Magistratura Democratica: “Meno carceri e più misure alternative” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2019 Decarcerizzazione, no alla costruzione di nuovi carceri, implementare le misure alternative, dare valore alla giustizia riparativa e non allargare il 4bis (articolo emergenziale nato per vietare la concessione dei benefici per reati di mafia e terrorismo) anche verso reati come quelli della pubblica amministrazione. Parliamo della mozione su pena e carcere approvata dal XXII congresso di Magistratura Democratica che punta il dito contro il dilagante populismo penale che ha dato frutto a leggi punitive e restrittive, esortando nel contempo che si restituisca all’Italia quella posizione di prestigio che sempre ha avuto nel panorama dell’esecuzione penale. ù +Il documento esordisce ricordando la riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, quella che molti attendevano, perché “era un tentativo - si legge nella mozione - di dare nuovo slancio ai due principi del finalismo rieducativo e dell’umanizzazione della pena scolpiti nell’art. 27 Cost., norma in cui vengono racchiuse le due principali anime della Carta: l’istanza personalistica (principio di umanità) e quella solidaristica (principio rieducativo)”. Magistratura democratica punta il dito contro le norme recuperate dall’attuale governo con i recenti Decreti Legislativi dell’ottobre 2018, perché “sono poca cosa rispetto a quello che la riforma rappresentava, tanto da poter dire che il sistema dell’esecuzione penale - significativamente inciso da leggi che via via nel tempo hanno introdotto automatismi e preclusioni nell’esplicito intento di limitare il vaglio discrezionale sui percorsi individuali di recupero da parte della magistratura rimane ancora uguale a sé stesso”. I magistrati dell’associazione, consapevoli del fallimento che comporterà la riforma approvata a metà, chiedono che quel progetto di riforma “venga interamente recuperato anche per impedire il progressivo scollamento che oggi si verifica tra la rappresentazione ufficiale del carcere e la realtà di esso”. Si punta il dito contro i nuovi pacchetti sicurezza e l’inasprimento delle pene per alcuni reati. Magistratura democratica critica in particolar modo la legge “spazza-corrotti” dal punto di vista dell’esecuzione penale che, con efficacia retroattiva, “indebolisce i processi di reinserimento per alcune categorie di reati”. Si fa riferimento all’inserimento nel primo comma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario di quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione, “semplicisticamente - si legge sempre nel documento approvato - parificati ai reati di mafia e di terrorismo”. I magistrati, nella mozione, dicono chiaramente che tali provvedimenti rischiano di relegare ancora una volta il carcere in “un mondo chiuso in sé e totalmente impermeabile al contatto con la società civile”. Magistratura democratica ribadisce che la dignità di ogni condannato, anche autore dei più gravi delitti, “deve essere salvaguardata dalle istituzioni che ne assumono la custodia, evitando la spettacolarizzazione degli arresti e l’esibizione al pubblico del condannato come fosse un trofeo di guerra”. I magistrati di MD sono chiari su questo punto: “L’esecuzione della pena ed il carcere rappresentino un luogo di mediazione e di pacificazione, oltreché di riparazione e di recupero individuale e non un terreno di perenne conflitto o di strumentale propaganda”. La mozione ricorda il sovraffollamento che coinvolge le nostre patire galere e il rischio, concreto, di una nuova condanna da parte della corte europea dei diritti umani. Per scongiurare tale condanna, MD non auspica la costruzione di nuove carceri, ma interventi legislativi tesi ad evitare l’esponenziale ricorso alla pena carceraria. I magistrati ricordano anche il mancato intervento sul vuoto normativo che rende, tuttora, la mancata equiparazione dei detenuti con patologie mentali con quelli aventi problemi fisici. In parole semplici, attraverso la mozione, MD vuole che l’esecuzione penale abbia la costituzione italiana come via maestra. Sovraffollamento, a febbraio quasi diecimila detenuti in più rispetto alla capienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2019 Il Garante Mauro Palma: “non sono aumentati gli ingressi in carcere, ma sono drasticamente diminuite le uscite: cioè si entra in un mondo da cui non si esce”. Continua inesorabilmente ad aumentare la presenza dei detenuti oltre la capienza regolamentare delle carceri. Il parametro di riferimento utilizzato è di 9 metri quadri a testa, ma, di fatto, i detenuti non solo non hanno a disposizione i sei metri quadrati stabiliti dal Comitato europeo sulla prevenzione della tortura, ma - visto alcune situazioni di carceri con il sovraffollamento al 120 percento - rientrano a mala pena nei 3 metri quadrati a testa di spazio vitale minimo stabilito dalla corte europea sui diritti umani. Anche perché, va aggiunta, la sottrazione dei posti disponibili di circa 5000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei dati messi a disposizione. Resta il dato oggettivo che al 28 febbraio, secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.348 detenuti. Un risultato che fa registrare la presenza di 9.826 detenuti in più. Al 31 gennaio, invece, se ne registravano, 9.575. Ancora prima, al 30 novembre se ne registravano 9. 419 in più. A settembre erano invece 8.653 i ristretti oltre i posti disponibili. Una lettura sull’ evidente lento e progressivo sovraffollamento l’ha data il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma durante l’ultimo congresso del Partito radicale. “Se analizziamo l’aumento dei numeri - ha spiegato Palma, non sono aumentati gli ingressi in carcere, ma sono drasticamente diminuite le uscite: cioè si entra in un mondo da cui non si esce”. Il Garante ha fatto anche una seconda osservazione: “Attualmente ci sono circa 1800 persone in carcere che stanno scontando una pena inferiore ad un anno”. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Comunque sia, il sovraffollamento è una piaga riconosciuta anche dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, da risolvere - secondo la linea di governo - attraverso la costruzione di nuove carceri. Soluzione non condivisa non solo dal garante nazionale dei detenuti, dalla Camera penale e ovviamente dal Partito radicale, ma anche da Magistratura Democratica come riportato oggi da Il Dubbio. Ma sul sovraffollamento sarà proprio Rita Bernardini del Partito radicale a parlarne di persona con il Guardasigilli, dopo avergli chiesto un incontro chiarificatore tramite una lettera. Proprio ieri, fa sapere l’esponente radicale, ha ricevuto una chiamata dal ministero per chiederle se preferiva una risposta scritta da Bonafede o un incontro. Bernardini vuole un incontro e le è stato promesso che sarà fissato entro i prossimi dieci giorni. Rimane costante anche la presenza dei bambini dietro le sbarre. Sono 46 le mamme detenute che hanno un totale di 53 figli al seguito (aumentato di una unità rispetto al mese precedente), una ventina dei quali sono in carcere, mentre il resto dei piccoli sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. La legge prevede l’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro madri da tre a sei anni. La norma contempla la custodia in istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Ad oggi ce ne sono 5: Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e Lauro (in Campania). Ma ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. A Firenze doveva essere aperta da tempo un Icam, ma oggi l’appartamento è inutilizzato. Su questa ultima vicenda c’è una mozione presentata alla giunta regionale della toscana che potrebbe smuovere le acque su questa storia infinita dell’Istituto per madri detenute a Firenze. “Una storia - come denunciano don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano e Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze - che ha preso il via nel gennaio 2010 con il protocollo d’intesa tra numerosi enti per la creazione dell’Icam in uno stabile di proprietà dell’Opera della Madonnina del Grappa. Da allora altri documenti hanno visto la luce, senza arrivare però a una conclusione. Nel frattempo l’edificio in via Fanfani sta letteralmente cadendo a pezzi”. Il ministro Bonafede ha comunque promesso che provvederà all’istituzione degli Icam in ogni regione. Oltre 2.600 donne nelle carceri italiane Vita, 6 marzo 2019 È quanto emerge da un’analisi dell’Unione europea delle cooperative, su dati del Ministero della giustizia, in occasione della giornata dedicata alle donne. Sono oltre 2.600 le donne che passeranno la festa dell’8 marzo in una cella delle carceri italiane e fra di loro ci sono 49 mamme con 53 bambini al seguito. E’ quanto emerge da un’analisi di Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, su dati del Ministero della giustizia in occasione della giornata dedicata alle donne. Su un totale di 60.348 detenuti - spiega Uecoop - le “quote rosa” rappresentano poco più del 4% e sono concentrate principalmente in Lombardia, Campania e Lazio. Rispetto ai detenuti maschi - rileva Uecoop - le donne vivono una situazione più delicata sia, spesso, per la gestione dei rapporti con la famiglia, sia per i legami con i figli dentro e fuori il carcere, con problemi aggravati per le detenute straniere. Inoltre - sottolinea Uecoop - una volta scontata la pena e uscite dal carcere esistono difficoltà di reinserimento con una dinamica che aumenta il rischio di recidive criminali. Per questo - afferma Uecoop - è necessario potenziare tutti quei progetti di reinserimento e di percorsi professionali che permettono ai detenuti di provare a ricostruirsi un futuro e una vita nella legalità sia da soli che magari aggregati in cooperative. Orticoltura, sartoria e ristorazione - sottolinea Uecoop - sono i settori dove più frequentemente le detenute compiono percorsi di professionalizzazione. In questi anni le donne - conclude Uecoop - nelle diverse iniziative nelle quali sono state coinvolte hanno saputo mostrare grandi capacità organizzative che se indirizzate nella giusta direzione possono dare un contributo importante alla crescita della società. “La difesa è sempre legittima”: la Camera dà il via libera alla riforma voluta da Salvini di Alberto Custodero La Repubblica, 6 marzo 2019 Oggi voto finale, ma il testo non diventerà ancora legge: dovrà tornare al Senato per l’ultima approvazione. Fi canta vittoria, il Pd attacca: “Sovverte i valori costituzionali e propone un’idea arcaica di giustizia che diventa vendetta privata”. Al rush finale alla Camera la riforma della Legittima Difesa. Ieri sono stati votati i primi sei articoli. L’Aula riprenderà stamattina con il voto di dieci emendamenti, seguiranno poi le dichiarazioni di voto e infine il voto finale. Il testo tuttavia non diventerà legge in quanto al Senato era stato commesso un errore sulle coperture finanziarie poi ‘sanato’ da un emendamento in Commissione a Montecitorio. Per questo il testo dopo l’approvazione della Camera dovrà tornare a Palazzo Madama per il definitivo ok. I pilastri della riforma delineati nei primi sei articoli sono chiari e netti già da mesi: la difesa sarà “sempre” legittima qualora ci si trovi “in uno stato di grave turbamento”. Verranno introdotte pene più severe per tutti quei reati che minano la sicurezza della persona come furto, rapina e violazione di domicilio. Un cambiamento drastico e per questo chi critica la riforma (ad esempio l’Associazione Nazionale magistrati) vede una preoccupante deriva giustizialista, nonostante dalla Lega giungano rassicurazioni sull’esclusione di ogni rischio Far West. E soprattutto, sostengono i leghisti non si sa sulla base di quale dato, “è una richiesta di giustizia che arriva dal 99% del popolo italiano”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è stato in Aula due volte, in attesa di portare a casa una delle norme per cui il Carroccio si batte da sempre. Il testo approdato a Montecitorio è blindato. Nessun emendamento è stato infatti presentato dalle forze di maggioranza: nemmeno i Cinque Stelle, nonostante all’interno del Movimento non manchino perplessità e malumori. La riforma, come già avvenuto nel passaggio al Senato, dovrebbe incassare i voti anche di Forza Italia e Fratelli d’Italia. L’Aula era stracolma ieri. Il dibattito si è acceso tra il Pd e Forza Italia. Il Partito democratico ha parlato di legge “pericolosa, perché sovverte i valori costituzionali e propone un’idea arcaica di giustizia che diventa vendetta privata”. “Sulla Legittima difesa - ha tuonato il deputato dem Emanuele Fiano - si sta consumando alla Camera una doppia prova politica. La Lega testa la tenuta dei Cinque Stelle su temi che in passato i grillini avrebbero considerato invotabili, e contemporaneamente Forza Italia prova a richiamare, su un tema che sente proprio, la Lega di Salvini all’antica alleanza di origine”. “In entrambi i casi - ha aggiunto - le prove delle vecchie e nuove alleanze passano sopra il merito di quello che si sta approvando. Un insulto alla civiltà giuridica del nostro Paese che produrrà l’obbrobrio della ‘difesa sempre legittima’ in barba ai principi della discrezionalità dell’azione giudiziaria e del ruolo della magistratura”. Forza Italia ha cantato vittoria: finalmente, hanno detto, una vera legge di centrodestra. Tra i banchi del Movimento si sono contate assenze importanti. Alle prime votazioni mancavano all’appello 32 deputati, quelli più a sinistra tra cui Valentina Corneli, Yana Ehm, Riccardo Ricciardi, Doriana Sarli e Gilda Sportiello. L’articolo 1 è uno dei cardini dell’intero provvedimento targato Lega, in quanto dispone in sostanza che “la difesa è sempre legittima”. L’articolo 2 modifica il 55 del codice penale sull’eccesso colposo e inserisce tra le cause di non punibilità chi si è difeso in “stato di grave turbamento”. L’articolo 3 modifica il 165 del codice penale sulla sospensione condizionale della pena: nel caso di condanna, la sospensione condizionale della pena è subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. L’articolo 4 modifica il 614 del codice penale aumentando le pene per la violazione di domicilio: le pene sono aumentate “da uno a quattro anni” e “da due a sei anni”. L’articolo 5 modifica il 624 bis del codice penale inasprendo le pene per il furto in abitazione. L’articolo 6 modifica il 628 del codice penale inasprendo le pene per la rapina. Legittima difesa. Silenzio alla Camera, si spara di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 marzo 2019 Nessun ostacolo per la legge bandiera di Salvini. Grillini muti per tutta la giornata, il dissenso del Movimento 5 Stelle si limita a qualche assente e a qualche voto segreto a favore di un emendamento Pd. Il leghista unico ministro in aula annuncia che il provvedimento sarà approvato oggi e definitivamente dal senato entro fine mese. Con l’appoggio di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Cinque ore e più di discussione, sessantotto interventi, sei articoli approvati, quarantuno emendamenti bocciati e neanche un intervento di un deputato di maggioranza. Con una sola eccezione della durata di trenta secondi, quando il liberal-leghista Basini non si è trattenuto e ha esclamato: “Non si possono mettere due carabinieri davanti a tutti i venti milioni di appartamenti italiani”. Spiegando così la necessità della legge sulla legittima difesa, provvedimento bandiera di Salvini ingoiato come una medicina amara dal Movimento 5 Stelle. La camera lo approverà oggi, il senato dovrebbe riuscire a farlo diventare legge dello stato prima della fine del mese. Nell’emiciclo di Montecitorio, il dissenso dei 5 Stelle si mostra nei banchi vuoti, lucine spente nel tabellone elettronico che replica gli spicchi dell’aula. Alla prima votazione sono 32 gli assenti non giustificati, e 31 quelli giustificati perché in missione. In pratica il 30% del gruppo non si è presentato. Non c’è il ministro della giustizia, competente per materia. A rappresentarlo il sottosegretario Morrone, ovviamente leghista. E c’è, unico ministro, Salvini. Appare e riappare in aula, il tempo di farsi fotografare e dettare alle agenzie: “Sono tranquillissimo, la legge sarà approvata entro domani”. Cioè oggi. E ha ragione. I 5 Stelle non parlano, i capi del gruppo passano il tempo piegati sui tabulati che danno un nome agli assenti. Tra gli altri Corneli, Ehm, Ricciardi, Sarli, Sportiellio, Colletti, Cunial, Chiazzese, Gallo, Romaniello: diversi di loro avevano trovato il modo di raccontare un malessere per questo tentativo dell’alleato leghista di depenalizzare l’autodifesa armata in casa. Ed è l’occasione perfetta per esprimere questo dissenso sotterraneo, muto. Perché la legge non rischia nulla, sostenuta com’è da Forza Italia e Fratelli d’Italia. A Montecitorio i numeri sulle pistole sono a prova di bomba. Forza Italia anzi fa di tutto per intestarsi la legge, che pure avrebbe voluto ancora più esplicita. Chiedeva l’inversione totale dell’onere della prova, a favore di chi spara in casa. Dai berlusconiani arrivano interventi a raffica e frequenti litigate con i deputati del Pd. Che sono adesso contrarissimi e dunque in imbarazzo, avendo nella scorsa legislatura proposto (e quasi condotto in porto) quella stessa nozione di “grave turbamento” per escludere la punibilità di chi eccede nell’autodifesa. Non a caso nella prima lettura, alla fine dello scorso anno, in senato, il Pd votò a favore dell’articolo 2 della legge leghista. Anche la Lega, probabilmente per non risvegliare l’alleato dalla narcosi, evita accuratamente di intervenire. Il Pd ottiene un voto segreto sull’emendamento che punta a cancellare la maggiore novità del provvedimento, quella per la quale l’autodifesa all’interno del proprio domicilio è “sempre” proporzionata all’offesa, dunque “legittima”. L’appoggio di Forza Italia e Fratelli d’Italia copre ogni defezione dei grillini, che pure c’è senz’altro perché ai 111 voti delle minoranze contrarie al provvedimento (92 del Pd, 12 di Leu e 7 del misto) se ne aggiungono altri 14. Franchi tiratori molto probabilmente grillini hanno provato ad affossare la legge di Salvini, sapendo benissimo di non correre il rischio di riuscirci. Ma non sarà quell’avverbio, “sempre”, a far avverare le promesse dei leghisti ai loro elettori. Chi sparerà in casa propria per difendersi non potrà in ogni caso sottrarsi al controllo dei magistrati. L’inchiesta sarà comunque aperta e lo sparatore si ritroverà indagato, per accertare i fatti e valutare l’attualità del pericolo. “Riusciremo almeno ad abbreviare i tempi delle inchieste”, ha ripiegato a un certo punto uno dei due relatori di maggioranza, che è appunto di Forza Italia. Ma anche questo è discutibile, perché bisognerà appurare se non si è trattato di un eccesso consapevole di reazione, magari basato proprio sull’idea che la legge adesso è favorevole a chi reagisce. E per i casi di eccesso colposo sono stati i magistrati ad avvertire che sarà difficilissimo distinguere tra un turbamento semplice e un turbamento “grave”. Legittima difesa. Salvini non riesce a fermare i cattivi e così delega noi a farlo di Antonello Caporale Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2019 Un pregiudicato per reati di droga, sotto l’effetto di stupefacenti, investe e uccide marito e moglie e ferisce gravemente i loro due figli. Il pregiudicato è marocchino, ha il permesso di soggiorno e c’è la certezza che sia un delinquente. Il ministro dell’Insicurezza pubblica, della Paura e della Propaganda, sforna in dieci minuti un disegno di legge che aumenta le pene per gli spacciatori. Il testo, che è una boutade propagandista, è ottimo cibo per gli urlatori televisivi: linea dura, niente più sconti ai delinquenti! Siamo ai confini della realtà, e Matteo Salvini - grazie all’inettitudine dei suoi alleati di governo (ben gli sta!) - è il finto marziano. Un magistrale editoriale di Marco Travaglio, pubblicato sul Fatto Quotidiano il 28 febbraio scorso, spiega perché fa il marziano, cioè il finto tonto. In carcere ogni anno entrano 90mila persone, escono 80mila persone. I ladri, per decisione del Parlamento, restano in cella non più di due o tre giorni. Le condanne inferiori ai 4 anni (cioè il 90 per cento del totale) sono infatti affidate a misure alternative alla detenzione. In questo modo l’Italia riesce ad avere uno tra i minori numeri di detenuti in rapporto alla popolazione (89,3 ogni 100mila abitanti). Per farci un’idea: gli Usa ne hanno 693 ogni 100mila, la Spagna 130 ogni 100mila, la Francia 102,6 ogni centomila, l’Austria 95 ogni 100mila. Ci sono troppi ladri a piede libero, dice il ministro della Paura, cosicché - invece di stabilire che qualunque pena, se definitiva, vada scontata, aggiunge altre norme a quelle esistenti e teorizza una nuova ulteriore misura. Armare i cittadini di pistole per rendere ai malavitosi pan per focaccia. La strabiliante iniziativa, nota come la nuova legge sulla “legittima difesa”, dimentica che ogni anno in Italia i processi per “eccesso” di legittima difesa sono quattro. Quattro in tutto. Infatti tutti coloro che difendono legittimamente i beni e le persone dalle incursioni dei ladri sono tutelati dalle norme sulla legittima difesa già riviste al rialzo durante il governo Berlusconi per mano del ministro della Giustizia di allora, il leghista Castelli. Non è meraviglioso? Al ministro dell’Insicurezza non viene neanche in mente la ragione per cui sono state approvate leggi come il cosiddetto “svuota-carceri”, che è servito ad alleggerire la popolazione carceraria in sovrannumero rispetto ai parametri decisi. L’Italia infatti impone che ogni detenuto abbia almeno 9 metri quadrati a disposizione se ristretto in una cella singola, e almeno 14 metri quadrati se in una doppia. La capienza minima decisa dalla Corte di giustizia europea è di 3 metri quadrati pro capite, mentre la soglia sotto la quale non si può andare, secondo il Comitato per la prevenzione della tortura, è di 4 metri quadrati procapite. L’Italia prima alza i parametri vitali della vivibilità di ogni detenuto (giustissimo!), poi però dimentica di costruire nuove carceri e - condannata per violazione dei diritti dei detenuti - risolve la questione lasciando i condannati a casa, nella comoda soluzione dei domiciliari. Ora il fantasmagorico Salvini, risolve la questione, non riuscendo ad arrestare i cattivi, né a tenerli in carcere, delegando noi a farlo. E’ bravissimo, vedrete che presto ci dirà: “Avete voluto la pistola? E adesso sparate!”. “Spazza-corrotti”, carcere e retroattività: e la Costituzione? di Fabio Viglione agenziaradicale.com, 6 marzo 2019 L’attesa riforma in materia di giustizia è venuta ormai ufficialmente alla luce. Attraversa il codice penale, quello di procedura ed introduce modifiche all’ordinamento penitenziario. La disposizione più reclamizzata è quella che elimina la prescrizione di tutti i reati - a prescindere dalla loro gravità - dopo la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione. Così, per i reati commessi a partire dal 2020 (e quanto prevede la norma) andrà in scena un processo potenzialmente senza limiti di tempo! Con buona pace del principio della “ragionevole durata del processo”. Ma c’è molto di più nella riforma. In particolare, in materia di delitti contro la Pubblica Amministrazione. Questi ultimi, infatti, oltre ad essere investiti da singolari innovazioni (dall’agente “sotto copertura” alla speciale impunità per chi si pente e offre la testa dei correi sull’altare della collaborazione) sono stati eletti a reati simbolo del ritorno alla centralità della pena carceraria. E tanto, procedendo ad una vera e propria inversione di rotta rispetto al percorso di “decarcerizzazione” delle pene brevi. Un provvedimento in netta controtendenza (e, peraltro, con notevoli controindicazioni) non solo rispetto all’individualizzazione della pena. Se guardiamo ai costi per lo Stato ed ai dati sulla recidiva non possiamo non constatare uno spread positivo in favore delle misure alternative rispetto al vecchio modello carcerario. I risultati prodotti, negli anni, dall’esecuzione dell’affidamento in prova ai servizi sociali ci descrive una pena effettiva, un percorso per il condannato di virtuoso monitoraggio costante e risocializzante con costi estremamente contenuti per la comunità. Certamente di molto inferiori a quelli sostenuti dalla comunità per la detenzione carceraria. Al netto, poi, di una drastica diminuzione della recidiva nella comparazione tra i due modelli. Ma la recente riforma non sembra particolarmente sensibile a queste letture. Non sembra andare alla ricerca di un punto di equilibrio nella sanzione, nella personalizzata verifica da parte dei Giudici della possibilità di una alternativa al regime carcerario. Non in chiave di perdonismo o di assenza di certezza della pena ma alternativa più incline all’attualizzazione del principio di risocializzazione calato nel contesto in cui il condannato è chiamato sì a pagare per quanto commesso ma in una positiva proiezione rieducativa. La scelta operata sul punto dalla riforma, però, va in tutt’altra direzione. Così, anche un peculato del valore di poche migliaia di euro o una corruzione per una modestissima utilità avranno una sola modalità di espiazione della pena: il carcere. Nessuna possibilità di accedere ai benefici penitenziari! Una preclusione netta e generalizzata. Carcere, solo carcere, come per i delitti di mafia. Il dipendente pubblico condannato per essersi appropriato di uno scrittoio o di un grammofono dell’ufficio sarà trattato alla stregua dell’esponente di uno strutturato e sanguinario clan mafioso. E non solo. C’è una ulteriore ed incredibile conseguenza di tale rigoroso strappo con il passato. La mancanza di una norma transitoria sembra rendere applicabile retroattivamente questa preclusione. Così, anche a chi ebbe a commettere ben prima dell’entrata in vigore della norma sembrerebbe impedita la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova ai servizi sociali. Questo almeno fino a quando il Giudice delle Leggi, cui sarà certamente rimessa a breve la questione, non si pronuncerà quanto meno sulla costituzionalità dell’applicazione retroattiva della disposizione. Il pubblico ufficiale condannato per aver sottratto lo scrittoio in pelle in un periodo