Mozione su pena e carcere approvata dal XXII Congresso di Magistratura Democratica Ristretti Orizzonti, 5 marzo 2019 Magistratura democratica ha da tempo elaborato proposte tese alla decarcerizzazione, alla introduzione di pene alternative alla detenzione, all’incentivazione delle misure alternative, alla elaborazione di progetti di giustizia riparativa, alla instaurazione di prassi avanzate all’interno delle carceri, nel tentativo di dare effettiva attuazione all’art. 27 della Costituzione. La Riforma penitenziaria di cui alla Legge Delega 23 giugno 2017 n. 103, che molti attendevano, era un tentativo di dare nuovo slancio ai due principi del finalismo rieducativo e dell’umanizzazione della pena scolpiti nell’art. 27 Cost., norma in cui vengono racchiuse le due principali anime della Carta: l’istanza personalistica (principio di umanità) e quella solidaristica (principio rieducativo). Le norme recuperate dal progetto originario della riforma con i recenti Decreti Legislativi dell’ottobre 2018 sono poca cosa rispetto a quello che la riforma rappresentava, tanto da poter dire che il sistema dell’esecuzione penale - significativamente inciso da leggi che via via nel tempo hanno introdotto automatismi e preclusioni nell’esplicito intento di limitare il vaglio discrezionale sui percorsi individuali di recupero da parte della magistratura - rimane ancora uguale a sé stesso. Magistratura democratica, consapevole di quali siano le torsioni culturali e anche istituzionali che questo fallimento comporterà, chiede che quel progetto di riforma venga interamente recuperato anche per impedire il progressivo scollamento che oggi si verifica tra la rappresentazione ufficiale del carcere e la realtà di esso. L’involuzione rappresentata dalle derive repressive costituite da nuovi ‘pacchetti sicurezzà, dall’inasprimento delle pene per alcuni reati, dai nuovi ostacoli frapposti, con efficacia retroattiva, ai processi di reinserimento per alcune categorie di reati (derivanti ad es. dall’inserimento nel primo comma dell’art. 4 bis ord. pen. di quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione, semplicisticamente parificati ai reati di mafia e di terrorismo ad opera della recente Legge 9 gennaio 2019 n. 3 in materia di corruzione) rischiano di relegare ancora una volta il carcere in un mondo chiuso in sé e totalmente impermeabile al contatto con la società civile. Essa allontana dal finalismo che la Costituzione assegna alla pena. Magistratura democratica ribadisce che la dignità di ogni condannato, anche autore dei più gravi delitti, deve essere salvaguardata dalle istituzioni che ne assumono la custodia, evitando la spettacolarizzazione degli arresti e l’esibizione al pubblico del condannato come fosse un trofeo di guerra: l’esecuzione della pena ed il carcere rappresentino un luogo di mediazione e di pacificazione, oltreché di riparazione e di recupero individuale e non un terreno di perenne conflitto o di strumentale propaganda. Con il superamento della barriera dei 60.000 detenuti, è alle porte un nuovo sovraffollamento e dunque il rischio di una nuova umiliante condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: Magistratura democratica auspica che, lungi dalla costruzione di nuove carceri, la politica voglia affrontare, anche con una diversa organizzazione della vita detentiva all’interno delle prigioni, il tema della sovrappopolazione carceraria adottando tutti gli strumenti, legislativi e non, idonei a frenare la crescita esponenziale del ricorso alla pena carceraria e voglia altresì affrontare i problemi legati al crescente disagio psichico nelle prigioni, tema che, affrontato dai progetti di riforma, si è colpevolmente voluto tralasciare. Nel caso dei detenuti con patologie mentali e degli internati sottoposti alle misure di sicurezza diventa ancora più difficile infatti - in presenza di permanenti vuoti normativi - conciliare le esigenze di sicurezza con il diritto di essere curati come cittadini uguali a tutti gli altri: appare opportuno incentivare protocolli operativi tra i Servizi territoriali di psichiatria e gli Uffici giudiziari che consentano di risolvere, già in sede di giudizio di cognizione, la possibilità di trattamenti terapeutici non necessariamente collegati alla totale privazione della libertà, per dare effettiva attuazione alla Legge 17 febbraio 2012 n. 9 sull’abolizione degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Magistratura democratica si impegna a sostenere in qualunque sede iniziative in cui si discuta del ruolo e della funzione della pena detentiva per dare al Paese un sistema di sanzioni di livello europeo che, contro ogni deriva populista, restituisca all’Italia quella posizione di prestigio che sempre ha avuto nel panorama dell’esecuzione penale. Droghe. Addio alla modica quantità. La Lega: si andrà subito in galera di Amedeo la Mattina La Stampa, 5 marzo 2019 Ddl per aumentare le pene. Grillini contrari: si salvano gli spacciatori e si puniscono i clienti. Matteo Salvini apre un altro fronte su un tema divisivo ma che ha sicuramente una forte presa su una parte dell’opinione pubblica, quella di destra. Con un disegno di legge la Lega vuole aumentare le pene detentive ed economiche per gli spacciatori di droga, precisando che non esiste modica quantità. “Ti becco a spacciare, vai in galera”, afferma il ministro dell’Interno che ha presentato il ddl con i due capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Le pene detentive passerebbero da un minimo di tre ad un massimo di 6 anni e le multe da un minimo di cinquemila euro a un massimo trentamila euro. Per chi guida sotto effetto di stupefacenti, la confisca obbligatoria del veicolo e la revoca definitiva della patente. Per Salvini non c’è alcun intento punitivo per i consumatori che rientrerebbero a suo giudizio nella sfera familiare: “Lì c’è mamma e papà, la scuola, gli amici, non mi interessa entrare nelle aule di scuola. A me interessa togliere dalle strade chi spaccia: poi quello che fa ognuno non mi interessa. I venditori di morte li voglio veder scomparire dalla faccia della terra”. Salvini mescola situazioni diverse, gli studenti o gli amici che si dividono marijuana e hashish comprata da uno di loro con il pirata della strada che l’altro giorno a Recanati ha investito e ucciso due coniugi. Era uno spacciatore, marocchino. “Mi domando che cosa devi fare in Italia per rimanere in galera. Il tossico che ha investito il papà e la mamma di Recanati era coinvolto in un reato per 225 chili di droga e sto stronzo era a spasso. Non è possibile”, dice il vicepremier leghista in una conferenza stampa in cui ha presentato il ddl. Su questo episodio Salvini vorrebbe che qualcuno si facesse “un esame di coscienza”. “A me prudono le mani. Chiederò al collega Bonafede (ministro della Giustizia ndr) la documentazione”. Ecco, a proposito del Guardasigilli e del Movimento 5 Stelle, il capo del Carroccio non dimentica che gli alleati sono contrari alla sua proposta. Anzi, c’è un ddl grillino che vorrebbe la liberalizzazione della cannabis. A presentarlo è stato il senatore 5S Matteo Mantero che ha fatto notare l’errore che la Lega commette: togliendo la modica quantità si perseguono i clienti e si salvano gli spacciatori. “Sono contento - dice Mantero - che il ministro dell’interno voglia combattere le narcomafie ed è proprio per questo motivo che va consentito a chi vuole di piantare poche piante di Cannabis a casa propria. In questo modo si tolgono 5 milioni di persone dalle grinfie degli spacciatori”. Dello stesso parere il radicale Riccardo Magi, deputato di +Europa, che parla di “solita demagogia, solo uno spot” quello di Salvini. Meglio puntare su informazione, prevenzione e assistenza a chi ha dipendenze, oltre che sulla legalizzazione della cannabis e dei suoi derivati. “Su questo - ricorda Magi - ci sarebbe una maggioranza in Parlamento, abbiamo pure sentito Grillo e esponenti dei 5 Stelle”. Il leader della Lega si rende conto che non sarà facile trovare in questo Parlamento una maggioranza per la sua proposta popolare di destra. Accontenta pure le forze dell’ordine che chiedono pene più severe e si lamentano del fatto che l’indomani si trovano a piede libero gli spacciatori che hanno arrestato. Portando infatti la minima a tre anni, si evita la sospensione condizionale della pena che viene concessa solo per le condanne non superiori ai 2 anni. L’inziativa leghista si inserisce nella logica sicurezza-certezza della pena che trova praterie nell’elettorato di centrodestra, anche di Forza Italia, e non solo. Salvini sa che il giro di vite sugli spacciatori intercetta un sentimento diffuso e risponde all’insinuazione di Silvio Berlusconi secondo cui lui con i 5 Stelle non tiene fede ad alcune tematiche tipiche del centrodestra. Il ddl leghista tuttavia non ha i voti sufficienti in Parlamento per diventare legge dello Stato. Non basta il sostegno di Forza Italia e dei Fratelli d’Italia. E non ha quello degli alleati del governo. “Ci sono sensibilità diverse su questi temi”, riconosce il leader leghista, che poi invita a riflettere sul fatto che “si tratta di salvare vite, di togliere dalle strade persone che sono bombe umane”. “Tutti in galera!”. Salvini contro i (piccoli) pusher di Lorenzo Vendemiale Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2019 Arresto in flagranza e pene più alte (fino a 6 anni) pure per episodi di “lieve entità”. Il testo presentato al Senato, critico il M5S. Pene raddoppiate, manette per tutti, confisca della macchina: la Lega mette nel mirino i (piccoli) spacciatori. Nella settimana in cui arriva in aula la proposta di legge sulla legittima difesa, Matteo Salvini rilancia con un altro dei cavalli di battaglia del Carroccio: lotta senza quartiere alle droghe. Il disegno di legge era in cantiere già da un pò, l’attualità ha fornito al leader leghista un assist perfetto per accelerare: “Siamo qui per annunciare un disegno di legge che la cronaca ci dice essere urgente”, ha detto in una conferenza stampa a Montecitorio in cui già si promettono tempi rapidi di approvazione. Il riferimento è al caso di Porto Recanati, dove una coppia di genitori è morta (gravi anche i figli piccoli) dopo uno scontro con un’auto guidata da uno straniero con precedenti per droga. “Un tossico coinvolto in un reato per 225 chili di droga, era a spasso. Non è possibile”. Ecco allora il ddl leghista, che modifica il codice di procedura penale e soprattutto il vecchio testo unico sulla droga del 1990. Per “togliere dalle strade coloro che campano spacciando, non c’è nessun intento punitivo nei confronti di chi consuma”, assicura Salvini. Anche se in realtà la nuova legge colpisce proprio i piccoli spacciatori: secondo i dati del Viminale, oltre il 50 % de i reati commessi ricade nella casistica di “lieve entità”, che può essere riconosciuta in relazione al contesto e soprattutto alla quantità e alla qualità delle sostanze. Praticamente solo su questi casi interviene il ddl: ad esempio con l’estensione dell’arresto in flagranza, da cui gli episodi meno gravi erano fino ad oggi esclusi. Adesso scatteranno per tutti le manette, senza distinzioni. “Non esiste la modica quantità, ti becco a spacciare e vai in carcere con le misure cautelari”. Di fatto si tratta di una retromarcia rispetto all’ultimo intervento in materia, lo “Svuota carceri” del 2014, che per evitare sanzioni sproporzionate aveva previsto “un reato autonomo” per la lieve entità. La legge Salvini non lo cancella, ma ne aumentale pene: il massimo edittale passa da quattro a sei anni, la multa da 10 a 20 mila euro. Non basta: viene tolta la possibilità al giudice di disporre per i tossicodipendenti una pena alternativa al carcere, come ad esempio il lavoro di pubblica utilità. D’ora in poi solo galera. Gli ultimi due articoli prevedono la confisca della macchina e la revoca della patente: non soltanto per chiaro nesso tra attività criminosa e mezzo di trasporto, ma come semplice misura preventiva. Una stretta su tutta la linea, che però riguarda il piccolo delle droghe leggere, questione ben distinta dallo spaccio ma che di sicuro sembra andare in direzione opposta alla crociata leghista. Infatti il senatore Matteo Mantero, firmatario del ddl sulla cannabis, è subito critico: “Togliendo la modica quantità si perseguono i clienti e si salvano gli spacciatori”. “La droga non la togli dalle strade solo arrestando piccoli pusher”, aggiunge il senatore Airola. La Lega però va di corsa: ieri il testo è stato depositato in Senato e il capogruppo Massimiliano Romeo assicura che sarà calendarizzato “alla prima occasione utile” in Commissione giustizia (guidata dal leghista Andrea Ostellari). Il ddl rischia di rappresentare un nuovo elemento di tensione sulla sicurezza, proprio quando la maggioranza ha trovato la quadra sulla legittima difesa: l’accordo tra Lega e M5S è fatto, non ci dovrebbero essere brutte sorprese o dissidenti sul voto finale. Ma per un fronte che si chiude, Salvini è già pronto ad aprirne un altro. Susanna Marietti : “No alla repressione, bisogna prevenire” di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 5 marzo 2019 Intervista alla coordinatrice nazionale di Antigone, l’associazione che da oltre venti anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale e penitenziario, boccia il giro di vite. “L’uso dello strumento penale per combattere traffico e spaccio ha fallito in tutto il mondo, e di questo si è preso atto nell’aprile del 2016 durante la Sessione speciale dell’Onu sulle droghe. Noi ci battiamo da sempre per una depenalizzazione delle droghe leggere e per interventi di politiche sociali e sanitarie, perché la sola repressione penale non funziona”. Come giudica la proposta del ministro Matteo Salvini? “Oggi in Italia un terzo delle persone recluse in carcere è dentro per reati legati alla droga. Si criminalizza quindi uno stile di vita perché questi detenuti sono accusati spesso di reati senza vittima se non se stessi, e si gettano nella disperazione moltissime famiglie che vedono il figlio finire in un luogo che non aiuta la sua disintossicazione, ma contribuisce a rovinargli la vita. È l’ennesimo gesto di propaganda per mostrare il pugno di duro, meglio se verso la piccola criminalità da strada. E già oggi la legislazione non è mite”. Il Libro bianco sulle droghe che Antigone ha presentato pochi mesi fa con altre associazioni rileva che chi è in carcere per spaccio è spesso anche tossicodipendente... “Nel 2017 oltre il 25 per cento dei detenuti era tossicodipendente e il carcere non è certo un luogo di recupero, è noto anzi che la droga circola”. Quali sarebbero le misure necessarie secondo voi? “È un tema complesso che va affrontato con strumenti complessi, non basta cambiare una norma. Servono politiche integrate che partano dalla prevenzione e dalla presa in carico la persona. E sul piano penale, la depenalizzazione dell’uso di cannabis e una seria distinzione tra il criminale vero con una organizzazione alle spalle e Io spacciatore improvvisato che vende lo spinello perché dipendente”. Antonio Boschini: “È giusto intervenire punendo chi spaccia” di Flavia Amabile La Stampa, 5 marzo 2019 Intervista al responsabile terapie della Comunità di San Patrignano. Raddoppio delle pene contro gli spacciatori e abolizione della modica quantità: per il ministro dell’Interno Matteo Salvini è la risposta del governo a tragedie come quella di Porto Recanati. Anche per Antonio Boschini responsabile terapeutico della Comunità di San Patrignano, il sistema attuale è da rivedere. “Se una persona è libera dopo essere stata coinvolta in uno smercio di centinaia di chili di droga c’è qualcosa che non funziona ma questo è evidente a tutti”. Salvini promette con il suo ddl di risolvere il problema. Il rischio è di mettere in carcere e di condannare in modo definitivo chi invece avrebbe delle possibilità di recupero, avvertono le opposizioni… “Bisogna distinguere in modo netto tra chi spaccia e chi usa le sostanze per consumo personale. Un giudice sa capire chi ha di fronte e come comportarsi. La legge deve permettere questa differenziazione. Chi spaccia deve andare in galera, chi ha una dipendenza deve avere la possibilità di seguire un percorso terapeutico se lo vuole. Anche se ha commesso un reato, chi ha una dipendenza deve essere aiutato a liberarsi della sua dipendenza: è l’unico modo per evitare che commetta altri reati. In questi casi il carcere sarebbe solo controproducente”. Il ddl cancella la modica quantità. Che ne pensa? “La modica quantità non funziona. È un trucco che gli spacciatori usano per vendere senza problemi, lo sanno tutti”. La strada scelta dal governo può funzionare? “Perché il sistema funzioni bastano il buonsenso e controlli. Senza punire chi ha una dipendenza ma senza nemmeno far andare in giro gli spacciatori. E prevedendo maggiori fondi per finanziare i centri di cura: sono troppo pochi i posti disponibili nelle strutture accreditate rispetto alle richieste. Infine va estesa la possibilità di chiedere la pena alternativa, ora è troppo limitata”. L’offensiva anti-droga della Lega di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 5 marzo 2019 “Non esiste modica quantità. Ti becco a spacciare, vai in galera”. Annuncia così, il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini, la proposta di legge della Lega per inasprire