Enciclopedia minima di gaffe e bufale M5S-Lega di Francesco Prisco Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 Dall’agente provocatore, al censimento dei raccomandati, all’abolizione della povertà. Bufale, provocazioni, gaffe, situazioni imbarazzanti il cui clamore, in più di una circostanza, ha abbondantemente superato i confini nazionali. L’anno che ci lasciamo alle spalle è stato generosissimo di tutto questo: con Movimento 5 Stelle e Lega, i partiti usciti vincitori dalle elezioni del 4 marzo 2018, “l’incidente diplomatico” da episodio è diventato una vera e propria costante delle giornate politiche. Agente (provocatore). Settembre 2018, il vicepremier Luigi?Di Maio lancia la legge “spazza-corrotti”. Su Facebook, ovviamente, in una specie di lettera aperta intestata ai “cari corrotti, cari corruttori”. L’arma segreta contro il malaffare? L’agente provocatore. “Mentre ti propongono la tangente - posta Di Maio - ci potrebbe essere un infiltrato delle forze dell’ordine proprio al tuo fianco perché pensi che faccia parte della combriccola. E invece è lì per arrestarti, un moderno Donnie Brasco”. Battisti (Cesare). Dopo una latitanza durata 37 anni, il 15 gennaio 2018, grazie ai buoni uffici del nuovo governo brasiliano guidato da Bolsonaro, atterra in Italia Cesare Battisti, terrorista rosso pluriomicida cui lo Stato dava la caccia invano. L’atterraggio, con i ministri dell’Interno Matteo Salvini e della Giustizia Alfonso Bonafede ad attenderlo all’aeroporto, va in diretta streaming sui profili dei rispettivi membri del governo. Bonafede si supera, pubblicando in serata un montaggio degli highlights di quella che per lui è “una giornata che difficilmente dimenticheremo” con tanto di sottofondo musicale. La gogna pubblica nell’epoca dei social network. Censimento (dei raccomandati). Come sorpassare a sinistra il collega Salvini che ti ruba costantemente la scena mediatica? Di Maio, ospite di “Porta a Porta” nel giugno 2018, s’inventa un “censimento dei raccomandati nella pubblica amministrazione”. Idea spot di cui non ci sarà traccia nei provvedimenti del governo, ovviamente. Per giunta irrealizzabile: sradicare i raccomandati dall’italica Pa riesce persino più difficile che trovare la copertura per il reddito di cittadinanza. Perché la raccomandazione è pratica antica e trasversale, non sempre efficace ma di sicuro contagiosa. Debito (cancella il). È il maggio del 2018, al centro della scena c’è il dibattito intorno al contratto di governo Lega-M5S. Come rimettere in sesto le casse statali? Nel testo in via di stesura spunta una misura rivoluzionaria: colpo di spugna al debito con la richiesta alla Bce di annullare bond per 250 miliardi. Cancella il debito, insomma. Franco (africano). Alessandro Di Battista per un anno ha girato il mondo. Quanto ci è mancato! Per farsi perdonare, ospite a “Che tempo che fa” nel gennaio 2019, sventola un Franco Cfa, moneta comune a tutte le ex colonie francesi d’Africa. Secondo l’esponente pentastellato e l’altro dioscuro del Movimento Di Maio, sarebbe una delle principali cause di emigrazione dall’Africa. Peccato che a leggere i dati di Viminale, Eurostat e Frontex non emerga alcuna connessione tra la moneta e il fenomeno. Giustizia (tempi della). Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, non è politico di professione. Nessuno lo rimproveri se si autodefinisce presidente della Repubblica (11 febbraio 2019) o se, quasi novello Baudeleire, confonde paradisi fiscali e “paradisi artificiali” (12 febbraio 2019). Conte di mestiere fa l’avvocato, capisce di leggi e codici. Poi però succede che nell’agosto del 2018 crolla il ponte di Genova e si lascia prendere dall’emotività. Ed ecco il premier annunciare la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia: “Non possiamo attendere i tempi della giustizia penale”. Infestanti (piante). Basta con le chiacchiere da bar: le grandi migrazioni sono processi culturali, lasciamo che ne parlino gli uomini di cultura. Il ministro dei Beni culturali gialloverde Alfredo Bonisoli, per esempio. Che a settembre 2018 si inerpica su una suggestiva metafora botanica: “Quando arrivano alcune specie di piante da fuori, se non c’è un processo artificiale che regola l’acclimamento, la specie diventa un infestante e manifesta i suoi effetti negativi”. Luogo vivibile (il nuovo ponte Morandi). A Genova crolla il ponte, subito sale in cattedra il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: “Non vogliamo solo rifare velocemente il ponte Morandi, ma anche renderlo un luogo vivibile, un luogo di incontro in cui le persone si ritrovino, possano vivere, giocare, mangiare”. Sopra o sotto il ponte autostradale in questione, caro ministro? Obbligo (flessibile). Quello dei vaccini è un argomento serio per qualsiasi ministro della Salute che si rispetti. La base del Movimento 5 Stelle è storicamente critica nei confronti dei vaccini, spesso additati come pericolosa invenzione delle big pharma che si arricchiscono sulla pelle dei cittadini. La difficile sintesi se la intesta Giulia Grillo, ministro pentastellato alla Salute: per i vaccini dovrà esserci “un obbligo flessibile”. Povertà (abolizione della). “La storia”, diceva il Poeta, “non si ferma davvero davanti ad un portone”. Al massimo sale sul balcone: quello austero di Palazzo Chigi dal quale, il 27 settembre 2018, Di Maio festeggia il varo della Manovra del Popolo con reddito di cittadinanza incorporato. “Abbiamo abolito la povertà”, afferma solenne. Magistrati onorari proclamano l’astensione dalle udienze nel mese di maggio Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 A distanza di sette mesi dall’avvio delle trattative tra Ministro della Giustizia e Magistratura onoraria, i giudici onorari di pace e i vice procuratori onorari italiani tornano in stato di agitazione e proclamano l’astensione dalle udienze per il prossimo mese di maggio. “Il Guardasigilli, in questi due mesi - dicono - avrà tutto il tempo necessario per recepire la proposta di riforma della categoria, elaborata dai rappresentanti della categoria in accordo con l’Associazione nazionale magistrati (Anm). Questo schema di riforma è depositato da oltre tre mesi presso il tavolo tecnico costituito - presso il Ministero - proprio per favorire il raggiungimento di tale accordo che segna anche la definitiva ricomposizione tra magistratura di ruolo e onoraria, in passato attestatesi su posizioni differenti. Dopo la presentazione di questa proposta condivisa, tuttavia, il Ministro ha sospeso per oltre tre mesi i lavori del tavolo, omettendo di reperire i pur scarni stanziamenti necessari alla copertura finanziaria dell’accordo raggiunto e annunciando fantomatiche soluzione alternative, a saldi di bilancio pressoché invariati e, quindi, di piccolo cabotaggio. Con la proposta elaborata congiuntamente alla Anm, invece, si intende promuovere il lavoro svolto dalle diverse componenti della magistratura onoraria, valorizzando il ruolo dei magistrati onorari in servizio, già formati e sul campo, con un trattamento e competenze differenziati rispetto a quelli stabiliti per i loro colleghi di futura nomina, destinati a dare supporto, a tempo parziale, all’interno dell’ufficio del processo”. “Il Presidente del Tavolo tecnico, Iacopo Morrone, Sottosegretario alla Giustizia, si era dovuto fermare, dopo l’ultima riunione dell’organo consultivo, di fronte alla assenza degli strumenti finanziari necessari al varo della riforma. Le risorse assegnate al Ministro Bonafede per le sole spese di adeguamento economico del personale giustizia ammontano a ben 500 milioni; ma il Guardasigilli non sembra intenzionato a spenderne una parte, circa il 25%, per finanziare il riordino della magistratura onoraria, di cui non sembra comprendere il valore aggiunto nell’ottica di un effettivo rilancio alla giustizia ordinaria”, concludono i presidenti delle associazioni della magistratura onoraria”. La riforma prevede di portare fino a cinque giorni a settimana l’impegno lavorativo dei cinquemila magistrati onorari negli uffici giudiziari, in modo da smaltire l’arretrato, riconoscendo loro, al contempo, i diritti costituzionali derivanti dall’adesione dell’Italia all’Ue. L’Italia è stata già condannata in sede europea per le sue condotte nei confronti dei magistrati onorari. Il giudice “digitale” che usa Skype e dimezza i tempi delle udienze Il Dubbio, 4 marzo 2019 Pierpaolo Beluzzi, ha 54 anni, lavora al Tribunale di Cremona ed è il primo magistrato che usa internet in Aula. Il suo nome è Pierpaolo Beluzzi, ha 54 anni, lavora al Tribunale di Cremona ed è il primo giudice che ha introdotto le udienze via Skype. Beluzzi tiene anche un corso all’Università Cattolica di Milano “sulla creatività della giustizia digitale”. Inutile dire che è molto popolare tra gli avvocati, soprattutto tra quelli che risparmiano ore di spostamenti da una città all’altra per sedersi pochi secondi in un’aula di Tribunale. Ma i vantaggi in termini di tempo del suo modo di lavorare sono per tutti - testimoni, interpreti, consulenti - perché riguardano tutte le fasi del procedimento. “Abbiamo utilizzato la tecnologia in oltre duecento processi negli ultimi anni - racconta il magistrato all’Agi - il presupposto è che tutte le parti siano d’accordo nel farlo. I casi che dimostrano quanto sia utile sono diversi. Con Skype ci siamo collegati col testimone che non aveva i soldi per pagare il viaggio e venire a deporre; abbiamo sentito persone truffate che risiedevano in diverse città italiane, e anche all’estero, a cui sarebbe costato tempo e denaro spostarsi a Cremona per rendere dichiarazioni che hanno potuto fare da casa. E ancora, penso a quei medici che hanno potuto intervenire in udienza senza lasciare il reparto dove lavorano o ai consulenti che vivono altrove e hanno potuto esporre i loro studi senza muoversi dall’ufficio”. Questo sistema, sostiene Beluzzi, ha enormi vantaggi anche perché le parti sembrano essere più disciplinate nell’ascoltare gli interventi altrui e tutto si svolge “in modo più proficuo”. Il principio cardine nel nostro ordinamento, l’oralità del processo, viene rispettato, assicura il giudice, avvertendo però che nei casi più complessi non si può procedere con questo sistema. Una consapevolezza che hanno anche i legali: “Mi sono sorpreso tantissimo e positivamente quando il giudice mi ha detto che, se fossi stato d’accordo, avrei potuto evitare il viaggio da Milano a Cremona per una camera di consiglio su un’opposizione a un’archiviazione - racconta l’avvocato Simone Gatto - Mi ha invitato a dargli il mio indirizzo e-mail di Skype e ci saremmo sentiti per l’udienza camerale. Resto però convinto che in alcuni processi, penso a quelli per omicidio o a casi di criminalità organizzata, il principio