antecedente all’entrata in vigore della riforma non potrà che scontare la pena rinchiuso in carcere. Diversamente, va detto, dal condannato per aver commesso un sequestro di persona o una violentissima aggressione fisica. Addirittura per i condannati per il delitto di usura o per gli appartenenti ad una associazione per delinquere finalizzata, per esempio, a truffare anziani. Tutti costoro potranno espiare la pena, se sotto la soglia dei quattro anni, in affidamento in prova ai servizi sociali o in detenzione domiciliare. Ma queste opzioni sanzionatorie, disposte dal Tribunale di Sorveglianza previa valutazione dei singoli casi, saranno precluse per i richiamati reati contro la Pubblica Amministrazione. Non più ordine di carcerazione sospeso con possibilità di sanzioni alternative. Solo carcere, previo immediato ingresso del condannato nella struttura detentiva. È l’effetto della “spazza-corotti” che ha operato una scelta muscolare, priva di uno sguardo d’insieme sul sistema sanzionatorio. A tacere, poi, degli annosi problemi di sovraffollamento delle strutture che torneranno di allarmante attualità. Questa scelta, come detto, in assenza di norme transitorie (ad oggi assenti), potrebbe applicarsi retroattivamente, anche nei confronti di chi ebbe a commettere il reato molti anni prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione. Alcune considerazioni a margine di questa opzione si rendono di immediata percezione guardando alle applicazioni pratiche. Un imputato che si determinò a patteggiare, da incensurato, ritenendo di poter beneficiare di una misura alternativa alla detenzione inframuraria, potrà varcare la soglia del carcere. Se quel cittadino avesse saputo (sfera di cristallo alla mano), che prima dell’espiazione sarebbe stato introdotto un regime preclusivo, avrebbe potuto fare altre scelte. Avrebbe potuto scegliere di difendersi affrontando il dispendioso dibattimento. Ma una torsione applicativa che discende dalla recente modifica normativa sembra impedire il divieto di retroattività. È una norma processuale e non soggiace in quanto tale ai divieti applicativi delle norme penali sostanziali. Per lo stesso fatto due soggetti potranno vedersi applicare conseguenze diverse quanto al regime sanzionatorio. Sanzione alternativa per chi ha già concluso il processo e cominciato ad espiare la pena, solo carcere per il condannato il cui processo è terminato dopo l’entrata in vigore della nuova disposizione. È questa la conseguenza in termini applicativi dell’assenza di norme transitorie e della natura processuale della modifica. Tuttavia, una norma che stravolge le modalità di espiazione della pena (non una semplice regola che disciplina il processo) non può ritenersi sic et simpliciter meramente procedurale. Non incide infatti nella mera ritualità delle regole del processo ma modifica drasticamente le modalità esecutive della pena e, per l’effetto, la tipologia della pena. Come detto, la retroattività delle disposizioni in malam partem relative alla pena da espiare impegnerà certamente la Corte Costituzionale che non potrà non esaminare la recente scelta adottata dal Legislatore in tema di ostatività dei reati citati rispetto ad ogni beneficio penitenziario. Questa scelta non potrà sottrarsi al sindacato di legittimità anche in punto di ragionevolezza. “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, recita la Costituzione all’art. 25. È vero, non si tratta di una legge che introduce un nuovo reato ma di una legge che prevede unicamente la pena del carcere innovando in senso profondamente peggiorativo le disposizioni vigenti all’epoca della commissione del fatto. In occasione di precedenti riforme in materia di inasprimento delle modalità esecutive della pena, norme transitorie ne impedirono la retroattività. Il problema esiste anche al di là della discutibile filosofia di mettere da parte la finalità rieducativa della pena, sostituendo un modello rigidamente retributivo. Un modello utilizzato in via esclusiva solo in presenza della perduranza di pericolosità ed assoluta gravità dell’allarme sociale. Ma la scelta operata introduce una sorta di automatismo di pericolosità assoluta per tutti i condannati per una serie di delitti contro la P.A. La compatibilità di tale modello - introdotto tanto frettolosamente - con i principi di ragionevolezza e proporzionalità è tutta da verificare. La conseguenza della retroattività, poi, completa il quadro. Forse non si tratta di una questione sulla quale raccogliere facili consensi ma è un tema fondamentale che va affrontato quanto prima ed in modo serio e responsabile per non allontanare una legislazione sempre più frammentaria ed emotiva da principi cardine di civiltà giuridica e dello Stato di Diritto. Il degrado della politica e della P. A.? È anche colpa della magistratura di Alberto Cianfarini (Magistrato) Il Dubbio, 6 marzo 2019 Negli ultimi 25 anni la magistratura ha assunto una forte connotazione produttivistica, connotazione che tanti innocenti ha lasciato sul campo. Un dato oggettivo, su cui penso molti osservatori concorderanno, è la non eccelsa qualità della nostra classe politico-amministrativa; tale constatazione è indubbiamente trasversale e connota ogni colorazione politica ed ideologica, ogni ganglio vitale anche di quella Pubblica Amministrazione scelta e derivata dalla classe politica. C’è uno iato culturale così ampio tra un qualsiasi dipendente pubblico (da concorso) ed uno di nomina politica da lasciare basiti. Chi volesse una riprova oggettiva potrebbe prendere ad esempio il bando di un qualsiasi concorso pubblico per diplomati o laureati per rendersi conto dell’estrema difficoltà dei quiz e dei test selettivi proposti ai numerosi candidati: la gran parte dei politici italiani sarebbe scartata il primo giorno, direttamente alle convocazioni preliminari. Questo si traduce in una normazione primaria e secondaria di difficile lettura ma, soprattutto, in una Amministrazione della cosa pubblica traballante, opaca e tendenzialmente di parte. Nei manuali di diritto amministrativo, almeno quelli storici, vi è scritto che l’atto amministrativo si presume legittimo: in Italia ormai, tra gli addetti ai lavori, si usa pensare che sia proprio l’opposto. Caduta qualitativa e conseguentemente di prestigio della Politica e della Pubblica Amministrazione da essa derivata, si traduce direttamente in un recesso dell’Economia essendo i due mondi strettamente interconnessi: ma di questo scriverò in un altro momento. Quali sono le ragioni di questo declino della Pubblica Amministrazione? Certamente il ritornello della caduta delle ideologie aiuta molto i lettori a lenire la sofferenza della tragica constatazione. Sempre meglio additare le responsabilità al destino e alla caduta delle ideologie, tanto non si accusa nessuno di concreto e si rimanda al fato disgraziato che ha preso di mira l’Italia. Ma la caduta delle ideologie non ha interessato anche gli altri popoli dell’Europa? Deve esserci qualcosa di peculiare in questo Paese. La Magistratura ha avuto il pregio di mettere in luce e evidenza, a partire dalla metà degli anni 90, la gran parte malata della politica italiana. Questo è senz’altro un merito storico. Tuttavia in questi ultimi 25 anni la Magistratura, forse anche per reagire agli attacchi interessati e strumentali, ha assunto una forte connotazione produttivistica (poco selettiva), connotazione che tanti innocenti ha lasciato sul campo. Per carità 99 colpevoli condannati non fanno notizia quanto quell’innocente, ingiustamente indagato/ imputato per anni e poi assolto, sacrificato sull’altare del produttivismo di stile fordiano. Qual è il messaggio che il dipendente pubblico ne ricava? Quale messaggio il cittadino onesto percepisce da indagini, sovente pregiudizialmente inclini al colpevolismo? La risposta dell’onesto dipendente pubblico è il disimpegno intellettuale e la soggettiva deresponsabilizzazione: ecco che la Politica e quella parte della P. A. che da essa dipende, diventa il luogo dei ritardi, dei mille defatiganti visti, delle pratiche che non vanno avanti. Nessuno rischia più niente. Nessun cittadino onesto e preparato è incentivato oggi a fare politica, perché mai? Per essere indagato per anni e additato come mostro per non aver conosciuto di una norma la quale imponeva quel determinato termine, scaduto il quale si è automaticamente additati come disonesti?. Meglio restarne fuori. Un qualche illecito si trova sempre. Ecco che la politica diventa sempre più spesso, o comunque nella gran parte dei casi, il regno di coloro i quali non hanno nulla da perdere, nulla da dare o rischiare. Non si ha una vera professionalità da difendere. Tanto vale mettersi in politica e rappresentare tutti. La guida di un paese dovrebbe essere nelle mani dei migliori, dei più preparati, di coloro i quali dopo una lunga militanza nello studio e nell’approfondimento sanno realmente di cosa discutono. Nella più famosa delle sue “Prediche inutili”, Luigi Einaudi poneva una domanda che è fondamentale: “Come si può deliberare senza conoscere”. Purtroppo Einaudi, da conoscitore delle cose italiche, sapeva bene dell’inutilità del suo dire. Conoscenza è professionalità. La Magistratura è chiamata ad un compito alto e non (solo) produttivistico. La funzione general-preventiva della pena funziona anche all’incontrario: la giusta condanna allontana i terzi consociati dal male, ma l’indagine lunga ed ingiusta allontana parimenti i consociati dal bene comune. Il detenuto omosessuale va allocato in sezione omogenea, non “protetta” e promiscua articolo29.it, 6 marzo 2019 Con Ordinanza del 18 dicembre 2018, dep. 29 dicembre 2018 l’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto ha accolto il reclamo di un detenuto omosessuale che era stato allocato dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria in una sezione protetta e promiscua, insieme a detenuti portatori di diverse e anche opposte esigenze di protezione (sex offenders, collaboratori di giustizia, ecc..). Il giudice di sorveglianza ha sottolineato come con la recente riforma dell’ordinamento penitenziario sia stato riconosciuto il diritto ex art. 14, comma 7 O.P. delle persone che abbiano dichiarato il proprio orientamento omosessuale (con dichiarazione rimessa alla sola scelta dell’interessato, anche al fine di fruire di colloqui e trattamento finalizzati alla tutela dei suoi rapporti familiari) ad essere allocate, ove lo richiedano per esigenze di sicurezza, in sezioni “omogenee” e comunque alla partecipazione alle attività trattamentali. Di conseguenza è illegittima l’allocazione in sezioni promiscue, sia perché le stesse non assicurano piena protezione, attesa la detta promiscuità con detenuti portatori di diverse e anche opposte esigenze di protezione, sia perché nel caso concreto non assicura piena partecipazione al trattamento rieducativo. Accogliendo il reclamo ex art. 35 O.P., dunque, il giudice ha ordinato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il suo trasferimento in sezione omogenea entro il termine di 30 giorni e con obbligo di comunicazione al magistrato di sorveglianza. È autoriciclaggio il riscatto polizza con reinvestimento di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2019 La Corte di cassazione continua a precisare le condotte ed i requisiti necessari per individuare il reato di autoriciclaggio (articolo 648, 1-ter del Codice penale) configurando tale delitto anche per chi riscatta una polizza assicurativa con denaro regolarizzato attraverso il cosiddetto scudo fiscale per poi sottoscriverne altre due sempre intestate a suo nome. Tale denaro era di provenienza illecita poiché secondo la tesi dell’accusa era stato distratto dal patrimonio di una società di capitali. Secondo la seconda sezione penale della Cassazione (sentenza 9681/19 depositata ieri) anche il disinvestimento di una polizza ed il successivo reinvestimento delle medesime somme costituisce reato di autoriciclaggio in quanto è necessario valutare la reale natura dell’operazione relativa all’acquisto di una polizza vita, verificando la specifica struttura del contratto ed individuando la causa specifica dello stesso, procedendo pertanto ad una articolata analisi del contratto. La Cassazione conferma così la motivazione del giudice di merito che aveva considerato l’operazione un “meccanismo” idoneo ad integrare un sistema di reinvestimento, poiché l’utilizzo del denaro, anche alla luce dell’operazione segnalata come sospetta ai fini antiriciclaggio dalla Banca d’Italia, non poteva essere considerato come diretto godimento dell’autore del reato e quindi solo per uso personale, che avrebbe escluso la punibilità. Inoltre l’intera condotta è stata considerata idonea a configurare il delitto poiché l’operazione di disinvestimento e successivo investimento in due distinte polizze avrebbe reso possibile la dissimulazione dell’origine delle somme. Si è infatti considerata tale attività idonea anche solo ad “allontanare” in modo mediato la correlazione tra i due controvalori trasferiti e la consistenza totale originaria della somma di provenienza illecita. Così facendo la Suprema corte ha richiamato quindi il suo orientamento recente in tema di riciclaggio ed autoriciclaggio rammentando che non soltanto sono punibili quelle operazioni che sono volte ad impedire in modo definitivo l’accertamento ma anche quelle che rendono difficile l’accertamento della provenienza illecita del denaro. Pertanto è stato stabilito il precedente secondo cui l’operazione avente oggetto l’acquisto con la medesima somma di due polizze diverse e di diverso importo segnalate come operazioni sospette dalla Banca d’Italia che le ha quindi valutate come tali, sia una condotta idonea ad ostacolare concretamente l’origine illecita delle risorse finanziarie dell’indagato giustificando quindi il sequestro preventivo effettuato su tali somme di provenienza delittuosa. Bancarotta: la necessità del nesso strumentale per il sequestro preventivo di quote societarie Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2019 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale - Quote di una società appartenenti a persona estranea al reato - Sequestro preventivo - Reato fallimentare - Nesso di strumentalità - Necessità. È legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società appartenenti a persona estranea al reato, qualora sussista un nesso di strumentalità tra detti beni e il reato contestato. La società di comodo e la titolarità delle sue quote, in quanto costituiscono lo strumento attraverso il quale il fallito continui a svolgere la propria attività imprenditoriale, non possono in sé e per sé costituire oggetto di sequestro preventivo atteso che nulla vieta che il fallito prosegua fuori del fallimento una precedente attività o che ne intraprenda una nuova, fatte salve le ragioni dei creditori concorsuali; ai fini della adozione del sequestro preventivo occorre un collegamento strumentale tra reato fallimentare e cosa sequestrata e non tra il reato e la persona. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 6 febbraio 2019 n. 5868. Misure cautelari reali - Sequestro preventivo - Sequestro preventivo di quote di società appartenenti a persona estranea al reato - Legittimità - Condizioni - Nesso di strumentalità - Fattispecie. È legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società appartenenti a persona estranea al reato, qualora sussista un nesso di strumentalità tra detti beni e il reato contestato e il vincolo cautelare sia destinato a impedire, sia pure in modo mediato e indiretto, la protrazione dell’ipotizzata attività criminosa, ovvero la commissione di altri fatti penalmente rilevanti, attraverso l’utilizzo delle strutture societarie. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente il nesso di strumentalità tra le quote di due società in sequestro, appartenenti a prossimi congiunti degli indagati, e i reati di estorsione e illecita concorrenza commessi da questi ultimi avvalendosi delle predette società). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 21 luglio 2015 n. 31914. Misure cautelari - Reali - Sequestro preventivo - In genere - Sequestro preventivo avente per oggetto quote di società appartenenti a persona estranea al reato - Legittimità - Condizioni. È legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società, pur se appartenenti a persona estranea al reato, qualora detta misura sia destinata a impedire la protrazione dell’ipotizzata attività criminosa, poiché ciò che rileva in questi casi non è la titolarità del patrimonio sociale ma la sua gestione supposta illecita, e si può, d’altra parte riguardare il sequestro preventivo come idoneo a impedire la commissione di ulteriori reati, pur se in maniera mediata e indiretta, dal momento che esso priva i soci dei diritti relativi alle quote sequestrate, mentre la partecipazione alle assemblee e il diritto di voto (anche in ordine all’eventuale nomina e revoca degli amministratori) spettano al custode designato in sede penale. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 aprile 2010 n. 16583. Napoli: “Le carceri scoppiano”, tre giorni di sciopero degli avvocati penalisti di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 6 marzo 2019 Tre giorni di sciopero, dal 20 al 22 marzo (con esclusione della sede distaccata di Ischia) per lanciare l’allarme sullo stato drammatico delle carcere in Italia ma soprattutto in Campania. “E con una visione carcerocentrica di questo Governo la situazione diventerà invivibile già nei prossimi mesi”. È una delibera forte e diretta quella della nuova Camera penale di Napoli che ha deciso di incrociare le braccia per mandare un messaggio direttamente a chi siede negli scranni del Parlamento: “Si deve intervenire e bisogna farlo subito”, prima che scoppi il caos. Il presidente Ermanno Carnevale e il segretario Gaetano Balice hanno firmato un documento approvato all’unanimità dai componenti del consiglio (Mattia Floccher, Andrea Abbagnano Trione, Sabina Coppola, Giuseppe Carandente, Mario Pasquale Fortunato, Roberto Giovene di Girasole, Sergio Schlitzer) che pone l’accento sul drammatico stato delle carceri e anche sulle disfunzione dell’ufficio di Sorveglianza del Tribunale di Napoli. “Il sovraffollamento ha raggiunto livelli intollerabili, sostanzialmente sovrapponibili a quelli antecedenti la sentenza Torreggiani, con la quale, nel 2013, la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, per la sistematica violazione degli standard minimi di vivibilità all’interno delle celle”, scrivono nella delibera già affissa davanti alla sede del Palazzo di giustizia di Napoli e che farà il giro dei Tribunali di tutta Italia. In tutti i penitenziari italiani ci sono 60.125 detenuti a fronte dei 50.550 posti disponibili. Nei 190 istituti di pena del Paese sono stati 60 i suicidi lo scorso anno. Alla gravità della situazione nazionale, già più volte denunciata dall’intera avvocatura italiana, si aggiunge la ancora più drammatica situazione di sovraffollamento di Poggioreale che registra una presenza di 2.351 detenuti a fronte di una capienza regolare di 1.635 persone. Nella casa circondariale napoletana nel 2018 si sono registrati ben quattro suicidi e numerosi episodi di tensione. Stessa situazione anche al carcere di Secondigliano dove a fronte di 1.020 posti ci sono 1.456 detenuti stipati nelle celle. “La mai risolta emergenza carceri è destinata ad aggravarsi ulteriormente a seguito dei recenti interventi di giustizia penale, caratterizzati da una visione carcerocentrica della pena e la mancata attuazione della legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario”, legge che era volta a facilitare l’accesso alle misure alternative la dice tutta su quanto potrà accadere. Situazione che si aggraverà certamente con la legge cosiddetta “spazza-corrotti”, oltre all’introduzione di una nuova causa di sospensione del termine di prescrizione, già oggetto di dibattiti e proteste. “Riteniamo che ci sia un irresponsabile uso della giustizia, quale strumento di creazione del consenso, e che i soggetti politici non tengono in alcuna considerazione né le gravissime condizioni in cui si trovano gli istituti di pena”, né i diritti fondamentali dei detenuti i quali, nei prossimi mesi, “unitamente all’amministrazione penitenziaria, saranno costretti ad affrontare situazione ancora più critiche e intollerabili per qualsiasi paese civile e per le quali lo Stato italiano è stato più volte condannato in sede sovranazionale, tanto da essere costretto a introdurre forme di indennizzo pecuniario a tutti i detenuti ai quali non è stata garantita la condizione di dignità nella fase di esecuzione della pena”, concludono nelle delibera di protesta. Roma: nel carcere di Rebibbia sovraffollamento e carenza di personale rassegna.it, 6 marzo 2019 L’istituto conta complessivamente 649 stanze di detenzione, ad oggi, due intere sezioni detentive sono chiuse per ristrutturazione, e i detenuti sono 1.567. Fp Cgil Roma-Lazio: “Una situazione insostenibile, ed è solo la punta dell’iceberg”. La Fp-Cgil di Roma e Lazio ha visitato il carcere di Rebibbia ‘Raffaele Cinotti’ per verificare le condizioni in cui operano gli agenti del corpo di polizia penitenziaria. Come in gran parte degli istituti del Lazio, il numero di detenuti supera la capienza regolamentare di 1.212 unità. L’istituto conta complessivamente 649 stanze di detenzione, ad oggi, due intere sezioni detentive sono chiuse per ristrutturazione, e i detenuti sono 1.567: il picco, dopo la sentenza Torreggiani, con cui la Corte di Giustizia europea ha condannato l’Italia per la violazione dei diritti umani, rispetto alle condizioni di detenzione nelle carceri. “In rapporto al sovraffollamento, per cui i detenuti in stanza sono 6 anziché 4, spesso anche con problemi psichiatrici per mancanza di posti nelle Rems - scrive in una nota la Fp Cgil di Roma e Lazio - ancor più grave è la carenza di personale denunciata: gli agenti sono 590, mentre gli educatori sono solo 17 in tutta la struttura, e poco personale c’è anche all’ufficio matricola, che cura e segue tutta la vita giuridica del detenuto”. Impossibile anche pianificare una formazione adeguata, dove invece sarebbe necessario: “A Rebibbia vengono seguiti anche i transiti dei detenuti estradati (o in via di estradizione) che transitano da Fiumicino e chi è in sosta temporanea per questioni di giustizia”, precisa la Fp. “Rispetto ai contingenti minimi, mancano 27 ispettori, 60 sovrintendenti e 52 agenti assistenti - prosegue il sindacato - Nel turno 7,30-15,40, abbiamo verificato che gli agenti in servizio erano 134, di cui alcuni non in reparto, ma in servizio esterno (per piantonamenti e visite ospedaliere urgenti), mentre avrebbero dovuto essere 189. In più di un reparto, gli agenti in servizio erano circa la metà rispetto a quanti dovrebbero essere: da una parte solo 11 poliziotti, anziché 20 per 452 detenuti, in un altro 5, anziché 10, in un altro ancora 9, anziché 13. E nei turni pomeridiani e notturni va ancora peggio: può succedere che un agente vigili un intero reparto, e spesso si lavora su doppi turni di oltre 16 ore, a cavallo dei notturni”, prosegue il comunicato sindacale. Situazione che spesso, come accaduto di recente a Cassino, espone i lavoratori al rischio di aggressioni. “Nell’istituto, l’età media è di circa 50 anni, nel 2018 ci sono stati 40 pensionamenti e se ne prevedono altri 10 nei prossimi mesi - fanno notare ancora dal sindacato - A tutto questo, si aggiungono le criticità strutturali dell’istituto nato negli anni ‘60: infiltrazioni, soffitti crollati, muffa alle pareti, sistemi di videosorveglianza inadeguati. Rebibbia è un caso emblematico, che rispecchia lo stato complessivo delle carceri del Lazio. Il coordinamento regionale ha scritto la scorsa settimana al provveditore di Lazio, Abruzzo e Molise per aprire con urgenza un confronto sulle ormai insostenibili condizioni negli istituti penitenziari della regione”. Secondo la Fp Cgil regionale, il sistema carcerario laziale “è al collasso”, e il confronto “non è più rinviabile”. “Assunzioni, sicurezza, condizioni di lavoro e formazione professionale sono le priorità - conclude il sindacato - non si può più lavorare inseguendo l’emergenza. Continueremo a visitare le altre strutture della regione e a denunciare quel che troveremo istituto per istituto. Serve un confronto complessivo e risposte concrete ai tanti problemi aperti, per la qualità della detenzione e per la sicurezza e l’incolumità dei lavoratori”. Palermo: carcere dell’Ucciardone, i detenuti diventano giardinieri e sarti palermotoday.it, 6 marzo 2019 Si chiama “Mi riscatto per Palermo” il progetto che vedrà 12 detenuti della casa di reclusione impegnati in lavori di pubblica utilità. Inaugurata anche una sartoria delle grandi firme. Orlando: “Palermo è l’Ucciardone e l’Ucciardone è Palermo”. I detenuti dell’Ucciardone diventano giardinieri e sarti. Un’iniziativa di pubblica utilità che coinvolgerà fino a 50 carcerati che usciranno dalla cella e si occuperanno della manutenzione di aree verdi della città, da Monte Pellegrino al fiume Oreto. Inaugurata anche una sartoria che produrrà capi di abbigliamento per grandi firme. Le due iniziative, promosse dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Comune sono stati presentati stamattina nella casa circondariale alla presenza della direttrice Rita Barbera, del sindaco Leoluca Orlando, del Garante regionale dei detenuti Giovanni Fiandaca e del capoarea del settore verde del Comune, Domenico Musacchia. Il progetto dei lavori socialmente utili, denominato “Mi riscatto per Palermo”, prevede che un gruppo di detenuti, inizialmente 12 persone e poi gradualmente fino a 50, sia impegnato in attività di manutenzione ordinaria e straordinaria di aree verdi della città. Un primo intervento sarà realizzato nell’area verde dell’ospedale militare e poi, una volta che il gruppo avrà maturato adeguata esperienza, è previsto che a partire da maggio gli interventi siano realizzati a Monte Pellegrino e lungo la foce e il corso del fiume Oreto. Ulteriori interventi, anche in sinergia con la Rap, saranno valutati nelle prossime settimane con particolare riferimento alla possibilità di intervento per la rimozione delle discariche abusive. Il progetto della sartoria è stato invece già avviato, grazie al supporto di