le pene detentive a carico di chi smercia illegalmente sostanze stupefacenti: “Bisogna stroncare lo spaccio - incalza. Il nostro testo assicura che gli spacciatori stiano in galera”. Sul piano politico, tuttavia, la sortita del Carroccio in materia rischia di aprire l’ennesimo fronte di tensione col Movimento, aggiungendo altre tensioni a quelle già prodotte in maggioranza dagli scontri sulla Tav e sulle autonomie regionali. In serata, infatti, il primo segnale di contrarietà lo manda il senatore pentastellato Matteo Mantero, primo firmatario di un ddl per la legalizzazione della cannabis, presentato al Senato: “Togliendo la modica quantità - obietta - si perseguono i clienti e si salvano gli spacciatori”. Il caso Recanati. La molla scatenante, evocata nel ragionamento del ministro Salvini, è la tragica vicenda di Porto Recanati (Ancona) dove Farah Marouane, 34enne di nazionalità marocchina con precedenti per droga, ha causato un incidente con 2 morti e 5 feriti: “Qualcuno deve farsi un esame di coscienza - afferma il leader leghista - due bimbi hanno perso mamma e papà perché hanno incrociato lo str... sbagliato, che guidava ubriaco, tossico, senza patente e assicurazione. Mi domando cosa facesse a spasso, quale reato si deve fare per finire in galera? Era coinvolto nel sequestro di 225 chili di droga ed era a spasso. Non è possibile. È frustrante che poliziotti e carabinieri mettano a rischio la loro vita per prendere dieci volte lo stesso spacciatore per lo stesso reato”. Pene raddoppiate. Sul piano normativo, la bozza della pdl è composta da soli 4 articoli. Prevede l’arresto obbligatorio in flagranza per i delitti riguardanti sostanze stupefacenti, eliminando la clausola di salvezza per le “fattispecie di lieve entità”. Inoltre, i minimi e i massimi di pena per produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità (ora da 6 mesi a 4 anni) salirebbero a 3 e 6 anni. Aumenterebbe pure la multa (dagli attuali 1.032 a 10.329 euro) fino a un minimo di 5mila e un massimo di 20mila euro. E per chi viene trovato alla guida sotto l’effetto di droga scatterebbe la confisca obbligatoria del veicolo. Il titolare del Viminale mette le mani avanti: “Non c’è un intento punitivo nei confronti di chi consuma. Punto a togliere dalle strade chi spaccia, poi quello che fa ognuno non mi interessa”. La pensa all’opposto il senatore 5 stelle Mantero: “In Italia ci sono più di 200mila spacciatori di marijuana, il 95% dei sequestri riguarda le droghe leggere. La soluzione non è rivedere la modica quantità, colpendo il consumatore - sostiene Mantero. Per combattere la criminalità, va consentito a chi vuole di piantare poche piante di cannabis a casa propria”. Presenze in carcere. Ma aumentare la detenzione degli spacciatori non rischierebbe di creare ulteriore sovraffollamento nelle carceri (già oggi sopra quota 57mila detenuti a fronte di 50mila posti regolamentari)? Alla domanda, il ministro Salvini risponde elogiando l’azione del Guardasigilli: “Bonafede sta lavorando bene: in manovra ci sono i soldi per nuove carceri e nuove assunzioni di polizia penitenziaria”. E perché la Lega, che ritiene la questione “urgente”, è ricorsa a una proposta di legge e non ha chiesto al governo di pensare a un decreto legge? Salvini non nega la diversità di vedute, la frattura con M5s: “Ci sono sensibilità diverse nel governo su questi temi, come sapete - ammette. Ma penso che nessuno in Parlamento, anche se ha altre attitudini sul consumo personale, non voglia stroncare lo spaccio.. So che da parte dei Cinque stelle ci sono proposte per legalizzare alcune droghe, ma qui si tratta di altro, di togliere dalle strade persone che sono bombe umane”. La proposta della Lega (pur eventualmente supportata dalle opposizioni di destra come Fi e Fdi) potrebbe essere destinata a fare poca strada, senza il sostegno anche solo di una parte dei parlamentari pentastellati. Mariarosaria Guglielmi (Md): “Difendiamo i diritti, non facciamo opposizione” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 5 marzo 2019 Dal ventiduesimo congresso di Magistratura democratica (Md), conclusosi domenica a Roma, la leadership della segretaria Mariarosaria Guglielmi esce rafforzata. La pm della procura capitolina si appresta a essere riconfermata alla guida delle toghe di sinistra dal nuovo consiglio nazionale, il direttivo della corrente. Dottoressa Guglielmi, è soddisfatta dell’esito delle assise romane? Il congresso è sempre un momento importante nella vita di un gruppo che vuole confrontarsi sul senso di un progetto e di un impegno collettivo. Un senso che, nella stagione del populismo trionfante, abbiamo ritrovato e riaffermato nella difesa dei diritti e delle garanzie e del progetto di Europa unita, fondata su solidarietà e pari dignità delle persone. Abbiamo voluto collocare la nostra riflessione al centro di quella più generale sulle dinamiche che oggi mettono a rischio questi valori, confrontandoci con molti esponenti della cultura, della società civile, dell’avvocatura e dell’accademia. Quel famoso punto di vista esterno alla corporazione dei magistrati a cui tenete molto... Sì, in quel genere di confronto si esprime da sempre il connotato genetico della sensibilità di Md e la specificità del nostro impegno associativo nella difesa dei valori costituzionali di riferimento della giurisdizione e della democrazia. E però, forse anche in virtù di questo dialogo con associazioni, intellettuali e sindacato, vi si accusa di fare “opposizione politica” al governo M5S-Lega. Nei giorni del congresso è tornata l’accusa di essere fiancheggiatori del Pd. Come risponde? Noi non abbiamo governi amici o nemici. Ne è testimonianza la posizione assunta in occasione del referendum costituzionale del 2016, con l’adesione ai comitati per il No. Tra le tante critiche che ci vengono rivolte, quella di coltivare opzioni politiche generali a favore o contro i governi o di una nostra diretta partecipazione allo scontro su strategie e tattiche politiche generali è da sempre quella più infondata. Perché? Md ha sempre rivendicato il diritto a una mobilitazione culturale sui temi delle libertà, dei diritti e delle garanzie. Il nostro impegno si colloca nello spazio che in una democrazia la Costituzione riconosce a tutti e a tutte le articolazioni della società civile. In questo spazio oggi noi vogliamo continuare a testimoniare la nostra consapevolezza delle difficili sfide che attendono la democrazia e la giurisdizione e ribadire il nostro impegno per la difesa di tutti i suoi valori. Non riteniamo che l’impegno associativo debba riguardare solo questioni interne alla magistratura. A proposito di questioni interne alla magistratura, che indicazioni emergono dal congresso per recuperare il terreno che alle scorse elezioni del Csm avete perso in favore dei settori conservatori di Piercamillo Davigo e di Magistratura indipendente? L’indicazione emersa con forza è quella di contribuire all’impegno che tutta la magistratura progressista attraverso il gruppo Area sta portando avanti dentro l’Associazione nazionale magistrati, senza guardare al consenso elettorale ma alla costruzione di una unità associativa fondata sulla piena consapevolezza del ruolo costituzionale della giurisdizione. Soprattutto in una fase come questa, segnata da politiche governative regressive sia in materia di diritti e garanzie, sia in materia di prerogative costituzionali della magistratura. Se le posizioni di Davigo riscuotono consenso, però, a voi tocca fare autocritica... In magistratura negli ultimi anni il consenso spesso è legato alla persona e la sua storia professionale più che al progetto di un gruppo. Anche per questo sarebbe stato importante per la magistratura progressista rimarcare con maggiore incisività la diversità di posizioni rispetto a quelle espresse pubblicamente da Davigo durante il suo anno di presidenza dell’Anm su garanzie, carcere e immigrazione. E sulla visione della magistratura come unica paladina della legalità interessata solo alla repressione. A proposito di differenze con Davigo, voi difendete il garantismo insieme agli avvocati delle Camere penali, nonostante siano favorevoli alla separazione delle carriere: c’è chi vi accusa di “intelligenza col nemico”... Per Md i pubblici ministeri devono continuare ad appartenere all’ordine giudiziario e rimanere ancorati alla cultura della giurisdizione. Su questo la pensiamo diversamente dalle Camere penali. Tuttavia, ciò non ci impedisce di trovare nell’avvocatura un interlocutore privilegiato sul tema dei diritti e delle garanzie. Per noi l’essenza della giurisdizione e il fondamento della sua legittimazione sta proprio nel riconoscimento delle garanzie, contro il populismo penale. Su questi irrinunciabili valori riteniamo doveroso costruire alleanze culturali estese con avvocati e giuristi accademici. Dall’ergastolo a 8 anni e 6 mesi. Di sconto in sconto, l’omicida riceve una sorta di buffetto di Bruno Tinti Italia Oggi, 5 marzo 2019 La Corte di Assise d’Appello di Bologna ha dimezzato la pena inflitta in primo grado a Michele Castaldo che ha strangolato Olga Matei. Condannato a 30 anni di prigione, si è visto diminuire la pena a 16 anni. Che poi, per via del dissennato ordinamento penitenziario, sono in effetti 8 anni e 6 mesi di galera - non sto a fare il calcolo, fidatevi; poi, quando gli mancheranno 4 anni di pena residua, beneficerà dell’affidamento in prova al servizio sociale o (se gli va male) degli arresti domiciliari. Insomma, strangolare Olga vale 8 anni e 6 mesi di reclusione. Questo assurdo risultato deriva, in gran parte, dalle leggi vigenti; ma anche da una decisione dei giudici di appello che mi pare ingiusta. I fatti. Michele ha una relazione con Olga, divorziata ma in buoni rapporti con il suo ex marito con cui condivide una figlia. Michele è geloso e per questo motivo la uccide; poi tenta il solito suicidio maldestro e confessa l’omicidio e la gelosia. Omicidio aggravato ex articolo 61 n. 1 codice penale: aver agito per motivi abbietti o futili. Gli toccherebbe l’ergastolo ma, come tutti gli imputati sotterrati dalle prove, chiede di essere processato con il rito abbreviato: niente tribunale ma rapida udienza avanti al giudice per l’udienza preliminare e condanna diminuita a 30 anni. Un’assurdità giuridica imposta da altra assurdità, un processo penale lunghissimo e costoso: la teoria è che se l’imputato fa risparmiare tempo lo si premia con una pena minore. Avrebbe senso, non fosse che, in situazioni come queste (quando la prova è evidente) il processo sarebbe comunque rapido. Comunque 30 anni (in realtà sono circa 18, poi c’è il solito affidamento in prova al servizio sociale per 4 anni) sono una pena non trascurabile. Ma la Corte d’Assise di Bologna la pensa diversamente. Qui devo andare con supposizioni perché il testo del dispositivo della sentenza non è disponibile; e la sentenza, dunque le motivazioni, non sono state ancora scritte. Però sta di fatto che i giudici hanno ritenuto che la confessione di Castaldo meritasse le attenuanti generiche (articolo 62 bis: un’attenuante a contenuto non determinato dalla legge; si concede perché l’imputato è vecchio, perché è giovane, perché ha confessato, perché, come in questo caso, in preda a una tempesta emotiva cagionata dalla sua gelosia). E hanno anche ritenuto che queste attenuanti valessero più dell’aggravante di cui all’articolo 61 numero 1, aver agito per motivi abbietti e futili. Da qui una diminuzione della pena inflitta in primo grado, da 30 a 24 anni; ulteriore diminuzione di un terzo per via del rito abbreviato ed eccoci a 16 anni. Giuridicamente la cosiddetta tempesta emotiva è l’esatto contrario dell’aggravante dell’aver agito per motivi abbietti e futili. In primo grado si è ritenuto che uccidere per gelosia è abbietto e futile; in secondo grado che la gelosia è una sorta di parziale giustificazione. Il mondo è bello perché è avariato. Non partecipo dell’ira degli inventori (in realtà quasi tutti di sesso femminile) dell’inesistente reato di femminicidio. Però punire un assassino geloso in modo così lieve mi trova in disaccordo. Provo a restare sul tecnico. La “tempesta emotiva” è uno stato d’animo che è considerato giuridicamente rilevante dall’articolo 62 numero 2 del codice penale: aver agito in stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui. Si capisce che ci deve essere una certa proporzionalità tra fatto ingiusto e reazione; l’attenuante è stata giustamente esclusa nei numerosi casi di lesioni o addirittura di omicidi maturati nel traffico automobilistico: mancate precedenze, “furto” di parcheggio, ingiurie gestuali (il gesto delle corna). E si capisce, soprattutto, che la reazione deve essere motivata da un fatto ingiusto della vittima. Sicché è giocoforza ritenere: 1, che la Corte di Assise di Appello ha ritenuto che Castaldo avesse ragione di essere geloso; e 2, che la condotta di chi ispira gelosia costituisca fatto ingiusto. Mi sento obbligato a dissentire. Come ha ben spiegato la Cassazione (Sez. III, sentenza n. 915 del 12 gennaio 2010) e come credo sia patrimonio culturale di ogni persona civile, “non costituisce fatto ingiusto, tale da integrare la circostanza attenuante comune della provocazione, la determinazione di porre fine ad una relazione sentimentale, in quanto costituisce espressione del legittimo esercizio del diritto di libertà sessuale”. Dal che deriva che Castaldo è un assassino che agito per motivi abbietti, tale essendo la gelosia; lo ha confessato lui stesso: “Lei doveva essere mia e di nessun altro”. Non si tratta di amore ma di potere. Di un essere umano su un altro. Più abbietto di così. La verità è che la “tempesta emotiva” è stata evocata per introdurre nel processo una sorta di parziale e temporanea incapacità di intendere e di volere. Per intenderci, quella che è alla base del “turbamento emotivo” che Salvini e i suoi vogliono fortissimamente come fondamento della nuova legittima difesa, dove addirittura è intesa come scriminante, cioè come causa di non punibilità tout-court; altro che attenuante. Il legislatore è sovrano, anche quando non capisce niente di diritto. Però studiare un pò non gli farebbe male. Per esempio la Cassazione (Sez. VI, sentenza n. 24614/2003) ha spiegato che “le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto; esulano dalla nozione di infermità mentale le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso ma hanno natura transeunte, costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali”. I giudici queste cose le sanno. Ecco perché hanno utilizzato l’attenuante e non l’infermità mentale. Ma è uno di quei casi in cui la toppa è peggio del buco. E non è stata una bella cosa, secondo me. La tempesta emotiva di giornali e televisioni di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 5 marzo 2019 Sempre più spesso, quando si chiede giustizia, non si intende un equo processo, ma solo l’arresto, il carcere, il buttar via la chiave, il massimo della pena. Se poi si è stimolati da qualche titolo di giornale che dipinge una sentenza come “scandalosa”, ecco che il buon senso viene travolto da un insensato furore che ormai spazza via anche gli stessi giudici. È successo a Bologna, dove la corte d’appello ha ridotto la pena a un uomo, Michele Castaldo, condannato in primo grado, con rito abbreviato, alla pena di 30 anni per l’uccisione della compagna, Olga Matei. Chi ha letto solo gli strilli di stampa può aver capito che siamo tornati al delitto d’onore e che la riduzione di pena sia dovuta al fatto che il gravissimo gesto sia stato in qualche modo giustificato dal fatto che l’assassino sia stato colto da un incolpevole raptus giustificato dalla gelosia che gli ha creato una vera “tempesta emotiva”. Se le cose stessero così, se qualcuno non avesse ogni tanto la pazienza di leggere sentenze e motivazioni, la situazione della giustizia italiana sarebbe davvero regredita agli anni precedenti il famoso “processo del Circeo”, gli anni in cui se una ragazza veniva stuprata era colpa della sua minigonna e se un uomo uccideva la moglie l’omicidio era giustificato dal fatto che lei, forse, l’aveva tradito. Il processo del Circeo (stupro e omicidio) segnò uno spartiacque e gli ergastoli per i colpevoli un sentimento liberatorio, pur con quell’agghiacciante applauso da parte delle donne alla lettura del dispositivo. Per fortuna oggi non sono più quei tempi, il codice è cambiato, la cultura dei magistrati anche, e sempre di più le donne vittime di violenza sessuale e che spesso pagano con la vita la possessività dell’uomo, ottengono giustizia. Un punto fermo è stato raggiunto oggi da abbondante giurisprudenza nei processi per “femminicidio”, l’applicazione dell’aggravante dei “futili motivi”. Il che vuol dire che, per quante ragioni possa avere l’uomo a essere furioso per i comportamenti della sua compagna, ci sarà sempre (o quasi sempre) sproporzione con l’atto dell’omicidio. Soprattutto se il gesto appare come puramente vendicativo. È il caso anche di Michele Castaldo, il quale nel 2016 ha ucciso la compagna, mettendole le mani alla gola e strangolandola, in seguito a un litigio per motivi di gelosia. Se non sei mia, non sarai di nessun altro, è il concetto alla base di una possessività predatoria molto maschile che scatena a volte, come in quel caso, la violenza estrema. Per questo è stata contestata