dell’oralità “tradizionale” vada salvaguardato per garantire al massimo il libero convincimento dei magistrati e anche dei giudici popolari. Parliamo soprattutto di situazioni dove l’aspetto emotivo conta molto”. In questi casi, una smorfia del volto, che uno schermo può “mascherare”, a volte risulta decisiva nel contribuire a valutare quanto sia attendibile un testimone. Nel nome del figlio: lotta per non dimenticare gli uccisi da Cosa Nostra di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2019 Si è spenta la madre di Antonino Agostino, il poliziotto che indagava sull’attentato a Falcone e fu vittima di un agguato. E chi l’ha detto che per parlare bisogna usare la voce o i gesti? Augusta parlava con un silenzio siderale. Teso, impenetrabile. E con la scelta di portarlo in giro, quel silenzio, senza risparmio. E di affiancarlo a quello del marito, l’uomo dalla lunga barba bianca che chiunque poteva e può riconoscere in mezzo a mille persone, anche da lontano. Finché si è spenta, nel silenzio. Chi sa appena qualcosa della lunga storia del movimento antimafia in Italia avrà già capito chi è Augusta. Il destino le aveva riservato la parte di madre del poliziotto Antonino Agostino. Uno di quei ruoli che nessuno vorrebbe mai indossare nella vita. Il figlio venne ucciso a Palermo nell’estate del 1989, in circostanze fetide, misteriose. Insieme alla giovanissima moglie incinta, come a rendere il delitto ancora più orribile e definitivo. Prese corpo la sagoma dei servizi, e dentro quella sagoma si disegnò una figura speciale, quella del “mostro”, personaggio dal viso deturpato che si dice apparisse ogni volta che a Palermo si celebrava l’unione di mafia e misteri di Stato. Antonino aveva indagato sul fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone, che andò al suo funerale con Paolo Borsellino. E nelle indagini si era incontrato con quelli che ci siamo abituati a chiamare i servizi “deviati”. Nessuno sa che fili avesse toccato o visto. Fatto sta che quella stessa estate i killer vennero a giustiziarlo a Villagrazia di Carini. Augusta Schiera perse insieme figlio, nuora e nipotino. Fu da quell’improvvisa palla di violenza che nacque il bisogno disperato di giustizia di marito e moglie. Vincenzo, il padre, un omone grande con gli occhi azzurro mare che hanno solo certi siciliani, gridò la sua richiesta di verità e giustizia e annunciò che si sarebbe fatto crescere la barba finché non le avesse ottenute. Mantenne la sua promessa fino a oggi, purtroppo. Perché quella verità, come tante altre, non è mai venuta. E la lunga barba bianca finì per diventare un contrassegno del movimento antimafia, attrazione a ogni corteo per fotografi e cronisti in cerca di immagini forti. Augusta lo accompagnava. Alto e imponente lui, piccola e racchiusa lei. Lui il bianco della barba, lei il nero del lutto. Affettuosa con gli altri familiari, che per quella coppia dignitosa e stremata di dolore hanno sempre avuto un rispetto sacrale, facendone il simbolo di una vicenda collettiva. Un bacio su una guancia e sull’altra a ogni incontro, la domanda su come vanno i figli. Poi il silenzio, con quell’altro nipotino che le cresceva accanto, e diventava sempre più grande a ogni manifestazione, pieno di affetto ammirato per i due nonni indomiti. Erano loro ad aprire la manifestazione di Libera del 21 di marzo, la giornata nazionale della memoria e dell’impegno, che quest’anno avrà una memoria speciale in più da onorare. Dietro lo striscione, e con la loro foto grande al collo: “Poliziotto ucciso: segreto di Stato”, stava scritto negli ultimi anni. Antonino vi era sempre ritratto con Ida, la giovane sposa, nel giorno della felicità, gli abiti del matrimonio. Sorridenti verso il fotografo. Tutto questo dovette concentrarsi nel cuore di Augusta un pomeriggio di marzo a Genova, era i12012, quando la messa in ricordo delle vittime innocenti si celebrò nel duomo di San Lorenzo. Officiava il cardinale Bagnasco, forse non del tutto consapevole del patrimonio di ricordi e sentimenti che stava amministrando. Terminata la lettura, dall’altare, dei nomi delle vittime, centinaia di familiari si alzarono di scatto. Vedevo Augusta e Vincenzo, quasi diedero il via. Un applauso infinito sommerse come un’onda la navata centrale verso l’altare. La donna silenziosa batteva le mani senza smettere, rendeva omaggio al figlio, alla nuora, al bimbo mai nato. Durò tutto cinque minuti almeno. Il cardinale, quasi colto di sorpresa, si levò lo zuccotto in segno di rispetto. Il mattino dopo gruppuscoli di antagonisti ebbero fischi per quel corteo che sapeva troppo di divise. Eppure Vincenzo e Augusta non hanno mai fatto sconti allo Stato in nome dello Stato. Lo Stato per loro era soprattutto il figlio. Rivedo lo scorso anno a Bari papà Vincenzo tuonare come mai contro le istituzioni che negano verità e giustizia. Duro, esasperato, come mai l’avevo sentito. Augusta lo guardava dalla prima fila senza parlare ma tutto approvando immobile con lo sguardo. Perché davvero, per parlare, e per parlare al cuore, non sono necessari né la voce né i gesti. Perché la ‘ndrangheta è la regina del crimine di Egidio Lorito Libero, 4 marzo 2019 La relazione annuale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), non lascia dubbi: l’organo di cui si avvale il Presidente del Consiglio per le funzioni informative indirizzate alla protezione della sicurezza interna, pone l’indice sulle economie illegali e gli affari delle mafie, confermando il primato di quella calabrese. La ‘ndrangheta, infatti, si piazza, ancora una volta, in cima alla classifica, sia per la gestione globale del narcotraffico, delle cui conoscenze si avvalgono la Camorra e Cosa nostra, che per quella dei rifiuti, settore in cui le cosche calabresi si sono particolarmente affinate. Per i tradizionali settori del terrorismo internazionale, il fenomeno più preoccupante sembra essere quello dei c.d. “radicalizzati in casa”, vera e propria croce dell’intelligence italiana: i nostri Servizi segreti, infatti, lo descrivono come un settore “sempre più ampio e sfuggente”, da sottoporre ad attento monitoraggio per evitare che si possa passare “dalla radicalizzazione all’attivazione violenta”. L’attenzione degli 007 è per le “numerose allerte su pianificazioni terroristiche da realizzare contro obiettivi occidentali”. Il premier Giuseppe Conte, nel corso della presentazione della relazione all’interno della Galleria Colonna, a Roma, insieme al Direttore generale del Dis, Gennaro Vecchione, ha sottolineato come “il rischio zero realisticamente non esiste”, evidenziando, al contempo, che “se abbiamo motivi per tenere molto alta la guardia, abbiamo anche valide ragioni per sentirci sereni del cammino intrapreso”. Venendo poi all’attenzione posta nei confronti delle consorterie criminali di casa nostra, la Relazione ha confermato il predominio praticamente immutato della `ndrangheta che guida la classifica in materia di narcotraffico e gestione dei rifiuti: la mafia calabrese e Cosa nostra, nonché “alcune agguerrite e strutturate espressioni della criminalità organizzata campana e pugliese” sono al vertice per “capacità d’inquinamento del tessuto economico-produttivo nazionale”, in quanto “hanno mostrato capacità di proiezione in business ad alta redditività, in Italia e all’estero, ove dispongono di stabili articolazioni operative”. La Relazione annuale ha evidenziato come non si registrino segni strutturali di cedimento delle tradizionali consorterie criminali delle regioni del Sud Italia, che dopo aver abbandonato, come nel caso della `ndrangheta, vecchi sistemi di investimento e di rastrellamento del denaro - come accadeva tra gli anni 70 e 90 per l’allora fiorente stagione dei sequestri di persona - hanno ormai indirizzato il proprio business verso le innovative fonti di guadagno. La ‘ndrangheta, infatti, al pari e ben più delle altre forme criminali meridionali, ormai diffusa a livello planetario, “finanzia le imprese in difficoltà, determinandone la fidelizzazione o assumendone il controllo; disincentiva, di fatto, gli investimenti privati, alimenta, avvalendosi di ramificati network relazionali, fenomeni di corruzione e collusione nei processi decisionali pubblici per condizionarne gli esiti”. Due gli scenari in cui la ‘ndrangheta opera in regime di monopolio: il nuovo settore dello smaltimento dei rifiuti, “settore d’elezione, grazie al persistente attivismo di circuiti affaristico-criminali, riferibili alle cosche locali, interessati a controllare interi segmenti del ciclo dei rifiuti, anche attraverso iniziative corruttive volte ad ostacolare o influenzare le attività imprenditoriali concorrenti”; ed il più risalente narcotraffico: “In continuità con un trend emerso negli ultimi anni, l’azione informativa ha posto in luce assidue interlocuzioni tra consorterie di diversa estrazione, anche con il coinvolgimento di espressioni criminali straniere, volte a definire comuni strategie di sviluppo e di pacifica coesistenza sui mercati criminali”. I tre motivi per una pena alternativa a Formigoni di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 4 marzo 2019 L’ex-governatore è detenuto nel carcere di Bollate, e prima o poi i magistrati di sorveglianza dovranno decidere se avviarlo a una qualche forma di carcerazione alternativa, che siano gli arresti domiciliari o altro. L’idea che il Celeste passi in galera molto meno degli anni stabiliti dalla condanna definitiva per corruzione dà fastidio a molti, soprattutto in questi tempi in cui è facile ascoltare slogan definitivi tipo “buttare via la chiave”. In questo caso l’invocazione del carcere senza sconti viene anche da sinistra (non tutta). In questa rubrica, nel corso degli anni, spesso abbiamo preso a bersaglio Formigoni, personaggio che si prestava parecchio: arrogante sempre, sprezzante, in sospetto di clamorosa ipocrisia quanto al voto di povertà e castità che sbandierava. In realtà ci sono alcuni buoni motivi per essere favorevoli a misure alternative, per la detenzione del nostro. Uno riguarda la sua età, 71 anni, anche se è vero che nelle carceri italiani ci sono centinaia di detenuti ultrasettantenni. Un altro considera che scontare la pena fuori dalla cella dovrebbe essere una soluzione diffusa per detenuti non pericolosi. E c’è da sperare che Formigoni, nella sua permanenza in galera, possa aver verificato che prestare attenzione alle condizioni dei detenuti è una buona causa, e decida magari di dedicarvisi. C’è poi un ultimo motivo, che può sembrare terra-terra: avere un Formigoni fra i propri ospiti, anche per un carcere all’avanguardia come Bollate, è una tremenda seccatura. Fra attenzioni alla sicurezza, supporto psicologico, e attività rieducative. Mandarlo a casa, quindi, è anche conveniente. La super sanzione all’avvocato che accusa un magistrato vìola la libertà d’espressione di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 La sanzione pecuniaria troppo elevata inflitta a un avvocato che accusa un magistrato di parzialità e corruzione è una violazione del diritto alla libertà di espressione. Anche perché potrebbe avere un effetto dissuasivo sull’esercizio della professione forense. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza del 12 febbraio (ricorso n. 70465/12). A rivolgersi a Strasburgo era stato un avvocato di Lisbona che aveva scritto una lettera al Consiglio superiore della magistratura portoghese accusando un giudice, coinvolto in una causa nella quale il ricorrente era un avvocato di parte, di parzialità e corruzione. Il magistrato aveva citato in sede civile il legale, condannato a versare al giudice 50mila euro. Di qui il ricorso alla Cedu. Nessun dubbio - osserva Strasburgo - di un’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione. Tuttavia, l’ingerenza voleva tutelare la reputazione del magistrato, tanto più che le accuse non avevano una base fattuale. Detto questo, però, la Corte ritiene la sanzione troppo elevata, anche perché le affermazioni del legale non erano state pronunciate pubblicamente. Se il coltivatore della canapa rispetta le condizioni di liceità il commercio è legittimo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 febbraio 2019 n. 7649. Alla luce della disciplina introdotta dalla legge n. 242 del 2016, relativamente al commercio della cannabis light, il commerciante va esente da responsabilità penale ricorrendo le condizioni di liceità previste per il coltivatore della canapa (la pianta deve rientrare in una delle varietà ammesse; la percentuale di THC non deve essere superiore allo 0,2%; i prodotti devono essere destinati a una delle destinazioni di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016). Per l’effetto, in difetto di tali condizioni, spiega la sentenza 7649/2019 della Cassazione, può configurarsi nei suoi confronti, dal punto di vista oggettivo, il reato di cui all’articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990, ferma restando l’indagine in ordine all’elemento soggettivo del reato, ove la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti superi la soglia dello 0,2% e risulti tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo. Da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento del tribunale di reiezione dell’istanza di riesame proposta nei confronti del sequestro probatorio avente a oggetto n. 94 confezioni di derivati della canapa presentate come “prodotto tecnico da collezione, ornamento o profumo d’ambiente”, non rientrante in alcuna delle ipotesi specificate nell’articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016; sequestro eseguito quindi correttamente al fine di effettuare le analisi chimiche tossicologiche, in presenza del fumus del reato di cui all’articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990. La legge 2 dicembre 2016 n. 242 - Come è noto, la legge 2 dicembre 2016 n. 242, contenente disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa ha indotto notevoli questioni interpretative sulla liceità penale o no del commercio della cannabis light. Secondo un orientamento interpretativo, infatti, proprio alla luce della disciplina introdotta dalla legge n. 242 del 2016, che ha reso lecita la coltivazione della cannabis contenente THC in misura comunque non superiore allo 0,6%, dovrebbe ritenersi consentita la commercializzazione dei prodotti da essa ricavati, comprese le infiorescenze, per fini connessi all’uso che l’acquirente riterrà di farne e che potrebbero riguardare l’alimentazione (infusi, tè, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici, ma anche il “fumo”: ciò in ossequio al principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti, ritenersi consentita nell’ambito del generale potere della persona di agire per il soddisfacimento del proprio interesse (sezione VI, 29 novembre 2018, Castignani). Tale orientamento prende consapevolmente le distanze da altro, più rigoroso, secondo cui, invece, qualsiasi utilizzo diverso da quelli esplicitamente consentiti dall’articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 (quindi, proprio l’assunzione tramite fumo) dovrebbe farsi rientrare nell’ambito di operatività della disciplina sanzionatoria del Dpr n. 309 del 309 del 1990: per l’effetto, le infiorescenze della canapa potrebbero essere legittimante commercializzate per essere destinate - ad esempio - all’attività di florovivaismo o comunque a una delle attività indicate nel citato articolo 2, comma 2, ma non sarebbe certo consentita una vendita per l’assunzione diretta (uso umano tramite fumo), con la conseguenza che una tale condotta sarebbe penalmente sanzionabile ex articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, ove si accerti la presenza di un effetto stupefacente apprezzabile (cfr., tra le altre, sezione VI, 27 novembre 2018, Ricci). Una puntuale ricostruzione della posizione del commerciante - La sentenza in esame si inserisce nell’ambito di quest’ultimo orientamento, ma è soprattutto pregevole perché, in parte motiva, fornisce una puntuale ricostruzione della posizione del commerciante. Il commerciante, si sostiene, va esente da responsabilità penale ricorrendo le condizioni di liceità previste per il coltivatore (la pianta deve rientrare in una delle varietà ammesse; la percentuale di THC non deve essere superiore allo 0,2%; i prodotti devono essere destinati a una delle destinazioni di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016). Mentre, in difetto di tali condizioni, può configurarsi nei suoi confronti, dal punto di vista oggettivo, il reato di cui all’articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990, ferma restando l’indagine in ordine all’elemento soggettivo del reato, ove la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti superi la soglia dello 0,2% e risulti tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo (la previsione espressa di esonero di responsabilità nel caso del superamento dello 0,2% presente nelle piante riguarda, infatti, solamente il coltivatore). Come detto in premesso, la questione del trattamento da riservare al commerciante dei prodotti ricavati dalla cannabis light è controversa e sarà decisa dalle sezioni Unite, cui è stata rimessa dalla sezione IV, con ordinanza 8 febbraio 2019, Castignani, ancora non depositata. In proposito, come risulta evidente dalla ricostruzione operata dalla sentenza in esame, il punto più delicato su cui le sezioni Unite dovranno fare chiarezza è quello dell’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990, in ipotesi contestabile al commerciante, che potrà ritenersi dimostrato allorquando il commerciante sappia, per le modalità della vendita e per le palesi caratteristiche del prodotto, che questo non risulta ricompreso tra quelli aventi una delle destinazioni lecite di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 (ciò che nella specie risultava evidente perché le confezioni riportavano l’indicazione che si trattava di “prodotto tecnico da collezione, ornamento o profumo d’ambiente”, non rientrante in alcuna delle ipotesi di cui al citato articolo 2, comma 2 della legge n. 242 del 2016). Permessi umanitari: dicitura “casi speciali” per le domande presentate prima del Dl sicurezza di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 La normativa introdotta dal decreto legge n. 113 del 2018, il cosiddetto “Decreto Salvini”, nella parte in cui ha modificato la disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, non si applica alle domande giudiziali presentate prima dell’entrata in vigore delle nuove norme (5 ottobre 2018). In caso di accoglimento della domanda, il Questore rilascerà un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi speciali” e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’articolo 1, comma 9, del decreto legge menzionato: lo hanno affermato i giudici della sezione prima con la sentenza 19 febbraio 2019 n. 4890. Il caso - Il Tribunale di Napoli, in data 8 giugno 2018, respinge la domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino straniero e rigetta anche la richiesta di riconoscimento di un permesso per motivi umanitari. La pronuncia è impugnata dinanzi alla Corte di cassazione che si trova ad affrontare il caso, all’indomani della entrata in vigore delle nuove norme introdotte dal cosiddetto “Decreto sicurezza” (decreto legge n. 113 del 2018, entrato in vigore in data 5 ottobre 2018; si veda “Guida al Diritto” n. 44 del 27 ottobre 2018). Il quesito giuridico a cui la Corte dà risposta è il seguente: le nuove norme si applicano ai procedimenti pendenti alla data del 5 ottobre 2018? La risposta della Suprema corte è di senso negativo. La cosiddetta “protezione umanitaria” - Con il Dl 4 ottobre 2018 n. 113, il Legislatore ha introdotto (per quanto qui interessa) “disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica”. Il decreto è stato pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale” del 4 ottobre 2018 n. 231 ed è entrato in vigore in data 5 ottobre 2018. La decretazione d’urgenza è stata convertita dalla legge dalla legge 1° dicembre 2018 n. 132. Il nuovo corpus normativo, all’articolo 1, ha introdotto disposizioni in materia di permesso di soggiorno per motivi umanitari e inserito una nuova disciplina di casi speciali di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario. Dunque con una riscrittura del Dlgs n. 286 del 1998, viene rimossa la figura generale della protezione per motivi umanitari per passare a un regime di figure tassative e tipiche a carattere protettivo, per ragioni diverse da quelle che consentirebbero l’accesso alla protezione internazionale. In particolare, il nuovo testo normativo introduce la figura del permesso di soggiorno rilasciato con la dicitura “casi speciali” che include le ipotesi di permesso rilasciato per motivi di protezione sociale, per le vittime di violenza domestica e per particolare sfruttamento lavorativo ex articolo 603-bis del codice penale. Permesso di soggiorno per calamità e per cure mediche - Il Dlgs n. 286 del 1998 ospita anche un permesso di soggiorno per calamità. Quest’ultimo permesso può essere rilasciato in favore dello straniero che dovrebbe fare ritorno in un Paese che versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza. In tutti i casi, il permesso ha una durata prevista dalla legge (in genere, 6 mesi o 1 anno). È anche possibile il rilascio di un permesso di soggiorno ad hoc per cure mediche, rilasciato in favore di stranieri che versino in condizioni di salute di particolare gravità. In tali ipotesi, il permesso di soggiorno è rilasciato