un’azienda siciliana del settore manifatturiero e all’attività di formazione che gratuitamente un sarto professionista ha destinato ad alcuni detenuti (10 in tutto) che, all’interno di un laboratorio attrezzato potranno ora realizzare capi d’abbigliamento. Per la direttrice Rita Barbera “queste attività rappresentano un modo per rendere concreta la finalità rieducativa del carcere”. Secondo i dati forniti dal Garante per i detenuti, solo una piccola percentuale dei reclusi nelle carceri dell’Isola svolge attività di pubblica utilità: appena il 17,6% contro il 25% che le svolge a livello nazionale. “Anche per questo - ha affermato Fiandaca - questo progetto rappresenta una importante opportunità ed un’iniziativa lodevole sotto tutti i punti di vista”. “Palermo è l’Ucciardone e l’Ucciardone è Palermo. Questo progetto - ha detto Orlando - rappresenta lo specchio della possibilità di cambiamento, del fatto che il carcere sia certamente luogo in cui scontare una pena, ma soprattutto luogo in cui costruire per tutti, per le persone e per la comunità, un futuro diverso e migliore. In questo percorso, un grosso apprezzamento deve andare alla direzione del carcere, che ha mostrato sempre una particolare attenzione alla dimensione rieducativa e alla funzione di reinserimento della detenzione”. Bolzano: Anna Rita Nuzzaci passa a dirigere il carcere di Trento rainews.it, 6 marzo 2019 Dopo 16 anni di servizio a Bolzano, la direttrice Anna Rita Nuzzaci sta per assumere la direzione della casa circondariale di Trento. Il sindaco di Bolzano, Renzo Caramaschi, l’ha ricevuta per una visita di cortesia e di saluto. Il primo cittadino ha ringraziato la direttrice per l’impegno, la professionalità e la collaborazione messi in campo in tanti anni di attività nel capoluogo in una realtà alquanto complessa quale quella della direzione di una struttura carceraria. Nuzzacci ha a sua volta sottolineato i tanti progetti e le varie iniziative promosse in collaborazione con la città di Bolzano. Alla direttrice Nuzzaci, il sindaco Caramaschi ha rivolto i migliori auguri per la nuova sfida professionale che l’attende. E la direttrice è stata ricevuta anche dal Commissario del Governo per la provincia di Bolzano, Prefetto Vito Cusumano. Anche lui ha ringraziato la dott.ssa Nuzzaci per il costante impegno a migliorare la condizione dei detenuti, anche attraverso l’organizzazione di corsi di formazione, di lingue e di alfabetizzazione, in cui ha coinvolto le associazioni di volontariato della città. Vasto (Ch): bombola del gas esplode in cella, detenuto gravemente ustionato Il Centro, 6 marzo 2019 Stava scaldando il suo pranzo sul fornelletto della propria cella. All’improvviso si è sentito un boato e a seguire una fiammata che lo ha bruciato in diverse parti del corpo. A.H., 49 anni, detenuto di origine magrebina ristretto nel carcere di Torre Sinello, è vivo grazie all’intervento di un agente della polizia penitenziaria. Quest’ultimo ha soffocato le fiamme con una coperta. A.H. ha riportato comunque ustioni sul 50% del corpo. Dopo le prime cure al Pronto soccorso del San Pio, l’uomo è stato trasferito all’ospedale Cardarelli di Napoli. L’incidente, sul quale sono in corso accertamenti per risalire alle cause, si è verificato ieri verso le 14,30. A.H. pare fosse solo in cella. Cosa sia accaduto esattamente è da verificare e purtroppo il ferito non è in condizioni di parlare. Pare che dovesse scaldarsi una vivanda. Nell’accedere il fornellino, tuttavia, qualcosa non ha funzionato. Si è sentito un boato e subito dopo le urla dell’uomo avvolto dal fuoco. Un agente che era in servizio senza perdere tempo si è lanciato sul detenuto con una coperta soffocando le fiamme. Il fuoco ha comunque attaccato mani, viso e torace del quarantanovenne. A Torre Sinello è stato richiesto l’arrivo del 118. L’ustionato è stato trasferito al San Pio di Vasto. Vista la gravità delle ustioni il dirigente del Pronto soccorso Augusto Sardellone, dopo le prime cure, ha contattato il Centro grandi ustionati dell’ospedale Cardarelli di Napoli. Il paziente è stato sedato. Un elicottero ha trasferito A.H. nel presidio specialistico partenopeo. L’uomo è stato sedato e sistemato in una camera sterile in attesa di un probabile intervento chirurgico. Non dovrebbe essere in pericolo di vita ma la prognosi è riservata. Fondamentali saranno le prossime ore. L’incidente ha inevitabilmente rinfocolato le polemiche sulla pericolosità dei fornelletti nella celle dei detenuti. La Uil della polizia penitenziaria è tornata a chiedere la sostituzione dei fornellini con piastre a induzione o strumenti meno pericolosi. “I fornellini sono paragonabili ad armi bianche. Possono nuocere ai detenuti, come in questo caso, ma anche agli agenti. Vanno sostituiti”, insiste il sindacato. Roma. teatro-carcere a Rebibbia “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle” di Bruna Alasia pressenza.com, 6 marzo 2019 I detenuti-attori insegnano che un’umanità creativa è possibile. Un atto unico straordinario “Cento lettere, dalle sbarre alle stelle”, quello rappresentato a Roma nel teatro del penitenziario di Rebibbia: ha scaldato il cuore di spettatori che, pur entrando in un carcere dove si sente la segregazione dal mondo, hanno toccato con mano quale corale di creativa umanità sarebbe una società che permettesse a ognuno di crescere. In “Cento lettere, dalle sbarre alle stelle” i detenuti-attori conoscono ciò di cui parlano e per questo riescono a comunicare emozioni molti forti. Recitare diventa così confessione viva, una sorta di autoanalisi che suscita empatia e costringe chi guarda a interrogarsi su quanto la casualità interferisca in ogni destino, sulle responsabilità individuali nella società in cui viviamo. Tratto dal libro omonimo del detenuto Attilio Frasca - che nella pièce interpreta se stesso - scritto con Fabio Masi, autore e regista di Blob, (Itaca edizioni) la rappresentazione è il risultato di un percorso teatrale sostenuto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la direzione artistica di Simone Cristicchi, durato sette mesi e tenuto dal regista Ariele Vincenti, in collaborazione con Fabio Masi, in sinergia con il direttore, le assistenti sociali e le psicologhe della Casa circondariale di Pescara. Interpretato dagli stessi detenuti con il regista e attore Ariele Vincenti, con la fondamentale partecipazione dell’attore Flavio Insinna, che sul palcoscenico è voce narrante, filo conduttore e interprete dell’epistolario tra Attilio Frasca e Massimo, un amico conosciuto da Attilio quando era bambino, che fuori dal carcere lo sostiene psicologicamente e lo guida verso la redenzione. A fine rappresentazione lo stesso Flavio Insinna ha detto, visibilmente emozionato, che “un’occasione come questa mi serve per capire meglio la vita. Io sono stato fortunato e voglio rimettere in circolo quello che mi è stato dato. E’ necessario aprirsi alle persone”. Lo spettacolo racconta, universalizzandola, la discesa criminale del protagonista Attilio Frasca, la cui devianza è nata quando era piccolissimo: basti pensare che all’età di sei anni fumava sigarette. Dai primi reati, Attilio arriva al delitto e alla lunga carcerazione, in una deriva straziante che per associazione d’idee ricorda - benché in un ambiente diverso - le vite spezzate sul nascere dei film di Babenco o Louis Bunuel. Sono insiti nei personaggi, bene espressi in alcune scene di violenza collettiva, tratti psicologici dell’eroe dostoevskijano che in “Delitto e castigo” mette alla prova i propri limiti con la trasgressione, sentendosi legittimato al delitto quale sfida e, al tempo stesso, identico bisogno di resurrezione per non rimanere isolato. Non manca però la leggerezza di situazioni esilaranti, di coreografie, di canzoni originali del cantautore romano Emilio Stella. Completa l’evento l’interessante mostra fotografica di Antonello Nusca (sua anche la foto che correda quest’articolo). In “Cento lettere” il teatro si fa strumento di rinascita, scambio osmotico che avvicina chi sta dietro le sbarre e chi sta fuori. Lo spettacolo sarà in tournée nei teatri di Pescara, L’Aquila, Napoli, Roma. Chi può non lo manchi. Santa Maria Capua Vetere (Ce): nel carcere rappresentazione contro il femminicidio linkabile.it, 6 marzo 2019 “Donne come noi”, protagoniste le detenute dell’alta sicurezza. Un carnevale particolare è stato festeggiato oggi nel carcere di santa Maria Capua Vetere. Le donne dell’alta sicurezza, reparto Senna, hanno voluto mettere in campo con l’associazione “Suddatella” uno spettacolo dalle forte emozioni e con un valore di denuncia: fare memoria della violenza che subiscono le donne quotidianamente, fare memoria delle morti per mano di fidanzati, mariti. Lo spettacolo di oggi, “Donne come noi” che si è tenuto nel carcere di Santa Maria ha lanciato un forte messaggio contro il femminicidio, attraverso musica e poesie, alternando momenti di risate a momenti di profondità emotiva. I detenuti presenti del reparto Tamigi, alta sicurezza, e l’intero reparto femminile Senna, hanno manifestato con molti applausi l’esibizione delle protagoniste: sette detenute del reparto Senna, che hanno anche scritto parte del copione. Michelina Esposito, oltre che interprete si è occupata della stesura del copione, Natasha Cordaro, Giovanna Di Rosa, Assunta Buonerba, Maria Buonerba, Maddalena Di Paoli, Antonietta Casamonica. A coordinare le attività l’associazione “suddatella”. Erano presenti allo spettacolo la direttrice dell’istituto Elisabetta Palmieri, il magistrato di sorveglianza Marco Puglia e il garante regionale dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello che al termine della manifestazione ha detto tra l’altro: “Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la figura femminile che spesso è vittima anche di violenza psicologica dai propri amati. Al di là della condanna e della sua entità, mi auguro che queste rappresentazioni spontanee e sentite servano per contribuire a creare una cultura del rispetto e per combattere assieme una battaglia contro la violenza sulle donne che non deve avere sosta, anche nei quartieri periferici e nelle famiglie a rischio. Quando la forza di prevaricazione ha la meglio sul coraggio o sulla possibilità di denunciare, serve aiuto. L’incontro di oggi vuole essere un “ seme” da gettare nel suolo per produrre riflessione e attenzione anche tra i carcerati con reati associativi”. Roma: “Voci dal Carcere”, manifestazione grazie a Unicef e Asl Roma 4 trcgiornale.it, 6 marzo 2019 L’appuntamento è per l’otto marzo, giornata per la celebrazione della donna, ma il luogo non sarà una pizzeria per festeggiare, o una piazza per incontrarsi e fare shopping, Unicef e Asl Roma 4, si sono unite per dare voce, e ascoltare le voci, delle donne che nel giorno della festa della donna, stanno scontando la loro pena nel Carcere di Civitavecchia, sezione femminile. “Voci dal carcere, riflessioni ed emozioni dietro le sbarre” Saranno le stesse detenute a determinare le tematiche dell’incontro culturale che si terrà nella mattinata dell’otto marzo. Poesie, letture, danza, musica, tutte forme di espressione artistica che le donne potranno scegliere per esprimersi e condividere una esperienza con gli altri. “Dedichiamo parte del nostro tempo agli altri, per mandare un messaggio importante. In questo caso, il desiderio di comunicare le proprie emozioni, tramite l’arte, un’esigenza di tutti, una possibilità per le donne, anche private della loro libertà, di dar voce al bisogno di esternare. Saremo lì per ascoltarle e condividere questa esperienza insieme”. Così afferma Pina Tarantino, responsabile del comitato Unicef di Civitavecchia e litorale Roma Nord,, da sempre impegnata nelle attività di volontariato a sostegno delle categorie più fragili. “In un giorno come quello dell’otto marzo, che negli ultimi anni è diventato una festa che celebra il consumismo, è importante non dimenticarsi di quelle donne che risultano “invisibili” alla società. La Asl Roma 4 è impegnata in progetti e sostegno al carcere, come ha dimostrato negli ultimi anni, appoggiando iniziative culturali, educative e volte alla prevenzione della salute” così afferma il commissario della Asl Roma 4 Giuseppe Quintavalle. Saranno presenti il Direttore Patrizia Bravetti e l’educatore Paolo Maddoni. Ambasciatrice della Asl Rm4 Marika Campeti, che donerà una copia del suo romanzo femminile “Il Segreto di vicolo delle Belle” alla casa circondariale, un romanzo che invita a profonde riflessioni, trattando tematiche importanti che ruotano intorno alla vita delle donne, la tolleranza, il perdono, il coraggio, la lotta contro la violenza. Informazione, un deserto chiamato democrazia di Matteo Bartocci Il Manifesto, 6 marzo 2019 Se la stampa piange, il giornalismo non ride. Tra rivoluzione tecnologica, testate che chiudono e bilanci in rosso, tutti gli editori del mondo hanno capito che i lettori sono l’unica cosa che conta. Ma potrebbe essere troppo tardi. E nessuno può più sbagliare. Mentre il governo legastellato sta per lanciare gli “stati generali dell’editoria” i frutti nefasti del taglio al fondo per il pluralismo cominciano a maturare. Di fatto non c’è editore italiano, piccolo o grande, che non abbia dichiarato lo stato di crisi. E anche i pochi che apparentemente resistono, vedono calare vendite e ricavi e si arrangiano nel “diversificare il prodotto” con eventi, big data, collaterali, corsi professionali, viaggi e quant’altro. Se la stampa è in crisi, il giornalismo non ride. Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato democrazia. Negli Stati uniti centrali negli ultimi anni sono scomparse 1.800 testate locali, con il risultato che ci sono comunità (e poteri) privi di informazione e dunque di contropotere. Uno scossone che taglia i legami civici e devasta le radici della convivenza costruite negli ultimi due secoli. Pensare che questa profondissima rivoluzione industriale riguardi solo i “dinosauri” delle edicole è da sciocchi. Appena la tecnologia consentirà di riprodurre adeguatamente suoni e filmati, anche i broadcaster via etere tipo Rai, Mediaset ne subiranno gli effetti. L’idea di “palinsesto” deciso dall’alto (come quella di “sfoglio” delle pagine di un giornale, del resto) sarà messa a dura prova. I giornali non sono solo “informazione”. Sono “informazione curata”, cioè scelta e gerarchizzata dalla prima all’ultima pagina e riga da un gruppo di professionisti. Un processo top-down che assorbe buona parte delle redazioni per molte ore al giorno. Veniamo a conoscenza di centinaia di notizie che poi non pubblichiamo, e discutiamo per decidere dove e in che ordine vanno proposte al lettore. Su cosa “aprire” il giornale lo decidiamo noi, non i nostri abbonati. Scegliamo una copertina perché per noi è “giusta”, è la “notizia del giorno”. Ma il futuro non la vede allo stesso modo. Per chi frequenta Youtube o Netflix, la gerarchia la decidono gli algoritmi (segreti e proprietari) e il telecomando. Guardo quel film all’ora che voglio, non perché qualcuno pensa che sia “giusto”. La “cura” è nascosta dalla cessione continua dei propri dati, dei propri gusti, delle proprie scelte culturali, politiche, economiche. Nel Web nessuno è mai da solo. Ci sono pezzetti di software che ti osservano. Continuamente. E forse dovremmo (ri)scoprire il piacere di leggere un giornale in santa pace, quando nessuno ci guarda e “conta” le righe che abbiamo letto per quanto tempo. Girate pagina. Pensiamo agli sbarchi e non ci accorgiamo del crollo delle nascite di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 6 marzo 2019 Gli arrivi di migranti sono in calo costante rispetto al 2016, ma se ne parla ogni giorno. Senza turbarsi invece per la scarsa natalità: in due anni ha contribuito a ridurre la popolazione dell’equivalente di una provincia come Sondrio. Preoccupati di difenderci gli uni dagli altri e da nemici in parte inventati, noi italiani stiamo indebolendo le nostre capacità di proiettarci in progetti utili al presente e al futuro di ciascuno di noi. Il nostro sguardo è rivolto dalla parte sbagliata. Guardiamo con apprensione agli arrivi via mare di migranti e rifugiati. Nel frattempo, come risulta al ministero dell’Interno, gli sbarchi hanno subito un crollo costante. Nel 2016 avevano portato in Italia 181.436 persone. Nel 2017 sono state 119.310. L’anno scorso 23.370. Nel 2019, finora, 271. Il calo demografico, invece, non ci spaventa per niente, mentre in due anni ha contribuito a far sparire dal totale della nostra popolazione l’equivalente di una provincia come Sondrio o Matera. Secondo l’Istat, se si prende come punto di riferimento il primo gennaio scorso il numero dei residenti in Italia è calato di 90 mila persone rispetto all’anno prima. A inizio 2018 la diminuzione, sul 2017, era stimata in quasi centomila. Sono dati pubblici, tutt’altro che segreti. A risiedere in Italia siamo in 60 milioni e 391 mila. La nascite calano dal 2008. Si trasferiscono all’estero più italiani di quanti tornano. Si innalza l’età media delle donne che partoriscono: 32 anni. L’Italia invecchia (speranza di vita di 80,8 anni per i maschi e 85,2 per le femmine) e non ci preoccupiamo di dotarla (dotarci) di servizi sociali economicamente durevoli. È come se le paure immaginarie o esagerate, la ricerca di nemici esterni, il disprezzo per l’Europa, la repulsione verso intese tra forze politiche consigliabili per reggere la competizione internazionale ci servissero a proteggerci dai timori più seri. Quelli fondati, da rimuovere. Migranti. Tutta colpa del Franco Cfa, come dice Di Maio? di Milena Gabanelli e Danilo Taino Corriere della Sera, 6 marzo 2019 “Gli africani fuggono in Europa perché la Francia tiene le sue ex colonie in miseria a causa del fatto che utilizzano il Franco Cfa”. Certo che hanno qualche problema i Paesi africani che usano questa moneta, ma non sono quelli indicati dal vicepremier Di Maio. L’area monetaria Franco Cfa esiste dal 1945: fino all’entrata in vigore dell’euro è stata collegata al Franco francese, dal 1999 alla moneta unica europea. La condizione è il versamento del 50% delle riserve valutarie nelle casse della Banca di Francia. Si tratta di 11 miliardi di euro investiti in titoli di stato francesi, a garanzia del cambio monetario. Per capire vantaggi e svantaggi per le economie che l’hanno adottata si può, per approssimazione, confrontare gli andamenti dell’inflazione e della crescita economica dei Paesi che ne fanno parte con gli indicatori dei Paesi subsahariani che non vi aderiscono. La zona monetaria Franco Cfa è composta da tre zone governate da altrettante banche centrali. Una è il Cemac, che comprende Congo, Gabon, Camerun, Guinea Equatoriale, Ciad e Repubblica Centroafricana. Tra il 1974 e il 2014 hanno registrato inflazioni medie annue piuttosto contenute: da un minimo del 5,8% della Repubblica Centrafricana a un massimo del 10,2% del Ciad. L’altra zona, Uemoa - formata da Costa d’Avorio, Senegal, Mali, Burkina Faso, Benin, Niger, Togo e Guinea-Bissau - ha registrato aumenti dei prezzi medi annui, sempre nello stesso periodo, anche un po’ inferiori: dal minimo del 6% del Togo al 9,4% del Burkina Faso (i dati sono della Banca Mondiale). Stessa dinamica nella terza zona a Franco Cfa, quella delle Isole Comore che mantengono una loro banca centrale. Sempre tra il 1974 e il 2014 altri Paesi subsahariani che non aderiscono all’area monetaria del Franco Cfa, ma che in alcuni casi scelgono di agganciarsi al dollaro, hanno avuto medie d’inflazione annua più elevate. L’Etiopia l’11,2%, il Kenya il 13,7%, la Nigeria il 17,6%, l’Uganda il 22%, il Ghana il 31,9%, per fare alcuni esempi. Quindi avere una valuta stabile - di fatto agganciata alla politica monetaria della Bce - tende a mantenere più basso di quello che potrebbe essere l’aumento generale dei prezzi. Diverso è però il discorso della crescita dell’economia. Nei 40 anni che vanno dal 1974 al 2014, i Paesi con Franco Cfa hanno registrato crescite del Pil un po’ più basse di chi non era nell’area monetaria. La performance migliori sono quelle del Senegal al 7% medio all’anno e del Burkina Faso al 5,7%. Ma c’è anche l’1,8% della Costa d’Avorio o il 2,5% del Togo. Gli esterni alla zona monetaria una volta legata al Franco e ora all’Euro hanno fatto in genere meglio: 8,2% l’Etiopia, 6,3% l’Uganda e Capo Verde; il minimo è il 4,1% del Kenya. In sostanza il Franco Cfa permette ai Paesi che lo usano una maggiore stabilità garantita dal collegamento diretto con l’area monetaria dell’Euro e una relativa minore crescita economica. Difficile affermare che il legame tra le performance sopra elencate sia un nesso diretto di causa-effetto: nei tassi d’inflazione e di crescita entrano altre componenti oltre alla valuta. In altri termini: chi non usa il Franco Cfa deve impegnarsi molto per dare stabilità alla sua moneta, dal momento che non ha la garanzia implicita della Banca centrale europea; chi usa il Franco Cfa deve sopperire a una minore capacità di agire sul valore della sua moneta sui mercati internazionali con politiche a favore della crescita di altro genere. Inoltre, dal momento che non si tratta di un’area monetaria ottimale, si registrano tensioni tra le diverse economie simili a quelle che si notano all’interno dell’Eurozona. Dal punto di vista politico, la prima cosa visibile è l’influenza diretta della Francia sulle sue ex colonie, sia sulla politica monetaria sia nei rapporti commerciali, imponendo una sorta di diritto di prelazione ai prodotti francesi, fino alle condizioni di favore di cui godono le multinazionali francesi: Bolloré, nei settori dei trasporti e delle logistica; Bouygues, nel settore delle costruzioni; le aziende pubbliche Cogema, Areva e Orano, nel settore dell’uranio ed Elf Aquitaine e Total in quello petrolifero. L’adesione, però, è volontaria e nessuno impedisce a questi Paesi di mantenere il cambio con l’euro bussando direttamente alla porta della Bce, che magari investirebbe sui titoli dell’area euro e non solo francesi. Non lo fanno perché è più semplice e consolidato un dialogo con la Francia. Invece potrebbero in qualunque momento decidere di uscire dal Franco Cfa e tornare alla moneta locale: il problema è che i governi che aderiscono all’area faticherebbero a mettere in piedi una loro banca centrale con una politica monetaria in grado di convincere il mercato internazionale dei cambi. Probabilmente ci si arriverà, ma non sarà certamente l’abolizione del Franco Cfa a ridurre i flussi migratori verso l’Europa. I numeri: negli anni 2014/ 2018 dalle aree Cfa è approdato sulle nostre coste il 15% dei migranti, dal resto dell’Africa il 43%. La più grande “rapina” ai Paesi africani, denuncia l’ultimo rapporto Oxfam, è opera delle multinazionali francesi, americane, inglesi, italiane e, più recentemente, dello Stato cinese: solo nel 2015 hanno sottratto 11 miliardi di dollari in tasse, attraverso trucchi noti a tutti, ma tollerati: 1) abuso di trattato: ovvero lo sfruttamento distorto di convenzioni bilaterali anche quando non ci sarebbero ragioni (ad esempio aprendo appositamente una sede fiscale in un Paese che ha un trattato favorevole con il Paese africano in cui produce); 2) abuso di prezzi di trasferimento: si produce un bene in Africa e poi si vende a prezzi bassissimi a una sussidiaria in paradisi fiscali che poi immette il bene nel mercato. In questo modo nel Paese africano paghi pochissime tasse, mentre il margine più alto si realizza nel Paese dove l’azienda ha un regime fiscale migliore; 3) prestito infragruppo: l’azienda apre una sussidiaria in un terzo Paese e tramite questa fa un prestito enorme a quella in Africa, su cui quest’ultima deve poi pagare gli interessi. Più è alto il prestito, maggiori sono i costi a bilancio per la sussidiaria africana che vanno a influire sugli utili e, quindi, sulle tasse. Certo, ci sono aziende occidentali che si comportano correttamente e con grande senso di responsabilità, ma il sistema descritto è quello più diffuso: favorisce la corruzione dei funzionari locali, lascia l’Africa in miseria ed è noto a tutti i governi. Il dibattito in Europa, però, ruota attorno a un piano Marshall per l’Africa di cui concretamente non si vede traccia, mentre non una parola viene spesa sulla necessità di “blindare” la regola alla base di ogni sviluppo: pagare il dovuto. Migranti. Il paradosso di San Ferdinando di Alessia Candito La Repubblica, 6 marzo 2019 Sgomberata la baraccopoli in Calabria, ma una nuova tendopoli sta già nascendo. Nella struttura erano accolte 900 persone. Molti si sono solo spostati nei dintorni. Camionette, ambulanze e all’orizzonte le ruspe, pronte a buttar giù tutto. Centinaia di agenti delle forze dell’ordine che presidiano l’intero perimetro. Dalle prime luci dell’alba, il ghetto di San Ferdinando è militarizzato. Ma nella baraccopoli che il ministero dell’Interno ha ordinato di sgomberare e abbattere, sono rimasti in pochi. Qualcuno lentamente sta andando via, portando con sè le poche cose che possiede. Sulla strada che dalla tendopoli porta a Rosarno si avvia anche un bambino che per mesi ha vissuto nel ghetto. Degli oltre 1.600 abitanti che fino a qualche giorno fa vivevano nell’area sono rimasti in pochi. La Questura parla di 600 persone, ma secondo le stime dell’Usb non sono più di trecento. La maggioranza ha approfittato della notte per disperdersi nelle campagne della Piana. Aspettano che si calmino le acque - dicono i sindacati - per tornare nella stessa area o magari cercare riparo poco lontano. “In molti non si sono fatti trovare e si sono spostati nei dintorni, altri hanno deciso di partire per altre zone”, dice Peppe Marra dell’Usb. “Chi è rimasto, per lo più non ha intenzione di accettare di entrare nelle tende che la Prefettura ha messo in piedi dall’altra parte della strada o di andare nei Cas. Anzi, molti che erano stati trasferiti nelle scorse settimane sono già tornati. Si organizzeranno autonomamente, con il risultato di creare mille nuovi micro insediamenti”. La strategia immaginata dalla Prefettura di Reggio Calabria, che per settimane ha cercato di trasferire 600 degli oltre 1500 braccianti in Cas e Sprar, si è rivelata fallimentare. Meno della metà degli aventi diritto ha accettato e molti sono già tornati in tendopoli. Le strutture sono lontane dai campi in cui lavorano, per il rinnovo dei documenti dipendono dal commissariato di