Ergastolani liberi vigilati? Un’eccezione che conferma la regola di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 3 marzo 2019 Sono fortemente convinto che non esista alcuna persona irrecuperabile e che nessuno debba essere identificato solo con il male che ha fatto. Con un po’ di aiuto, potrebbe emergere anche il bene che ha già in sé e che potrebbe esprimere. Inoltre, penso che non ci sia miglior “vendetta” per la società che educare le persone, perché solo se cambia interiormente il colpevole può rendersi conto del male che ha fatto e solo allora potrà emergere il senso di colpa e l’onesta consapevolezza del danno commesso. Il senso di colpa, infatti, è la più terribile delle pene, peggiore del carcere e dell’ergastolo. Per fortuna (o per sfortuna) molti lo ignorano e preferiscono solo tenerci in carcere e buttare via le chiavi. Sì, è vero, forse qualcuno di questi potrebbe ritornare a fare del male, ma molti lo fanno anche se non sono mai stati in carcere e comunque alcuni di loro potrebbero rimediare parzialmente al male fatto facendo del bene. In ogni caso, il rischio zero non esiste per nessuna persona, perché siamo umani. In noi c’è il bene e il male e, a volte, spetta anche alla società rischiare, pur di trarre fuori il bene. Inoltre, credo che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Oggi mi è capitato di leggere un articolo con l’ingannevole titolo “Ogni sei mesi un ergastolano torna libero grazie alla liberazione condizionale” L’autore inizia con questa premessa: “Negli ultimi dieci anni sono state 19 le persone condannate alla massima pena del nostro ordinamento giuridico che sono uscite dal carcere grazie alla liberazione condizionale” ma si dimentica però di scrivere che quei pochi ergastolani che ce la fanno ad uscire in liberazione condizionale sono l’eccezione che conferma la regola, che è quella che la stragrande maggioranza degli ergastolani usciranno dal carcere solo da cadaveri. L’autore dell’articolo cita anche il mio caso e alcune parole mi hanno ferito e riportato indietro di molti anni. Mi hanno fatto capire che mi devo rassegnare perché, nonostante tutti i miei sforzi, per alcuni rimarrò sempre l’uomo del reato. Desidero ricordare all’autore di questo articolo che per me è molto più “doloroso” e rieducativo adesso fare il volontario in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII (fondata da Don Oreste Benzi) da libero vigilato, che non gli anni passati murato vivo in isolamento totale, soprattutto durante il regime di tortura del 41bis. Trattato in quel modo dalle Istituzioni, mi sentivo innocente del male fatto; ora, invece, che sono trattato con umanità, mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo potrebbe accadere anche alla maggioranza degli ergastolani. Sono convinto che anche il peggiore criminale, mafioso o terrorista potrebbe cambiare con una pena più umana e con un fine pena certo. Ci sono persone che sono sottoposte al regime di tortura del 41bis da decenni, ergastolani che quando sono entrati in carcere avevano compiuto da poco diciott’anni e che ora hanno passato più anni della loro vita dentro che fuori. Persone che sono cambiate, o potrebbero cambiare, ma che non potranno mai dimostrarlo perché nel certificato di detenzione c’è scritto che la loro pena finirà nel 9.999. A fronte del luogo comune che in Italia l’ergastolo di fatto non esiste, è solo il caso di ricordare che in Italia ci sono oltre 1.740 ergastolani, di cui la maggior parte ostativi ad ogni beneficio penitenziario e quindi realmente destinati a morire in galera, senza aver mai messo piede fuori, in decenni e decenni di carcere, a parte quei 19 ergastolani che in dieci anni sono usciti dal carcere. Per ultimo mi piace ricordare all’autore di questo articolo che non tutte le vittime dei reati cercano la giustizia camuffata da vendetta, ad esempio Agnese Moro afferma spesso che: “I mandanti e gli assassini di mio padre sono stati individuati e condannati, ma questo non mi ha liberata dal dolore. Se qualcuno pensa che starà meglio quando il “carnefice” sarà in galera, si illude. Non aiuta per niente a guarire dal tuo dolore. Io ho trovato davvero la pace solo quando ho perdonato”. Raffaele Cutolo sta morendo in carcere, i Radicali: “Merita una fine dignitosa” vocedinapoli.it, 3 marzo 2019 “La meritano tutti i detenuti, altrimenti sarebbe più serio legalizzare la tortura”. Preoccupano le condizioni di salute di Raffaele Cutolo, l’ex boss della Nuova Camorra Organizzata in carcere da circa 40 anni. Cutolo oggi ha 78 anni ed è in regime di carcere duro. Nella sua vita, tranne un breve periodo di latitanza, ha trascorso oltre 50 anni dietro le sbarre. Le sue precarie condizioni di salute sono state più volte denunciate nel recente passato. ‘O Professore è attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Parma dove nel gennaio del 2018 è stata vietata una visita ispettiva al partito Radicale nel reparto riservato ai detenuti al 41 bis. Dei suoi problemi di salute ne aveva parlato la moglie, Immacolata Iacone, in una recente intervista, datata 31 luglio 2017, rilasciata al sito Stylo24: “Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, la sua vista è seriamente minata, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muovere le mani”. Nelle scorse ore a ritornare sulla questione sono gli stessi Radicali che attraverso la coordinatrice Rita Bernardini che nei giorni scorsi ha visitato il carcere di Fuorni di Salerno dove ha trovato una situazione allarmante. Parlando poi con i giornalisti di Cronache del Salernitano ha lanciato la proposta dei Radicali per Raffaele Cutolo, ormai in fin di vita chiedendo: “una fine dignitosa fuori dal carcere. Come per tutti. Noi ci siamo occupati persino di Provenzano. Ci occupiamo di tutti perché la fine di una persona soprattutto in quelle condi­zioni non richiede certo la vendetta. Sono persone che si sono fatti decenni di carcere ed è chiaro che, soprattutto se hanno malattie gravi invalidanti, non possono essere curate e in quel modo la detenzione è un tipo di tortura, cosa da noi vietata anche se si fa così come si fa per chi si trova al 41bis”. Una morte dignitosa “non solo per Cutolo ma per tutti, altrimenti sarebbe più serio legalizzare la tor­tura. In questo caso, infatti, si fa la tortura in forma ipocrita. Queste misure tipo il 41bis vengono giustificate con il fatto che questo carcere duro è dovuto al fatto che oc­corre impedire i legami con la criminalità organizzata perché questi che sono stati capi non diano più ordini. Questa è la giustificazione ma oggi ci sono mezzi tecnologici che potrebbero impedire questi collegamenti ma si usano come mezzo altre forme come il colloquio una volta al mese o l’isolamento. E proprio l’isolamento ad essere una vera e propria forma di tortura che non si giustifica, secondo noi, con la finalità che si vuole raggiungere: troncare i legami con la criminalità organizzata. Abbiamo promosso una proposta di legge per modificare il 41bis sia per abolire l’ergastolo ed in particolare quello ostativo che non da alcuna speranza di poter uscire. Se non ti sei “pentito” e non fai i nomi degli altri continui a ri­manere in questa forma di ergastolo”. Csm, Ermini attacca i populisti: “A rischio toghe e separazione dei poteri” di Liana Milella La Repubblica, 3 marzo 2019 Critiche contro il sovranismo del vicepresidente del Csm al congresso di Magistratura democratica. I penalisti si scagliano contro il decreto sicurezza di Salvini: “Una legge insensata”. Un coro. Da Ermini, Csm. Da Minisci, Anm. Dagli avvocati, Caiazza e Manes. Dal Pd, Cuperlo. Dai magistrati, Ippolito. Un coro, appunto. No al populismo. No alla separazione delle carriere. No al pm sotto l’esecutivo. No ai giudici in balia del “giudizio del popolo”. No alle leggi che traducono in norme dei codici l’ideologia populista e sovranista che sgomita per vincere le prossime elezioni europee e scardinare il sistema. I giudici, ovviamente, non fanno politica, anche se la destra li accusa di farla, soprattutto con inchieste e sentenze. I giudici, ma con loro anche gli avvocati e i giuristi, vogliono solo che non sia sovvertita la Costituzione. Alla sua seconda giornata, il congresso di Magistratura democratica diventa il parterre per mettere solide barriere contro chi - il governo gialloverde, e