dal Questore per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore a un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni di salute di particolare gravità debitamente certificate. Il permesso di soggiorno può essere rilasciato anche per atti di particolare valore civile (articolo 42-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998). Il regime intertemporale - Il Dl n. 113 del 2018 non ha introdotto, per quanto qui in esame, norme ad hoc di diritto intertemporale o di diritto transitorio: le norme di diritto intertemporale sono quel complesso di regole che disciplinano la successione delle norme nel tempo; le norme di diritto transitorio sono quell’insieme di prescrizioni dettate di volta in volta per regolare gli accadimenti compresi nel periodo in cui si verifica un mutamento legislativo (Caponi, “Tempus regit processum: un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo” in Rivista di Diritto Processuale, 2006, 2, pagine 449 e seguenti). La decretazione in commento si limita a regolare la sorte dei permessi emessi nel vigore del vecchio regime stabilendone la persistenza ed efficacia sino alla naturale scadenza, per poi operare le disposizioni di nuovo conio (articolo 1, comma 8). Essa regola anche il caso in cui il provvedimento della Commissione territoriale, di trasmissione degli atti al Questore, sia già stato emesso per motivi umanitari - secondo il vecchio regime - ma la procedura amministrativa non si sia ancora conclusa: in questi casi, la normativa prevede che possa essere rilasciato un permesso di soggiorno con la dicitura “casi speciali” (articolo 1, comma 9). Come detto, però, quanto ai procedimenti pendenti, non vi sono altre norme. Da ciò muove la sentenza in commento: mancando disposizioni interlocutorie - tra vecchio e nuovo regime - occorre chiedersi se il regime inedito operi anche riguardo a processi instaurati prima del 5 ottobre 2018. Per la Cassazione, il nuovo regime non si applica ai processi pendenti e ai procedimenti amministrativi in itinere, alla data del 5 ottobre 2018. Per la Suprema corte, infatti, nel caso di specie, opera il principio della irretroattività della legge sostanziale che non riguarda solo i cosiddetti “diritti quesiti” ma anche le situazioni giuridiche soggettive sottoposte a un procedimento di accertamento, ove la nuova disciplina legislativa modifichi il fatto generatore del diritto o le sue conseguenze giuridiche attuali o future; quanto al permesso da rilasciare, la Corte afferma che trova comunque applicazione il menzionato articolo 1, comma 9, del decreto legge n. 113 del 2018. A conclusione della decisione, la Suprema corte enuncia il seguente principio di diritto: “La normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione. Tuttavia in tale ipotesi, all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dei presupposti esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, conv. nella l. n. 132 del 2018, farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi speciali” e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’art. 1, comma 9, di detto decreto legge”. Furto al ristorante durante la chiusura non integra il più grave delitto in “privata dimora” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 febbraio 2019 n. 7653. Deve escludersi la qualificazione del fatto ex articolo 624-bis del Cp nel caso di furto di generi alimentari commesso in un locale ristorante, durante le ore di chiusura dell’esercizio commerciale, perché non si tratta di una “privata dimora”. Un orientamento espresso dalla sezione IV penale della Cassazione, sentenza n. 7653 del 20 febbraio scorso, in linea con il principio scritto dalle sezioni Unite, 23 marzo 2017, D’Amico. Sulla questione cfr. la sentenza delle sezioni Unite, 23 marzo 2017, D’Amico, che, affrontando la questione se rientra nella nozione di privata dimora, ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 624-bis del Cp, il luogo dove si esercita un’attività commerciale o imprenditoriale (nella specie, si trattava di un ristorante), hanno fornito risposta negativa, salvo che il fatto non sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Al riguardo, precisandosi che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. In altri termini, al fine di individuare il discrimine tra la più grave fattispecie incriminatrice prevista dall’articolo 624-bis del Cpe quella di cui all’articolo 624 del Cp occorre accertare se il luogo in cui è stato perpetrato il furto avesse, per sua struttura o per l’uso che se ne faccia in concreto, una destinazione legata e riservata all’esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari (la nozione di “privata dimora” utilizzata nell’articolo 624-bis del Cp, infatti, è più ampia e comprensiva di quella di “abitazione”, come dimostrato anche dalla formulazione dell’articolo 614 del Cp, ove sono entrambe presenti), ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica. Deve cioè trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per talune di dette finalità, con esclusione quindi dei luoghi di pubblico accesso. Falsità nelle dichiarazioni reddituali per l’ammissione al gratuito patrocinio Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 Difensore e difesa - Patrocinio a spese dello Stato - Ammissione - False dichiarazioni sul reddito - Elemento psicologico del reato - Dolo generico - Valutazione giudiziale. In tema di ammissione al gratuito patrocinio, il delitto di cui all’art. 95, d.P.R. n. 115/2002 costituisce un’ipotesi speciale del reato di falso ideologico e per la sua configurabilità è richiesto, sotto il profilo psicologico, il solo dolo generico, anche se deve escludersi che esso possa ritenersi sussistente per il solo fatto che l’atto contenga dichiarazioni obiettivamente non veritiere dovendosi sempre verificare che la falsità non sia dovuta ad una leggerezza dell’agente o ad un’incompleta conoscenza e/o errata interpretazione di disposizioni normative o, ancora, alla negligente applicazione di una prassi amministrativa. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 20 febbraio 2019 n. 7675. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Reato di cui all’art. 95 D.p.r. n. 115 del 2002 - Effettiva sussistenza di un reddito che consenta l’ammissione al beneficio - Rilevanza ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo - Rigorosa valutazione del giudice - Necessità. In tema di patrocinio a spese dello Stato, nel caso di istanza che contenga falsità od omissioni, l’effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, seppure non impedisce l’integrazione dell’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, può, tuttavia, assumere rilievo con riguardo all’elemento soggettivo dell’illecito, quale sintomo di una condotta dovuta a un difetto di controllo e, quindi, colposa, salva emersione di un dolo eventuale, che deve essere compiutamente dimostrato. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 31 gennaio 2018 n. 4623. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Condizioni di ammissione - False dichiarazioni sulle condizioni reddituali - Configurabilità del reato - Non incidenza sulla sussistenza del diritto irrilevanza. Il reato di cui all’art. 95, D.P.R. n. 115 del 2002, che punisce le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni e nelle comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito in vista dall’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, si ravvisa allorquando non rispondono al vero o sono omessi in tutto o in parte dati di fatto nella dichiarazione sostitutiva, e in qualsiasi dovuta comunicazione contestuale o consecutiva, che implichino un provvedimento del magistrato, secondo parametri dettati dalla legge, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni previste per l’ammissione al beneficio. • Corte di cassazione, sezione Unite penali, sentenza 16 febbraio 2009 n. 6591. Difensore e difesa - Patrocinio dei non abbienti - Condizioni reddituali - Dichiarazione - Non veritiera - Condizioni - Fattispecie. Il reato previsto dall’art. 95 del D.p.r. n. 115/2002 che punisce le falsità e le omissioni nelle dichiarazioni o comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito con riferimento all’ammissione al gratuito patrocinio, si configura nel caso in cui l’istante dichiari, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello richiesto dalla legge oppure neghi o nasconda cambiamenti rilevanti del reddito relativamente all’anno precedente, tali da comportare il superamento della soglia stabilita dalla legge. Vista la specialità della norma di cui all’art. 95, D.p.r. n. 115/2002 rispetto a quella dell’art. 483 c.p. i due reati non sono in concorso formale. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 gennaio 2008 n. 4467 Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - False dichiarazioni sulle condizioni di reddito ai fini del beneficio - Rilevanza - Condizioni - Fattispecie. Il reato di cui all’art. 95, d.P.R. n. 115 del 2002 - che sanziona le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni o nelle comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito in vista dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato - è integrato non già da qualsivoglia infedele attestazione ma dalle dichiarazioni con cui l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dal legislatore come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia. Ne deriva che la norma di cui all’art. 95, d.P.R. n. 115 del 2002 è speciale rispetto a quella di cui all’art. 483 cod. pen. (falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico), con la conseguenza che i due reati non sono in rapporto di concorso formale. (In applicazione di questo principio la S.C. ha censurato la decisione con cui la Corte d’appello ha ritenuto integrati gli estremi di cui all’art. 483 cod. pen. per false dichiarazioni dell’imputato circa il proprio reddito ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ancorché avesse accertato che nel periodo interessato l’imputato avesse percepito modesti redditi da lavoro, largamente al di sotto della soglia oltre la quale non è prevista l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 18 marzo 2008 n. 12019. Termini Imerese (Pa): detenuto trovato morto nella sua cella, ipotesi di suicidio palermotoday.it, 4 marzo 2019 Ad accorgersi dell’accaduto gli agenti di polizia penitenziaria. Ogni tentativo di rianimare l’uomo però è risultato vano. Ancora da chiarire se il detenuto, condannato per maltrattamenti, si sia tolto la vita. Ipotesi suicidio, disposta l’autopsia. È accaduto sabato pomeriggio nella casa circondariale Antonino Burrafato di Termini Imerese dove si sarebbe suicidato M.S., bagherese in carcere dopo una condanna per