l’aggravante dei “futili motivi”, in primo come in secondo grado. La corte d’appello è stata chiarissima nella motivazione della sentenza, spiegando che i futili motivi sussistono quando “la determinazione criminosa sia stata attuata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire… assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa”. Nessuna giustificazione, dunque. Che cosa è cambiato da un processo all’altro? Semplicemente una diversa valutazione sulla concessione delle attenuanti generiche. Quelle che si danno alle persone incensurate e che al signor Castaldo erano state negate nel processo di primo grado. I giudici dell’appello hanno preso in considerazione una serie di elementi, i più rilevanti dei quali sono stati due. Prima di tutto la piena confessione: l’imputato non si è giustificato in alcun modo, anzi ha contribuito con le sue parole ad individuare il movente come “futile” rispetto alla gravità dell’atto, secondariamente ha già iniziato a risarcire del danno la figlia minore della vittima. La sentenza avrebbe potuto finire qui per motivare la riduzione di pena: da trenta a ventiquattro anni, sedici con la diminuzione di un terzo prevista dal rito abbreviato. È solo a questo punto, mutuando il concetto dal testo della perizia psichiatrica effettuata durante il processo di primo grado e che aveva stabilito la capacità di intendere e volere dell’imputato, che i giudici aggiungono la frase che diventerà titolo di giornali e di polemiche politiche. Insieme agli altri elementi su cui fondare la concessione delle attenuanti generiche i giudici aggiungono anche che il forte stato di gelosia, per quanto immotivato e sproporzionato, creò in lui “una soverchiante tempesta emotiva e passionale”, che sfociò anche in un tentativo di suicidio. Ma questo elemento non ha influito sull’imputabilità della persona, ha solo portato i giudici a considerare equivalenti le circostanze aggravanti e le attenuanti. Tutto qui. Sentenza scandalosa? Un’ultima considerazione: stiamo attente, anche noi donne, che abbiamo e con molte ragioni più di un nervo scoperto su questi temi, alla logica vendicativa dello sbattere in galera e buttare la chiave. Perché quando cadono le regole dello Stato di diritto, poi cadono per tutti. Ed è difficile farle rialzare. “Non ho sdoganato il delitto d’onore, ma quell’uomo era fragile e debole” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 5 marzo 2019 “Non ho sdoganato il delitto d’onore, ma quell’uomo era fragile e debole. “Tempesta emotiva”, il giudice che ha dimezzato la pena si difende. Il caso finisce in Cassazione. Lui, abituato a giudicare, è finito sul banco degli imputati. Dal suo ufficio in piazza dei Tribunali, nella sede della Corte d’Appello di Bologna, Orazio Pescatore allarga le braccia e dice che no, “non c’è stato alcun riconoscimento di attenuanti all’omicidio per gelosia, non era questa la nostra intenzione. E non c’entra nulla il delitto d’onore”. Fuori dai palazzi di giustizia infuoca la polemica per la sentenza che ha ridotto da 30 a 16 anni la condanna di Michele Castaldo, l’assassino di Olga Matei. Le donne organizzano manifestazioni contro quella “tempesta emotiva” che ha trovato spazio nelle motivazioni. La procura generale, che in aula aveva chiesto la conferma della sentenza di primo grado, farà ricorso in Cassazione. Pescatore, 63anni, una lunga carriera in magistratura, che quella sentenza l’ha scritta, si dice “meravigliato”, si difende: “Il nostro compito era valutare la vita dell’imputato, la personalità nel suo complesso. Come si fa sempre in questi casi. L’imputato, alle sue spalle, aveva due o tre episodi significativi che hanno avuto conseguenze sulla sua psiche. Quando si discute della pena si valuta la personalità, nella perizia si è tenuto conto del vissuto fragile e debole, che però non giustifica nulla - precisa, quasi a evitare nuove polemiche -. Nelle valutazione delle attenuanti generiche ci sono tanti fattori da tenere in considerazione. Castaldo aveva alle spalle una storia pesante, era debole in questo senso, era già stato in cura, soffriva di depressione”. A metà mattina, il giudice entra nell’ufficio del presidente della Corte d’Appello Giuseppe Colonna. Che più tardi, con una lunga nota, gli fa da scudo. “La gelosia non è stata considerata motivo di attenuazione del trattamento, anzi, al contrario, motivo di aggravamento”, precisa. “La misura della responsabilità (sotto il profilo del dolo) era comunque condizionata dalle infelici esperienze di vita, affettiva, pregressa dell’imputato, che in passato avevano comportato anche la necessità di cure psichiatriche, che avevano amplificato il suo timore di abbandono”. Questo, per Colonna, è l’aspetto rilevante nella decisione di concedere le attenuanti generiche a Castaldo, “al di là della frase, che è comunque tratta testualmente dal perito: “soverchiante tempesta emotiva e passionale”. Senza dimenticare altre due attenuanti, elementi “oggettivi e ineccepibili”: la confessione dell’imputato e il tentativo di risarcire la figlia della vittima, la bimba che Olga aveva adottato assieme all’ex marito. Doveva essere acqua sul fuoco. Non è bastata. Oggi alle 12.45 la rete delle donne scende in piazza a Bologna contro la sentenza, proprio sotto la sede della Corte d’Appello. Tra le promotrici, l’ex senatrice Pd Francesca Puglisi, dell’associazione Towanda: “In Italia, ogni 72 ore, una donna muore per mano del suo compagno. Non c’è giustificazione o attenuante per un uomo che strangola una donna, non c’è raptus o gelosia che tenga. Facciamo uscire dal Medioevo giuridico qualche magistrato”. Parteciperà un’ampia galassia di sigle: Arci, Centro delle Donne di Bologna, Casa delle Donne per non subire violenza, Arcigay il Cassero, Udi. A Riccione, la città di Olga Matei, uccisa in casa il 5 ottobre 2016, le amiche della vittima organizzano una fiaccolata per l’8 marzo, alle 20, nel giorno della festa delle donne. La sindaca Renata Tosi sarà al loro fianco: “Ritengo questa sentenza un passo indietro nel passato, con il rischio di vanificare anni di lotte e battaglie contro il fenomeno del femminicidio”. L’avvocata dell’omicida, Monica Castiglioni, fa sapere: “Fino a pochi giorni fa il mio assistito lavorava nel carcere di Ferrara, dove è detenuto. Poi si è reso necessario il trasferimento in una sezione protetta”. L’eterna vetrina del pm Woodcock, un caso creato dai giornali più che da lui di Errico Novi Il Dubbio, 5 marzo 2019 Ritratto di un magistrato spesso in prima pagina per inchieste con indagati illustri, ma anche per il vizio italiano della giustizia-show. Alfonso Papa è stato il primo parlamentare italiano a finire in carcere per reati non violenti. A chiedere la custodia cautelare fu Henry John Woodcock. Al termine di una delle tante udienze del processo all’ex deputato forzista, i suoi legali uscirono come sempre tesi, stanchi, ma alla domanda su quale fosse stata la linea del pm dal cognome inglese, si riaccesero improvvisamente: “È troppo intelligente, è dura metterlo in difficoltà”. Pochi giorni fa Alfredo Romeo, l’imprenditore dal cui nome è nata l’inchiesta Consip, ha parlato così di Woodcock a Repubblica: “Tutti gli incontri che io ho avuto con lui si sono svolti all’insegna della massima correttezza. Un pm che mi è parso sì intransigente, anche scaltro, ma posso dire leale”. E pare che lo stesso Filippo Vannoni, presunta vittima di uno degli illeciti per i quali il magistrato è finito davanti alla sezione disciplinare, tutto abbia potuto dire tranne che alla Procura di Napoli si fossero comportati da aguzzini. Se parli con le “vittime”, insomma, hai solo due opzioni: o sono tutte fulminate dalla sindrome di Stoccolma, o Woodcock non è un feroce inquisitore. Al di là delle sofferenze, delle tante ingiuste detenzioni subite per via di fascicoli aperti da Woodcock, chi può raccontare che trattamento ne ha avuto, sul piano umano, personale, mai parla di modi arroganti, di impulsi sadici, di protervia del potere. E allora? Qual è il senso della storia di questo pubblico ministero divenuto famoso più per le numerose indagini dal grande clamore e dal modesto esito che per l’oscura eppur intensa attività inquirente condotta sia a Potenza che a Napoli? Dev’essere in quello sguardo sempre in cerca di sfida. In quel sorriso più temerario che perfido con cui scruta gli indagati e prova a cogliere verità inafferrabili. Come se considerasse la giustizia come un’estrema prova di tenuta. Non una sfida al diritto in sé, ma al mestiere stesso di magistrato. O è una sfida, anche improbabile da vincere, oppure è routine. O le indagini di Woodcock finiscono sui giornali in prima pagina, e se ne parla per mesi finché, spesso, vengono consegnate agli annali come grandi storie senza esito, oppure al massimo sono citate in cronaca nera, al massimo un articolo di piede sul Mattino a pagina 37. Verrebbe da dire che è più colpa di noi giornalisti che del pm di madre napoletana e papà inglese. Forse è così. Da una parte casi come l’indagine finita nel nulla su Vittorio Emanuele o quelle denominata “Iene 2”, che travolse persino il presidente della Camera penale di Basilicata Piervito Bardi - ovviamente prosciolto e divenuto difensore del Savoia - fanno impressione per lo scarto fra enormità delle ipotesi d’accusa e nullità dell’esito giudiziario. Dall’altra parte, c’è da chiedersi se vicende del genere sarebbero mai esistite se troppi, fra noi giornalisti, non ne fossero stati affamati. E soprattutto, se un simpatico settimanale di gossip come “Dipiù” è arrivato a titolare uno speciale si Woodcock “La carriera dell’uomo che sta affascinando l’Italia” è perché è a lui che piace la vetrina o piuttosto perché in Italia trasformare i magistrati in miti da copertina è una malattia sociale? Nel caso del pm di Napoli, una quindicina di anni fa, anche prima di quello “specialone” su “Dipiù”, si arrivò a parossismi difficili anche da raccontare: report fotografici corredati da dettagli sui suoi gusti a tavola, sul suo stile nel vestiario, sulla sua moto, sul suo cane, sulle sue compagne. Soprattutto, bisogna dirlo, questa mitologia si è sviluppata nelle forme più fantasiose finché Woodcock non si è trasferito dalla Procura di Potenza a quella di Napoli. Finché è stato in un piccolo capoluogo da qualche decina di migliaia di abitanti, le cose sono andate in un certo modo. In una piccola città Woodcock non era semplicemente una delle massime autorità locali: era appunto una leggenda vivente. Da quando è approdato in Campania, le cose sono un pò cambiate: il ritmo delle indagini dalla grande risonanza ha rallentato un pò. Nella Procura più grande d’Italia, che annovera qualcosa come 107 magistrati, il clamore mediatico si è attenuato. Perché il contesto ha modificato il metodo di lavoro del pm o perché, più semplicemente, si è diluita l’attenzione per ogni singola sua iniziativa? Adesso, proprio l’esito del processo disciplinare concluso ieri a Palazzo dei Marescalli (in attesa di capire se davvero la Procura generale della Cassazione impugnerà la sentenza) riflette un pò questa aporia fra rapporto coi media e correttezza formale. Rispetto a quest’ultima, togati e laici del collegio presieduto dal professor Fulvio Gigliotti non sono riusciti a trovare motivi di responsabilità. Rispetto cioè all’interrogatorio a Filippo Vannoni del 21 dicembre 2016, la difesa di Woodcock è risultata convincente: “Ho sempre cercato di accogliere le parti private delle vicende processuali con un sorriso, ho sempre immaginato che questo mestiere debba essere esercitato con responsabilità, e ho sempre immaginato l’imbarazzo, la difficoltà e anche il senso di angoscia di un estraneo che entra in una Procura della Repubblica. Vannoni arrivò sconvolto”, ha raccontato Woodcock ai suoi “giudici”, “gli dicemmo almeno 20 volte se aveva bisogno di acqua, del bagno, di fare un giro”. Sulle frasi di Woodcock che Liana Milella riportò pochi mesi dopo su Repubblica, invece no, il Csm ritiene che il pm abbia ceduto a una forma impropria di relazione con la cronaca giudiziaria. Alla fine della storia, se c’è una debolezza, sarebbe questa. E siamo proprio sicuri che in un Paese in cui si è arrivati a fare il tifo da stadio per un pool di inquirenti milanesi, quando un magistrato finisce troppo spesso sui giornali è perché è lui a cercare il colpevole eccellente e non siamo piuttosto noi giornalisti a trattare la cronaca giudiziaria come un fotoromanzo? Intelligenza artificiale nel processo: la sfida sarà insegnarle l’etica di Daniela Piana Il Dubbio, 5 marzo 2019 Duemila venti. Vi hanno arrecato un significativo danno commerciale. Voi che avete sempre assicurato fornitori e clienti con clausole contrattuali chiare, una applicazione dei contratti certa e puntuale, questa volta non avete potuto evitare. Ed ora? Ora non resta che chiedere il risarcimento. Occorre un attore terzo che valuti e riconosca il quantum dovuto. Un login su predictice.com vi permette di valutare, così per farvi una idea di massima in tutta autonomia e senza l’interlocuzione con il vostro legale, a quanto solitamente ammonta tale risarcimento in casi simili, posto che “Predictrice” opera su basi giurisprudenziali francesi. Ma in fondo, vi dite, “i sistemi processuali sono simili”: almeno avete qualche elemento prima di incontrare il vostro avvocato. Forti di un numero, anzi di un range min-max, impostate il dialogo con il legale rappresentante già con una voce in capitolo. “Avvocato, non si chiede meno del minimo risarcimento che di solito si ottiene in questi casi, mi pare ovvio, minimo calcolato con lo strumento di cui vi siete avvalsi andando su internet. “Di più sì - ribadite - ma meno proprio non ne vale la pena”. Il procedimento per risarcimento viene avviato. A fronte di una serie di passaggi di carattere processuale, sul fascicolo che arriva a definizione appare anche un numero percentuale: è il calcolo della probabilità con cui, in casi simili, il contenzioso è risolto in via extra- giudiziale in meno di tre mesi. Di fatto, un sistema di valutazione esperta, basato su una tecnologia avanzata e una capacità computazionale elevata, è stato inserito ad ausilio della corte per fare sì che non sia mai esclusa, almeno non ex ante, la soluzione extra- giudiziale. Introdotto per i casi di contenzioso di minore entità, si direbbero i “casi seriali”, è vieppiù apparso uno strumento di orientamento utile, pertanto consolidato dopo una fase sperimentale. I corsivi del capoverso precedente pesano: pesano sul contenuto e sui tempi della giustizia resa, sulla adeguatezza della risposta, sulla articolazione del ragionamento, sulla sua leggibilità. Pesano perché molti impliciti sono presenti: casi simili (su quale base viene asserita tale similitudine? La fattispecie? La percezione del cittadino? La realtà empirica dei contenziosi precedenti?), voce in capitolo (la possibilità creata dalla tecnologia di trovare una informazione esperta open access aumenta la capacità di esprimersi del cittadino e quindi di avere autonomia?); orientamento utile (rispetto a cosa? Per rapidità? Per solidità delle informazioni?). Ma in fondo è solo uno scenario del 2020... nulla da preoccuparsi! Oppure no? Il 3 e il 4 dicembre, riunita in sessione plenaria a Strasburgo, la Commissione europea per la efficienza dei sistemi di giustizia, adotta la Carta etica sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e nel loro ambiente, al fine di tracciare la linea di partenza, una sorta di soglia non valicabile, per tutti coloro che a titolo di designer, legislatori, regolatori, decisori giudiziari e forensi, attori sociali ed economici, siano partecipi dei processi di elaborazione, diffusione e discussione dei algoritmi e tecnologie computazionali avanzate applicate al mondo della giustizia. Ossia al mondo dei diritti fondamentali. Più vero di quanto non si pensi, in verità diversi paesi europei stanno riflettendo sulla possibilità e sulla fattibilità della integrazione dei dispositivi di tipo computazionale all’interno del processo. In Inghilterra per gli small claim, in Estonia per la trasparenza e la efficienza dei meccanismi di gestione dei fascicoli, in Francia per affiancare la analisi giurisprudenziale (basti pensare a Predictrice e Case Analytics). Un distinguo va introdotto fin dall’inizio di quella che si prospetta già come una lunga storia. La Carta etica lo introduce. Nell’ambito della soluzione dei contenziosi economici, commerciali, civili l’utilizzo della IA costituisce una promessa, seppur da regolare con strumenti di soft law, come gli standard internazionali, di predittività ma anche di rapidità. In un qualche modo una risposta alla lentezza e alla opacità del sistema giustizia, che pur tuttavia deve essere utilizzata nello stretto rispetto dei 5 principi che la Carta dettaglia. Nell’ambito della giustizia penale si tratta di innalzare ancor più il livello delle precauzioni ovvero delle “riserve” in quanto è in tale contesto che l’utilizzo della IA che può farsi portatrice di discriminazioni nascoste, anche se già evidenziate da casi emersi nella letteratura comparata (anche al di là del già molto trattato caso Compas). La Carta fissa, lo è stato ricordato in diversi interventi usciti sulla stampa italiana in questi giorni, 5 principi generali, che riprendono e fissano i valori dell’impianto europeo della