in particolare Salvini, il politico più forte, più premiato dall’elettorato a spese dei 5stelle, il più aggressivo e irridente verso le toghe - vuole delegittimare i giudici e fare leggi che limitano concretamente la loro autonomia e indipendenza di giudizio, come nel caso della legittima difesa. Lo stesso governo che di certo non sta dalla parte degli immigrati. Tant’è che qui, da ogni muro, spunta e domina la vignetta di Vauro, regalata al congresso, che mostra un giudice con tanto di “tocco” (il loro cappello) che salva un migrante dalle onde. Manca solo il nome di Salvini. Ma è come se ci fosse. Contro l’aggressione populista, che rischia di fare carta straccia dei codici e della Costituzione, si schierano tutti. Dirompente lo speech del vice presidente del Csm David Ermini che lega il populismo “al rischio di una deriva regressiva dello Stato di diritto” e mette in guardia dal fatto che “la democrazia non è una conquista irreversibile della politica”. Ermini prende a prestito l’analisi di Nadia Urbinati, afferma che “scardinare le regole mette in crisi la separazione dei poteri, l’indipendenza della magistratura e delle autorità di controllo, il sistema di pesi e contrappesi, con il rischio di trascinare il processo democratico verso l’abuso della dittatura della maggioranza”. La platea delle toghe riunite a Roma applaude. Ermini prosegue. Descrive “il passaggio traumatico dal mondo di ieri, un passato di espansione dei diritti fondamentali e individuali, all’incognita di un presente giuridicamente regressivo, declinante verso il giustizialismo e povero di tutele”. Nessuna citazione specifica, ma impossibile non leggere dietro queste parole i dubbi di costituzionalità sul decreto sicurezza, i timori per la futura legge sulla legittima difesa, quelli pesantissimi sul ddl Pillon tutto in chiave antifemminile, la stessa legge spazzacorrotti del Guardasigilli Bonafede, criticata sia dai magistrati che dagli avvocati. Mai come oggi i toni di Ermini sono duri. Simili a quelli della segreteria di Md Maria Rosaria Guglielmi, che Ermini cita espressamente. Eccolo mettere l’allarme “sui guasti di una visione ordalica e sommaria della giustizia, di un’ottica secondo cui la decisione del giudice viene valutata secondo fuorvianti e inesistenti legami con idee di popolo dal significato emotivamente ambiguo, più vicine all’immagine della piazza e della folla”. “Il populismo non sarà di breve durata” presagisce Ermini, e per questo bisogna attrezzarsi a difesa della Costituzione e della democrazia. Dal vertice del Csm all’Anm. “Viviamo una stagione difficile” dice il presidente Francesco Minisci, pm a Roma, e toga di Unicost, la corrente centrista. Ma anche il suo allarme oggi non è diverso da quello della sinistra di Md. “Sono in agguato distorsioni che mettono in pericolo i principi costituzionali che oggi tutelano diritti di tutti”. Un no netto “al rischio che i pubblici ministeri possano finire sotto esecutivo, un prezzo che non possiamo far pagare ai cittadini”. No “ai tentativi di riformare la magistratura anziché la giustizia”, no alla “riforma della prescrizione” bocciata nella formula di Bonafede perché vale sia per sentenza di condanna che per quella di assoluzione. No “alla riforma della legittima difesa e del rito abbreviato”. Inammissibile “parlare di giustizia ad orologeria”. No infine alla separazione delle carriere. Come dice Franco Ippolito, ex segretario generale della Cassazione, toga storica di Md, “pm e giudici devono svolgere il loro compito applicando le leggi, anche quelle urticanti, ma solo dopo aver escluso la manifesta infondatezza di eventuali dubbi di costituzionalità e di contrasto con le carte sovranazionali e internazionali, promuovendo tutte le necessarie verifiche da parte della Consulta e della Corte di giustizia”. Stavolta giudici e avvocati, contro le leggi del governo populista gialloverde, parlano con un’unica voce, tant’è che il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza si augura che “venga esercitato il potere di sottoporre le nuove leggi al vaglio costituzionale” perché “la produzione normativa del governo merita di essere portata davanti alla Consulta”. Aggiunge Vittorio Manes che insegna diritto penale a Bologna: “Il modello di diritto penale che si intravede dietro le leggi recentemente approvate, in particolare la cosiddetta spazzacorrotti, è molto distante dall’idea liberale del diritto penale magna charta del reo e dai principi costituzionali. La finalità principale sembra quella di operare una sorta di ‘elaborazione punitiva del passato”‘, che autolegittima il nuovo assetto di potere rispetto al vecchio, madiante una truculenta manifestazione di ritorsione punitiva, dove la pena diventa quasi una vendetta sociale”. E quindi “i magistrati dovranno conseguire i risultati attesi (debellare la criminalità) o saranno chiamati a renderne conto (alla politica, o più verosimilmente all’opinione pubblica), pagando un prezzo ancor più alto in chiave di delegittimazione. Questo, forse, è lo scenario ancor più preoccupante”. Magistratura democratica: “Dalla parte dei sommersi”. Il dibattito resta aperto di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 3 marzo 2019 Congresso di Magistratura Democratica. Le conclusioni dei lavori, oggi pomeriggio, diranno se i rapporti di forza interni cambieranno rispetto agli equilibri attuali. La storia di Magistratura democratica (Md) è da sempre una storia di vivaci discussioni interne, e questo ventiduesimo congresso non fa eccezione. A fronte di una sostanziale uniformità di giudizio sui provvedimenti-simbolo del populismo di governo, ritenuti da tutti in contrasto con diritti fondamentali e garanzie, le toghe progressiste divergono su quale sia l’agire più efficace per stare “dalla parte dei sommersi”. Una parte del gruppo teme che Md si trasformi in un “partitino” sovra-esposto mediaticamente, che fa opposizione “politica” alla maggioranza Lega-M5S perdendo la sua natura di associazione di magistrati. Un’altra parte rivendica invece la capacità di collegamento alle istanze della società civile, alle associazioni che si mobilitano per i più deboli, richiamandosi alla tradizione di dialogo con il mondo esterno a quello giudiziario. E questa discussione si intreccia con il tema - che ha un’apparenza “organizzativa”, ma una sostanza puramente politica - del rapporto fra Md e Area, il gruppo attraverso il quale le toghe progressiste (compreso il Movimento per la giustizia) si presentano alle elezioni del Consiglio superiore della magistratura e del parlamentino dell’Anm. A chi conosce le vicende della corrente delle “toghe rosse” il confronto di queste assise romane può ricordare la contrapposizione fra “efficientisti” e “identitari” di alcuni anni fa, quando l’anima più “pragmatica” e quella più “ideologica” faticavano a trovare una linea comune. Maria Cristina Ornano, iscritta a Md e leader di Area, denuncia il rischio di “settarismo” nelle posizioni degli “identitari” e rivendica che Area abbia una vocazione maggioritaria che le permette di “rappresentare dai settori più moderati a quelli più radicali” della magistratura. Nella sua scia la voce di Anna Canepa (ex segretaria del gruppo), che lancia l’allarme sulla “perdita di imparzialità” per gli atteggiamenti troppo militanti, e quelle di Luca Poniz, pm milanese, e Chiara Gallo, gip del Tribunale di Roma, tutti e tre firmatari del documento in cui si chiede che Md “coordini le proprie iniziative e i propri interventi con Area”. “Ma nessuno di noi vuole lo scioglimento di Md in Area, sbaglia chi ci attribuisce questa intenzione”, afferma la gip capitolina, preoccupata per “l’arretramento nel rapporto fra Md e Area”. È, quello di Gallo e gli altri, il punto di vista critico con la dirigenza uscente, che per bocca del presidente Riccardo De Vito difende invece l’indirizzo più “movimentista” seguito negli ultimi due anni: “Noi restiamo terzi e imparziali, ma non siamo neutrali rispetto ai valori della Costituzione, a difesa dei quali ci dobbiamo schierare”. E sul rapporto con Area nega, a sua volta, che la maggioranza di Md coltivi una volontà di separazione. Nella sintesi di Ezia Maccora, gip a Milano, e influente sostenitrice della linea della dirigenza: “No a fughe in avanti, no a passi indietro”, né scioglimento né divorzio. Le