maltrattamenti. Quando sono intervenuti gli agenti di polizia penitenziaria per lui non c’era più nulla da fare. Appreso l’accaduto gli agenti hanno avvisato la direzione del carcere, i familiari e l’autorità giudiziaria che ha disposto successivamente l’autopsia. L’esame da eseguire all’Istituto di medicina legale del Policlinico servirà a chiarire la causa del decesso, per stabilire in quale direzione concentrare le indagini o chiudere il caso. Napoli: nel carcere di Secondigliano il Polo Universitario a celle aperte napolitoday.it, 4 marzo 2019 L’inaugurazione: dedicato ai detenuti vedrà all’interno celle aperte tutto il giorno, spazi per lo studio, per le lezioni, e per incontrare docenti e tutor. È prevista per oggi, alle 11, l’inaugurazione dell’anno accademico 2018/2019 del Polo Universitario Penitenziario della Campania, che si terrà al Centro Penitenziario di Secondigliano. Previsti alla cerimonia gli interventi di Giulia Russo, direttrice del penitenziario di Secondigliano; Gaetano Manfredi, rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, del Cardinale Crescenzio Sepe; di Giuseppe Martone, Provveditore amministrazione penitenziaria; di Adriana Pangia, presidente Tribunale Sorveglianza; di Lucia Fortini, assessore regionale all’Istruzione; di Marella Santangelo, delegato del Rettore della Federico II al PUP - Polo Universitario Penitenziario della Campania; e di Samuele Ciambriello, garante dei Detenuti della Campania. Il Polo Universitario Penitenziario della Campania è frutto di un lavoro di collaborazione istituzionale tra l’Università degli Studi di Napoli Federico II e del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Campania. Una iniziativa “importante per l’affermazione e la concretizzazione del diritto allo studio di persone in regime di restrizione della libertà personale nel solco di una concezione della pena rieducativa”. Il Polo si trova nel carcere di Secondigliano, due sezioni del quale sono stete destinate agli studenti. Si tratta della “Ionio” per i detenuti in regime di alta sicurezza e della “Mediterraneo” per quelli di media sicurezza. All’interno, celle aperte tutto il giorno, spazi per lo studio, per le lezioni, e per incontrare docenti e tutor. Bollate (Mi): visita a Roberto Formigoni, in carcere lo chiamano presidente di Gabriele Moroni Il Giorno, 4 marzo 2019 Dal 22 febbraio scorso Roberto Formigoni, il Celeste, governatore della Regione Lombardia dal 1995 al 2013, è in carcere a Bollate per scontare la condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione nell’ambito dell’inchiesta Maugeri. Attende il pronunciamento su una misura cautelare meno restrittiva ed è pronto a dare battaglia. Carcere di Bollate, terzo piano, reparto 1, cella da quattro posti, numero 315, 26 metri quadrati. È un’ala dove si trovano i detenuti che hanno superato i 50 anni, le porte delle celle sono aperte dalle 8 alle 20, c’è libertà di spostamento non soltanto sul piano, ma in tutta la palazzina. Roberto Formigoni è immerso nella lettura. Con lui i suoi due compagni di detenzione, italiani. T-shirt con le mani lunghe, a strisce verdi e blu, pantaloni blu, mocassini, Formigoni riceve la visita di un politico. Una verdissima pianta rampicante trionfa su un muro, aiutata dalla precoce primavera milanese. Il tavolo al centro del locale è sommerso da centinaia e centinaia di lettere, telegrammi, biglietti. Tanti estimatori dell’uomo che ha governato la Lombardia per diciotto anni hanno voluto manifestargli solidarietà, vicinanza. Le missive contengono anche i commenti stupiti di chi giudica la sentenza sprovvista di prove. Libri, tanti libri, attingendo ai due zaini zeppi di volumi che Formigoni si è portato dietro la mattina del 22 febbraio, quando si è presentato in carcere. Il visitatore nota un trattato di economia e un testo con il titolo “La sfida”. La lettura, insieme con la riflessione e la preghiera, riempiono le sue giornate sempre uguali che iniziano alle sei e mezzo del mattino con la sveglia e terminano attorno alle 23, qualche volta anche un po’ più tardi, verso mezzanotte. Ieri non è mancato alla messa della domenica. Il colloquio con l’ospite prosegue in una saletta con un televisore. Porta sempre in tasca il rosario che lo ha seguito in carcere, lo tiene in mano mentre parla. Si discorre di attualità politica. Inevitabilmente anche della vicenda giudiziaria. “Ho la coscienza - dice Formigoni - pulita e tranquilla. Il mio animo è sereno. Accetto le circostanze nelle quali mi è chiesto di vivere”. Pronuncia parole pacate, non di rassegnazione. L’uomo che veniva chiamato il Celeste e che oggi, a 72 anni, deve scontare un condanna definitiva a cinque anni e 10 mesi per corruzione in relazione alla vicenda Maugeri-San Raffaele, si mostra reattivo, combattivo. Attorno si coglie un clima di rispetto. Tutti gli si rivolgono chiamandolo “presidente”. Al momento del congedo, Formigoni affida un messaggio al visitatore: “Ringrazio tutti dell’affetto”. Nei giorni scorsi l’ex governatore lombardo ha scritto al periodico “Tempi”: “Carissimi amici, grazie per l’abbonamento, e per gli articoli e le testimonianze che mi avete inviato”. Subito dopo una richiesta: “Vi prego di pubblicare, magari anche più di una volta, queste mie parole, perché i messaggi che mi arrivano sono proprio tanti”. “Ringrazio - ha proseguito - tutti gli amici e tutte le persone che i questi giorni mi stanno facendo pervenire lettere, telegrammi, cartoline, mail di sostengo e di stima. Non riuscirò mai a ringraziarvi personalmente come vorrei. Vi ringrazio e vi saluto tutti tramite Tempi. Ciao”. Tolmezzo (Ud): l’arte nata in prigione nel palazzo della politica Il Gazzettino, 4 marzo 2019 Arte nata in carcere, che esce dalla prigione in cui ha preso forma, colore e segno, per entrare nella Casa della Comunità regionale e in questo modo offrirsi idealmente a tutto il territorio come testimonianza del bisogno di relazione con il mondo. È questo il messaggio profondo, sottolineato dal presidente del Consiglio regionale Piero Mauro Zanin, della mostra Ultimi e Invisibili che espone le opere dei detenuti del carcere di Tolmezzo. È frutto del progetto Comunicar-Arte, laboratorio di pittura della stessa casa circondariale autogestito dai detenuti autodidatti e promosso dal Lions Club Pordenone Naonis, che ha trovato alleato il Garante regionale dei diritti della persona. La mostra sarà visitabile fino al 22 marzo, al secondo piano del Palazzo di piazza Oberdan 6 a Trieste. Milano: “Progetto carcere”, cena solidale al Fopponino chiesadimilano.it, 4 marzo 2019 Nell’ambito del “Progetto carcere”, un gemellaggio tra la comunità dentro e quella fuori le mura, una cena preparata dagli studenti del Capac. Il ricavato della serata sarà devoluto in parte a progetti a favore dei detenuti e in parte alla scuola professionale di via Murillo. Nella parrocchia milanese San Francesco al Fopponino, a due passi da San Vittore, è attivo da tempo il “Progetto carcere”, un gemellaggio tra la comunità dentro e quella fuori le mura. Il gruppo di lavoro ha già dedicato diverse serate per conoscere la realtà carceraria, con le sue luci e le sue ombre, ha incontrato il direttore, il cappellano, volontari penitenziari… e ognuno ha raccontato l’esperienza detentiva dal suo punto di osservazione. La prossima iniziativa del “Progetto carcere” è una cena solidale, lunedì 4 marzo alle 19.30 presso il salone Ghidoli della parrocchia del Fopponino (ingresso via Paolo Giovio 41) preparata anche da alcuni studenti del Centro professionale Capac che forma cuochi e camerieri. Il menu comprende antipasto di salumi e gnocco fritto, risotto giallo alla milanese e torta paradiso con crema. Il ricavato della serata sarà devoluto in parte a progetti a favore dei detenuti e in parte alla scuola professionale di via Murillo. “Nell’attenzione alla comunità del carcere - dicono gli organizzatori - vogliamo imparare a vivere un’esperienza di crescita culturale, spirituale e umana per cogliere la complessa realtà del male e della sua riparazione nella giustizia, della dignità della persona e della sua capacità di conversione e di rieducazione”. Per partecipare alla cena del 4 marzo a offerta libera occorre chiamare il numero 335.8258693. L’infanzia, il tempo dei più poveri. Non siamo un Paese per bambini di Nadia Ferrigo La Stampa, 4 marzo 2019 Un minore su 5 non ha mezzi economici sufficienti. Prima della crisi i più disagiati erano gli over 65, ora sono gli under 17. Borgomeo, presidente con i bambini: “I figli dei poveri resteranno poveri. È venuto meno il ruolo della comunità che educa”. In Italia un milione e ottocentomila bambini vivono in povertà assoluta. Uno su otto. Nel 2005 la classe di età con il maggior disagio erano gli over 65, ora sono gli under 17. Secondo la definizione dell’Istat, povertà assoluta significa “non potersi permettere le spese minime per condurre una vita accettabile”. Nel 2005 l’incidenza tra gli under 17 era del 3,9%, del 4,5 % tra gli over 65. La percentuale più alta tra le diverse fasce d’età. Dodici anni dopo, mentre la situazione si è stabilizzata per gli over 65 - i dati registrano un incremento dello 0,1% - è drasticamente peggiorata per tutti gli altri. Tra i minori la percentuale è triplicata, ora segna il 12,1%. Il flop dei percorsi di studio - La povertà relativa, cioè “non poter spendere quanto in media le famiglie in Italia spendono”, è la quotidianità per un bambino su cinque. Sono 2 milioni e 156 mila minori, poco più del 14% tra Nord e Centro e 34% al Sud. L’atlante della povertà non risparmia né le piccole né le grandi città. Tra le aeree più problematiche, i quartieri di Triulza-Expo, Selinunte e Ponte Lambro a Milano. Scampia, Piscinola e Miano a Napoli. Tor Cervara, Casetta Mistica, Santa Palomba a Roma. “Punto primo, la grande crisi economica ha aumentato il numero dei poveri”, ragiona Carlo Borgomeo, presidente dell’impresa sociale “Con i Bambini”. Vero. La povertà assoluta oggi riguarda 5 milioni e 58 mila persone, il doppio rispetto al 2008. “Punto secondo, che ancora fatica a essere universalmente riconosciuto, è che le opportunità per i minori sono sempre meno. Mancano musica, teatro, sport, relazioni” continua Borgomeo. Le condizioni economiche della famiglia condizionano i percorsi di studio, gli esiti e i destini dei giovani. “Con i bambini” è l’ente che gestisce il Fondo sperimentale nato contro la povertà educativa: dal 2016 ha già erogato 202 milioni di euro su 202 progetti. Rinnovati con 165 milioni per il prossimo triennio. Lo scorso anno Istat e Save the Children hanno elaborato l’Educational Poverty Index, compito affidato dalla legge di stabilità. Calcola le opportunità negate ai bambini, che invece andrebbero loro riconosciute. Sono quelli che vivono in