rule of law intesa in senso massimale (non solo formale ma anche sostanziale): il rispetto dei diritti fondamentali, la non discriminazione, la qualità e la sicurezza (interessante che siano combinate), la trasparenza e l’equità (anche in questo caso non sfugga il binomio), l’utilizzo sotto controllo (che potremmo qualificare anche come accountability, obbligo di rispondenza a criteri di responsabilità). Si potrebbe ragionare sulla ipotesi secondo cui, in modo futuristico ma non troppo, la Carta tratteggia la rule of law aumentata? Sulla primazia di questi principi rispetto a qualsiasi forma di governance che possa dispiegarsi in Europa ad ogni livello istituzionale ci si potrà aspettare ampio consenso, in via di principio. Plurali e non necessariamente convergenti sono invece le modalità con cui questi principi sono messi in azione, sono applicati o declinati nelle prassi istituzionali dei paesi europei. Esattamente nella mise en oeuvre e nella trasformazione del principio in prassi gli attori dovranno intervenire. Quali attori? Tutti gli operatori del diritto, ma anche tutti gli operatori che sviluppano ad alto livello, su scala internazionale, gli strumenti della IA. Si tratta di una arena di politica pubblica che, regolata da oggi da standard, quelli che discendono dalla elaborazione di soft law che avviene nelle sedi transnazionali, chiede la partecipazione plurale degli attori, delle loro voci. È necessario, vitale, che magistratura ed avvocatura si facciano protagonisti dei processi di standard setting, in una chiave metodologica aperta e partecipativa dinnanzi a coloro che in ultima istanza sono attori e motori della giustizia: le cittadine e i cittadini. La normativa e le prassi che in Italia regolano l’uso delle expertise, delle perizie, delle consulente, dovrà tenere conto della expertise fornita attraverso l’applicazione di strumenti come gli algoritmi che scaturiscono dalla analisi di basi di dati e che forniscono conoscenza di regolarità, di pattern comportamentali, rischi, ecc? La risposta a questa domanda non potrà essere ritardata. La riflessione etica in materia di IA applicata alla giustizia affronta il tema, cruciale, della trasformazione del significato dello strumento giuridico nelle nostre società, a fronte della domanda di soluzione di controversie, di soluzione per problemi che i cittadini vivono come personali, esistenziali, sociali, economici, a seconda dei contesti, delle traiettorie di vita, delle culture, delle prassi e delle esperienze. Allo strumento del diritto ci si è rivolti per ottenere risposte. L’IA appare come una fonte di conoscenza avanzata la quale può non solo “aumentare” le risposte istituzionali, ma può trasfigurarne (in positivo o in negativo è agli attori e alla intelligenza collettiva incorporata nei sistemi di governance di determinarlo) l’essenza normativa, portando la norma della tecnica verso la, al posto della, in interazione con la, norma del diritto. I tre casi, verso, al posto di, in interazione con, sono possibilità la cui attuazione dipende, per l’appunto, dai contesti e dagli attori. Ricorda, la Carta, che gli strumenti dell’IA possono creare una nuova “forma di normatività”, che può condurre verso forme di standardizzazione o di aiuto alla decisione sulle cui conseguenze occorre riflettere. E qui si apre la vera domanda istituzionale e deontologica: chi deve riflettere? Forse la comunità degli esperti? Possibile. La carta etica sull’IA in materia di decisioni di giustizia deve essere pensata come uno spazio di cui sono stati tracciati i confini: dentro a questo spazio saranno gli attori a definire politiche, strategie, ma soprattutto meccanismi di accountability e trasparenza, ovvero meccanismi di checks and balances. Se infatti l’IA è una delle componenti che intervengono nella presa di decisione, è necessario che anche questa sia sottoposta a un controllo attraverso quel contraddittorio, ossia quella dialettica, quella razionalità dialogica che è in re ipsa del principio stesso della rule of law. Allora forse le istituzioni devono intervenire in quello spazio? Auspicabile. Che siano le istituzioni a farsi porta voce di una domanda, un bisogno impersonale, ma non per questo meno radicato nella società, di garanzie. Le istituzioni rappresentative della professionalità forense e della magistratura insieme che sono portatrici di intelligenza collettiva. Si mobiliti questa intelligenza. Alla contro argomentazione che sostiene che al momento in Italia questo strumento non è ancora istituzionalizzato la risposta viene dal principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie che vige nell’Unione europea. Vero è che Predictrice analizza basi giurisprudenziali francesi, cosi come vero sarà che gli small claims saranno risolti on line in Inghilterra ed in Olanda. Ma, fatto salvo per UK per la quale l’enigma del Brexit induce a lasciare sospeso il giudizio, per gli altri paesi, occorre prendere sul serio la capacità delle conoscenze che avranno valore se non definitivo, forse endoprocessuale, di incidere, via mutuo riconoscimento, anche nel nostro paese. E ancora nulla appare contraddire la possibilità per il nostro paese di valorizzare in chiave di analisi induttiva il potenziale conoscitivo che ci dà un metro del contenzioso (Pasquale Liccardo parla di nomometrica) e che il processo civile telematico oggi, il processo penale telematico domani, offriranno al potenziale computazionale del machine learning. Che fare dunque? Occorre prendere sul serio l’ibridazione delle intelligenze organizzative. Che non saranno né solo artificiali, né solo naturali. Ma la modalità con la quale combinare le due è materia di agenda istituzionale. È tema di cui discutere fra attori istituzionali responsabili della governance del sistema giustizia: Cnf, Csm, Cassazione, Ministero della giustizia. Sarà l’IA responsabile o intelligente? Sarà davvero possibile avere la seconda senza la prima condizione? E, ancor più rilevante, sarà la combinazione delle intelligenze che si dispiegheranno nel processo, a rispondere a quei parametri di qualità che oggi diamo per scontati e che in una giustizia “aumentata” forse non lo saranno più? Soprattutto tutto questo rileva quando i diritti dei cittadini sono in questione. Riteniamo che stia nelle istituzioni definire la metrica delle norme, quelle etiche e quelle professionali, mentre starà nella società, nella comunità delle persone, prima, e dei cittadini poi, stabilire nel tempo come combinare norme diverse, ma non inconciliabili, in un equilibrio dinamico e sostenibile. In fondo, l’etica aumenta l’intelligenza, umana ed artificiale. Mafie. Quei boss in fuga che si nascondono a due passi da casa di Roberto Saviano La Repubblica, 5 marzo 2019 La scelta dei latitanti. Il potere è presenza: per questo, da Riina e Provenzano, passando per i re della ‘ndrangheta fino all’ultimo Di Lauro, i capi clan non si allontanano mai dai loro territori. La legge del potere è sempre la stessa, compresa da Machiavelli, ribadita da Carl Schmitt: il potere è presenza. È questa la caratteristica fondante per poter esercitare il proprio controllo e perché l’autorità sia riconosciuta. Non si può comandare da lontano. Se decidi di comandare da lontano, dovrai nominare un viceré, e il viceré prima o poi vorrà diventare re. Marco Di Lauro è stato arrestato in un quartiere periferico di Napoli, a Chiaiano, vicino a casa. Suo padre Paolo, il patriarca, era stato catturato a un chilometro scarso dalla villa di famiglia; suo fratello Cosimo, il principe ereditario, era stato arrestato al rione dei Fiori, nel cuore del feudo del clan; suo fratello Nunzio non si era spinto a più di mezzora d’auto da Secondigliano. Erano tutti lì, a casa loro. Ad analizzare lo storico delle catture dei latitanti italiani, i mandati d’arresto internazionali e tutto il denaro speso per monitorare piste all’estero sembrano quasi scelte ingenue: i casalesi Antonio Iovine e Francesco “Sandokan” Schiavone sono stati arrestati a Casal di Principe; Pasquale Condello, il potente boss della ‘ndrangheta del Reggino, è stato scovato nel quartiere Pellaro di Reggio Calabria; Bernardo Provenzano in un casolare nella sua Corleone; Giuseppe Morabito si era nascosto a una sessantina di chilometri da Africo; Edoardo Contini a Casavatore, a un paio di chilometri dalla sua roccaforte. Se un boss non è a casa sua, non sta più comandando. Luciano Liggio, il monarca del cartello corleonese, venne arrestato nel 1974 a Milano: aveva provato a comandare da lontano, per realizzare l’utopia di avere una famiglia e una vita nuova; in realtà, in Sicilia lo scettro era già passato a Totò Riina. Ci sono boss come Pasquale Scotti che riescono a rimanere latitanti per trent’anni lontano dal territorio che hanno comandato ma lo fanno perché hanno deciso di cambiare vita; o figure come Rocco Morabito, arrestato in Uruguay a settembre 2017, che possono spostarsi e nascondersi lontano perché non hanno il “bastone del comando” (come si dice in gergo ‘ndranghetista), ossia non hanno un ruolo dirigenziale nella cosca. Ma se sei il boss reggente del tuo gruppo, devi rimanere dove ci sono le radici. Questo significa che Messina Denaro è a Castelvetrano o nelle vicinanze? Logica vorrebbe che fosse così. Spesso i mafiosi latitanti non solo non si allontanano dal loro territorio, ma si nascondono esattamente nel loro Comune di residenza. Sono esattamente dove sarebbe più scontato trovarli, eppure fanno latitanze infinite, rimangono irrintracciabili per anni. Marco Di Lauro era latitante da 14 anni, e probabilmente non si è mai allontanato da Napoli. Come mai? Nulla concede più sicurezza ai boss del territorio che controllano. E accedere alla rete di sicurezza di un boss è un lavoro difficilissimo e complesso: non basta pedinare o intercettare. L’intero quartiere o l’intero paese partecipano alla protezione di questi fantasmi, che si nascondano in un bunker sottoterra o nell’appartamento di un palazzo. I Di Lauro hanno scelto di nascondersi in case modeste, a volte ospiti di persone insospettabili. Cosimo era nell’appartamento di proprietà di un’anziana disabile, Paolo nel bilocale di una quarantenne incensurata, Marco viveva con la fidanzata e i suoi due gatti in una anonima palazzina. Tutti in case di città, per quanto in periferia. Sono i boss dei cartelli di provincia che scelgono invece di vivere nei bunker: a Casal di Principe come a Platì, a San Luca come a San Cipriano d’Aversa, l’aristocrazia mafiosa costruisce prima i bunker e poi la casa, mentre il crimine cittadino cerca l’abitazione anonima in cui camuffarsi, sfrutta la dispersione della metropoli per dileguarsi. Ma non è rischioso stare proprio lì dove tutti immaginano tu sia? - già sento sollevarsi la domanda. In realtà no. Controllare il territorio significa conoscere e riconoscere qualsiasi volto nuovo, significa che chi tradirà dovrà temere non solo per se stesso ma per i propri familiari. Se tradisci nel tuo paese, pagherà tutta la tua famiglia, se non con il sangue con l’isolamento, con il danno economico e sociale. Pasquale Condello “u Supremu” poté fare i suoi 18 anni di latitanza a Reggio Calabria. Il covo di Giuseppe Giorgio “u Capra”, latitante per 23 anni, era visibile dal balcone della caserma dei carabinieri di San Luca d’Aspromonte. Il territorio partecipa alla loro protezione non solo per paura, ma perché spesso avere un boss egemone è un vantaggio: il boss forte e riconosciuto da tutti è garanzia di tranquillità, perché nessuno tenterà di sostituirlo intraprendendo faide sanguinose. Inoltre, il boss latitante che ha bisogno del silenzio del territorio, moltiplica i doni e servizi elargiti alla gente del posto per consolidare il consenso. Essere sul territorio per un boss significa poter dare risposte immediate e le risposte immediate si danno a voce, di persona, o per iscritto tramite pizzini. Il telefono è rischioso e genera una distanza che la voce diretta, invece, non contempla: con il telefono avverti, alludi, deleghi, mentre parlando di persona affermi. Michele Zagaria aveva trasformato Casapesenna in una grande centrale di citofoni, collegati l’uno all’altro di casa in casa: a differenza dei telefoni non erano rintracciabili né intercettabili. Il boss non si fa vedere ma c’è e, se serve, interverrà. L’errore di “Ciruzzo ‘o Milionario”, padre di Marco di Lauro, fu proprio quello di iniziare a delegare. Quando decise di diventare capo di quella che sarebbe diventata la struttura più importante del narcotraffico napoletano si chiuse letteralmente in casa. Limitò al minimo uscite, spostamenti, visite, vizi. Come un cenobita, come un pianista che giura a se stesso di non uscire di casa finché non sarà abile come Mozart. Doveva sparire dalla vista delle persone, non essere riconoscibile né per i poliziotti né per i vicini. Conosciuto solo a chi doveva conoscerlo. Fu la scelta che non solo lo rese sempre più potente mentre i suoi rivali e fratelli d’affiliazione cadevano in agguati o in arresti, ma generò attorno a lui anche una specie di mito, rafforzato anche dal fatto che ebbe 10 figli maschi. Questa cosa fu vista dal quartiere come un segno, un destino di comando: come nelle famiglie nobiliari che più si espandevano più avevano bisogno di figli per stringere alleanze, così gli eredi di Paolo Di Lauro crebbero proporzionalmente al suo potere. A metà degli anni 2000, solo con il traffico di droga entravano nelle casse del clan 15 milioni di euro al mese. Quando, però, Di Lauro si allontanò da Napoli, sia per sfuggire alla cattura sia per assaggiare una vita che non aveva mai vissuto, Paolo Di Lauro commise l’errore di affidare la direzione dell’organizzazione al figlio Cosimo, che in pochi consideravano un vero capo. Senza una guida forte e da tutti riconosciuta come tale, gli equilibri cominciarono a traballare, finché scoppiò la faida più cruenta che Napoli avesse mai vissuto. Per Paolo Di Lauro fu l’inizio della fine, ma non per il clan: il potere passò nelle mani di suo figlio Marco, che ha continuato a comandare nell’ombra fino alla cattura di sabato. Marco non ha tentato la fuga, esattamente come avevano fatto suo padre e suo fratello Cosimo. Tutti e tre si sono arresi subito. Marco ha pensato ai suoi gatti e a dare un ultimo abbraccio alla compagna; Cosimo si era solo preso del tempo per sistemarsi i capelli prima di uscire, Paolo aveva addirittura rassicurato i carabinieri che avevano appena fatto irruzione nel suo appartamento dicendo: “Io sono calmo, tranquilli…”. Nessuno scontro con le forze dell’ordine, nessuna tragedia: per i mafiosi, l’arresto è un momento come un altro della scalata al potere. Si festeggia l’arresto di un capoclan, ed è giusto esprimere soddisfazione per il lavoro delle forze dell’ordine, ma non si tiene conto che ogni giorno, ogni ora, ogni mese, ogni anno di latitanza di quel capo dimostrano che il territorio lo ha preferito allo Stato, e lo ha preferito perché lo Stato è lontano. Tutto il contrario dei boss, che anche quando non si mostrano fisicamente sono lì nei loro quartieri e fanno credere (riuscendoci) di condividere la medesima sorte dei suoi abitanti e di prodigarsi per far fronte a miseria e disagio. Il ministro festeggia ma nulla cambierà: per una testa che viene tagliata altre sono pronte a nascere. Marco è in prigione. Pronto a prendere lo scettro (ma già garantivano la gestione) c’è il triumvirato dei suoi fratelli liberi: Vincenzo all’economia, Lello alla struttura militare e Ciro alla politica organizzativa. Sic transit gloria mundi. Legge sull’omicidio stradale a rischio di nuovi rilievi di incostituzionalità di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2019 La legge sull’omicidio stradale potrebbe finire ancora al vaglio della Corte costituzionale. Se due settimane fa la Consulta si è pronunciata sulle due questioni di legittimità costituzionale sollevate da giudici di merito in questi tre anni di applicazione della legge (la 41/2016) colpendone uno dei cardini (la revoca “automatica” della patente per chi causa un incidente con morti o feriti gravi) e “salvando” il divieto di bilanciare con l’attenuante del concorso di colpa le aggravanti su alcol e droga, altri dubbi emergono quasi quotidianamente nei processi. Finora i giudici non hanno sollevato formalmente questioni di legittimità costituzionale, ma non si può escludere che accada in futuro. Peraltro, il comunicato stampa della Consulta sulla pronuncia di febbraio (la sentenza non è stata ancora depositata) lascia ipotizzare quali ulteriori aspetti della legge 41 potrebbero finire al vaglio. Per capirlo, bisogna partire da quel che pare il punto fermo della decisione: causare un incidente con morti o feriti gravi perché ci si è messi al volante sotto l’effetto di alcol o droghe è una condotta sintomatica di pericolosità ben più intensa di quella di chi causalo stesso incidente perfettamente lucido, ma per avere commesso un’infrazione piuttosto comune. Non che, in quest’ultimo caso, non si rischi la revoca della patente, ma è il giudice che dovrà decidere, valutando tutte le circostanze concrete, se la sanzione accessoria più proporzionata non sia invece la sospensione. Un criterio che potrebbe essere usato anche per valutare la legittimità costituzionale di un’altra questione che emerge non di rado: la procedibilità d’ufficio del reato di lesioni