conclusioni dei lavori, oggi pomeriggio, diranno se i rapporti di forza interni cambieranno rispetto agli equilibri attuali. Non c’è aria di rotture clamorose, ma non è chiaro se dal congresso uscirà un esecutivo con tutte le anime o se la minoranza “areista” decida polemicamente di lasciare interamente agli “identitari” la guida della corrente. Anche ieri molti ospiti esterni. Il vicepresidente del Csm David Ermini ha sottolineato “una convergenza di analisi e timori” con le posizioni di Md: “Il rischio che si annida nelle pulsioni populiste sta nell’insidiosa corrosione della giurisdizione”, attraverso “delegittimazione o denigrazione” dei magistrati. Nette le sue parole in difesa del “ruolo attivo e propulsivo dell’associazionismo giudiziario”, contro chi demonizza le correnti. E, di conseguenza, “assoluta contrarietà” al sorteggio per scegliere i componenti togati del Csm. Assonanza anche fra Md e avvocati delle camere penali, e applausi per Mauro Palma, garante dei detenuti, Carlo Smuraglia, 96enne lucidissimo e combattivo presidente onorario Anpi, e don Luigi Ciotti. Oggi, giornata di chiusura, prenderà la parola Maurizio Landini, a sottolineare lo storico legame fra le toghe progressiste e la Cgil. Separazione delle carriere: nuova speranza o ennesima delusione? di Nicola Galati einaudiblog.it, 3 marzo 2019 Dopo un recente periodo di oblio, seguito ad anni in cui è stata al centro del dibattito pubblico, si torna finalmente a parlare di separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. Il merito è dell’Unione delle Camere Penali Italiane, del Partito Radicale e della Fondazione Luigi Einaudi che lo scorso anno hanno raccolto oltre 72.000 firme a sostegno di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per separare le carriere della magistratura inquirente e di quella giudicante. Il tema si è rivelato ancora molto sentito tra i cittadini, come dimostra il risultato conseguito; d’altronde l’accantonamento era dovuto più ad una sorta di rassegnazione che non all’affievolirsi delle ragioni poste alla base delle istanze di separazione delle carriere. Anzi, tali necessità sono sempre più attuali e fondate. Le alterne fortune della proposta di separazione delle carriere sono legate alle strumentalizzazioni politiche cui è sottoposta, sventolata da alcuni come la panacea di tutti i mali della Giustizia e da altri vista come un attacco all’indipendenza della magistratura. Riportare il confronto sul piano tecnico sarebbe già un primo passo importante. Se si analizza la questione scevri da incrostazioni ideologiche e partigiane, risulta incomprensibile come la separazione delle carriere non sia stata la logica conseguenza del passaggio al sistema accusatorio del codice del 1988 e della riforma dell’art. 111 della Costituzione. Secondo il dettato costituzionale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Il giusto processo svolto nel contraddittorio tra le parti, poste in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale, non può non presupporre la separazione delle carriere tra la pubblica accusa ed il giudice, sull’esempio di quanto avviene negli altri sistemi accusatori: il cardine di un sistema processuale rispettoso dei principii liberali. Nel sistema italiano, invece, i magistrati requirenti e quelli decidenti fanno parte del medesimo ordine, condividendo: accesso al ruolo (unico è il concorso di selezione); organo di autogoverno (il C.S.M.); prerogative istituzionali; logiche sindacali ed elettorali (essendo comuni l’associazione sindacale e le correnti); formazione. Inoltre, un magistrato può, nell’arco della sua carriera, ricoprire, seppure con alcuni limiti ed accorgimenti, sia funzioni decidenti che requirenti. Viste queste premesse ci si chiede come possa un giudice essere, ma anche solo apparire, terzo e neutrale rispetto all’accusa ed alla difesa. Non vi è solo il pregiudizio della diffusa solidarietà di corpo, il fulcro della questione risiede a livello ordinamentale e culturale. ?Uno degli argomenti forti degli oppositori alla separazione delle carriere è il paventato rischio di allontanare il p.m. dalla cultura della giurisdizione. Un auspicabile effetto della separazione sarà, al contrario, quello di allontanare il giudice dalla cultura requirente. Solo una cultura giuridica che non ha mai a pieno condiviso la svolta accusatoria può non stupirsi dinanzi ad una situazione ibrida come quella attuale del nostro ordinamento. Come possono non essere separate le carriere di due figure completamente distinte del processo penale: il p.m., che è dominus delle indagini, esercita l’azione penale, raccoglie gli elementi di prova, sostiene l’accusa in giudizio in condizioni di parità rispetto alla difesa, ed il giudice, che decide circa le richieste del p.m., dirigere il dibattimento, valuta le prove acquisite nel contraddittorio in condizione di parità tra le parti e pronuncia sentenza. Appare evidente la necessità che le due figure abbiano un percorso formativo e carrieristico distinto e separato, affinché sia garantita la piena terzietà del giudice. Ma in un sistema in cui si sente ancora ripetere che le parti (accusa e difesa) non possono essere poste in condizioni di parità, che il processo deve accertare la verità storica e non la fondatezza di un’ipotesi accusatoria ed in cui la magistratura in toto si fa portatrice di istanze di rigenerazione sociale, è illusorio pretendere la terzietà del giudice rispetto al p.m. L’altro argomento forte degli oppositori, il rischio di assoggettare la pubblica accusa al potere politico (come avviene in molti altri ordinamenti), è stato depotenziato dalla proposta di istituire un C.S.M. per la magistratura requirente che ne manterrebbe inalterata l’indipendenza. Tra gli effetti positivi della separazione vi sarebbe, inoltre, la possibilità di una maggiore specializzazione e di una formazione più calibrata, rese sempre più necessarie dalla complessità del mondo contemporaneo. Da qualche giorno la Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati ha iniziato l’esame della proposta di legge. Sarà interessante osservare il posizionamento degli schieramenti partitici sul tema, il nuovo scenario politico potrebbe riservare sorprese rispetto al passato. Certo, può sembrare illusorio sostenere questa proposta in un momento storico di giustizialismo dilagante, eppure non si vede come la separazione delle carriere possa minare le istanze securitarie di parte dell’opinione pubblica: garantire un processo più giusto vuol dire garantire un diritto di tutti. Sicurezza e diritti, la legittima offesa di Armando Spataro La Repubblica, 3 marzo 2019 Recupero la maglietta finita sul balcone altrui. Potrebbero spararmi per legittima difesa? In base alla proposta di legge in discussione, sì. Tutto ciò che è raccontato qui di seguito è vero ed è accaduto a chi scrive. Novembre 2018: mi trovo in una cittadina ligure, in un appartamento in locazione al secondo piano di un edificio con vista mare. Dopo un po’ di footing lungo la costa, lavo e stendo sul balcone la maglietta della maratona di Boston del 2000, a me molto cara. A tarda sera voglio ritirarla ma scopro che un colpo di vento l’ha fatta volare sul balcone sottostante al mio. Busso alla porta dell’appartamento, ma nessuno risponde. Scendo in strada, entro in un bar e mi faccio prestare una scala. La appoggio al balcone del primo piano e salgo con un bastone per raggiungere l’indumento e tirarlo a me. La scala traballa, riesco a non cadere ma il bastone si rivela troppo corto sicché, strette le mani alla ringhiera, alzo la gamba destra per scavalcarla. Improvvisamente, però, vengo colto da un motivato terrore. Penso che il possibile inquilino, magari legittimo detentore di un’arma, possa svegliarsi, accorgersi di me e - scambiandomi per un ladro - spararmi per legittima difesa. Potrebbe farlo? Vista la proposta di legge approvata al Senato la risposta è “sì, potrebbe”. Spararmi non sarebbe più atto sproporzionato rispetto alla mia intrusione perché, in casi come questo, il rapporto di proporzionalità sussiste “sempre” e il giudice non può negarlo. Mi dico, allora, che la mia non è una “intrusione” e che peraltro non sono armato, ma subito penso che, da un lato, il termine “intrusione” potrebbe includere anche comportamenti come il mio e, dall’altro, con