luoghi ad alta intensità criminale, con due alternative: andarsene o essere reclutati. Le vittime di abusi, i figli delle donne vittime. Le famiglie numerose, chi vive con madri single e padri assenti. I figli dei detenuti. Povertà educativa vuol dire non avere un libro da leggere, nemmeno quelli di scuola, un parco in cui giocare. Si accompagna alla deprivazione materiale, e l’una alimenta l’altra. Le disuguaglianze sociali si accentuano, la povertà è un “abito mentale”. Privazione e stigma che si trasmette dai genitori ai figli. La scuola dovrebbe avere il compito di riequilibrare, ma non sempre è possibile. L’ascensore sociale si è rotto - Il tasso di abbandono precoce italiano è al 14%. Anche se in calo, resta più alto della media europea. Con una forbice sempre più preoccupante tra Nord e Sud. In Sicilia un ragazzo su quattro non va oltre le medie. Va a scuola solo il 78% dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni con cittadinanza straniera. Detto brutalmente, l’ascensore sociale si è rotto. Se nasci povero, resterai povero. “La comunità deve convincersi che è una questione che riguarda tutti. Una società che disinveste sui minori si sta costruendo un futuro pessimo - continua -. In tutti i nostri progetti coinvolgiamo il terzo settore, cercando di costruire comunità educanti dentro i territori. Un’infrastruttura, almeno sociale, che potrà poi rappresentare un’alternativa”. La sperimentazione dovrebbe porre le basi per le politiche per l’infanzia dei prossimi anni. “Tra i metodi di valutazione dei nostri progetti c’è chiedere ai bambini cosa immaginano per il loro futuro - conclude con un filo di speranza Borgomeo. Partiamo da risposte inesistenti. Ma lavorando con e per loro, qualche cosa di buono alla fine viene fuori. Sempre”. Alt agli insulti in rete: l’A-team è multidisciplinare di Elena Pasquini Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2019 Le etichette sono hate speech e fake news; le azioni minacce e commenti offensivi per un verso, notizie false per un altro. L’habitat ideale per diffondersi è il web. I casi sono all’ordine del giorno: dagli attacchi alla cantante Emma Marrone per la sua difesa dell’apertura dei porti in favore dei migranti agli insulti contro l’ex assessore provinciale di Gorizia, Ilaria Cecot, che vanno avanti dal 2014. Anche in questo caso per gli interventi in favore degli immigrati. Le sole rettifica o denuncia per diffamazione non bastano più per ripristinare la reputazione: all’avvocato si affiancano altre figure professionali, anche per contrastare immediatamente la viralità delle informazioni e limitare i danni. L’importanza del fattore tempo e della multidirezionalità delle azioni di contrasto, se da una parte rende fondamentale l’informazione e la consapevolezza del rischio, dall’altra porta in campo ingegneria informatica, psicologia e web reputation. L’obiettivo è fermare il fenomeno, senza tralasciare la raccolta delle prove, e immettere in rete contenuti corretti mentre la vittima recupera fiducia e autostima. Approccio integrato - “Bisogna verificare subito il luogo dove sono pubblicate le informazioni: prima inizia l’intervento, maggiori le possibilità di esiti positivi”, spiega l’avvocato penalista Caterina Flick, of counsel Nunziante Magrone e docente di Diritto internazionale della società digitale presso l’Università Uninettuno. Un approccio integrato con professionisti di cui si conoscono approfonditamente le competenze permette di costruire “caso per caso” la squadra operativa. “L’intervento di ognuno può variare sulla base degli apporti altrui. Si tratta di un lavoro sartoriale legato alla nostra reputazione, alle nostre conoscenze e alla capacità di calibrare gli interventi sulle esigenze della persona offesa”, magari decidendo di non intervenire legalmente ma lavorando nelle retrovie con un’attività di litigation pr. “L’hate speech non è un fenomeno nuovo, ma è ora facilitato dalle tecnologie digitali sia per il venir meno della fisicità della relazione sia per l’amplificazione dei messaggi attraverso i social media - spiega Isabella Corradini, psicologa sociale e criminologa, presidente e direttore scientifico del centro ricerche Themis -. Per questo l’approccio integrato è utile e imprescindibile, perché coinvolge diverse dimensioni tra cui quella legale, ingegneristica, umana e sociale”. La ricerca delle prove - La formazione resta la migliore difesa. Se non basta, l’ingegnere informatico è lo specialista con cui il legale collabora per le indagini forensi. “Per rivalersi in giudizio servono prove incontestabili”, ricorda Daniele Muscarella, ingegnere informatico in Siro Consulting. Log di connessione, marche temporali, collegamenti tra firme e avatar alla persona fisica “cristallizzano” alcune informazioni utili a strutturare l’intervento a tutela del cliente, anche per la successiva strategia condivisa con la responsabile della “reputation” per trovare il delicato equilibrio tra i termini esatti da utilizzare nei luoghi adeguati. Dopo l’analisi, parte il lavoro attorno alla persona. Servono in media dai 6 ai 12 mesi (e dai 10mila euro in su) per intervenire sui commenti lesivi pubblicati su social, articoli, forum e ricostruire un’identità digitale positiva seguendo un piano d’intervento che divide per competenze le azioni e si aggiorna costantemente. “Non basta dire che “si ripulisce” il web - afferma la web reputation specialist e fondatrice di Siro consulting, Simona Petrozzi. È un lavoro di ricostruzione di un’identità digitale positiva” che mette in parallelo la gestione della crisi, la rimozione dei contenuti offensivi, la pubblicazione di quelli corretti nell’ottica dei motori di ricerca, lo sviluppo della resilienza e il recupero dell’autostima”. “C’è ancora molto da fare” chiosa l’avvocato Flick commentando l’ultimo report sull’attuazione del Codice di condotta della Commissione europea per il contrasto all’illecito incitamento all’odio online, cui aderiscono tra gli altri Facebook, Microsoft, Twitter e Youtube. La crescita di rapide valutazioni (l’89% entro 24 ore) e rimozioni dalla rete (72% dei contenuti segnalati) non è che un punto di partenza per “definire meglio cosa rientri nello hate speech e colmare l’inevitabile asimmetria tra chi segnala e la piattaforma che, per ora, mantiene una grande discrezionalità nel valutare cosa rimuovere”. Grillo attacca la manifestazione di Milano: “Razzismo fenomeno mediatico” di Emanuele Buzzi Corriere della Sera, 4 marzo 2019 Scontro politico dopo il corteo. Partito democratico e Forza Italia: rispetti la piazza, il suo governo non rispetta i diritti. Il sindaco Sala: “La gente va rispettata”. Il giorno dopo, resta ancora ampia l’eco della manifestazione anti razzista che ha riempito le strade di Milano. A tenere banco è soprattutto l’attacco di Beppe Grillo al sindaco Sala. “A Milano 250.000 persone hanno manifestato contro il razzismo, un razzismo esclusivamente mediatico, ma Sala lo definisce momento spartiacque... ed ha ragione”: il fondatore dei Cinque Stelle inizia così sul suo blog un intervento sul corteo che si è tenuto sabato nel capoluogo lombardo. Un post, quello del garante M5S, che suscita diverse reazioni. Grillo lancia il suo affondo: “Chiunque abbia un minimo di buon senso non vede alcun razzismo, ma soltanto un crescente egoismo sociale. Ma allora cosa sta succedendo? Sembra che il paese non voglia confrontarsi con i suoi “veri fantasmi”“. “Il Paese sceglie falsi problemi” - Il fondatore del Movimento poi torna a pungere. “Il Paese sceglie falsi problemi: piuttosto che decidere di sostenere i suoi milioni di poveri preferisce disquisire di miliardi per bucare una montagna”. Grillo prende di mira dem e forzisti. Il Paese - sostiene il garante - “piuttosto che cacciare i mafiosi della politica offre a quella stessa vecchia politica alibi per rifarsi l’ennesimo lifting. Terreno di coltura ideale per i frou frou piddini e berlusconiani: cabaret invece che lotta”. E cita William Shakespeare: “Persi nelle nebbie delle primarie si ritrovano nel “vuoto nulla impannocchiato in fronzoli”. Le reazioni - Le parole di Grillo hanno così acceso il dibattito, con i forzisti e i dem pronti a replicare. “Il comico Grillo si permette di deridere le persone che sono scese in piazza ieri a Milano. Le piazze vanno sempre rispettate, quando si è con loro e quando non la si pensa come loro. Avviene così in democrazia”, commenta Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera. E soprattutto Beppe Sala, sindaco di Milano, il primo ad essere chiamato in causa, chiede il rispetto delle piazze. “Lei ha ragione, prima di tutto il rispetto per le piazze - replica Grillo -. Le suggerisco una regola aurea a questo proposito: evitare di saltarci sopra per metterci il cappello”. L’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, contrattacca: “Non vuole che si dica quello che molti manifestanti di ieri pensano: il suo governo fa leggi razziste e non pensa a politiche forti per i diritti e il lavoro. Accetti che parte del popolo non sta con loro”. La dem Debora Serracchiani, invece, sottolinea quella che a suo avviso è la natura del M5S: “Grazie Grillo che parlando di razzismo fai chiarezza anche di un altro equivoco su cui hanno marciato i Cinque Stelle: adesso puoi prendere la tessera della Lega”. Nicola Fratoianni di Sinistra italiana stigmatizza: “Grillo sentenzia che il razzismo non esiste, e che è un problema mediatico. Abbia il coraggio di dirlo ai bimbi della scuola a Foligno, o ai bimbi delle scuole di Lodi”. Il giudizio di Renzi - Anche l’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, commenta la manifestazione di Milano: “Credo rappresenti il segno di un Paese che ha rapidamente superato la fase del “grillismo”. E ha spiegato: “Credo che il grillismo si sia già sgonfiato, non soltanto alle elezioni regionali ma nella credibilità della classe dirigente che un anno fa rappresentava la speranza e il futuro e che oggi paradossalmente è già il segno di un fallimento”. E conclude: “Penso che quella piazza sia anche un segnale a Salvini e alla Lega”. Migranti irregolari: quanti ne ha rimpatriati Salvini in 8 mesi di governo? di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 4 marzo 2019 A gennaio 2018 Matteo Salvini in campagna elettorale promette: “Non vedo l’ora di vincere le elezioni per riempire gli aerei e riportare gli immigrati a casa loro. Ce ne sono troppi”. Le elezioni le ha vinte. Nei primi sei mesi da ministro dell’Interno (giugno-dicembre 2019) ha rimpatriato 3.851 irregolari. Nello stesso periodo di tempo, l’anno prima, l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti aveva eseguito 3.968 rimpatri. Dal primo gennaio 2019 al 17 febbraio sono stati 867, 18 al giorno. Complessivamente nel 2018 - con il governo Gentiloni per la prima metà dell’anno e della Lega-M5S per la seconda - ci sono state 6.820 espulsioni, sempre 18 al giorno. Nel 2017 sotto Gentiloni 6.514, ovvero 17 al giorno. A conti fatti, discostarsi da questi numeri è difficile. Ecco perché. Chi può essere espulso, chi in realtà viene espulso - In base agli ultimi dati Eurostat disponibili, tra il 2015 e il 2017 su 530 mila irregolari presenti in Italia, sono stati emessi 95.910 fogli di via, mentre i rimpatri effettivi sono stati 16.899 (meno del 18%): significa che il numero di chi viene riaccompagnato nel proprio Paese - indipendentemente dal governo in carica - è infinitamente più basso rispetto alla platea di chi potenzialmente dovrebbe lasciare l’Italia. Il provvedimento di espulsione può essere emesso: 1) per motivi di sicurezza dello Stato su decreto del ministero degli Interni per fiancheggiatori o sostenitori del terrorismo; 2) su indicazione delle Questure per stranieri non in regola con i documenti e/o con un profilo di pericolosità sociale; 3) come pena alternativa alla detenzione per condanne inferiori ai 2 anni. Quanti rimpatri e verso quali Paesi - Per rimpatriare un immigrato è indispensabile che il Paese d’origine lo riconosca come suo cittadino: se l’ambasciata del Paese in questione non emette il documento di viaggio per il rientro, non possiamo rimpatriare nessuno perché poi non è permesso lo sbarco. Dunque, servono accordi con gli Stati che devono riprendersi gli irregolari, e per riuscire a sottoscriverli bisogna dare in cambio qualcosa. In più è sempre necessaria la collaborazione politica tra i due Paesi, senza la quale non si va lontano. Tra il 2015 e il 2017, la stragrande maggioranza di irregolari che hanno ricevuto il foglio di via arrivano da Marocco (25.440), Tunisia (12.965), Nigeria (5.500) ed Egitto (5.095). Sono Paesi con cui, tramite la Polizia di Stato, abbiamo firmato accordi che si basano su due pilastri: al fine di migliorare le competenze nei controlli di frontiera, l’Italia paga corsi di formazione alle forze di Polizia di quei Paesi, oltre ad assicurare forniture di mezzi ed equipaggiamenti. L’accordo di riammissione con il Marocco è stato firmato a Rabat nel 1998, ma non è entrato in vigore per mancata conclusione della procedura di ratifica da parte del Marocco. I consolati comunque collaborano, però in media riusciamo rimpatriare solo un marocchino su dieci. Con la Nigeria abbiamo firmato a Roma nel 2000, ma il patto è applicato dal 2011. L’Ambasciata nigeriana procede regolarmente a effettuare un’intervista ai suoi cittadini prima di emettere il documento di viaggio per il rimpatrio: alla fine, tra il 2015 e il 2017, sono stati imbarcati 725 nigeriani (il 13%). Va meglio nel caso di Egitto e Tunisia, dove torna forzatamente a casa uno su tre: 4.205 in Tunisia, 1.655 in Egitto. Il primo accordo con la Tunisia è stato firmato nel 1998, poi è stato potenziato nell’aprile 2011, con la firma di un verbale in cui, a fronte di un impegno italiano in termini di assistenza a favore della Tunisia, sono state stabilite procedure rapide per il rimpatrio dei tunisini sbarcati illegalmente. L’accordo di riammissione tra Italia ed Egitto è stato firmato a Roma nel 2007 ed è in vigore dal 2008. Il grosso degli irregolari proviene dall’Africa subsahariana - Il problema è che la maggior parte degli irregolari proviene da Paesi con i quali non esistono ancora accordi e quindi le espulsioni sono possibili sono in casi molto circoscritti. Verso l’Algeria su 4.570 fogli di via, i rimpatri sono 245 (5%); in Senegal su 3.540 solo 265 (7%), in Sudan su 1.965 sono 50 (3%), in Gambia su 1.385 sono 50 (4%). In sostanza mentre la percentuale di espulsioni verso i Paesi dell’Africa è del 15% (10.050), si scende al 7% verso l’Africa Subsahariana: su 18.200 irregolari con foglio di via ne abbiamo rimpatriati 1.300. Per queste nazionalità fanno fatica a rimpatriare anche gli Stati dove l’applicazione delle espulsioni è a tolleranza zero. In Francia, dove il tasso generale di rimpatri è al 20%, verso l’Africa scende al 16%, per arrivare al 10% verso la zona sub sahariana. Stessa situazione per la Germania: con una percentuale di rimpatri all’81%, verso l’Africa siamo al 12%, e precipita al 9% verso la Subsahariana. Ai Paesi africani conviene fare accordi? - La difficoltà si colloca in un quadro di non convenienza da parte dei Paesi africani nella stipulazione di accordi e anche quando li fanno, se non sono costretti, non riprendono i loro cittadini. Il motivo sta nelle famose “rimesse”. Dall’Italia ciascun immigrato manda alla famiglia d’origine denaro sufficiente a consentire una vita dignitosa. Secondo le stime che emergono incrociando i dati di Banca Mondiale e Istat, ogni nigeriano invia 11.826 dollari l’anno; un marocchino 2.441; un egiziano 5.081; un senegalese 4.199; un tunisino 3.423; un ghanese 3.137. Sono cifre che rapportate al Pil del Paese d’origine bastano a mantenere fino a sei persone. È evidente che nessun accordo può compensare la ricaduta di queste rimesse. Una strada alternativa potrebbe essere quella dei rimpatri “volontari”, ovvero do al singolo immigrato un po’ di denaro per consentirgli di ritornare nel suo Paese ed aprire una piccola attività. Parliamo però di iniziative ancora troppo limitate. I costi e i Cpr che mancano - C’è poi il nodo dell’identificazione. La maggior parte degli stranieri devono transitare dai Centri per il rimpatrio, nei quali si verifica identità, nazionalità e disponibilità dei viaggi aerei. Doveva essere aperta una struttura in ogni regione, ma a dicembre erano attivi i centri di Torino, Roma, Bari, Brindisi, Potenza, Caltanissetta e Trapani, con un totale di 715 posti. L’intenzione è di arrivare entro l’estate a 1.600, con aperture a Milano, Modena, Gradisca e Macomer. Per quel che riguarda i costi variano dai 3 ai 5.000 euro per ogni rimpatrio. Per mantenere i livelli attuali servono dai 20 ai 34 milioni di euro. Per il 2019 Salvini ha stanziato 1.5 milioni di euro in più, ovvero la copertura per ulteriori 500 rimpatri. Conclusione: promettere di riempire gli aerei è facile, passare ai fatti è tutt’altra storia. La lobby romena alla Ue che frena Laura Kovesi alla Procura europea di Paolo Valentino Corriere della Sera, 4 marzo 2019 Venerata dall’opinione pubblica, nel suo Paese si è guadagnata l’odio di buona parte della classe politica perché ha perseguito la corruzione pubblica senza riguardi per nessuno, compreso un ex primo ministro. L’Unione europea è alle soglie di una piccola rivoluzione. Nelle prossime settimane Consiglio ed Europarlamento designeranno insieme il capo della nuova Procura europea, che a partire dal 2020 guiderà le inchieste sulle frodi ai danni dei fondi Ue e nell’applicazione dell’Iva. Per la prima volta, un’autorità comune avrà il potere di indagare nei 22 Paesi che aderiscono all’iniziativa. Ma la rivoluzione sarebbe doppia, se ministri e deputati facessero la cosa giusta, nominando una donna, Laura Codruta Kovesi, ex procuratrice generale della Romania, indicata da un comitato di esperti come la persona “meglio qualificata per l’incarico”, dopo un processo di selezione rigoroso. Nel suo Paese Kovesi è una leggenda. Nominata a 33 anni al vertice della Procura romena, ha perseguito la corruzione pubblica senza riguardi per nessuno, facendo condannare e mandando in prigione centinaia di esponenti politici di tutti i partiti, compreso un ex primo ministro. Venerata dall’opinione pubblica, Kovesi si è guadagnata l’odio di buona parte della classe politica. Così, l’ostacolo più forte alla sua nomina è proprio l’opposizione del governo di Bucarest, che può far leva sulla sua posizione di presidente di turno dell’Ue. Il più accanito è l’ex premier e capo del partito socialdemocratico, Liviu Dragnea, che lo scorso anno era riuscito a far licenziare Kovesi da procuratrice generale. Dragnea era stato costretto a dimettersi da premier dopo la condanna per frode elettorale e peculato ed è ancora sotto inchiesta per appropriazione indebita di fondi europei. La lobby romena contro Kovesi è scatenata. Le autorità hanno perfino tentato di diffamarla, facendola mettere sotto inchiesta per presunti abusi d’ufficio. La buona notizia è che due commissioni del Parlamento europeo hanno espresso un voto favorevole alla sua nomina. Quella cattiva è che in un voto segreto i 28 rappresentanti permanenti hanno a sorpresa messo Kovesi al secondo posto delle loro preferenze, dietro il candidato francese, Jean Francois Bohnert, segno che le pressioni rumene funzionano. Non che quest’ultimo non abbia i titoli per l’incarico. Ma in presenza di un’aperta e aggressiva opposizione del governo rumeno, non nominare Laura Kovesi, la candidata migliore secondo gli esperti, equivarrebbe a una resa. Stati Uniti. Venti colpi di pistola contro un nero disarmato: prosciolti i poliziotti globalist.it, 4 marzo 2019 Stephon Clark venne ucciso da due agenti che dissero di aver scambiato il suo telefonino per una pistola. Le dure parole del governatore della California: “Il sistema giudiziario tratta neri e latinoamericani in maniera diversa dai bianchi”. Il procuratore distrettuale di Sacramento ha annunciato che non verranno formalizzate accuse nei confronti di due agenti di polizia, indagati per aver ucciso il 18 marzo 2018 un nero dopo aver scambiato il cellulare dell’uomo per una pistola. Il procuratore Anne Marie Schubert ha dichiarato che gli agenti, Terrence Mercadal e Jared Robinet, hanno agito legalmente quando hanno esploso 20 colpi contro il 22enne Stephon Clark, colpito da almeno 7 proiettili e deceduto. Gli agenti erano intervenuti dopo una segnalazione di atti vandalici. Il giovane, che aveva appena infranto i vetri di 3 auto, aveva scavalcato una recinzione ed era entrato in un giardino. L’abitazione in questione era della nonna. All’arrivo dei poliziotti, Clark aveva in mano uno smartphone. Gli agenti, come ha riferito Schubert, sono stati ingannati da un riflesso luminoso poco prima che l’uomo avanzasse verso di loro. Mercadal e Robinet hanno affermato di aver pensato che il giovane fosse armato e hanno aperto il fuoco. Nell’ambito dell’indagine, sono stati presi in considerazione anche messaggi e informazioni derivanti dall’analisi del cellulare di Clark. Il procuratore, quindi, ha fatto riferimento ad un episodio di violenza domestica che, 2 giorni prima della sparatoria, aveva coinvolto il 22enne e Salena Manni, la donna da cui Clark ha avuto 2 figli. Secondo quanto riferito da procuratore, il giovane aveva pensato al suicidio, potrebbe aver ingerito farmaci per togliersi la vita e temeva l’arresto. Tali dettagli, ha spiegato Schubert, sono stati resi noti perché una giuria li avrebbe potuti giudicare rilevanti in caso di