Gioia Tauro e in molti casi aspettano il pagamento di giornate, se non settimane o mesi già passati nei campi. In molti hanno occupato, almeno per qualche notte, la baracca di chi spontaneamente è andato via. “Fino a ieri erano molti di più - spiega Youssef - ma in molti hanno preferito partire”. I piccoli spacci di cibo sono stati quasi tutti smantellati, la merce ordinatamente imbustata e conservata, insieme ai pali e alle lamiere che serviranno per rimetterli su altrove. Anche la moschea, dopo la preghiera del mattino, è stata smontata. I pesanti tappeti sono stati arrotolati con attenzione e portati nella nuova tendopoli. Chi ha potuto, ha caricato tutto sui furgoni ammaccati e auto scassate. Destinazione, Foggia o Metaponto per l’inizio della stagione. O le grandi città del Nord Italia. Qualcuno ha impilato tutti i suoi averi sulla bicicletta e si è diretto verso la stazione di Gioia Tauro. Nella notte, attorno alle 23, erano passati gli Intercity diretti a Roma. Alcuni si fermeranno prima, altri proseguiranno oltre. “Non so, aspetto notizie da mio cugino che sta vicino Napoli” dice Ydris. “Ci hanno dato troppo poco tempo, non siamo riusciti a organizzarci. Insieme ad altri senegalesi abbiamo provato a cercare casa a Rosarno, inutilmente”. Sono troppe le garanzie richieste. “È normale che chiedano documenti però da noi africani pretendono conto in banca, lettera di garanzia di un italiano e un contratto regolare, ma - sbotta - sono proprio loro a farci lavorare a giornata o a cassetta”. Sta tutto qui il paradosso del ghetto di San Ferdinando, una sacca di degrado ed emarginazione creata da anni e anni di diritti negati a chi lavora a schiena curva nei campi. Ciclicamente viene definita emergenza e trattata come tale. Ma è dal 2010, dopo quella che fu definita la “rivolta di Rosarno”, scoppiata dopo mesi di aggressioni ai braccianti africani, che la tendopoli nasce e risorge sulle ceneri degli innumerevoli incendi che lì sono scoppiati, distruggendola in tutto o in parte. Di notte, nella Piana di Gioia Tauro fa freddo e nel ghetto per scaldarsi ci sono solo falò e bracieri, spesso origine di roghi devastanti. L’ultimo, il 16 febbraio scorso, è costato la vita al 29enne senegalese Moussa Ba. Il ministero dell’Interno ha ordinato lo sgombero e la Prefettura si sta affrettando ad eseguire. Rapidamente sembrano essere stati nuovamente rimandati a data di destinarsi i progetti di integrazione abitativa, per anni rimasti sulle carte dei protocolli, ma di recente divenuti più concreti grazie alla Regione, che accogliendo le proposte dell’Usb, aveva messo a disposizione persino un fondo di garanzia. Per dare un tetto ai braccianti che verranno buttati fuori dal ghetto ci sono solo nuove tende. Sono state messe in piedi dall’altra parte della strada, dentro e fuori la cosiddetta “nuova tendopoli”, voluta due anni fa come soluzione “temporanea” e nel tempo allargatasi anche oltre il recinto che la delimita. “Uno straordinario passo indietro, che riporta a otto anni fa, dopo la rivolta di Rosarno - dice Patrik Konde della segreteria nazionale Usb. Anche allora sono state costruite delle tende, che negli anni sono diventate un ghetto. L’unica soluzione è garantire contratti regolari e integrazione abitativa a questi braccianti. Questa non è una questione di migrazione, ma di diritti del lavoro”. Droghe all’Onu, il governo snobba la società civile di Grazia Zuffa Il Manifesto, 6 marzo 2019 Un gruppo di associazioni attive nella politica delle droghe e negli interventi nel campo delle dipendenze ha scritto una lettera al Presidente del Consiglio e ai ministri competenti (Esteri, Salute, Giustizia, nonché alla responsabile del Dipartimento Antidroga): si chiedeva un dialogo in vista dell’appuntamento internazionale del 14 e 15 marzo, a Vienna. Ma, a tutt’oggi non c’è stata alcuna risposta. In febbraio, un nutrito gruppo di associazioni attive nella politica delle droghe e negli interventi nel campo delle dipendenze ha scritto una lettera al Presidente del Consiglio e ai ministri competenti (Esteri, Salute, Giustizia, nonché alla responsabile del Dipartimento Antidroga): si chiedeva un dialogo in vista dell’appuntamento internazionale del 14 e 15 marzo, a Vienna, quando nell’ambito della riunione dell’organismo Onu che governa le politiche globali - la Commission on Narcotic Drugs, Cnd - ministri e capi di governo di tutti i paesi del mondo si riuniranno per valutare gli indirizzi stabiliti dieci anni fa, nel 2009, e per decidere quelli futuri. L’importanza del summit è fuori discussione anche perché nei dieci anni trascorsi ci sono stati cambiamenti sostanziali, sia nelle tipologie dei consumi e dei mercati, sia negli orientamenti politici. Basti pensare ai tanti Paesi dell’America Latina che hanno ufficialmente ripudiato la war on drugs, denunciando come tale guerra abbia portato danni insopportabili all’economia, allo sviluppo sociale e civile, alla democrazia dei loro paesi. E basti ricordare l’inversione di rotta per la cannabis: dal riconoscimento definitivo delle proprietà mediche della sostanza, sancito dalla Oms qualche settimana fa, alla legalizzazione che è ormai un fatto in diversi paesi (compresi alcuni Stati degli Usa) e non solo un’ipotesi. A tutt’oggi non c’è stata alcuna risposta e dunque il confronto non ci sarà, con buona probabilità. Per un governo che ha costantemente il “popolo” come riferimento verbale, viene da chiedersi il perché di tanto disprezzo per la voce della società civile. Non solo si registra un passo indietro rispetto al 2016, quando, prima dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), una consultazione ci fu, proficua sia per il governo che per le associazioni; perfino si viene meno agli impegni contenuti nei pronunciamenti ufficiali, visto che lo stesso documento finale approvato a Ungass 2016 riconosce “che la società civile, alla pari della comunità scientifica, gioca un ruolo importante nella risposta al problema mondiale della droga”; e si impegna a che gli organismi della società civile “siano messi in grado di svolgere un ruolo partecipativo a supporto della valutazione delle politiche sulle droghe”. A parte la citata parentesi felice della consultazione prima di Ungass 2016, anche i precedenti governi non hanno certo brillato nel promuovere la partecipazione: basti pensare che la Conferenza nazionale sulle droghe, che per legge dovrebbe tenersi ogni tre anni, non è convocata dal lontano 2009. Cosicché, se prima su questo piano l’Italia era un poco avanti, si ritrova ora alla retroguardia. Nel passo del gambero questo governo sembra voler battere tutti, guidato dall’ineffabile ministro Lorenzo Fontana, che a più riprese ha dichiarato di volere “abolire la modica quantità”. Non si sa bene che cosa il ministro intenda, forse che vuole mandare in carcere i semplici consumatori, chissà. Ma è la riprova di come faccia male l’attuale governo a snobbare la società civile: se non altro, potevamo spiegargli che la (non punibilità della) “modica quantità” fu abolita da Bettino Craxi nel 1990; e che le sanzioni penali per il possesso di droga a uso personale, introdotte con detta legge del 1990, furono eliminate per pronunciamento del popolo, per l’appunto, col referendum del 1993. In ultimo, che il documento finale di Ungass 2016, approvato da tutti i paesi del mondo, Italia compresa, richiama al rispetto del principio di proporzionalità delle pene rispetto ai reati, un principio generale del diritto in uno stato liberale: il che significa restringere il carcere ai soli reati gravi magari, invece di allargarlo, come vorrebbe il nostro. Droghe. Maisto: “La proposta della Lega cadrebbe sotto i colpi della Consulta” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 marzo 2019 Il presidente emerito del tribunale di Sorveglianza di Bologna commenta il disegno di legge annunciato da Salvini: “L’aumento delle pene non ha mai fermato gli spacciatori”. Gli effetti? “Sovraffollamento delle carceri, riduzione di operatività dei Serd e delle Comunità, aumento della sfiducia verso la magistratura”. “Ti becco a spacciare, vai in galera. Non esiste modica quantità. Sono i due slogan con i quali il ministro dell’Interno ha presentato il disegno di legge di modifica della già torturata legge sugli stupefacenti. Queste espressioni non sono soltanto chiaramente demagogiche, ma anche scorrette verso gli operatori di Polizia limitati al “beccaggio”. Errate per legge perché la modica quantità non esiste più. E infine infondate secondo le scienze perché non distinguono tra sostanze e nocività”. Si allarga il coro di ‘no’ al disegno di legge annunciato dal vice premier Matteo Salvini, attraverso il quale la Lega propone di raddoppiare le pene previste per lo spaccio di droga e di intervenire sulla ‘modica quantità’. Francesco Maisto, presidente emerito del tribunale di Sorveglianza di Bologna, commenta per Redattore Sociale il testo proposto dal Carroccio. “Basta la semplice lettura degli articoli di modifica della legge - spiega Maisto - perché ritorni alla memoria quella ossessione ricorrente, come nella legge Fini-Giovanardi, una coazione a ripetere errori e drammi già sperimentati. In altri termini, si pensa che un ripescaggio della normativa già cancellata dalla Corte Costituzionale, possa riprendere vita con qualche accorgimento occulto. Ma così non può essere perché si ripeterebbe la situazione sulla quale intervenne la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 che dichiarò ‘l’illegittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (… Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti)”. “Ora, una certa quantità di sostanza, considerando il cosiddetto principio attivo, integra il reato previsto dall’articolo 73, comma 5 della legge sugli stupefacenti, cioè lo spaccio di lieve entità. L’articolo 280 del codice di procedura penale esclude che in tale ipotesi il giudice possa applicare la custodia in carcere (consentita solo quando la pena detentiva prevista dalla legge non è inferiore a 5 anni, mentre l’articolo 73, comma 5 prevede una pena detentiva massima di 4 anni). Con il disegno di legge, invece, le pene detentive passerebbero da un minimo di 3 ad un massimo di 6 anni e le multe da un minimo di cinquemila euro a un massimo di trentamila euro”. Il problema dello spaccio esiste, perché secondo lei la strada indicata dal ddl non è quella giusta? “Noi tutti vorremmo che non ci fossero più spacciatori per le strade e zone franche nelle periferie delle nostre città in cui prospera il mercato degli stupefacenti, ma non è questa la strada giusta perché l’aumento delle pene non costituisce un deterrente idoneo per fermare gli spacciatori. La proposta del ministro facilmente cadrebbe sotto i colpi della Corte Costituzionale quanto meno per violazione dell’articolo 3 e del principio di ragionevolezza. Non è razionale cancellare per legge ciò che sicuramente esiste nei fatti: lo spaccio di 1 grammo di hashish o la cessione di mezzo grammo di cocaina, magari fatta gratuitamente tra conoscenti, sono o non sono cosa diversa dalla detenzione, ad esempio, di mezzo chilo di stupefacente trovato insieme a mezzi per confezionamento ed altro? Se scomparisse la fattispecie di particolare tenuità, lo spaccio di 1 grammo di cocaina avrebbe la pena minima di 8 anni di reclusione. Cancellare con legge la differenza tra due fenomeni, oggettivamente diversi e con ben diverso disvalore e ben diversa pericolosità, sarebbe uno strappo non solo dei principi costituzionali ma del principio di realtà. Togliere proporzionalità al diritto penale vuole dire trasformarlo in uno strumento irragionevole ed illiberale, da Stato di Polizia”. Che effetti si registrarono con la legge Fini-Giovanardi e quali effetti potrebbe avere il nuovo disegno di legge? “Con la Fini Giovanardi non erano diminuiti i consumatori, non erano diminuiti i morti ma erano aumentati i detenuti per reati legati alla droga. E il risultato di questa nuova operazione inutilmente repressiva sarebbero: l’aumento del sovraffollamento delle carceri, una drastica riduzione di operatività dei Serd e delle Comunità di recupero, l’aumento della sfiducia del cittadino verso la magistratura, vista come lontana ed insensibile alle esigenze di sicurezza, l’aumento o sedimentazione del consenso a favore a favore di chi afferma di voler dare riscontro a quelle esigenze, l’aumento della confusione conoscitiva nella collettività circa le effettive competenze dei poteri dello Stato nel far fronte alle esigenze delle persone. Non ultimo, di conseguenza, un aumento del senso di incertezza e di ansia, prodromico a scelte non ponderate e responsabili del cittadino”. Droghe. Antigone: “investiamo sulla sicurezza dei cittadini, legalizziamo la cannabis” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2019 “Anche noi come Matteo Salvini vorremmo che non ci fossero più spacciatori per le strade, per questo proponiamo la legalizzazione della cannabis e la depenalizzazione delle altre sostanze. Vorremmo anche noi che i nostri ragazzi non fumassero droghe tagliate, che non finissero nelle mani di spacciatori professionisti che mischiano droghe chimiche, leggere e pesanti. Per fare questo