la nuova legittima difesa si può sparare anche a chi si avvalga di “altri mezzi di coazione fisica”, come il bastone che impugno. Provo a calmarmi dicendomi che solo una persona incapace di ragionare potrebbe non comprendere lo scopo del mio comportamento e, se mi sparasse eccedendo i limiti della legittima difesa, risponderebbe quantomeno di omicidio colposo. Invece no. A chi ha sparato basterebbe dire che il mio tentativo di scavalcare la ringhiera lo ha posto “in stato di grave turbamento”. Come smentirlo, considerando ora, buio e strada deserta? Cerco altre scappatoie: avevo invano bussato alla porta e in quella casa non vi può essere alcuno. Vero, ma in base alla nuova legge anche un vicino o un passante possono sparare al presunto ladro, che vedano introdursi nell’altrui domicilio, minacciando l’uso di mezzi di coazione fisica. Stando in cima alla scala, guardo allora edificio, spiaggia e strada e, pur non vedendo nessuno con il fucile puntato, decido di rinunciare alla maglietta. Domani mi rivolgerò ai Carabinieri chiedendo l’autorizzazione allo scavalco, magari facendomi prestare un loro giubbotto. Vado al bar e restituisco la scala a un giovane che mi vede triste e mi dice: “Ci penso io”. Torna sotto il balcone, rimette la scala e recupera la maglietta. Lo ringrazio anche se avrei dovuto metterlo in guardia: qualcuno, al di là della legge, avrebbe potuto minacciarci dall’alto e spararci dal balcone. L’indomani mattina passeggio per il carruggio della città ligure con la maglietta indosso e mi imbatto in un uomo seduto in strada che chiede l’elemosina: “Aiutatemi, sono un italiano”, dice un cartello ai suoi piedi. Lo aiuto e gli chiedo la ragione di quella frase. Mi spiega che teme di essere scambiato per uno straniero che gli italiani non aiutano, mentre con quelle parole spera di suscitare la loro attenzione. Ecco come le politiche xenofobe dividono anche i disperati: “prima gli italiani” fa rima con “spara a chiunque stia entrando illecitamente a casa tua”. Insomma, la “pacchia è finita per immigrati e ladri”. Tutto in nome della “sicurezza”, ormai brand pubblicitario che sgretola irrinunciabili istituti giuridici come la legittima difesa e fa saltare l’equilibrio e la gerarchia tra i diritti: la difesa del domicilio prevale sul diritto alla vita e la scelta di chiudere i porti su quello alla solidarietà. La differenza tra difesa e vendetta di Raffaele Cantone Il Mattino, 3 marzo 2019 Nei giorni scorsi ha suscitato molto clamore il caso dell’imprenditore Angelo Peveri, condannato per aver gravemente ferito un ladro sorpreso a rubare carburante nel suo cantiere. Secondo quanto si è letto, Peveri avrebbe ferito il ladro (già immobilizzato) esplodendo due colpi da distanza ravvicinata con un fucile a pompa che aveva portato con sé. Nel processo l’avvocato dell’imprenditore non ha mai provato a giustificare l’accaduto con la legittima difesa, sostenendo piuttosto che i colpi erano partiti accidentalmente. Il giudizio si è chiuso con una condanna non pesante in relazione alla gravità del reato (quattro anni e mezzo per tentato omicidio) e l’imprenditore si è spontaneamente presentato in carcere per scontare la pena. Nei suoi confronti tantissimi cittadini hanno espresso solidarietà e addirittura approvazione, compresi importanti esponenti delle istituzioni, alcuni dei quali hanno persino fatto balenare che, con la riforma in corso della legittima difesa, Peveri non sarebbe stato condannato. È una vicenda che dice molto del clima attuale del Paese, perché conferma la regressione culturale in atto nella nostra società: molti ritengono evidentemente legittimo farsi giustizia da sé, fino (quasi) a giustificare l’omicidio di chi attenta ai propri beni. Queste reazioni vengono spiegate con l’insicurezza diffusa, che fra l’altro - a guardare le statistiche dei reati - si direbbe più percepita che reale. Premetto che ho sempre pensato che “percezioni” di questo tipo, anche quando sono infondate, non debbano mai essere sottovalutate né possano essere liquidate con una scrollata di spalle, e che sia preciso compito delle istituzioni preposte fare in modo che simili sensazioni scompaiano o quanto meno si attenuino. Gli equivoci ingenerati da questa vicenda dimostrano tuttavia che, con l’intenzione di ampliare la scriminante della legittima difesa, si rischia di accreditare presso l’opinione pubblica l’idea che anche condotte penalmente assai gravi possano diventare lecite se commesse contro chi delinque. Incluso, come nel caso in questione, il tentato omicidio di un uomo già neutralizzato e reso inoffensivo. Proprio per questo è indispensabile che i rappresentanti delle istituzioni siano i primi a sgombrare il campo da interpretazioni fuorvianti, così da evitare implicazioni ben più profonde e gravi. Bisogna in primo luogo evitare di veicolare un vero paradosso: quello secondo cui lo Stato, cioè, quasi a riconoscere la propria impotenza, piuttosto che mettere in campo una efficace strategia di ordine pubblico, pensi di delegare al singolo la difesa della propria incolumità e dei propri beni. Sarebbe infatti una prova di debolezza più che di forza! Nemmeno durante il Ventennio, che pure faceva dell’ordine un punto cardine, è mai stata ventilata questa posizione; nel codice Rocco de11930, per invocare la legittima difesa, era necessario che essa fosse proporzionata all’offesa. In base a quanto prevede la riforma all’esame del Parlamento, invece, chi respinge una intrusione nei luoghi di proprietà privata “agisce sempre in stato di legittima difesa”, a prescindere dall’entità e dall’effettività del pericolo. È una formulazione che (lo dico con chiarezza) non mi sembra né convincente né in linea con i principi di uno Stato liberaldemocratico, ma che comunque non sembra affatto autorizzare forme di vendetta privata. Chi propugna la riforma, perciò, deve fare chiarezza sul suo contenuto, così da evitare di mettere in discussione caposaldi della nostra cultura giuridica, poiché sono millenni che la giustizia fai-da-te è stata sostituita dal monopolio statale della coercizione. L’idea di irrogare una sanzione a chi commette reati, evitando in tal modo il ricorso alla vendetta privata e al principio del “dente per dente”, risale infatti alle Dodici Tavole (il primo corpus legislativo messo per iscritto dai Romani nel 450 a.C.!) con una ineccepibile motivazione: ne cives ad arma veniant, ovvero per evitare che i cittadini ricorrano alle armi. Tanto più che, anche a giudicare dalle esperienze invalse all’estero, non è affatto detto che una delega all’autodifesa scoraggi i reati predatori. Anzi vi è persino un rischio opposto. Negli Usa, notoriamente assai “indulgenti” in tema di armi, negli anni 90 fu introdotta la three-strikes law, che prevedeva la condanna all’ergastolo dopo tre reati di media gravità (ad esempio i furti). Lungi dal risolvere i problemi, le statistiche hanno dimostrato che non solo la criminalità non si ridusse ma addirittura aumentarono gli omicidi perché i malviventi, pur di farla franca e non essere arrestati per la terza volta, erano disposti a uccidere. Anche estendendo le fattispecie che giustificano la legittima difesa, sarebbe bene ricordare che, quando c’è un furto o una rapina, di rado il primo a riuscire a tirare fuori la pistola è il derubato! Il ritorno del delitto d’onore di Concita De Gregorio La Repubblica, 3 marzo 2019 “Soverchiante tempesta emotiva”. Così la Corte ha dimezzato la pena a Michele Castaldo. Quindi si ricomincia daccapo. Delitto d’onore, la Corte mi comprenderà. Era così bella. Così bionda, così libera. Mi pareva impossibile che volesse proprio me, che mi fosse fedele. D’altronde aveva già una figlia, signor giudice. Aveva avuto altre storie, altri uomini. Chi poteva garantirmi che non ne avesse ancora. Proprio adesso, intendo. In queste settimane, mentre stava con me. Come potevo esserne certo. Ci conoscevamo da poco, e lei era sempre così - non so come dire - indifferente alla mia gelosia. Mi diceva stai calmo. Non c’è nessuno, stai calmo. Ma io che ne sapevo. Moldava, capisce? Un’altra cultura. Pensava in un’altra lingua, aveva un passato sconosciuto. Chi vedeva prima, con chi usciva? Che vita faceva? Cosa ne potevo sapere io, davvero, di lei? E poi. Riccione d’inverno. Lo sapete voi signori della Corte cos’è Riccione