi centri - oltre che di tortura - sono diventati centri di estorsione con metodi mafiosi. I parenti dei migranti qui segregati ricevono dai trafficanti di esseri umani molteplici telefonate con richieste di denaro in cambio del rilascio. Tale situazione era stata adeguatamente descritta da un reportage di Channel4 il 25 febbraio. Agghiaccianti le immagini di migranti, anche donne, incatenati, appesi al soffitto, picchiati e ustionati intenzionalmente con plastica resa liquida dal fuoco. Il giorno successivo - 26 febbraio - era scoppiata una protesta tra i 400 richiedenti asilo del centro di detenzione di Triq al-Sikka (Tripoli). Almeno 150 di loro erano riusciti a uscire dalle celle e a inscenare una protesta chiedendo l’intervento di Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). Immediata la reazione delle guardie che - dopo averli circondati - hanno iniziato a picchiarli con bastoni e spranghe causando numerosi feriti. Piuttosto preoccupanti le condizioni di due migranti ricoverati nell’ospedale di Abu Slim. Altri due, sospettati di essere tra i principali organizzatori della protesta, sarebbero stati rinchiusi in una cella sotterranea e sottoposti a tortura. Gran parte di coloro che avevano preso parte alla protesta (si parla di 120) sono stati trasferiti in altri centri di detenzione (Ain Zara e Sabha). 1.500 bambini torturati e imprigionati in Iraq di Sara Volandri Il Dubbio, 7 marzo 2019 Sono accusati di legami con il jihadismo. La denuncia di “Human Right Watch”: molti di loro sono in carcere in base a semplici sospetti, senza lo straccio di una prova, mentre le “confessioni” vengono estorte con la forza. Li chiamano “baby-jihadisti”, alcuni sono poco più che dei bambini, molti sono finiti dentro sulla base di semplici sospetti, senza lo straccio di una prova, anche se la prova che ora stanno affrontando è tra più dura che si possano immaginare. “Le autorità irachene e del governo regionale del Kurdistan iracheno hanno incriminato migliaia di minori per terrorismo per presunti legami con il sedicente Stato islamico (Is)”. È la denuncia che arriva da Human Rights Watch. Secondo l’organizzazione, alla fine dello scorso anno le autorità irachene e curde trattenevano circa 1.500 minori per presunti legami con il gruppo del sedicente Califfo Abu Bakr al- Baghdadi. La ong statunitense cita dati del governo iracheno e afferma che dall’inizio dell’anno “almeno 185 bambini stranieri” sono stati incriminati per terrorismo e condannati a pene detentive. I minori, afferma l’organizzazione che ha diffuso un nuovo rapporto, sono spesso vittima di arresti arbitrari e costretti a confessioni estorte sotto tortura. Hrw chiede al governo di Baghdad e al governo regionale del Kurdistan “modifiche immediate alle leggi anti-terrorismo” per porre fine a questi arresti, che costituiscono una violazione del diritto internazionale. Sinora non ci sono commenti da Baghdad ed Erbil. L’organizzazione accusa le autorità locali di “arrestare spesso bambini per qualsiasi percepito legame con l’Isis, di usare la tortura per estorcere confessioni e condannare” i sospetti “in processi sommari e del tutto iniqui”. “Questo approccio indiscriminato e punitivo non è giustizia e avrà per tutta la vita conseguenze negative per molti di questi bambini”, ha denunciato Joe Becker di Hrw. L’organizzazione afferma di aver parlato lo scorso novembre con 29 minori trattenuti dalle autorità curde per presunti legami con le milizie dello Stato islamico. In 19, riferisce, hanno denunciato di essere stati torturati. Sempre secondo il rapporto di Hrw, molti dei minori intervistati hanno riferito di essere uniti all’Isis per necessità economiche, per pressioni ricevute dalla famiglia, per fuggire da situazioni di difficoltà, molti perché costretti con la forza. “Per i bambini coinvolti nei conflitti armati ci sono la riabilitazione e il reintegro - ha concluso Becker - non torture e carcere”.