stradali gravi. Essa sembrava rientrare pienamente nella delega contenuta nella legge 103/2017, che prevedeva la procedibilità a querela di parte per i reati contro la persona puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni. Il Governo ha poi deciso di conservare la procedibilità d’ufficio, sul presupposto che il delitto in questione comporti sempre un’incapacità per infermità della persona offesa. Un’impostazione criticata nelle aule, soprattutto perché una lesione giudicata guaribile in meno di due mesi non sembra effettivamente produrre effetti tout court invalidanti. Senza considerare che, in un’ottica deflattiva, e di composizione del conflitto tra persona offesa e imputato, la procedibilità a querela di parte appare un forte incentivo al risarcimento dei danni in tempi rapidi. Dunque, non si può escludere che venga sollevata la questione di costituzionalità, per violazione della delega parlamentare, anche alla luce del fatto che due settimane fa la Consulta ha stabilito che non si possono mettere sullo stesso piano condotte ben diverse sotto il profilo dell’intensità della colpa e della pericolosità. Nello stesso senso, non si può escludere che la Corte costituzionale debba intervenire anche sulla fattispecie di omicidio stradale semplice, prevista dall’articolo 589-bis del Codice penale: non è infatti chiaro se, ai fini della determinazione della pena rilevante per decidere dell’ammissibilità all’istituto della sospensione del procedimento con la messa alla prova, si debba considerare l’attenuante speciale prevista dal comma 7 della medesima norma, ovvero quella che prevede un dimezzamento di pena in caso di responsabilità “non esclusiva” dell’imputato. La risposta affermativa è confortata dalla lettura della sentenza 36272/2016 delle Sezioni unite della Cassazione, là dove è scritto che “deve escludersi che nel sistema esista un criterio normativo unitario in base al quale determinare la pena ai fini dell’applicazione di istituti processuali”. C’è riciclaggio anche quando la targa non è falsificata di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2019 Chi appone la sua targa personale su un ciclomotore rubato commette il reato di riciclaggio. Lo ha chiarito la Seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza 8788/2019, depositata il 28 febbraio. Quindi, anche in questo caso le sanzioni penali si possono aggiungere a quella amministrativa prevista dall’articolo 97 del Codice della strada. Finora, invece, si riteneva perlopiù che la sanzioni penali scattassero solo nel caso in cui la targa apposta sul mezzo rubato fosse falsa, manomessa o alterata (sentenza 7621/2008). L’articolo 97 prevede per i ciclomotori un regime di targa personale, entrato in vigore il 14 luglio 2006 al posto del precedente che prevedeva un contrassegno (noto come “targhino”), spostabile a piacimento da un veicolo a un altro. La targa personale delineata dalla norma si avvicina al regime previsto per tutti gli altri veicoli, per i quali la targa è attribuita al mezzo e non al proprietario: essa può essere spostata da un ciclomotore a un altro solo se il nuovo abbinamento viene fatto registrare alla Motorizzazione, per cui lo spostamento può avvenire solo quando il precedente veicolo viene venduto, demolito o rubato. In questo contesto, il protagonista del processo aveva acquistato un ciclomotore rilevandone anche la targa, che però poi aveva smontato per metterla su un altro mezzo della stessa categoria, ma rubato. Per questo motivo era stato condannato già in appello. La Cassazione ha confermato, partendo dalla considerazione che il riciclaggio è configurato dall’articolo 648 del Codice penale in modo da colpire tutte le possibili fattispecie: basta che la condotta sia “comunque idonea” a rendere difficile l’accertamento della provenienza del bene. Nel caso dei veicoli rubati in generale, ciò era stato tradotto nella perseguibilità della sostituzione della targa, “condotta univocamente diretta ad ostacolare l’identificazione delittuosa” del mezzo. Ora la Corte adatta questo concetto al particolare regime di targatura previsto per i ciclomotori. E osserva che, per quanto la targa non propria sia stata legittimamente assegnata a un soggetto che poi la abbina a un altro esemplare senza registrare l’operazione, tale abbinamento comunque “produce l’effetto di ostacolo all’identificazione della provenienza del bene”. Anche l’apparenza di legittima disponibilità del veicolo fornita dal fatto che la targa sia originale e non risulti rubata “costituisce un primo ostacolo”. Con ciò la Cassazione risponde all’obiezione della difesa, che si era limitata a notare che il regime della targa dei ciclomotori è personale, lasciando in secondo piano il fatto che comunque ogni cambio di abbinamento deve essere registrato e che la versione dell’articolo 97 del Codice della strada ha dichiaratamente anche uno scopo antiriciclaggio. La conclusione è che, affinché si possa configurare il riciclaggio di un ciclomotore, non è necessario che esso venga fatto circolare con una targa falsa: è sufficiente “l’incompatibilità giuridica tra la titolarità della targa (regolarmente detenuta e intestata, ndr) e quella del veicolo su cui viene apposta”. Prefetture in cerca di certezze sullo stop a una nuova patente di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2019 Dichiarando incostituzionale - due settimane fa - la revoca obbligatoria della patente in casi in incidente con morti o feriti gravi, la Consulta ha “spiazzato” anche la Cassazione. Che quest’anno si è pronunciata in senso contrario: con la sentenza 1719/2019, ha ritenuto che la sanzione amministrativa accessoria a una sentenza di condanna, o patteggiamento, per omicidio stradale o lesioni stradali gravi e gravissime, fosse solo la revoca della patente di guida, non commisurabile dal giudice penale. In futuro, alla luce dei paletti messi dalla Corte costituzionale, la regola varrà solo per gli incidenti causati da alcol o droghe, non anche in presenza delle altre violazioni del Codice della strada previste dalla legge sull’omicidio stradale come aggravanti (sorpassi azzardati, circolazione contromano, passaggio col rosso, velocità spropositata). Ciò potrebbe avere conseguenze anche sulle misure dell’inibizione al conseguimento di una nuova patente o del divieto di guida sul territorio nazionale per i titolari di patente straniera (articolo 222, commi 3-bis, ter e quater, del Codice della strada). Queste misure - per la Cassazione - non possono essere applicate dal giudice, ma dal prefetto, dopo che la sentenza penale è passata in giudicato. E hanno durata diversa secondo la tipologia di reato stradale accertato, in base agli scaglioni tassativamente previsti dall’articolo 222, comma 3. Ma ora lo scenario è cambiato: riconosciuta dalla Consulta la discrezionalità del giudice penale sulla sanzione accessoria applicabile ai reati di omicidio e lesioni stradali gravi e gravissime non determinate da alcol o droghe, pare opportuno un intervento di coordinamento - la cui necessità potrebbe già manifestarsi dalle motivazioni della sentenza della Consulta, che dovrebbero essere pubblicate entro fine mese - che agevoli le Prefetture nel loro lavoro. Infatti, nel caso in cui il giudice penale deciderà la sospensione della patente e non la revoca - ad esempio per un omicidio stradale determinato dalla circolazione contromano del conducente di un veicolo a motore - il prefetto non potrà certamente applicare l’obbligo di inibizione oggi previsto dall’articolo 222 comma 3-bis. Tuttavia, qualora il giudice - nello stesso caso - disponga la revoca della patente, c’è da chiedersi perché il prefetto debba essere obbligato a irrogare il periodo di inibizione tassativamente previsto dall’articolo 222 comma 3-bis, e non beneficiare della stessa discrezionalità che la Consulta ha ora riconosciuto al giudice penale. Non sembra invece destinato a mutare l’orientamento consolidatosi in tema di prescrizione delle sanzioni accessorie a un reato stradale, revoca della patente o sospensione che sia. In proposito, va segnalato che, da ultimo con la sentenza 2618/19, la Cassazione ha spiegato che il periodo di prescrizione delle sanzioni accessorie all’accertamento di un reato stradale, è diverso - e ben più lungo - di quello che deriva da una violazione amministrativa del Codice della strada (come un eccesso di velocità). Nel primo caso la prescrizione della sanzione accessoria è pari a quella del reato, ed è soggetta agli stessi periodi di interruzione e sospensione. Nel secondo caso è di cinque anni a partire dalla data dell’infrazione. Configurabilità ed elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2019 Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti - Reato abituale - Configurabilità. Integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo sufficiente la loro ripetizione e non rilevando, posta la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e persino di apparente accordo con il soggetto passivo. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 25 febbraio 2019 n. 8312. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - Elemento oggettivo (materiale) - Condotte persecutorie nei confronti dell’altro coniuge - Reato di maltrattamenti nei confronti del figlio minore costretto ad assistere - Configurabilità - Sussistenza. Integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore e idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 13 luglio 2018 n. 32368. Maltrattamenti in danno del coniuge - Condanna - Elementi costitutivi la fattispecie di reato - Elemento soggettivo e oggettivo del reato. Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 572 c.p. non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale; non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo e ininterrotto; essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni; esso consiste nell’inclinazione della volontà a una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, sì va realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 26 giugno 2018 n. 29255. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - Elemento oggettivo (materiale) - Liti tra genitori - Reato di maltrattamenti anche nei confronti dei figli minori (c.d. violenza assistita) - Configurabilità - Condizioni. Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 2 maggio 2018 n. 18833. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - In genere - Elemento oggettivo - Protrarsi di atti vessatori - Necessità - Condizioni - Fattispecie. L’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 cod. pen. è integrato dalla realizzazione, in momenti successivi, di condotte di natura vessatoria che provochino sofferenze fisiche e/o morali legate da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo ovvero di infliggere abitualmente tali sofferenze. Il reato ricorre anche quando i maltrattamenti si ripetano in un contesto temporale limitato, non rilevando, data la natura abituale del reato, l’alternarsi di periodi di normalità nella condotta del soggetto agente e di accordo con il soggetto passivo. (Fattispecie in cui la condotta contestata, consistita nell’ingiuriare, minacciare ed aggredire fisicamente la vittima, tenendo, altresì, atteggiamenti palesemente denigratori nei suoi confronti era stata attuata nel corso di tre mesi di convivenza frammezzata da periodi di quiete). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 12 febbraio 2018 n. 6724. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - In genere - Reato abituale - Elementi costitutivi - Maltrattamenti in danno dello stesso soggetto passivo in tempi distinti - Pluralità di reati - Condizioni. Il delitto previsto dall’art. 572 cod. pen. configura un reato abituale, essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall’agente con l’intenzione di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, onde ogni successiva condotta di maltrattamento si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; allorché, di contro, la serie di fatti costituenti maltrattamenti si esaurisca e, dopo un notevole intervallo temporale, ne inizi un’altra contro lo stesso soggetto passivo, si è in presenza di due autonomi reati di maltrattamenti, eventualmente uniti dal vincolo della continuazione ove sussista un medesimo disegno criminoso. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 20 dicembre 2017 n. 56961. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - Elemento oggettivo (materiale) - Specifici atti vessatori nei confronti di un determinato soggetto passivo - Necessità - Esclusione - Clima di sopraffazione e umiliazione generalmente instaurato all’interno di una comunità - Configurabilità del reato - Presupposti - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti siano consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (Fattispecie relativa alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assistenza nei confronti di persone anziane ivi ricoverate nel reparto di lunga degenza). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 marzo 2010 n. 8592. Campania: 67 detenuti della si sono iscritti all’università di Nadia Cozzolino dire.it, 5 marzo 2019 Intervista a Gaetano Manfredi, rettore dell’ateneo federiciano. “È una grande opportunità. Abbiamo un’occasione per abbattere quel muro che c’è tra il carcere e la società: il penitenziario esce fuori dal carcere e la società entra dentro al penitenziario”. È stata la testimonianza di un giovane detenuto, uno dei 54 ospiti del penitenziario di Secondigliano che hanno deciso di iscriversi a un corso di laurea, a concludere l’inaugurazione dell’anno accademico 2018/2019 del polo universitario penitenziario della Campania, il primo del Sud Italia. Per quest’anno, 67 detenuti di tutta la Campania hanno scelto uno dei corsi proposti dall’ateneo Federico II: oltre ai 54 ristretti di Secondigliano ci sono 4 donne del penitenziario femminile di Pozzuoli e altri 9 ospitati in altre strutture della Regione. I detenuti seguono le lezioni tre volte a settimana in due sezioni speciali del carcere che ospitano il polo universitario ad eccezione delle donne che saranno raggiunte dai docenti nel penitenziario puteolano. All’interno delle sezioni, gli studenti hanno un regime diverso con le celle aperte tutto il giorno, spazi per lo studio, per le lezioni, per l’incontro con professori e tutor. Possono seguire tutti i corsi a disposizione dell’università Federico II, fatta eccezione per quelli a numero chiuso, ma la loro attenzione si è focalizzata su 5 percorsi di studio, in Giurisprudenza, Scienze politiche, Scienze sociali, Urbanistica, territorio, pianificazione e ambiente, Scienze nutraceutiche ed erboristiche. Gli studenti detenuti sono esentati dal pagamento delle tasse universitarie e i docenti della Federico II impegnati nei corsi operato tutti a titolo gratuito. “È un dono dell’università e un impegno di volontariato del nostro corpo docente - ha detto Gaetano Manfredi, rettore dell’ateneo federiciano -. Ci sono già tanti iscritti ma ci siamo ripromessi di impegnarci maggiormente sull’orientamento, per andare oltre l’entusiasmo iniziale che porta i singoli a scegliere un corso piuttosto che un altro”. Il progetto del Polo universitario penitenziario della Campania è realizzato grazie alla collaborazione tra la Federico II, l’amministrazione penitenziaria, il Garante dei detenuti della Campania e con il sostegno della Regione Campania. “Crediamo che investire sulla conoscenza e sulle competenze - ha detto l’assessore regionale alle Politiche Sociali, Lucia Fortini - sia essenziale. Noi investiamo 4 milioni di euro per la formazione e crediamo fortemente in un sistema che si mette in rete e aiuta le persone, penso ai detenuti, a trovare una riva”. È stato il principio rieducativo e la consapevolezza di dover garantire il diritto allo studio dei detenuti a orientare l’iniziativa messa in piedi in Campania e per la prima volta al Sud. “La società va oltre le mura - ha sottolineato il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello -. Chi vuole la reclusione costruisce esclusivamente mura e fili spinati. Questa possibilità offerta a detenuti e detenute dà loro la possibilità di dimostrare che si può cadere tante volte, con errori gravi, ma il coraggio di rialzarsi è fondamentale. Chi esce dal carcere, arricchito da una conoscenza e da una mentalità diversa, non torna più in carcere. E, quindi, anche la società è più sicura”. Napoli: la direttrice di Secondigliano “sogno la laurea per i miei detenuti” La Repubblica, 5 marzo 2019 Università in carcere, Giulia Russo: “Nel 2018 in 27 si sono diplomati, con polo universitario c’è stato un effetto moltiplicatore”. “Io sogno, anzi credo, che un mio detenuto possa laurearsi dopo aver seguito un corso durante la detenzione. Penso ai sorrisetti beffardi quando si iniziò a parlare di istruzione superiore eppure, solo nello scorso anno, ben 27 detenuti di Secondigliano si sono diplomati”. È entusiasta Giulia Russo, direttore del penitenziario Pasquale Mandato di via Roma verso Scampia a Napoli, nel presentare l’avvio dell’anno accademico anche per i detenuti di Secondigliano. Ben 54 ospiti della struttura sui 1357 presenti hanno scelto di iscriversi all’università da quando, a giugno dello scorso anno, furono aperte le sedi del polo universitario penitenziario, due