formalizzazione delle accuse. SeQuette Clark, madre del ragazzo ucciso, ha denunciato “una campagna di diffamazione”. “Quello che è successo prima della sparatoria - ha detto - non è una giustificazione. Non dà il permesso di ucciderlo. È stato un omicidio e andrebbe perseguito come tale. Il sistema giudiziario non è per noi, non è per la comunità nera. Il procuratore si vergogni”. La famiglia Clark ha intentato una causa contro la città di Sacramento e chiede un risarcimento di 35 milioni di dollari. Sulla vicenda si è espresso anche il governatore della California, Gavin Newsom: “Bisogna riconoscere la dura verità, il nostro sistema giudiziario tratta i giovani neri e latinoamericani in maniera differente rispetto ai bianchi. Questo deve cambiare”. Egitto. Torna libero il fotografo Shakwan, simbolo della repressione di Al Sisi La Repubblica, 4 marzo 2019 Era stato arrestato nel 2013 mentre fotografava il massacro di sostenitori dei Fratelli musulmani da parte dell’esercito e della polizia. L’Unesco gli conferì il premio per la libertà di stampa. Dopo cinque anni di carcere e una campagna mondiale a suo nome, stamane è tornato libero al Cairo il fotogiornalista Mahmoud Abu Zaid, meglio noto come Shawkan, uno dei simboli della repressione imposta dal presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sull’Egitto. Shakwan era stato arrestato nell’agosto del 2013 mentre stava lavorando e accusato di delitti punibili con la pena di morte: appartenere a un’organizzazione terroristica, di omicidio, di tentato omicidio e di resistenza a pubblico ufficiale. Il suo arresto avvenne in una delle giornate peggiori della storia dell’Egitto, quella del massacro di Rabaa al-Adawiya, quando per Human rights watch furono uccise fra le 817 e le 1000 persone, appartenenti ai Fratelli musulmani e loro simpatizzanti che rifiutarono di sgomberare il campo in cui i sostenitori del presidente Mohammed Morsi si erano accampati per dire no al colpo di Stato con cui l’allora generale Abdel Fatah Al Sisi sovvertiva il risultato delle prime elezioni libere dell’Egitto post-primavera araba. Algeria. Bouteflika sfida la piazza e si ricandida: “Sarò ancora presidente” di Karima Moual La Stampa, 4 marzo 2019 Abdelaziz Bouteflika, 82 anni compiuti sabato, sfida la piazza e torna in lizza per le elezioni presidenziali algerine, in programma il prossimo 18 aprile. Ieri pomeriggio i responsabili del suo team elettorale - il presidente è tutt’ora ricoverato a Ginevra - hanno presentato la documentazione necessaria per la candidatura e una “lettera agli algerini” nella quale Bouteflika promette, in caso vittoria, di “organizzare elezioni anticipate” nelle quali non si presenterà, e una riforma della Costituzione da approvare con un referendum. Anche ieri quella di Algeri è stata una domenica blindata con strade chiuse e presidiate dalla polizia che cercava di impedire ai manifestanti, soprattutto studenti, di marciare fino alla sede del Consiglio costituzionale, dove andavano presentate le candidature. A differenza di venerdì, quando il bilancio dei cortei è stato di almeno un morto, 187 feriti e un numero imprecisato di arresti, le manifestazioni si sono svolte senza incidenti. In migliaia hanno sfilato in altre città del Paese: gli slogan erano gli stessi. “Ho 30 anni: 10 di terrorismo, 20 di Bouteflika”, “No al quinto mandato”. Gli algerini che hanno riempito le strade e le piazze manifestando pacificamente dal 22 febbraio sino a ieri - termine ultimo per le candidature alle prossime elezioni presidenziali - erano stati chiarissimi: vogliono girare pagina. Quella segnata dalla paura verso un passato di violenze che di fatto ha partorito un immobilismo verso qualsiasi iniziativa di cambiamento politico che ha prodotto per vent’anni un solo volto, quello del presidente Abdelaziz Bouteflika, circondato dal suo entourage di potere che guida un Paese “umiliato” (questa la parola che molti algerini pronunciano) e bloccato verso il futuro. Mai in questi ultimi vent’anni, primavere arabe comprese, è stata alzata in modo inequivocabile e unita la voce del popolo algerino, contro il suo radicato “Pouvoir”. Perché se vent’anni fa Bouteflika poteva rappresentare una soluzione al caos delle violenze del terrorismo, oggi la sua presenza e candidatura per un quinto mandato - nonostante la malattia che lo ha reso disabile da almeno 6 anni - rischia di trasformare lui stesso nella causa del caos per il Paese. Le possenti manifestazioni che anche ieri ad Algeri e in altre città chiedevano la retromarcia sulla candidatura non sono le ultime e anticipano giorni accesi e tutt’altro che pacifici per l’Algeria. Abdelwahab Derbal, presidente dell’Hiise (l’ente che controllerà il voto) ha chiarito che le candidature alle elezioni devono essere depositate dai candidati stessi, e non da loro delegati, come invece ha fatto Bouteflika. Da anni, in Algeria, il presidente non si vede, né si sente, e la sua cerchia viene stigmatizzata da molti algerini come una banda che tiene in ostaggio il presidente, ormai troppo malato, per non perdere il potere. In un documento trasmesso in televisione a rete unificate, il presidente ha assicurato di aver ascoltato le proteste delle strade, e ha aggiunto che una volta eletto si impegnerà per organizzare una conferenza nazionale inclusiva, seguita da elezioni presidenziali anticipate alle quali non parteciperà. Saranno i prossimi giorni a definire le conseguenze della scelta di Bouteflika, che evidentemente ha sottovalutato la portata di queste manifestazioni e non ha voluto vedere il peso dei giovani sotto i 30 anni (che in Algeria sono il 51,6% della popolazione) che nei giorni scorsi è sceso in piazza con uomini, donne, anziani di ogni ceto sociale. L’unità di questa nuova Algeria contro il “Pouvoir” di Bouteflika si trova però dinanzi a un problema serio e immediato: alle elezioni presidenziali mancano solo due mesi, e nonostante si siano fatti avanti alcuni politici dell’opposizione, rimangono molto deboli rispetto a quelle che sono le aspettative della marea umana mossasi in queste due settimane con disciplina e idee chiare. La mancanza di leader carismatici capaci di far convergere le aspettative del cambiamento rimane uno delle fragilità più profonde nelle proteste. Arabia Saudita. Diritto alla guida, le attiviste rischiano 30 anni di carcere di Giordano Stabile La Stampa, 4 marzo 2019 Le attiviste saudite arrestate lo scorso maggio sono state incriminate e andranno a processo. Sono accusate di aver “minato la sicurezza e la stabilità del Regno” e rischiano fino a trent’anni di carcere, a meno che Re Salman non decida di graziarle e porre fine a un processo che mette in imbarazzo gli alleati occidentali. Venerdì la procura saudita ha annunciato di aver “terminato le indagini”. Le persone incriminate sono diciassette in tutto, la maggior parte donne. Otto, ha precisato il procuratore, sono in libertà provvisoria, mentre altre nove sono ancora “in custodia”. Da allora si sono succedute preoccupazioni e spiragli di ottimismo. Soprattutto dopo che una delle imputate, secondo quanto rivelato dalla sorella, era stata costretta a confessare e a firmare una richiesta di grazia, segno che il sovrano vorrebbe procedere al perdono. Ma le confessioni, hanno denunciato ong per i diritti umani, sono state estorte con la tortura. Torturate e stuprate Amnesty International ha pubblicato nei mesi scorsi un rapporto sconvolgente. Almeno dieci attiviste sono state “torturate, abusate sessualmente e soggette a ogni forma di maltrattamento” in una prigione segreta. Ad alcune sono state inflitte scosse elettriche, due sono state costrette a baciarsi davanti ai loro torturatori. Il procuratore le ha accusate di aver agito “per minare la sicurezza e la stabilità dello Stato”. Poi ha spiegato che avevano ammesso di aver “collaborato con soggetti ostili al Regno”, “reclutato impiegati statali per ottenere informazioni sensibili”, “fornito sostegno finanziario e morale a elementi ostili all’estero”. Accuse molto gravi: se il tribunale confermerà la tesi del procuratore le attiviste rischiano fino a 30 anni di carcere. Non sono stati comunicati i loro nomi ma in gran parte sono giovani impegnate nella battaglia per il diritto alla guida. Un diritto poi concesso nel giugno del 2018. Fra loro ci sono di sicuro Aziza al-Yousef, ex docente King Saud University, e Loujain al-Hathloul, già arrestata nel 2014 perché sorpresa al volante. La stessa Al-Hathloul, ha confermato ieri la sorella Alia, è stata costretta a confessare e a firmare una richiesta di grazia, segno che Re Salman potrebbe farla rilasciare. Riad non vuole aprire un nuovo fronte di polemica con gli Stati Uniti dopo le tensioni seguite all’assassinio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi al consolato saudita di Istanbul lo scorso 2 ottobre. Ieri il “New York Times” ha rivelato che un americano con doppia cittadinanza, Walid Fitaihi, è stato torturato durante la prigionia all’hotel Ritz Carlton, dopo la retata di 500 principi e imprenditori accusati di “corruzione” e poi costretti a versare allo Stato parte dei loro patrimoni. Una condanna pesante delle attiviste riporterebbe le tensioni a un livello pericoloso. Egitto. Svolta dell’islam sunnita “Praticare la poligamia è ingiusto per le donne” di Giordano Stabile La Stampa, 4 marzo 2019 Il grande imam di al Azhar, la massima autorità dell’islam sunnita, Ahmed al Tayeb, ha definito la poligamia “spesso un’ingiustizia per le donne e per i figli”, innescando un grande dibattito all’interno del mondo musulmano. La pratica - ha spiegato su Twitter e nel suo programma tv settimanale - è il risultato di “una mancanza di comprensione del Corano e della tradizione del Profeta”. Nella puntata di venerdì, il capo della prestigiosa università egiziana che il mese scorso si è incontrato con Papa Francesco ad Abu Dhabi - ha inoltre insistito che “coloro che sostengono che il matrimonio debba essere poligamo sono tutti in errore”. Il Corano - ha spiegato - prescrive che per fare in modo che un musulmano abbia più mogli “debba obbedire alle condizioni di equità” e “se c’è ingiustizia è proibito avere più mogli”. Dopo che i commenti del grande imam, al Azhar ha chiarito in seguito di non aver chiesto la messa al bando della poligamia. Al Tayeb, che con il Papa ha firmato un impegno non solo per la pace ma anche per maggiori tutele per la donna, ha affermato che le questioni femminili sono destinate a essere rinnovate. “Le donne rappresentano la metà della società, se non ci prendiamo cura di loro è come se camminassimo su un solo piede”, ha scritto nelle sue osservazioni pubblicate su Twitter. L’approccio del grande imam è stato accolto favorevolmente dal Consiglio nazionale egiziano per le donne.