d’inverno? E tu non puoi nemmeno essere sicuro che la tua donna sta a casa, ti aspetta, che vuole solo te e niente altro che te. Un inferno, si apre, per un uomo. È giusto, no? Come può stare tranquillo un uomo se non può neppure sapere a chi telefona la donna che ha conosciuto da un mese - moldava, l’ho detto? - una donna di 46 anni con una figlia che non sai esattamente chi era cosa faceva prima di conoscerti, a Riccione, d’inverno. E infatti sì, ha convenuto la Corte d’Appello di Bologna: il povero Michele Castaldo, 57 anni, ha confessato, pentito. L’ho strangolata con le mie mani, era il 5 di ottobre, eravamo a casa sua. Non volevo, mi dispiace: sono disposto a lasciare i miei beni a sua figlia come risarcimento. La gelosia era “immotivata” scrivono i giudici nella sentenza. Una psicosi, un’ossessione. Ma d’altra parte - anche questo nero su bianco, nelle motivazioni del tribunale - il Castaldo aveva avuto “poco felici esperienze di vita”. Un’infanzia difficile, una madre anaffettiva, chissà. Quindi è chiaro: un uomo sfortunato, con delusioni e carenze affettive alle spalle, un quasi sessantenne che frequenta una cartomante per avere notizie del suo futuro che all’improvviso incontra una donna più giovane, bella, indipendente la quale si rifiuta - poniamo - di consegnare il telefonino o dare prove persino più evidenti di fedeltà. Insomma una che, dopo un mese di relazione, gli dice non alzare la voce, non c’è nessun altro uomo, stai calmo. Ecco. Come si fa a non capire che, per quanto la gelosia fosse “immotivata” (a maggior ragione se lei lo avesse tradito, va da sé, perché sul principio dell’amore inteso come possesso dell’altro nessuno ha niente da dire) insomma per quanto non ci fossero qui le ragioni che avrebbero potuto determinare quello che una volta in giurisprudenza si sarebbe chiamato delitto d’onore, tuttavia insomma il Castaldo e la sua infelice esperienza di vita hanno prodotto una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”. Che altro aggiungere? Soverchiato, il pover’uomo in tempesta ha strangolato. È tornato a casa sua e - subito pentito - ha inscenato “un teatrale tentativo di suicidio”. Teatrale. Non riuscito. Che se uno si fosse buttato dalla finestra sarebbe riuscito ma lui ha bevuto del vino e preso due pasticche, poi ha chiamato il cartomante e gli ha detto: non indovini un cazzo. Soldi spesi male, e ancora una coda di malanimo. Infine il pentimento, la confessione. Quell’ergastolo in primo grado, ridotto a 30 anni per il rito abbreviato: che esagerazione. Riformata, in Appello, la sentenza, a 16 anni. Non fa una piega. Quel che è giusto è giusto. Chi muore giace. Immotivata gelosia. Tentativo teatrale. Poco felici esperienze. Soverchiante tempesta. Riccione, ottobre. Moldava. Così la Corte d’Appello della città di Bologna, nel mese di marzo del 2019, ha deciso, in Italia. Femminicidi. La tempesta emotiva non è un alibi di Titti Marrone Il Mattino, 3 marzo 2019 Bisognerà trovare nuove parole, nuovi modi per nominare gli atti e i moventi della brutta bestia che continua a strisciare intorno alle donne lasciandone senza vita una ogni 72 ore, per mano di marito, fidanzato, amante, ex oppure “in carica”. Perché non può andar bene quella definizione di “motivi passionali” con la quale viene rubricata l’uccisione della donna di Melito. È stata crivellata ieri con una raffica di colpi di pistola a distanza ravvicinata dal marito, un uomo saldamente incardinato nel codice violento del clan di Secondigliano. Perché “motivi passionali” sembra indicare un’attenuante, schiudere una fuoriuscita giustificatoria a chi infligge morte per il fatto di non riconoscere a lei, la donna il diritto di abbandonare. Fatto sta che lei voleva andarsene, solo andarsene da quell’uomo violento, non vedeva altra via di uscita da una famiglia diventata prigionia condivisa con due figli, una ragazza di 14 e un bambino di 7 anni. E invece mobilitare la categoria della “passione” per un gesto di massimo sopruso spinto fino a infliggere morte cancella proprio la persona donna, le nega la facoltà di scegliere una via di fuga che può salvarle la vita. “Passione” come movente di uccisione di donna avvalora la narrazione deformata per cui l’uomo sul punto di essere abbandonato, o tradito, è legittimato a stroncare l’atto di insubordinazione femminile al suo potere. Così, allo stesso modo, suona tremendamente inappropriata la dicitura “tempesta emotiva” risuonata ieri per spiegare ciò che ha mosso la mano di un altro killer di donne, Michele Castaldo, un 57nne di Cesena, che il 5 ottobre 2016 strangolò la sua compagna da un mese, Olga Matei, 46enne moldava. In primo grado l’uomo, reo confesso, era stato condannato all’ergastolo, poi ridotto a trent’anni per il rito abbreviato. Ieri, in secondo grado, l’uomo ha potuto usufruire di una sentenza-saldo di fine stagione che gli ha dimezzato la pena a 16 anni. Plausibilmente destinati a diminuire ancora, se ci sarà buona condotta. “Tempesta emotiva” evoca lo stesso lessico dell’articolo 587 del codice penale, quello abolito solo nell’agosto 1981, che riconosceva l’attenuante del delitto d’onore e suonava così: “Chiunque cagioni la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia è punito con la reclusione da tre a sette anni”. Cioè, uno spezzava il collo a sua moglie o alla sua fidanzata, come ha fatto Castaldo, si vedeva riconosciuto il famoso “raptus” (oggi la “tempesta emotiva”) e la sfangava, vedendosi condannato a tre-sette anni scalabili con la buona condotta e riducibili a pochi mesi. Ora, a orientare i giudici del secondo grado di giudizio verso il super sconto di pena al 50% sarebbe stata decisiva la caduta dei “motivi futili e abbietti” dello strangolamento, indicati nel giudizio precedente. Gli sarebbe stato riconosciuto, cioè, un turbamento particolare, derivante da una circostanza riportata nei verbali d’interrogatorio: il meschino era stato più volte tradito dalle precedenti fidanzate, cosa che costituiva per lui un’ossessione al punto da indurlo a rivolgersi a una cartomante in grado di emettere vaticini sul livello di fedeltà di quella nuova, appunto Olga. Ma Olga, ben lungi dal rassicurarlo o fornirgli garanzie su un tale piano, non sembrava molto disposta “neppure a sentire le mie sfortunate storie d’amore con le altre”. E lo voleva mollare. Da cui la tempesta emotiva con conseguente strangolamento, come si fa con le galline. Non perché lei lo avesse tradito, ma a nome di quelle che lo avevano già fatto prima di lei. Non si può lasciare che questo lessico giustificatorio a base di “motivi passionali” e “tempeste emotive” torni a disegnare alibi a chi uccide le donne per smania di possesso e controllo. È un altro segnale preoccupante, in un momento di attacco dei diritti mosso attraverso atti politici precisi come il decreto Pillon. Ci precipita tutti all’indietro, donne e uomini, a un tempo come quello raccontato da Pier Paolo Pasolini nei suoi “Comizi d’amore” quando, intervistando un calabrese, lo scrittore si sentì spiegare che il divorzio è inutile, anzi dannoso in caso di corna. Perché solo una cosa toglie le corna, lavando il disonore, ed è cancellare lei dalla faccia della terra. Video hot privati, in carcere chi li manda sul web senza consenso di Emilio Pucci Il Mattino, 3 marzo 2019 Nella scorsa legislatura la lotta contro il “revenge porn”, la pratica sempre più diffusa nella Rete che consiste nella pubblicazione di foto o video intimi senza il consenso della persona interessata, l’aveva portata avanti Laura Boldrini, insieme ad alcune associazioni come Insieme in Rete e i Sentinelli. Ora a intestarsi la battaglia è il Movimento 5 stelle che con la senatrice Evangelista ha presentato un progetto di legge. Condiviso proprio dall’ex presidente della Camera e da altre forze politiche. Si sta formando un fronte bipartisan per introdurre anche in Italia un reato già riconosciuto in Germania, Israele e Regno Unito, e in trentaquattro Stati degli Usa. Nel nostro Paese c’è, invece, un vuoto normativo che i partiti sono chiamati a colmare. Si tratta di tre semplici articoli. Affinché non si verifichino episodi come quelli che hanno coinvolto Tiziana Cantone, la ragazza napoletana che si tolse la vita il 13 settembre 2016. Il progetto di legge, votato anche sulla piattaforma Rousseau, sancisce la “reclusione da uno a cinque anni e la multa da euro 927 ad euro 2.000” per chiunque pubblica “attraverso strumenti informatici o telematici immagini o video privati aventi un esplicito contenuto sessuale senza il consenso delle persone che ivi sono ritratte”. Bisogna punire - sottolinea la senatrice pentastellata - “gli autori di questi comportamenti. Non solo chi pubblica immagini o video, ma anche chi li diffonde, prevedendo inoltre delle aggravanti in base al rapporto esistente tra autore e vittima e in caso di morte del soggetto coinvolto”. Video, immagini che fanno il giro del web - si legge nel testo - “rappresentano un fenomeno umiliante e lesivo della dignità, che può condizionare la vita delle vittime”. E ancora: spesso si ricorre alla “minaccia di pubblicazione anche a scopo di estorsione. È una violenza paragonabile a una vera e propria violenza sessuale”. L’obiettivo è introdurre l’articolo 612-ter del codice penale contro la “pubblicazione e la diffusione di immagini o video privati sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate”. Per chi diffonde video e immagini di questo tipo “la pena della reclusione e della multa è ridotta della metà” rispetto a quella comminata ai responsabili. Si prevede inoltre un inasprimento di pena con la reclusione da due a sette anni e una multa da 1.500 a 3.000 euro “nell’ipotesi in cui il fatto venga commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da una delle parti tra coloro che hanno contratto un’unione civile, o da chi al momento della commissione del fatto è legato alla persona offesa da una relazione affettiva, o lo è stato nel passato”. Qualora la pubblicazione di immagini o video privati sessualmente espliciti provochi “la morte della persona offesa” la reclusione per gli autori va da sei a dodici anni e la multa da euro 10.000 a 80.000. Con la proposta di legge sul “revenge porn” si responsabilizzano anche i titolare dei siti internet o dei social media: dovranno “oscurare, rimuovere o bloccare le immagini o i video privati sessualmente espliciti pubblicati e diffusi in rete senza il consenso dei soggetti coinvolti”. Altrimenti “entro le ventiquattro ore dal ricevimento dell’istanza” le vittime potranno proporre reclamo al Garante della privacy o “invocare la tutela giurisdizionale presentando ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria”. Infine il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, sentito il ministero della Giustizia dovrà adottare linee di orientamento nelle scuole “per prevenire” questo fenomeno. Occorre - afferma la prima firmataria della proposta di legge - educare i ragazzi “a un uso consapevole di internet e dei social network che passi, innanzitutto, attraverso la conoscenza dei diritti e dei doveri connessi all’utilizzo delle tecnologie informatiche”. Condizioni detentive disumane: riduzione pena “risarcitoria” anche da detenuto domiciliare di Benedetta Cacace studiolegalebusetto.it, 3 marzo 2019 Corte di Cassazione, prima sezione penale, sentenza n. 6310 del 2019. Misure alternative alla detenzione e richiesta del risarcimento per le condizioni detentive disumane. Nel caso di specie, un ex detenuto, ora agli arresti domiciliari aveva proposto reclamo al fine di ottenere il risarcimento dei danni per le condizioni della detenzione. Il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile tale richiesta in quanto il proponente non era più detenuto ma si trovava in regime di misura alternativa. Nel ricorrere in Cassazione il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 35 ter ord. pen. richiamando l’ordinamento secondo il quale il rimedio risarcitorio in forma specifica può essere esperito anche nel caso in cui il soggetto sia sottoposto a detenzione domiciliare. Gli Ermellini intervenuti sulla questione hanno dichiarato fondato il ricorso. La questione posta dal ricorso riguarda la legittimazione del detenuto in regime di detenzione domiciliare a proporre la richiesta di risarcimento per le modalità inumane della detenzione, ex art. 35 ter ord. pen., che dispone: “Quando il pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”. Il Magistrato di sorveglianza aveva pronunciato l’inammissibilità del reclamo con decreto, ex art. 666 c.p.p., secondo comma. Anche per quanto riguarda i reclami disciplinati dall’ordinamento penitenziario, la sussistenza dei requisiti di legge deve essere verificata in base alla data di proposizione del reclamo. La questione che si deve esaminare discende dal fatto che l’istituto del rimedio risarcitorio per le modalità inumane della detenzione, introdotto dalla L. 117 del 2014 prevede per chi è detenuto, una riduzione di pena di un giorno per ogni dieci giorni di trattamento inumano e, nel caso in cui il residuo di pena da scontare non lo permetta, è previsto un indennizzo nella misura di € 8 per ogni giorno di detenzione inumana. Invece per chi non si trova più in stato di detenzione è previsto solamente un indennizzo monetario. Nel primo caso è competente il magistrato di sorveglianza, mentre nel secondo caso il Tribunale civile. Per tali ragioni si è posta la questione se il soggetto che si trovi a scontare la pena ai domiciliari sia legittimato ad agire per il rimedio compensativo, di competenza del magistrato di sorveglianza, ovvero solo per ottenere l’indennizzo monetario, di competenza del Tribunale civile. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale il rimedio compensativo sarebbe riservato solamente al soggetto detenuto in carcere al momento della proposizione della domanda. Invece secondo altro orientamento sarebbe legittimato a chiedere il risarcimento in forma specifica anche il soggetto in detenzione domiciliare. La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento ha aderito all’orientamento più recente ritenendo che le misure alternative alla detenzione costituiscono una modalità di esecuzione della pena detentiva e pertanto è irragionevole e lesivo del principio di eguaglianza, riservare solamente a chi si trovi detenuto in carcere la possibilità di ottenere il rimedio compensativo. Gli Ermellini per tale motivo affermano il seguente principio di diritto: “Il detenuto in regime di detenzione domiciliare al momento della proposizione del reclamo è legittimato a chiedere il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. pen., comma 1”. Il divorzio islamico vale in Italia? Solo se i coniugi sono alla pari di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 3 marzo 2019 La Corte di Cassazione, chiamata a decidere su un “divorzio islamico”, ha deciso di prendere tempo e saperne di più. Ha chiesto, quindi, al Ministero della Giustizia di acquisire informazioni circa la “legge processuale straniera (in questo caso quella palestinese, ndr) applicabile al divorzio per cui è causa” e, al suo Ufficio del Massimario, una relazione “nazionale europea e comparata” sul tema del riconoscimento del divorzio con ripudio. Tutto nasce dalla domanda che la Suprema Corte si è vista rivolgere da un uomo con cittadinanza giordana e italiana, che chiede il riconoscimento del suo divorzio islamico, sancito a Nablus in Palestina dal Tribunale sciaraitico, davanti al quale nel 1992 si era sposato con una donna, anche lei con doppia cittadinanza, giordana e italiana. Le vicende umane portano i due coniugi a separarsi con le modalità previste dal diritto islamico, e lo scioglimento - avvenuto secondo la sharia - viene registrato anche dallo stato civile italiano. Nel 2015, però, accogliendo il ricorso della moglie ripudiata, la Corte d’Appello di Roma ne ordina la cancellazione, ritenendo che non si possa ratificare un divorzio “basato solo sulla volontà del marito” in assenza di contraddittorio reale e senza che alla moglie sia riconosciuto l’identico diritto. Il marito, che nel frattempo, ottenuto il nulla osta e ritenendosi oramai sciolto dall’impegno, dopo aver atteso i tre mesi previsti, ha contratto nuovo matrimonio, contesta la sentenza della Corte d’Appello, affermando che nel 2011 una legge palestinese ha equiparato i coniugi nel diritto di agire e resistere in giudizio, introducendo nella procedura anche un tentativo di conciliazione, che risolvendosi negativamente, apre allo scioglimento effettivo del legame, per il venir meno dell’unione spirituale e materiale. Quindi, a questo punto, la