sezioni del carcere di Secondigliano, la Ionio per i detenuti in regime di alta sicurezza e la Mediterraneo per quelli di media sicurezza, dove ci sono spazi aperti per studiare e incontrare tutor e docenti. “Questo polo - spiega Russo - significa moltiplicare a livello regionale i successi ottenuti garantendo il diritto allo studio, e a conseguire un titolo d’istruzione superiore, ai detenuti di Secondigliano. L’istituzione dimostra di credere nella possibilità, reale e concreta, di una ripresa dei ristretti dalla e per la società. È un discorso di accomunamento di interessi ma è quanto mai importante che il detenuto finalmente si senta creduto nella sua volontà di riabilitarsi, di tornare nella società civile con un progetto nuovo. I detenuti hanno leso un patto sociale, noi dimostriamo loro di credere che quella lesione può essere rimarginata”. Napoli: il Cardinale Sepe “garantire i diritti dei detenuti, non è elemosina” Il Denaro, 5 marzo 2019 “I detenuti hanno il diritto di avere questo e altri sussidi. Non si tratta di elemosina ma di dare a queste persone quello che è loro dovuto”. Parola dell’arcivescovo metropolita di Napoli, Crescenzio Sepe, intervenuto nel carcere di Secondigliano all’inaugurazione dell’anno accademico del polo universitario penitenziario della Campania, il primo del Sud Italia. “Questo polo è un esempio formidabile di come, con la concretezza, si passa dalle parole ai fatti - ha detto il cardinale Sepe. Il tempo trascorso in carcere, se è rieducativo, permette a queste persone di riacquistare la propria dignità. E la cosa più bella di tutte è rieducare tramite la cultura: permette a questi nostri fratelli di reinserirsi nella società”. Sepe ha più volte rimarcato l’importanza del “coraggio” dell’università di Napoli Federico II e dell’istituto penitenziario nel portare avanti il progetto del Polo universitario, che quest’anno coinvolge 67 detenuti di tutte le età. “Non sono soltanto i giovani a frequentare i corsi - ha ricordato Marella Santangelo, professore di progettazione architettonica dell’università Federico II e delegato del rettore al polo universitario penitenziario - ma persone di tutte le età, con storie e propensioni diverse. Noi abbiamo voluto puntare tutto su un concetto importante: i detenuti per noi non sono studenti di serie B, sono studenti esattamente come tutti gli altri, con la stessa dignità”. Milano: al via il primo bilancio partecipativo in un carcere italiano Redattore Sociale, 5 marzo 2019 A Bollate i 1.200 detenuti parteciperanno al progetto “Idee in fuga”: proporranno e voteranno interventi e iniziative per migliorare l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Verranno poi realizzati grazie a una raccolta fondi tra i cittadini “liberi”. Se ne parlerà a “Fà la cosa giusta!”. Nel carcere milanese di Bollate sta per partire un progetto di bilancio partecipativo, che coinvolgerà i 1.200 detenuti. Proporranno e voteranno interventi e iniziative per migliorare l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Interventi che verranno realizzati grazie a una raccolta fondi tra i cittadini “liberi”. Il progetto, “Idee in fuga”, è il primo in Italia ed è curato dall’associazione BiPart. Se ne parlerà a Fà la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, organizzata da Terre di mezzo dall’8 al 10 marzo nei padiglioni di Fieramilanocity. Interverranno, tra gli altri, la nuova direttrice del carcere di Bollate, Cosima Buccoliero, e l’imprenditore testimonial del progetto Primo Barzoni di Palm. Nelle prossime settimane intanto i detenuti si incontreranno in assemblea per elaborare le proposte di miglioramento del proprio carcere. Quelle più condivise saranno progettate e votate da tutta la comunità carceraria che sceglierà quelle prioritarie. “Gli obiettivi del progetto sono favorire la contaminazione cross-mediale -spiegano gli organizzatori- e riuscire a rendere accessibili temi delicati e complessi, spesso male interpretati e semplificati a danno di una convivenza civile: la detenzione come pena rieducativa e non come vendetta; la democrazia come metodo di cooperazione e non di competizione; la partecipazione come pratica di comunità e non di lotta; la libertà come apertura al prossimo e non come chiusura egoistica”. Grazie a “Idee in fuga” inoltre sarà possibile “avviare un processo di cittadinanza attiva in un luogo dove la cittadinanza è sospesa” e “creare relazioni positive tra detenuti, tra i detenuti e le istituzioni e tra i detenuti e noi”. L’Associazione “AI - Autori di immagini” è il primo partner che ha ideato la prima iniziativa a supporto del progetto, organizzando una raccolta di illustrazioni e grafiche a tema. Gli artisti invitati a partecipare hanno interpretato i concetti chiave alla base del progetto con un manifesto illustrato. Grazie alla realtà aumentata e virtuale, le opere sono “animate” dai video degli autori che spiegano la ragione della loro adesione al progetto Idee in fuga. Le illustrazioni, che comporranno una mostra, sono esposte negli spazi di Base Milano fino al 6 Marzo. Torino: il Comune di contro il taser, approvato odg promosso da Antigone Ristretti Orizzonti, 5 marzo 2019 Questo pomeriggio il Comune di Torino ha approvato un ordine del giorno promosso da Antigone contro la dotazione del taser al corpo di Polizia Locale. Una possibilità introdotta dal recente Decreto Salvini su sicurezza e immigrazione per le città con oltre 100.000 abitanti. Torino diventa così la seconda città dopo Palermo, la prima a guida 5 stelle, ad approvare un ordine del giorno in tal senso. “Nelle settimane successive all’approvazione del DL Salvini - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - abbiamo inviato a tutti i sindaci e i consiglieri delle città con oltre 100.000 abitanti una proposta di ordine del giorno affinché non si dotassero gli agenti della polizia locale di quest’arma potenzialmente letale, come ci dimostrano le esperienze dei paesi dove è già in uso, dove oltretutto viene spesso usato come alternativa ad altri strumenti, quali il manganello, e non alle armi da fuoco”. A Torino questa proposta è stata raccolta dai consiglieri del Partito Democratico Enzo Lavolta e di Torino in Comune-La Sinistra Eleonora Artesio, e condivisa dal Movimento 5 Stelle e dalla Sindaca Chiara Appendino. Alla fine i voti a favore sono stati 26. “Siamo felici che Torino abbia deciso di essere una città no taser - dice ancora Gonnella. Ci auguriamo che anche le altre città seguano questo esempio e, ancor di più, che questo sia un segnale affinché la sperimentazione del taser in dotazione alle forze dell’ordine, iniziata lo scorso settembre in dodici città, non si allarghi e venga anzi bloccata”. L’ordine del giorno è già stata presentato a Milano, dalla consigliera di Milano Progressista Anita Pirovano, dove è in attesa di essere discusso. Sulmona: nuovo padiglione del carcere per 200 detenuti pronto entro il 2020 di Luca Pompei rete8.it, 5 marzo 2019 Proseguono a ritmo serrato i lavori per la costruzione del nuovo padiglione penitenziario in quel del carcere di piazzale vittime del dovere. I primi moduli prefabbricati sono arrivati presso la struttura e presto saranno montati. Entro Luglio dovrebbero completarsi le operazioni della loro posa in opera salvo poi passare alla fase di completamento. Entro la metà del 2020 dovrebbe essere pronta quella che sarà una struttura avveniristica e capace di ospitare, secondo i parametri imposti dalla sentenza Cedu, ulteriori 200 detenuti. “Cauta soddisfazione esprimo per quella che, se sfruttata al meglio, consentirà a non meno di 40 operatori penitenziari, oltre a tutti i neo vice ispettori di stanza al supercarcere cittadino e per i quali la Uil si augura la loro permanenza in sede, di giungere in terra peligna - scrive in una nota Mauro Nardella Segretario Generale Territoriale Uil Pa Polizia Penitenziaria - l’auspicio è che l’Amministrazione penitenziaria prenda atto della disponibilità della città di Sulmona ad “accettare” centinaia di detenuti in più purché ne guadagni in termini demografici e istituzionali. Non sarebbe male, a tal proposito, prevedere la rivisitazione in positivo delle piante organiche anche degli altri corpi di polizia atteso che maggiorata sarà la presenza di trasferimento di detenuti e di familiari degli stessi per via della loro chiamata ai colloqui settimanali. Va da sé che anche il restante corpo istituzionale cittadino (vedasi mantenimento nonché potenziamento del tribunale ad esempio) non potrà non tenere conto di ciò. Invitiamo quindi tutti gli attori protagonisti della scena amministrativa cittadina a prenderne atto e a far propria una realtà che, se impostata bene, potrà portare un respiro demografico ed economico ad una città che tutto merita fuorché quello di continuare a vivere uno stillicidio di continue privazioni”. Siracusa: migliorare la sicurezza del carcere, interrogazione M5S al ministro Bonafede di Gianni Catania siracusaoggi.it, 5 marzo 2019 “Abbiamo presentato un’interrogazione che chiede al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di intervenire per garantire maggiori condizioni di sicurezza nel carcere di Siracusa”. Così i deputati del Movimento Cinque Stelle Maria Marzana, Paolo Ficara, Filippo Scerra e Gianluca Rizzo cofirmatari dell’atto parlamentare (primo firmatario Eugenio Saitta). “Alla casa circondariale di Siracusa è stato aggiunto un nuovo padiglione e il numero di detenuti è passato da 400 a 600 unità, ma il personale penitenziario è rimasto pressoché invariato. Risulta così del tutto inadeguato a garantire gli standard di sicurezza. Inoltre i molti detenuti stranieri richiedono una maggiore disponibilità di mediatori linguistici, come occorre un maggior numero di educatori e professionisti della rieducazione al fine di favorire il reinserimento sociale e lavorativo di tutti i detenuti”, aggiungono in una nota. “Le risse fra detenuti e le aggressioni nei confronti degli agenti che si sono verificati nei mesi scorsi rendono evidente l’urgenza con cui è doveroso intervenire per risolvere i problemi denunciati ormai da tempo. La nostra interrogazione ha lo scopo di sollecitare il Governo a un intervento per affrontare la carenza di personale e aumentare così le condizioni di sicurezza della struttura”. Velletri (Rm): carenza di personale al reparto psichiatrico del carcere, appello al Governo ilcaffe.tv, 5 marzo 2019 Il sindacato Sippe di polizia penitenziaria rende noto il testo della lettera inviato al ministro della Salute. Occorre con estrema urgenza un suo intervento sulla cattiva gestione della Sanità nel Pianeta Carcere. Purtroppo, il passaggio della Medicina penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute si sta rilevando problematica in molti Istituti penitenziari. Nel carcere di Velletri ad esempio, con una capienza attuale di circa 585 detenuti, nonostante, ogni mattina prestano servizio cinque medici (mentre le figure infermieristiche sono al di sotto della pianta organica prevista) nessuno si pone il problema di garantire il sevizio sanitario h24 anche al nuovo Padiglione D che attualmente ospita la media di presenze dai 225 ai 264 detenuti. Sempre, nel penitenziario di Velletri, ad aggravare ancora di più la situazione è stata l’apertura del nuovo Repartino Psichiatrico senza assegnare tutte le figure professionali previste e sufficienti per garantire il servizio sanitario h24. Secondo le disposizioni interne emanate, infatti il repartino Psichiatrico oggi è gestito da un solo Psichiatra e infermiere, ed entrambi dovrebbero garantire la loro presenza dal lunedì al sabato solo dalle ore 8 alle 14 per poi fare ricadere la gestione del reparto al medico di guardia. Mentre il personale di Polizia Penitenziaria, addetto al controllo detenuti, garantisce il servizio dal lunedì al sabato dalle ore 8 alle 14 e dalle ore 14 alle 20 - mentre domenica solo dalle ore 8 alle 14 - per poi fare ricadere il servizio sull’ Agente responsabile della sezione affiancata al repartino. Oltre al danno anche la beffa, dal 2008 ad oggi, nonostante le promesse e il contenuto del Dpcm del 1 aprile 2008 non esiste ancora una stabilizzazione ed un inquadramento delle figure professionali sanitarie; attualmente la quasi totalità è precaria con incarichi solo di qualcuno mensile, altri trimestrale e i più fortunati annuale. Al fine di evitare che accada il peggio per poi intervenire, si chiede alla S.V. di trovare con estrema urgenza una soluzione alle problematiche esposte; soprattutto per evitare il rischio del turismo penitenziario presso le strutture sanitarie esterne a causa dei frequenti ricoveri/visite dei detenuti che sono all’ordine del giorno, causando ulteriore difficoltà lavorativa. Foggia: indumenti ai detenuti coi diritti di “Colpevoli”, il libro di Annalisa Graziano immediato.net, 5 marzo 2019 Affidati ai volontari dell’Ass. Genoveffa de Troia per tamponare le emergenze. L’autrice: “Sono certa che i ristretti che hanno collaborato al volume condivideranno la scelta, spero lo facciano anche i lettori, ai quali dovevo trasparenza”. Intanto, sono partiti i progetti del Bando Carcere 2018 “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” continua il suo viaggio. Il volume, che racconta storie di detenuti del penitenziario foggiano e di affidati dell’Uiepe, realizzato con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia e in collaborazione con il Csv Foggia, ritorna nella Casa Circondariale, in altra veste. L’autrice, la giornalista Annalisa Graziano (nel riquadro in alto) - come riportato nella quarta di copertina del libro - aveva rinunciato ai diritti d’autore in favore di attività di volontariato in carcere. Nei giorni scorsi, dopo l’accredito da parte della Casa Editrice la Meridiana dei diritti maturati nel 2017, è stata effettuata la donazione. “Dopo un confronto con la Direzione e con l’Area Trattamentale - si legge nella lettera inviata al Carcere - considerando il numero crescente di detenuti indigenti che posseggono solo gli abiti indossati al momento dell’arresto, si è pensato di utilizzare i fondi derivanti dai diritti del 2017 per incrementare il magazzino vestiario della Casa Circondariale, gestito dai volontari dell’Ass. Genoveffa de Troia di Foggia. Ho consegnato gli indumenti necessari ai volontari che, nei prossimi giorni, li porteranno in Istituto”. Genoveffa de Troia è una delle numerose associazioni che operano, con impegno e silenziosamente, da molto tempo, all’interno degli Istituti Penitenziari di Capitanata. Basti pensate che, nel corso del 2018, sono stati dieci i progetti approvati nell’ambito del “Bando Carcere 2018” del Csv Foggia, finanziati grazie al sostegno della Fondazione dei Monti Uniti. Nel carcere di Lucera, ad esempio, saranno realizzati un “Seminario su uomini che agiscono violenza domestica” con l’Ass. Impegno Donna di Foggia e un laboratorio di scrittura creativa con Lavori in corso di Lucera; nel dicembre scorso, la Fidas Dauna di San Marco in Lamis ha organizzato l’evento “Zampogna e ciaramella a spasso per le vie della tradizione”. A San Severo sarà attivato un “Laboratorio pasticceria e orto” grazie all’Ass. Caritas Incontro. A Foggia sono in corso i progetti “Lib(e)ri dentro” di Leggo Quindi Sono di Foggia; “L’arte del riciclo” della Confraternita di Misericordia di Foggia e “Teatro senza confini” dell’Ass. Terra senza Confini di San Giovanni Rotondo. Partiranno nelle prossime settimane “Artiviamo la fantasia” dell’Ass. Genoveffa de Troia; “Clown dottori dentro” de Il Cuore Foggia e “Tecniche di cucito” di Fovea. È stato inoltre attivato, anche per il 2019, il Fondo solidale dell’ARCI Solidarietà Foggia. Le risorse economiche messe a disposizione del CSV Foggia sono state depositate su un conto corrente dedicato dell’associazione, che lo ha versato al Carcere. Dall’Ufficio Ragioneria della Casa Circondariale saranno movimentate, di volta in volta, le somme da destinare ai detenuti per i quali è riconosciuta, dal personale dell’Istituto, la necessità. “Il fondo - spiegano dal CSV - è destinato a soddisfare bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in stato di grave indigenza, quali l’acquisto di farmaci di fascia C, pagamenti di ticket sanitari, telefonate ai familiari”. “Alcuni detenuti, sia italiani che stranieri - sottolinea Annalisa Graziano - non possiedono nemmeno un paio di scarpe o l’accappatoio per fare la doccia; manca l’intimo. Il CSV Foggia, con i volontari e il cappellano, ha promosso una raccolta di abiti usati. Purtroppo, alcuni devono essere scartati perché in cattive condizioni o incompatibili con le norme di sicurezza. E poi ci sono indumenti - come l’intimo, appunto - che non possono essere riutilizzati: è una questione di dignità. Per questo ho accolto l’invito della direzione e dell’Area trattamentale - che ringrazio per la disponibilità - di investire i diritti di ‘Colpevolì in questo modo, anche in considerazione del fatto che molti progetti sono già partiti o in corso. Sono certa che i ristretti che hanno collaborato al volume condivideranno la scelta, spero lo facciano anche i lettori, ai quali dovevo trasparenza. Per i diritti degli anni successivi valuteremo al momento opportuno. Intanto, vorrei ricordare che è possibile consegnare abiti usati in buono stato nella sede dell’Ass. Genoveffa de Troia, in via Napoli n. 111 (accanto al CUS Foggia), nelle giornate di martedì e giovedì, dalle ore 9.30 alle 12.30. La raccolta non si ferma”. L’illusione di “buttare la chiave” per sentirsi più sicuri di Valentina Stella Il Dubbio, 5 marzo 2019 “Liberi dentro. cambiare è possibile, anche in carcere” il libro di Ezio Savasta. Il carcere accoglie “un grande capitale umano sepolto, valorizzato male. Molti pensano che quel capitale “non è umano” e che la soluzione sarebbe quella di “buttare la chiave”, così tutti sarebbero “più sicuri”. Un’allucinazione, un’illusione venduta bene” : queste le righe iniziali della sferzante e profonda introduzione che Mario Marazziti, già portavoce della Comunità di Sant’Egidio, fa a Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere di Ezio Savasta (Infinito Edizioni, 2019, pagine 192, euro 14). L’autore, grazie ai suoi 25 anni trascorsi per libera scelta in carcere quale volontario della Comunità, descrive le grandi e piccole contraddizioni delle giornate nelle nostre carceri, cerca di smontare i luoghi comuni e lascia il lettore appassionarsi a vicende che paiono quasi incredibili. È sempre utile parlare di carcere, quel luogo invisibile agli occhi - perché separato da muri e recinzioni - e alla coscienza - perché, fin quando non ci tocca, coloro che vi soggiornano non sono altro che membri di una cantina sociale. Savasta, invece, scrive che “l’uomo recluso ritrova energie vitali nell’incontro con chi “viene dalla libertà”. Noi che visitiamo i detenuti possiamo promuovere un processo di riconciliazione, in quanto espressione di una società che non manifesta sentimenti ostili verso chi ha commesso errori, ma ha l’autorevolezza, la maturità e il coraggio di andare incontro a chi ha sbagliato. Non ci sentiamo orgogliosamente giusti, cerchiamo piuttosto di vivere quei sentimenti di partecipazione che papa Francesco ha espresso molto bene, incontrando i carcerati, nel Giubileo della Misericordia: “Perché loro e non io?”