bisogna legalizzare, depenalizzare, investire nella cultura sociale della riduzione del danno. Il Movimento 5 Stelle ha già votato nella sua piattaforma a favore della legalizzazione. Non ceda. Anzi, approfitti della proposta della Lega e apra una discussione in Parlamento e nel Governo per una strategia non proibizionista e punitiva. Contro le mafie, per il diritto alla salute, contro la criminalizzazione di milioni di consumatori”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a seguito del disegno di legge presentato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini che vorrebbe aumentare le pene per reati di droga e abolire la “lieve entità”. Il testo unico sulla droga attualmente in vigore, D.P.R. 309/90, meglio conosciuto come legge Jervolino-Vassalli, prevede all’articolo 73 che chiunque coltiva, produce, cede, distribuisce, vende droghe pesanti è punito con una pena da 8 a 20 anni, per quelle leggere invece la pena va da 2 a 6 anni. Al comma 5 è previsto “il fatto di lieve entità”, che inizialmente prevedeva pene da 1 a 6 anni per le droghe pesanti e da 6 mesi a 2 anni per quelle leggere. Ma dopo l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, che aveva modificato il testo unico tra il 2006 e il 2014, è rimasta un pena unica da 6 mesi a 4 anni a prescindere dalle sostanze di cui si viene trovati in possesso. “L’Italia ha tentato di percorrere la strada dell’inasprimento delle pene - sottolinea Gonnella. Lo ha fatto piuttosto di recente proprio con la legge Fini-Giovanardi che, modificando l’articolo 73 del D.P.R. 309/90, aveva equiparato tutti i tipi di droghe, prevedendo pene da 6 a 20 anni di carcere. Il risultato è stato sotto gli occhi di tutti: non erano diminuiti i consumatori, non erano diminuiti i morti, erano aumentati i detenuti presenti nelle carceri per reati legati alle droghe che, nel 2009, nel pieno di quell’ondata repressiva, erano il 40% del totale della popolazione detenuta”. Oggi i detenuti presenti in carcere per reati legati alle droghe sono circa il 34% del totale, segno che in carcere ci si va comunque ancora e molto. Inoltre il 25% di coloro che si trovano negli istituti di pena italiani sono tossicodipendenti e avrebbero dunque bisogno di cure specifiche che il carcere non può garantire. La maggior parte dei detenuti inoltre è ristretta per reati legati alla marijuana, una sostanza che recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiesto di rimuovere dall’elenco delle sostanze pericolose dell’Onu per via delle sue importanti funzioni terapeutiche. “L’Uruguay, il Canada e diversi stati degli Usa hanno capito che la guerra alla droga è fallita e hanno deciso di cambiare completamente strada legalizzando la cannabis - dice ancora il presidente di Antigone. Negli Stati Uniti in particolare lo stanno facendo sfidando 50 anni di politiche repressive che, mentre da una parte hanno portato e portano ad incarcerazioni di massa, dall’altro hanno avuto come conseguenza una delle più gravi emergenze che il paese abbia mai vissuto, quella legata agli oppioidi, con centinaia di migliaia di persone morte di overdose solo nell’ultimo anno e mezzo. Lo stesso Portogallo, alle prese con un problema enorme per la salute dei suoi cittadini, all’inizio degli anni 2000 scelse la via della depenalizzazione di tutte le sostanze e di spostare le politiche dal penale al sanitario. I risultati sono stati eccellenti in termini di vite salvate, di diminuzione dei consumi e di risorse recuperate e reinvestite in programmi sociali e sanitari”. “È raccapricciante - sottolinea Gonnella - utilizzare episodi tragici di cronaca per promuovere politiche in ambito penale. Lo è ancora di più quando queste politiche hanno manifestato ampiamente il loro fallimento, penalizzando gli Stati e arricchendo le mafie. A finire in carcere, infatti, non sono i boss o chi controlla il traffico di sostanze ma la bassa manovalanza, quella più sostituibile e quella che per questioni sociali spesso non ha altre via che lo spaccio. Per questo - conclude - ci auguriamo che in Italia si abbia il coraggio di cambiare radicalmente strada, abbandonando per sempre queste politiche nefaste. È una questione, questa sì, di sicurezza”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Droghe. Chiavacci (Arci): la proposta di legge di Salvini è solo propaganda elettorale arci.it, 6 marzo 2019 Ancora una volta prevale la spregiudicatezza politica e la ricerca di temi comodi alla propaganda. “In assenza di navi da fermare e di slogan da gridare, il ministro Matteo Salvini avvia una nuova battaglia: quella sulla droga. Il nuovo disegno di legge sul tema inasprisce le pene ed elimina il concetto di modica quantità. Con l’eliminazione della modica quantità è chiaro a cosa porterà esattamente: l’equiparazione tra possessore e spacciatore, qualunque sia la dose che detiene, creerà un abominio civile e giuridico”. Lo afferma la presidente nazionale dell’Arci, Francesca Chiavacci, in merito alla proposta di legge presentata dal Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, insieme al capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari. La proposta prevede l’inasprimento delle pene per lo spaccio che arriverebbero fino a sei anni di galera e 30mila euro di multa, contro i quattro anni e i 10mila euro massimi di oggi. “La proposta - continua - non si preoccupa neanche di un sicuro aggravarsi del già drammatico sovraffollamento delle carceri. Il cinismo politico - sottolinea - della propaganda permanente vuole aprire una nuova stagione di proibizionismo. L’obiettivo dichiarato è colpire i grandi spacciatori e azzoppare il narcotraffico gestito dalla criminalità organizzata, ma a giudicare dal discorso sulla modica quantità, le vittime saranno i più facili da scovare ma spesso non sono altro che ragazzini in possesso al massimo di qualche grammo di marijuana”. In passato anche la Direzione Nazionale Antimafia ha più volte dichiarato inutile l’approccio proibizionista sulle droghe. “Ci si domanda - rimarca - come possa essere conciliabile la proposta del Ministro della Lega con la recente proposta dell’alleato di Governo che prevede una direzione opposta, cioè la legalizzazione della cannabis. Ancora una volta - conclude - prevale la spregiudicatezza politica e la ricerca di temi comodi alla propaganda, senza preoccuparsi delle conseguenze di certe crociate mediatiche”. Prostituzione. Legge Merlin, oggi la decisione della Corte Costituzionale di Andrea Fabozzi Il manifesto, 6 marzo 2019 Dopo una lunga udienza pubblica dedicata anche ad altre cause, la Corte costituzionale ha deciso di aggiornare la camera di consiglio e così deciderà oggi sulla legge Merlin. A sessantuno anni dalla sua approvazione, la legge che ha introdotto i reati di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione è arrivata per la prima volta davanti ai giudici costituzionali. Per iniziativa degli avvocati di Giampaolo Tarantini e Massimiliano Verdoscia, sotto processo davanti alla corte di appello di Bari per le famose “cene eleganti” di Berlusconi. Tarantini in primo grado è stato condannato a sette anni e dieci mesi per aver reclutato e accompagnato una trentina di donne negli appartamenti di Berlusconi ad Arcore e a Roma. La difesa ha sostenuto che la legge Merlin discrimina le “sex workers”, coloro cioè che eserciterebbero “la professione di escort” in seguito a “una scelta libera e consapevole”. Argomenti accolti come “non manifestamente infondati” dal giudice di appello e ripetuti ieri davanti ai giudici delle leggi dagli avvocati Amenduni e Quaranta. Per loro “la legge Merlin è una legge arretrata che fa di tutta l’erba un fascio e considera tutte le forma di prostituzione uguali”. L’incostituzionalità starebbe nella violazione del principio di legalità penale, per il quale non devono essere puniti i fatti non socialmente pericolosi, e dell’articolo 41 della Costituzione che tutela la libertà di iniziativa economica. Se nel corso del processo d’Appello le difese avevano paragonato la vicenda delle escort pugliesi al caso Englaro, evocando “il principio di libertà di autodeterminazione”, ieri in udienza hanno richiamato lo stesso principio evocando la recente decisione della Consulta nel caso Cappato-dj Fabo. L’avvocata dello stato Gabriella Palmieri, che rappresenta la presidenza del Consiglio dei ministri, ha chiesto l’inammissibilità della questione, indicando però la possibilità che la legge Merlin venga interpretata “in maniera evolutiva” dai giudici di merito. Mentre l’avvocata Antonella Anselmo ha portato gli argomenti della “Rete per la parità” (non ammessa al giudizio) sostenendo che “la legge Merlin è ancora molto attuale, non interferisce sulla libertà femminile ma punisce ogni forma di business che approfitta di tale libertà ponendosi in contrasto con la dignità”. Libia. Protesta dei migranti detenuti sedata con la violenza, la denuncia dell’Unhcr globalist.it, 6 marzo 2019 Una protesta nel centro di Sikka ha visto circa 50 migranti feriti gravemente dalla polizia. La settimana scorsa nel Centro di detenzione di Sikka, in Libia, si è fatto uso della forza contro alcuni richiedenti asilo intenti a protestare per le condizioni disumane in cui erano tenuti da mesi senza alcuna prospettiva di trovare una soluzione alla loro situazione. Le persone ferite, riferisce L’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) sono circa 50. In seguito alle proteste, circa 120 persone sono state poi trasferite dal centro di Sikka a auelli di Ain Zara e Sabhaa. Si stima che al momento dell`incidente vi fossero oltre 400 richiedenti asilo detenuti nel Centro di Sikka. Tutti erano registrati dall`Unhcr, eccetto 20 persone arrivate da poco. Il gruppo include 200 eritrei, 100 somali, 53 etiopi e 20 sudanesi. L’Unhcr ha espresso le proprie preoccupazioni alle autorità in relazione a tale incidente. Ad oggi, l’Agenzia non ha potuto incontrare le persone coinvolte ma membri dello staff sono potuti entrare nel Centro di detenzione di Sikka domenica, esclusivamente per permettere il trasferimento di alcuni detenuti al Centro di raccolta e partenza (Gathering and Departure Facility/GDF) per poter essere evacuati. Attualmente, vi sono 5.700 rifugiati e migranti in stato di detenzione, 4.100 dei quali è stato valutato che ricadano sotto il mandato dell’Unhcr e potrebbero avere bisogno di protezione internazionale. L’Unhcr rinnova l’appello a porre fine alla detenzione in Libia dichiarandosi pronta ad assicurare supporto alle autorità libiche per trovare misure alternative. Nel dicembre scorso l’Unhcr ha aperto un Centro di raccolta e partenza a Tripoli, in cooperazione con il Ministero dell’Interno, per velocizzare la ricerca di soluzioni e offrire un’alternativa alla detenzione. Tuttavia, con la riduzione di posti disponibili per il reinsediamento, molti rifugiati potrebbero dover restare in stato di detenzione a tempo indefinito. Francia. Detenuto ferisce due guardie e si barrica in sala-colloqui con la compagna di Giusy Staro cronachedi.it, 6 marzo 2019 Intervengono le forze speciali: uccisa la donna, lui ferito e catturato. La ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, ha definito l’accaduto un “atto terroristico”. Un intervento delle forze speciali francesi è in corso dalle 18.40 circa nel carcere di Condé-sur-Sarthe, nell’ovest della Francia, dove ieri mattina intorno alle 9.45 un detenuto radicalizzato di 27 anni, Michaël Chiolo, ha gravemente ferito due secondini accoltellandoli e poi si è asserragliato con la compagna in una delle stanze in cui i detenuti possono ricevere visite dei loro cari. È quanto apprende AFP da fonti concordanti. Diversi giornalisti di Afp hanno sentito una serie di esplosioni. Varie squadre regionali di intervento e il Raid, cioè l’unità di élite della polizia nazionale, erano arrivati in giornata nel penitenziario. Secondo un delegato sindacale dei secondini, durante l’accoltellamento il detenuto avrebbe gridato “Allah Akbar”. La ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, ha definito l’accaduto un “atto terroristico” e ha precisato che il coltello, di ceramica e quindi non rilevato dai metal detector, potrebbe essere stato portato nella struttura dalla compagna del detenuto. Le vittime dell’aggressione non sono in pericolo di vita. Convertitosi all’islam nel 2010, Michael Chiolo sta scontando una pena a 30 anni di reclusione. Era stato condannato a dicembre del 2015 per avere soffocato un uomo di 89 anni dopo averlo sequestrato. Il detenuto radicalizzato Michael Chiolo, che si era barricato con la compagna in una stanza della prigione di Condé-sur-Sarthe dedicata alle visite dei familiari dopo avere accoltellato due secondini, è stato arrestato dalle forze speciali francesi. Lo riferisce il ministro dell’Interno, Cristophe Castaner. E’ morta la compagna del detenuto radicalizzato Michael Chiolo, che si era barricato con lei in una stanza della prigione di Condé-sur-Sarthe dedicata alle visite dei familiari, dopo avere accoltellato due secondini. Confermano la morte fonti concordanti alla Afp. Lo stesso Chiolo, invece, è ferito più leggermente, alla guancia. La prigione, di massima sicurezza, si trova in Normandia.