Cassazione investita della vicenda, ha deciso di non decidere ma interpella il Ministero perché appuri se realmente marito e moglie siano uguali nell’esercizio del ripudio del coniuge, facoltà che prelude alla richiesta di divorzio e, se ad entrambi sia assicurato il rispetto del contraddittorio e il diritto di difesa. Brescia: nuovo carcere, progetto entro marzo. “Possibili i cantieri già a fine anno” di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 3 marzo 2019 Trattativa finale della Loggia per avere le aree agricole in cambio di palazzo Bonoris. Non tutte le opere pubbliche progettate a Brescia e provincia sono ferme. L’iter per il nuovo carcere di Verziano - un intervento da 12 milioni di euro - procede come da cronoprogramma. Lo conferma al Corriere il provveditore interregionale alle opere pubbliche per la Lombardia e l’Emilia Romagna, Pietro Baratono: “Mercoledì è stata convocata una riunione con il gruppo di progettazione e si è stabilito che entro un mese circa ci sarà la presentazione del progetto preliminare dell’opera da sottoporre, poi, all’approvazione di tutti i soggetti competenti”. E l’inizio dei lavori? L’ingegnere non vuole esporsi ufficialmente, vista l’incognita delle complicanze burocratiche e soprattutto dei ricorsi al Tar (Brescia ne sa qualcosa, vedi Musil o bonifica Caffaro) ma prevede “l’indizione della gara per i lavori entro l’anno, per l’inizio lavori a fine 2019”. Più prudenziale immaginare l’avvio dei cantieri nei primi mesi del 2020: da contratto dovranno essere realizzate in 720 giorni, ai quali seguiranno altri 6 mesi per il collaudo. Insomma, il nuovo carcere di Verziano, da 400 posti, che manderà definitivamente in pensione Canton Mombello, dovrebbe essere fruibile nel 2023. La progettazione - Resta il fatto che l’iter ormai è irreversibile. Il 4 luglio è stata affidata la progettazione ad un gruppo di professionisti torinesi - Tecnicaer Engineering Srl, Rpa Srl e Progettisti Associati Tecnarc - che per redarre il progetto hanno offerto un ribasso molto corposo, del 40,5% (ovvero 561 mila euro). Progettazione che doveva essere consegnata entro sei mesi. Quindi un piccolo ritardo già c’è. L’ingegner Baratono ricorda che “si stanno portando avanti tutte le attività propedeutiche alla progettazione” ovvero “in indagini geognostiche e carotaggi per le verifiche tecniche degli edifici esistenti, anch’essi oggetto dell’intervento”. Inoltre sono in corso “incontri tra tutti i soggetti coinvolti, anche all’interno della struttura detentiva”. Insomma, una progettazione partecipata, come aveva auspicato l’assessore ai Lavori Pubblici Valter Muchetti. A fine mese il progetto preliminare, dovrà incassare l’ok del “dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e dell’amministrazione carceraria”. Se ne andrà così aprile, poi due mesi per il progetto definitivo “che sarà anch’esso sottoposto all’esame del Dap e del comitato tecnico amministrativo del Provveditorato. A seguito di ciò, sarà dato il via alla redazione dello stralcio esecutivo del valore di circa 12 milioni” ricorda Baratono. I lavori - Più interessante capire che lavori verranno fatti per portare la capienza di Verziano da 72 a 400 detenuti (anche se oggi ne ospita il doppio di quanto potrebbe). Ci sarà la ristrutturazione dei fabbricati attuali (inaugurati nel 1986) ma anche un nuovo padiglione da 320 posti su 11mila metri quadri, caratterizzato da “camerotti a 4 posti con una innovativa soluzione della finestratura di facciata”. Al piano terra ci saranno le cucine e i locali per il tempo libero, nei due piani superiori sezioni detentive da 160 posti l’una. Resta congelata per ora la realizzazione di un casermaggio per la polizia penitenziaria e le loro famiglie e altre strutture per le attività collaterali (orto, laboratori, officina). “Servirebbero per lo meno altri 15 milioni per completare tutta la struttura” aveva detto a luglio il deputato Pd Alfredo Bazoli, che nella precedente legislatura molto si era speso per recuperare i fondi necessari all’intervento. “Questo è un ottimo inizio, poi troveremo i fondi per il completamento definitivo della struttura” avevano replicato l’onorevole Simona Bordonali (Lega) e Claudio Cominardi (5 Stelle). I numeri - Per realizzare strutture esterne funzionali al carcere prima lo Stato deve entrare in possesso dei 74mila metri quadri di campi intorno alla casa di reclusione, che appartengono ancora all’azienda agricola Verziano. È in corso da due anni un’estenuante trattativa tra Loggia e privati per avere i terreni in cambio della cessione di Palazzo Salvi Bonoris di via Tosio (che per la Loggia vale quasi il doppio rispetto ai campi). Palazzo che è stato messo all’asta per ben due volte (la prima a 3,3 milioni la seconda a 2,6 milioni) senza però ricevere alcun offerente. Ora si entrerà nel vivo della trattativa: la Loggia ha bisogno di quei campi ma la giunta Del Bono ha scelto di averli senza concedere 28mila mq di aree edificabili al Villaggio Sereno. Quando cederà i terreni allo stato il Demanio in cambio darà al Comune un pezzo di caserma Randaccio dove in futuro si realizzerà il polo scolastico di Brescia centro. Palazzo Bonoris, oggi oggetto dell’incuria del tempo, potrà essere trasformato in residenze di lusso ma anche in un hotel od in centro convegni (logicamente dietro il placet della Soprintendenza) e potrebbe così tornare al suo antico splendore. Una triplice opera di rigenerazione, che ora dovrebbe finalmente partire. Trani (Bat): water vicino a letto e tavolo, nel carcere detenuti in condizioni difficili traniviva.it, 3 marzo 2019 Celle minuscole, spesso da condividere con un altro detenuto, in cui il water è a pochi centimetri dal tavolo su cui si mangia e al letto dove si dorme, mentre per lavarsi ci sono solo docce in comune da cui esce acqua fredda. Sono solo alcune delle condizioni in cui vivono i detenuti “dell’ala blu” del carcere di Trani, in cui sono rinchiusi anche diversi bitontini, denunciate dal sindacato autonomo della polizia penitenziaria. “Il Sappe - si legge in una nota - ritiene che oltre alle parole debbano essere le immagini a documentare lo scandalo del lager della sezione blu del carcere di Trani, ove a tutt’oggi è ospitata la stragrande maggioranza dei detenuti presenti 209 a fronte di una capienza totale di 336 detenuti. È inaccettabile che nel 2019 in un paese che si ritiene civile come l’Italia, nella sezione blu del carcere di Trani ci sia una situazione igienica sanitaria da terzo mondo, ove i detenuti giornalmente vengono offesi nella loro dignità di esseri umani, ed i poliziotti costretti a lavorare in condizioni assurde”. “È possibile - si legge ancora nel comunicato - che ad oggi si debbano costringere i detenuti a fare i loro bisogni senza alcuna privacy nella stessa stanza dove mangiano, dormono e passano la maggior parte della loro giornata, peggio degli animali?”. Un tempo dedicata a ospitare i brigatisti rossi, ora la sezione blu è popolata dai detenuti per reati comuni, ma il rischio che la tensione generata dalle loro condizioni si riversi sulle forze di polizia è altissimo. “Anche i poliziotti penitenziari - scrivono ancora dal SAPPE - sono costretti a lavorare in questi ambienti fatiscenti, sporchi, freddi con i muri rigonfi di muffa o acqua che filtra da ogni dove, con sale docce senza igiene e privacy, senza videosorveglianza ed acqua calda”. La richiesta del sindacato, allora, è la chiusura immediata della sezione, “anche attraverso l’intervento delle autorità sanitarie o del sindaco di Trani, quale autorità sanitaria locale, cosa peraltro fatta in passato dal sindaco di Pordenone che chiuse il carcere della sua città, per le cattive condizioni igienico sanitarie”, e per questo sono state annunciate nuove proteste “sia presso le sedi competenti nazionali che presso gli organismi internazionali dei diritti umani, nonché presso la magistratura ordinaria che dovrà accertare le continue violazioni in materia di sicurezza ed igiene”. Viterbo: “Mammagialla non è il carcere dei suicidi sospetti” tusciaweb.eu, 3 marzo 2019 Sappe, Osapp e Sinappe prendono le distanze da quanto affermato da Danilo Primi nella trasmissione “Popolo Sovrano”: “Ci dissociamo in maniera netta, chiara e decisa da quanto dichiarato dal rappresentante sindacale”. La casa circondariale di Viterbo non