. È una domanda da farsi sempre”. Scorrendo i dieci capitoli del libro ci si imbatte in tante storie, che neanche l’immaginazione può spesso produrre; come quella di un detenuto che è mancato ad un colloquio per un motivo surreale: “Mi ero lavato i vestiti - mi confessò -, gli unici che ho, e sono rimasto tutto il giorno, nudo, sotto le coperte, aspettando che si asciugassero”. Oppure quella sui dolci, che non soni mai previsti nel vitto. “Chi non ha risorse - scrive Savasta - trascorre anche mesi senza poter assaggiare qualcosa di dolce. I primi tempi non capivo la festa che mi facevano i detenuti quando, durante i colloqui, offrivo loro cioccolatini, caramelle, biscotti”. E poi c’è Giulio, lo scrivano di Regina Coeli: “Gli altri detenuti lo chiamano familiarmente “zio”, lo rispettano e gli sono grati per il grande lavoro che svolge in loro favore. Passa il suo tempo a scrivere istanze agli avvocati e ai giudici per chi, per ristrettezze economiche, non ha un’adeguata difesa legale. È colto, è abile, è molto documentato e competente”. E ancora Said, finito una seconda volta in carcere per sbaglio, e Petru, diacono della Chiesa ortodossa romena, in carcere con l’accusa, forse fatta per vendetta, di violenza sessuale nei confronti della moglie, che lo aveva tradito con un poliziotto. I destini di queste e altre persone si sono incrociati con quelli di Savasta, hanno percorso un cammino insieme, fatto di ostacoli ma anche di catarsi e riappropriazione della propria vita all’interno di una società accogliente e non respingente. La speranza dell’autore è che al termine della lettura “quando passerete vicino alle mura di un carcere, sarete più consapevoli di quanta umanità è rinchiusa dietro quelle sbarre”. Il vittimismo nazionale che ci allontana dal mondo di Mauro Magatti Corriere della Sera, 5 marzo 2019 Le forze ora al governo sono riuscite a trasformare l’Unione Europea in nemica, accusata di essere un soggetto esterno che impoverisce il nostro Paese. Quando nel corso degli anni 90 si sviluppò il dibattito attorno alla decisione di entrare nell’euro, gli europeisti riuscirono a convincere l’opinione pubblica che un vincolo esterno avrebbe giovato all’Italia, aiutandola a risolvere alcuni dei suoi mali endemici: bassa produttività, inefficienza amministrativa, disordine di bilancio. In buona sostanza, l’Europa venne presentata come una medicina, magari un pò amara ma necessaria, che avrebbe permesso di curare il Paese da se stesso. Il governo Monti, fortemente sostenuto dalle istituzioni comunitarie, fu il momento in cui questa idea toccò il suo apice: si trattava, come si disse allora, di eseguire finalmente “i compiti a casa”, che il Paese si era dimenticato di fare. Nel bene nel male, quell’esperienza ha segnato uno spartiacque. Perché da Monti in poi la percezione dell’Europa è completamente cambiata. Gli italiani hanno smesso di essere europeisti e l’Unione Europea si è trasformata in nemica, accusata di essere un soggetto esterno che impoverisce il nostro Paese. Un’Europa carnefice e un’Italia vittima. Essere riusciti a cambiare così radicalmente i termini del discorso è il capolavoro politico delle forze ora al governo, che attendono le elezioni europee come un passaggio fondamentale per il loro stesso futuro. La scommessa di Di Maio e Salvini è che, dopo maggio, le politiche seguite a Bruxelles cambieranno di segno e questo permetterà al governo di proseguire sulla strada intrapresa. Se e quanto un tale calcolo si rivelerà corretto lo si vedrà. In attesa degli sviluppi, il nuovo corso politico ha già prodotto due effetti importanti che peseranno negli anni a venire. In primo luogo si è riusciti a convincere gli italiani che il Paese è nello stato in cui si trova fondamentalmente a causa di una congiura internazionale. Se siamo messi male, se abbiamo problemi con la nostra economia, se le nostre istituzioni non funzionano, ciò dipende in minima parte da noi, dai nostri difetti, dai nostri fallimenti. La causa principale va cercata all’esterno e in particolare nelle politiche europee. Ciò produce un “vittimismo nazionale” che, oltre ad alimentare una diffusa deresponsabilizzazione, favorisce la progressiva chiusura rispetto al mondo. Sempre più spesso descritto come qualcosa di cattivo e malevolo. Una china pericolosa, soprattutto quando i dati economici diventano poco rassicuranti, mettendo in discussione l’azione dell’esecutivo. Poiché, come è naturale, il fallimento è ammesso, ecco allora alzare i toni nei confronti del nemico esterno, con il rischio di un progressivo allontanamento dalla realtà. Il secondo effetto va nella direzione di rafforzare un’idea tradizionalmente molto radicata nella cultura del nostro Paese. Dove lo Stato non ha quasi mai saputo incarnare la figura paterna - che costringe all’impegno e allo sforzo del guardare avanti - esercitando piuttosto il ruolo di “madre accudente” sempre pronta a essere comprensiva nei confronti dei propri figli. Uno Stato, quindi, che dispensa benefici, anche indipendentemente dalle possibilità reali. Creando in questo modo un legame di dipendenza tra coloro che controllano i cordoni della borsa e chi riceve i benefici, trasformato da cittadino a suddito. Questo “complesso materno” dello Stato - che per una serie di ragioni storiche tende a essere particolarmente forte nel Centro Sud - deprime le energie imprenditoriali e tende a rafforzare la passività dell’economia e della società civile. Una tendenza che riemerge soprattutto quando le sfide da affrontare si fanno più impegnative e quando la componente “paterna” della statualità dà cattiva prova di sé. Tutta la retorica contro la casta - peraltro fondata su un numero sterminato di casi di corruzione e malgoverno - ha col tempo eroso la fiducia nelle istituzioni, al punto che il cittadino non si aspetta più nulla dallo Stato se non la concretezza di qualche trasferimento economico. Al fondo rimane il problema che l’Italia si rifiuta di affrontare ormai da molti decenni. Ci sono problemi negli assetti europei e certamente l’Italia ha pagato un costo molto alto per le politiche seguite in questi anni da Bruxelles. Tanto più che i governi degli ultimi 20 anni hanno fatto ben poco per proteggere gli interessi italiani nel contesto europeo. Ma detto questo, rimane il fatto che il Paese non riesce a interrogarsi su ciò che è necessario per navigare nell’oceano della globalizzazione. E tanto meno riesce a scrivere un patto tra le forze sociali capace da un lato di soddisfare i vincoli che il quadro internazionale pone in tema di efficienza e produttività e dall’altro di garantire condizioni eque di inclusione sociale e nella distribuzione della ricchezza prodotta. La cosa frustrante è che, da questo punto di vista, il “governo del cambiamento” non ha cambiato proprio nulla. Anzi, il richiamo al “vittimismo nazionale” e il ritorno del “complesso materno” rendono oggi l’Italia ancor meno consapevole e preparata di fronte alle sfide che le si parano davanti. Commissione Europea. “Disinformazione, situazione preoccupante” di Luca Geronico Avvenire, 5 marzo 2019 I social devono fare di più. I primi rapporti di Facebook, Google e Twitter non rispettano il Codice di condotta contro la disinformazione. Già rimossi oltre 300 account “legati a dipendenti di Sputnik”. “Le campagne elettorali in vista delle europee inizieranno a marzo”, pertanto “incoraggiamo le piattaforme online ad accelerare i loro sforzi, poiché siamo preoccupati per la situazione. Invitiamo dunque Facebook, Google e Twitter a fare di più in tutti gli Stati membri per contribuire a garantire l’integrità delle elezioni a maggio 2019”. Il richiamo viene dal vicepresidente della Commissione europea Andrus Ansip, assieme a Vera Jourova, commissario alla Giustizia, Julian King, commissario per l’unione della sicurezza e Mariya Gabriel, commissario europeo per l’economia e la società digitale. Un monito, in occasione della pubblicazione dei rapporti delle tre piattaforme sui progressi compiuti da gennaio scorso e sui loro impegni per continuare a combattere la disinformazione. Facebook, Google e Twitter sono infatti firmatarie del Codice di condotta contro la disinformazione e sono state invitate a riferire ogni mese sulle loro azioni prima delle elezioni del Parlamento europeo nel maggio 2019. La Commissione, con tale accordo, ha chiesto alle piattaforme di ricevere dettagliati rapporti in modo da poter monitorare la collocazione della pubblicità on-line, la trasparenza della propaganda politica, la chiusura degli account falsi e la segnalazione dei “bot”, i programmi che simulano messaggi prodotti da utenti umani. Un Codice che, nonostante le dichiarazioni di intenti, risulta in parte disatteso. La Commissione precisa che Facebook, per quanto riguarda il mese di gennaio, non ha specificato le iniziative intraprese per monitorare i posizionamenti degli annunci pubblicitari dopo che aveva annunciato entro marzo l’istituzione di un archivio paneuropeo per la pubblicità politica. Il rapporto fornisce un aggiornamento sui casi di interferenza da parte di Paesi terzi negli Stati membri dell’Ue, ma non riporta il numero di account falsi rimossi per attività ostili all’Unione europea. Facebook, si legge nel rapporto trasmesso alla Commissione, ha rimosso in gennaio 364 pagine e account “legati a dipendenti di Sputnik, un’agenzia di stampa con sede a Mosca”. Alcune delle pagine “postavano con frequenza commenti su argomenti come sentimenti contrari alla Nato, movimenti di protesta e anticorruzione”. Gli account e le pagine rimosse erano attivi “come parte di una rete che aveva origine in Russia e operava nei Paesi Baltici, Asia Centrale, Caucaso e Paesi dell’Europa Centro Orientale”. Facebook ha pure rimosso 783 pagine, gruppi e account legati all’Iran e 207 pagine Facebook, 800 account, 546 gruppi e 208 account Instagram attivi in Indonesia, legati al gruppo indonesiano Saracen. Google, afferma sempre la Commissione, ha fornito i dati sulle azioni messe in campo nel mese di gennaio per controllare i posizionamenti degli annunci nell’Ue suddivisi per Stato membro. Tuttavia, le cifre “non sono sufficientemente specifiche” e “non chiariscono la portata delle azioni intraprese” contro la disinformazione e contro la pubblicità ingannevole. Secondo la Commissione, Twitter non ha fornito alcun parametro sui propri impegni per migliorare il controllo dei posizionamenti degli annunci. Sulla trasparenza degli annunci politici, contrariamente a quanto annunciato a gennaio, ha rinviato la decisione fino al rapporto di febbraio. E sull’integrità dei servizi erogati “non ha riferito sui dati per misurare i progressi fatti”. Prostituzione. La Corte costituzionale decide se legalizzare il favoreggiamento di Elena Tebano Corriere della Sera, 5 marzo 2019 La Corte Costituzionale domani dovrà valutare se i reati di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione previsti dalla legge Merlin violano i diritti delle prostitute. La questione è stata sottoposta alla Consulta dalla Corte di appello di Bari nell’ambito del processo sulle escort presentate tra il 2008 e il 2009 dall’imprenditore Gianpaolo Tarantini all’allora premier Silvio Berlusconi. Al di là della particolare vicenda processuale, la pronuncia potrebbe avere conseguenze sulle modalità in cui può avvenire la prostituzione in Italia. Nell’udienza di domani verranno sentite anche alcune associazioni femministe, che si oppongono all’abrogazione dei due reati sotto esame. Su posizioni opposte è invece l’ associazione italiana delle lavoratrici del sesso, il Comitato per i diritti civili delle prostitute, che da decenni chiede di legalizzare il favoreggiamento della prostituzione. Le parti “dubbie” della legge Merlin - La Corte di appello di Bari ha chiesto ai giudici costituzionali di stabilire se, di fronte al “fenomeno sociale della prostituzione professionale delle escort” e cioè “in un contesto operativo sgombro da costrizioni” per chi si prostituisce, il divieto di reclutamento e favoreggiamento sia una violazione del “principio della libertà di autodeterminazione sessuale della persona umana; libertà che si estrinseca, nel caso delle escort, attraverso il riconoscimento del loro diritto di disporre della sessualità nei termini contrattualistici dell’erogazione della prestazione sessuale contro pagamento di denaro o di altra compatibile utilità”. Secondo i magistrati baresi, infatti, “il concetto di inviolabilità del diritto alla consapevole e libera autodeterminazione sessuale” riguarda “anche quello delle escort” allo “scambio tra fisicità e lucro”. “Il caso su cui deve pronunciarsi la Corte costituzionale non coinvolge le vittime della tratta e della prostituzione coatta, ma una bassissima percentuale di persone che si prostituiscono in modo volontario e consapevole” spiega Nicola Quaranta, legale di Tarantini che, insieme con Ascanio Amenduni, avvocato di Massimiliano Verdoscia, ha posto la questione nel procedimento. “Riteniamo - prosegue Quaranta - che la prostituzione sia l’esercizio libero e consapevole della propria sessualità, riconosciuto dalla Costituzione. Ed è quindi sbagliato che la sanzione penale si abbatta su chi agevola le escort in questo esercizio, che di per sé non è illecito. Non chiediamo però la riapertura delle case chiuse. Né i protettori rimarranno impuniti: l’agevolazione o il reclutamento di soggetti non liberi, sottoposti a prostituzione coatta, verrebbero ancora sanzionati”. I legali di Tarantini e Verdoscia non hanno agito per semplice amor di diritto: se i reati di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione venissero dichiarati incostituzionali cadrebbe il processo (ora sospeso) nei confronti dei quattro imputati già condannati a Bari in primo grado a vario titolo per reclutamento e favoreggiamento della prostituzione a pene fino a 7 anni e 10 mesi di reclusione: oltre a Tarantini e Verdoscia, Sabina Began e il pr milanese Peter Faraone. Dubbi sulla costituzionalità delle norme erano stati sollevati dalla difesa anche in un analogo processo milanese a Emilio Fede e Nicole Minetti. Ma i giudici della Corte di appello di Milano li hanno trovati infondati, sostenendo che l’attività delle escort, anche se scelta liberamente, è “in contrasto con la tutela della dignità della persona umana” protetta dalla norma che punisce l’”agevolazione della prostituzione”. Le rivendicazioni delle lavoratrici del sesso - L’istanza posta dalle difese a Bari fa propria una richiesta tipica delle lavoratrici del sesso. “Sono quasi 40 anni che noi, con il Comitato per i diritti civili delle prostitute, chiediamo di abolire il reato di favoreggiamento della prostituzione (che è diverso da quello di sfruttamento) perché ha come conseguenza l’isolamento delle sex workers - racconta la fondatrice dell’associazione Pia Covre -. In passato per esempio non era possibile affittare un alloggio per lavorare da sole, perché il proprietario era imputabile di favoreggiamento. Lo stesso succedeva se due donne per proteggersi lavoravano insieme: venivano denunciate ognuna per il favoreggiamento dell’altra. Poteva accadere persino a chi vendeva loro i preservativi. Il reato di favoreggiamento ha conseguenze molto pesanti nella vita di chi fa questo lavoro, anche se, grazie a una serie di sentenze che si sono susseguite negli anni, le cose sono in parte già cambiate”, aggiunge Covre. Le richieste del Comitato presieduto da Covre si basano sull’idea che il lavoro sessuale sia un’attività economica al pari di qualsiasi altra e che quindi non debba essere contrastata. In Europa ci sono Paesi, come la Germania, la Svizzera o l’Olanda, che hanno scelto di consentire a “manager” o “imprenditori” di trarne profitto gestendo bordelli e agenzie di escort. Altri, come la Svezia, vietano la prostituzione perché la ritengono contraria alla dignità umana e per combatterla perseguono i clienti. La prostituzione legale in Italia - L’Italia segue una sorta di terza via. “Nel nostro codice la prostituzione non è reato - spiega la magistrata del Tribunale di Roma Paola di Nicola, autrice per Giuffrè (con Vittoria Bonfanti) del volume I reati in materia di prostituzione -. La legge Merlin è nata con l’idea che la persona che si prostituisce è la parte debole, da tutelare. All’epoca della sua approvazione, nel 1958, le prostitute erano vittime di una vera e propria forma di schiavitù strutturata nel sistema delle case chiuse”. Considerate cittadine di serie B, non avevano pieni diritti civili. “Nella logica della legge Merlin, aiutare chi si prostituisce in modo libero, autonomo e indipendente, significa aiutare una persona che non sta commettendo un reato. Secondo la stessa logica, il favoreggiamento deve essere punito quando quella persona non è libera, ma indotta da altri alla prostituzione. Nell’interpretazione della legge la magistratura già tiene conto di questa differenza: il favoreggiamento non è punito, perché non è reato, se è un aiuto alla persona che si prostituisce, diventa reato se è aiuto alla prostituzione” chiarisce Di Nicola. “Nelle aule di giustizia di fatto si persegue solo lo sfruttamento, che si ha quando lo sfruttatore ottiene un vantaggio economico dalla prostituzione di un’altra persona. Il caso tipico di “favoreggiamento” non più punito- racconta Di Nicola - è quello di un cliente che riaccompagna la prostituta dopo la prestazione, per non farle prendere l’autobus da sola alle cinque di mattina. In base allo stesso principio, affittare un appartamento a una prostituta a una somma superiore a quello di mercato viene considerato sfruttamento, ma non se il prezzo è in linea con quelli di mercato”. In tutto ciò una delle questioni essenziali rimane capire quando la prostituzione è esercitata in maniera “libera e autonoma”. Secondo la giudice Di Nicola, quasi mai: “Le donne che si prostituiscono sono quasi tutte vittime di tratta; tutto il fenomeno è controllato dalla criminalità organizzata, sia che si svolga in sauna o in una sala massaggi, che in un’agenzia di escort, che in strada sulla Tiburtina. E i clienti, che vedono i lividi sul corpo di una ragazzina romena o nigeriana, non possono non sapere che ci sono violenze sistematiche”. Le femministe contrarie (ma non tutte) - Che non esista di fatto prostituzione libera è anche la posizione delle otto associazioni di donne che verranno ascoltate dai giudici costituzionali nell’udienza di domani. E che sono contrarie all’idea di abrogare il reato di favoreggiamento o reclutamento della prostituzione: “Farebbe sì che si possano sfruttare le donne, senza questi reati il passaggio è velocissimo - dice Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna, una delle organizzazioni che interverranno alla Consulta -. Noi assistiamo molte donne in uscita dalla prostituzione: sono tutte vittime di tratta e ci dicono che prostituirsi non è mai una libera scelta”. È vero anche per le escort coinvolte nel processo di Bari, in maggioranza italiane e che lavorano autonomamente? “Il punto è se la prostituzione può essere considerata uno strumento di emancipazione. Secondo noi no: è la più antica forma di violenza contro le donne perché struttura sempre un potere impari - spiega Ercoli -. Nella prostituzione l’uomo è il soggetto della sessualità mentre la donna cede il proprio corpo per il godimento di qualcun altro. È una relazione troppo impari”. Una posizione che però non è condivisa da tutte le associazioni femministe: alcune sono a favore del diritto delle lavoratrici del sesso di decidere cosa fare con il proprio corpo. I fautori della decriminalizzazione - C’è infine chi critica le ricadute dell’approccio proibizionista sulle persone (un particolare le donne) che si prostituiscono. “Le leggi che aumentano il livello di criminalizzazione di questo settore hanno un impatto negativo sulle condizioni delle persone che si trovano a vendere sesso, che sia per forza, per scelta, o come nella maggior parte dei casi, per circostanza - spiega Giulia Garofalo Geymonat, ricercatrice di scienze sociali e autrice di Vendere e comprare sesso (Il Mulino) -: allontanano le persone che vendono sesso dalle istituzioni e dai servizi, le spingono in clandestinità e moltiplicano la loro dipendenza nei confronti di intermediari e criminali”. Depenalizzate però non significa tornare al vecchio sistema delle case chiuse, che invece si basava sulla cosiddetta regolamentazione repressiva. “La lotta allo sfruttamento, alla prostituzione forzata e in particolare alla tratta delle donne migranti (stimata in Europa a circa il 10% del mercato) è efficace solo se da un lato si promuovono percorsi di emancipazione e fuoriuscita, alternative lavorative e di vita, e, dall’altro, per chi comunque continuerà a usare il lavoro sessuale come fonte di reddito, favorendo forme di prostituzione che riducano concretamente i rischi violenza, sfruttamento e stigmatizzazione (attraverso l’autoorganizzazione delle lavoratrici del sesso in cooperative, per esempio) e comunque sempre in collaborazione con le associazioni che nel settore della lotta allo sfruttamento e alla tratta operano già dagli anni 80”. La Corte costituzionale e la politica - Adesso la parola passa ai giudici costituzionali. Con molta probabilità ci vorranno alcune settimane prima che arrivi la sentenza. Il loro sarà un giudizio tecnico, basato sul diritto. Un’indicazione politica è arrivata invece il 26 febbraio 2014 dal Parlamento europeo, che in una risoluzione ha definito la prostituzione è “una inequivocabile e terribile violazione della dignità umana” e raccomandato “di considerare colpevole l’acquirente”, come avviene appunto in Svezia (ma non nel nostro Paese). Al contrario, in Italia, esponenti del governo hanno parlato della possibilità di riaprire le case chiuse, primo tra tutti il vicepremier Matteo Salvini. Regno Unito. Apre la prima sezione carceraria per transessuali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2019 Nel 2010 era stato finanziato il progetto per l’apertura di una struttura dedicata a Empoli. Sono 58 i transessuali detenuti, tutti in istituti maschili nell’ultima relazione il garante ha espresso l’opinione che sia più congruo ospitarli in quelli femminili. Apre in Gran Bretagna la prima sezione all’interno di un carcere dedicata esclusivamente alle detenute transgender. Non un carcere dedicato a loro, come viene riportato in numerosi quotidiani, ma, appunto, una sezione specifica. Questa iniziativa nasce dall’esigenza di proteggere le detenute transessuali da altri detenuti, perché in Inghilterra si sono verificati casi di numerosi incidenti come la vicenda di Tara Hudson, che è stata messa in una prigione maschile, dove ha detto di essere stata trattata “come una bestia allo zoo”. Secondo il Times, che rivela l’iniziativa, sarebbe il primo carcere di questo tipo in tutta Europa. Ma non è vero, visto che si tratta della creazione di sezioni, per altro, già esistenti in Italia. Il quotidiano londinese poi aggiunge che il nostro Paese ha recentemente considerato l’ipotesi di aprirne uno, ma il progetto non è andato ancora avanti. In realtà, un conto è aprire un carcere ad hoc, l’altro di aprire sezioni dedicate. La questione è un pò più complicata e riguarda la criticità delle sezioni dedicate alle detenute trans che non di rado rischiano di creare un isolamento, quindi una doppia pena. In Italia è verissimo che era in progetto l’apertura di aprire uno per questa tipologia di detenuti. Nel 2010, ad Empoli, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la Casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso. Ma nulla di fatto. Come detto, in realtà, esistono sezioni dedicate, ma hanno creato delle problematiche. Nel 2017 è stata chiusa la sezione “Vega” del carcere di Rimini. La svolta c’è stata dopo il tentato suicidio, avvenuto giovedì scorso, da parte di una delle due detenute transessuali. Era finita overdose di farmaci e fu trasportata d’urgenza all’ospedale ‘ Infermì di Rimini. Si era salvata per un pelo, grazie soprattutto al tempestivo intervento della Polizia penitenziaria. Il gesto era scaturito per protestare contro il disagio che viveva. Una volta guarita è stata trasferita direttamente nel carcere di Reggio Emilia dove è stata aperta una sezione per transessuali. La situazione della sezione “Vega” era già tristemente nota. Pensata per proteggere detenute transessuali, era di fatto una sezione di isolamento lasciata al degrado strutturale, con celle buie e incompatibili con una pena umana come prescrive la nostra Costituzione. Una vera propria pena nella pena. Il problema delle transessuali in carcere, in realtà, non è mai stato pienamente risolto, anche se l’attuale riforma dell’ordinamento penitenziario interviene sul punto, prevedendo sostanziali modifiche e imponendo che le attività trattamentali siano svolte anche insieme agli altri detenuti. Lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha però ancora individuato delle soluzioni univoche alle varie problematiche emerse negli anni, continuando a ondeggiare tra la scelta di diversi sistemi di allocazione che vanno dai reparti dedicati, a volte presso istituti femminili, altre maschili, fino alla collocazione presso le sezioni precauzionali. Le soluzioni finora individuate hanno tutte dato luogo a distinte e notevoli problematiche, verificandosi quasi sempre una forte difficoltà a far accedere le persone transessuali ai percorsi trattamentali, alle attività di istituto e senza la predisposizione di un adeguato servizio sanitario in relazione alla specificità dei loro bisogni di salute. Generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti a rischio insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Nell’ultima relazione del garante nazionale delle persone private della libertà a firma del presidente Mauro Palma e delle componenti Emilia Rossi e Daniela de Robert, si pone l’accento proprio sul punto. “Una osservazione a parte - si legge nel rapporto - riguarda le persone transessuali, attualmente censite in 10 sezioni specifiche con 58 presenze, tutte collocate in Istituti maschili. Il Garante nazionale ha da tempo espresso l’opinione che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”. Svizzera. Ergastolano si toglie la vita gettandosi da 11 metri tvsvizzera.it, 5 marzo 2019 Un detenuto di 41 anni si è tolto la vita sabato scorso nel penitenziario Bostadel di Menzingen, nei pressi di Zugo, gettandosi da un’altezza di undici metri in un cortile interno. L’uomo stava scontando una condanna a 20 anni di detenzione e all’internamento. In base ai primi elementi dell’inchiesta si sarebbe trattato di un suicidio. Stando a una nota del Dipartimento della sicurezza del Canton Zugo, l’incidente è avvenuto durante l’ora d’aria. Il detenuto ha scavalcato una ringhiera gettandosi nel vuoto. È deceduto sul posto nonostante il rapido intervento del personale. Le autorità precisano che il 41enne è stato condannato per un grave reato contro la vita e l’integrità della persona e che nel 2014 è stata decisa nei suoi confronti anche la misura dell’internamento. L’uomo si trovava a Bostadel dall’agosto scorso. Il penitenziario intercantonale Bostadel è una struttura riservata in particolare ai detenuti recidivi, con un alto rischio di fuga o che rappresentano un pericolo per la comunità. La direzione del penitenziario ha fatto sapere che intende riesaminare il regolamento interno sull’ora d’aria, ormai vecchio di 40 anni. Siria. “Padre Dall’Oglio è vivo, ostaggio Isis” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 marzo 2019 Siria. Secondo fonti curde, il gesuita sarebbe parte di un gruppo di 24 ostaggi dello Stato Islamico a Baghuz. Trattativa in corso per la loro liberazione in vista dell’offensiva finale contro l’ultima enclave islamista nel paese. L’ultima enclave Isis in Siria è vicina alla liberazione. E vicino alla liberazione sarebbe anche padre Paolo Dall’Oglio. Le voci che circolano da qualche settimana avrebbero trovato nuove conferme ieri: il gesuita, rapito a Raqqa il 29 luglio 2013, sarebbe ancora vivo e sarebbe parte di un gruppo di 23 ostaggi che lo Stato Islamico, arroccato nel villaggio di Baghuz, sta utilizzando come lasciapassare. A scriverlo sono il giornale libanese Al-Akhbar e al Mayadeen Tv: secondo fonti curde vicine alle Sdf (le Forze democratiche siriane impegnate nella liberazione dell’ultimo pezzo di territorio ancora occupato dal “califfato”), la battaglia avrebbe rallentato nelle ultime ore proprio per dare una chance alla trattativa in corso “da tre giorni”. “Sarebbe stato concluso un ampio accordo - riporta al-Akhbar - ma alcune complicazioni ritardano la sua applicazione”. Dall’Oglio, il giornalista britannico Cantlie e altri 21 ostaggi liberi in cambio della fuga sicura dei miliziani (e tre importanti leader, che spiegano il negoziato) da Baghuz. Per ora nessuna conferma ma, a differenza di passate indiscrezioni, stavolta ci sarebbe qualche certezza in più: i racconti degli ostaggi civili, riusciti a fuggire da Baghuz, comunità al confine con l’Iraq, confermerebbero. La leadership Isis è ben consapevole della fine del suo progetto territoriale, o per lo meno (nella visione del “califfato”) di un suo rinvio: Baghuz, spiegava ieri il portavoce delle Sdf Mustafa Bali, è ormai circondata su ogni lato. I jihadisti sono arroccati in un’area molto piccola, senza alternative. Negli ultimi giorni sono stati evacuati circa 17mila civili: ridotti in pessime condizioni, affamati e malati, sono stati portati nel nord-est della Siria, nel campo di al-Hol. Dove però gli aiuti non bastano perché le grandi organizzazioni internazionali non arrivano: mancano tende, coperte, cibo. Altri restano a Baghuz, aggiunge Bali, in piena offensiva finale: “Stiamo rallentando l’avanzata a causa del piccolo numero di civili usati come scudi umani da Daesh”. Tra gli evacuati degli ultimi due giorni anche miliziani dell’Isis con le famiglie. Le Sdf non danno un bilancio esatto, ma si starebbe parlando di 150-200 islamisti. Ne sono stati invece liberati 283 nel nord della Siria, spiega l’amministrazione di Rojava, perché “non coinvolti in crimini” e azioni armate. Poveri, operai, reintegrati nella società grazie alle attività di riconciliazione portate avanti nella regione insieme alle tribù. Algeria. Il prigioniero Bouteflika e il vuoto di alternative di Antonio Armellini Corriere della Sera, 5 marzo 2019 Molti degli attuali avversari del presidente sono suoi vecchi allievi mentre continua a pesare l’ombra dell’Fln, il partito-stato che della guerra d’indipendenza vittoriosa porta un ricordo sempre più sbiadito da burocratismo e corruzione. Fa tristezza vedere Abdelaziz Bouteflika confinato al rango di un Cernienko qualunque. Vent’anni fa era tornato da un esilio interno autoimposto, per tentare la scommessa impossibile di un punto di raccordo fra il terrorismo fondamentalista e il pouvoir, come viene chiamata l’ambigua nebulosa di militari e interessi economici che ha governato il paese fin dall’indipendenza. Qualunque cosa si pensi di lui, Bouteflika sovrasta per intelligenza politica di diverse spanne concorrenti e avversari e la scommessa allora gli riuscì. I movimenti fondamentalisti hanno via via rinunciato all’azione armata ma il pouvoir è rimasto, con il suo intrico di interessi e complicità: egli è riuscito a ridimensionarlo e smussarne alcune punte, facendo fuori qualche generale corrotto, ma ciò che ci sarebbe voluto per una vera democrazia in Algeria, non ha voluto o più probabilmente non ha potuto farlo. Dal pouvoir non si è paradossalmente districato e il suo immobilismo, reso più drammatico dalla malattia, è l’espressione di una paralisi che continua. Prova ne sia che molti degli attuali avversari - da Ouyahia a Benflis - sono suoi vecchi allievi mentre continua a pesare l’ombra dell’Fln, il partito-stato che della guerra d’indipendenza vittoriosa porta un ricordo sempre più sbiadito da burocratismo e corruzione. Conquistata l’indipendenza, l’Algeria ha subito la perdita di una intera ossatura produttiva e professionale (persino anagrafe e catasto furono trasferiti in Francia) e non è stata capace di dotarsi di una autonoma capacità agricola e industriale. In un paese dove non si produce nulla e si importa quasi tutto, la rendita petrolifera ha dato l’illusione di una autosufficienza che, complici crisi e sovrappopolazione, è presto svanita. Fra la folla che protesta sono molti gli hittistes - “quelli che sostengono i muri” - come vengono definiti i giovani disoccupati che sperano solo in un visto per la Francia. La protesta sa più di disperazione che di annuncio di rivolta; Bouteflika è probabilmente prigioniero più degli eventi che della sua ambizione, ma dietro il suo vuoto è difficile vedere alternative politicamente credibili.