è il carcere dei suicidi sospetti. Siamo pronti a denunciare tutti quelli che, senza fondamento, vogliono a tutti i costi far passare l’etichetta di carcere lager. Troppo tempo siamo stati in silenzio (tranne una sigla e si sono visti i risultati) di fronte a questo vero e proprio attacco mediatico. Se vi sono responsabilità su fatti isolati, la procura farà le proprie indagini e se ci sono colpevoli scatteranno le relative sanzioni. Solo allora si potrà dare un nome a eventuali colpevoli. Solo a quel punto. Non ora. Non possiamo consentire che fatti di disagio psichico, sovraffollamento, malasanità possano ricadere sul personale che ogni giorno con dedizione svolge il proprio lavoro. Che il sistema abbia delle lacune è palese. Che in Italia si muoia di galera, purtroppo è evidente. Ciò non va accettato ma è una realtà. Questo però non vuol dire che ci sia un “carnefice materiale”. Si muore nelle corsie degli ospedali, c’è carenza di sanitari, c’è malasanità, ma non è che quell’ospedale è un lager per vocazione. Non deve morire nessuno; se si suicida un detenuto il sistema ha fallito il proprio mandato. Per questo però non deve essere infangata un’istituzione intera. Ci vogliono far pagare l’espiazione dei peccati di un intero sistema. Il gioco è pericoloso rischia di saltare un equilibrio importante per la società specie quella viterbese. In partenza è già difficile gestire un istituto penitenziario senza risorse adeguate, figuriamoci se dovesse passare il messaggio di un’intera organizzazione marcia. La casa circondariale di Viterbo, invece, è quel luogo dove nonostante tutto, i detenuti lavorano, si laureano, studiano, partecipano ad attività ricreative organizzate, accedono a permessi premio e misure alternative, collaborano con la polizia penitenziaria in attività anche delicate, affidano le proprie speranze al personale. Insomma è un luogo dove avvengono, alla luce delle difficoltà quotidiane, dei veri e propri miracoli. Per dare un termine di paragone, a fronte di un suicidio portato a termine ci sono, in rapporto, almeno dieci tentativi di suicidio che rimangono tali per l’intervento della polizia penitenziaria. Salvataggi di vite umane!!! Questo nessuno lo dice. Non fa notizia e non porta voti. Non fa audience. Potessero parlare tutti i detenuti uscirebbero delle storie di umanità e di fiducia meravigliose. Invece si dà voce a chi strumentalizza (questo è acclarato anche da indagini interne) un fatto per scopi personali. Il più gettonato è il trasferimento verso casa. Al contrario, ci sono detenuti che puntualmente e a distanza di anni inviano, da altri istituti, ancora auguri di Natale e buone feste al personale del quale hanno apprezzato soprattutto le doti di lealtà. Tutto questo non può essere vanificato. Ripetiamo se verranno accertate responsabilità dovranno essere giudicate dagli appositi organi, confidiamo nel lavoro degli inquirenti ma soprattutto confidiamo nella lealtà del personale di polizia penitenziaria di Viterbo. Per quanto riguarda la trasmissione “Popolo Sovrano” andata in onda giovedì 28 su Rai2, ci dissociamo in maniera netta, chiara e decisa da quanto dichiarato a mezzo stampa dal rappresentante sindacale durante l’intervista andata in onda nel programma. Un rappresentante della polizia penitenziaria non può ammettere l’uso di mezzi o modalità non previste dall’ordinamento penitenziario o dalla legge in generale. Anzi deve denunciare, se a conoscenza, tali procedure alle autorità di riferimento in primis all’autorità dirigente dell’istituto. Non si può pensare che chi dovrebbe tutelare il personale con il solo modo a disposizione, la legge, sia consapevolmente coinvolto in pratiche illegali. Una dichiarazione simile ci lascia a bocca aperta. Vogliamo credere che sia una dichiarazione personale, e ripetiamo, confidiamo nel lavoro della locale procura affinché sia rispettato l’onore della polizia penitenziaria ma soprattutto la dignità di quei colleghi che ogni giorno affrontano il mandato a testa alta e nel rispetto della legge e dell’istituzione. Il corpo di polizia penitenziaria, un corpo sano, ligio al proprio fine istituzionale e rispettoso della legalità. Chiunque dichiari o parli di pratiche non consentite o addirittura illecite non è in linea coni il nostro mandato e tanto meno può essere da noi rappresentato. L’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario prevede regole ben precise e definite circa l’uso della forza. Dichiarare che “non c’è un limite” dimostra che, oltre l’ignoranza della legge, chi lo sostiene non ha a fuoco il proprio duplice mandato quello di uomo delle istituzioni e quello di sindacalista. Ribadiamo che conosciamo la realtà di Viterbo e siamo ben consapevoli come sia una realtà sana e composta di poliziotti e operatori onesti e dediti al proprio mandato, quello solo e unico di assicurare con la sola legge l’esecuzione della pena. Floris per Sappe Natale per Osapp Lancia per Sinappe Enna: il recupero dei detenuti passa dal campo di zafferano di Concetta Purrazza meridionews.it, 3 marzo 2019 “Dopo il carcere potranno lavorare in aziende locali”. A Enna alcuni carcerati coltivano la spezia con l’obiettivo di creare nella casa circondariale un caseificio per produrre il Piacentino ennese Dop. “L’iniziativa ha cambiato le loro vite - spiega la responsabile del progetto - Si sentono utili”. Coltivare zafferano e sognare un futuro diverso. Succede nella casa circondariale Luigi Bodenza di Enna dove il recupero dei detenuti passa dal campo di zafferano. L’iniziativa, partita lo scorso agosto, rientra nel progetto Orto dentro... viola zafferano promosso dall’associazione Per un mondo di sorrisi in collaborazione con l’istituto di pena ennese. “Un’idea sperimentale - spiega Mauro Todaro, il presidente dell’associazione - che ha consentito a un gruppo di detenuti volontari di impiantare cinquantacinque chili di bulbi di zafferano su un terreno, interno alla struttura penitenziaria, precedentemente disboscato”. Un percorso impegnativo durante il quale i carcerati hanno imparato le fasi di bonifica, semina, concimazione, irrigazione, raccolta e le tecniche di coltivazione biologica. “A novembre - racconta la responsabile del progetto, Salvina Russo - sono nati i primi fiori di zafferano, concimati senza l’uso di prodotti chimici ma utilizzando solo il compostaggio ottenuto dagli scarti della mensa”. La raccolta, effettuata nella prima decade di novembre, viene eseguita “durante le prime ore del mattino per evitare la schiusa del fiore che potrebbe danneggiare commercialmente il prodotto”, ci tiene a precisare Russo. L’obiettivo principale dell’iniziativa ridare dignità ai reclusi tramite l’inserimento lavorativo, una volta fuori dal carcere, in collaborazione con produttori locali che sono alla continua ricerca di personale formato nel settore. “Al termine della pena - continua Todaro - le professionalità acquisite, permetteranno a queste persone di essere impiegate nelle aziende locali, interessate ad assumerle, proprio perché il fiorente mercato dello zafferano è strettamente legato alla produzione del Piacentino Ennese, il nostro formaggio locale a marchio Dop”. Un progetto in evoluzione che prevede l’aumento della superficie coltivata di zafferano e un impianto di caseificazione all’interno dell’istituto di pena, per la produzione del Piacentino ennese. In accordo con la casa circondariale, l’associazione si sta attivando attraverso la Cassa delle ammende per trovare i fondi necessari al finanziamento futuro del progetto. Dalla semina alla raccolta, al momento, sono impegnate sette persone. “L’iniziativa - conclude Russo - ha cambiato le loro vite. Sono più che felici perché sentono che possono dare tanto alla collettività”. Terni: i detenuti al lavoro a Palmetta con Orto21 newtuscia.it, 3 marzo 2019 Orto21 entra nel vivo. La direzione Servizi Culturali Alta formazione rende noto che sono giunti oggi al centro di Palmetta i tre partecipanti al progetto di agricoltura sociale promosso dall’ associazione Demetra Con l’arrivo stamattina dei tre detenuti beneficiari del progetto, si attiva l’iniziativa di agricoltura sociale volta alla creazione di un orto sinergico con la collaborazione di detenuti della casa circondariale di Terni e i volontari. Il nome del programma prende spunto dall’articolo 21 dell’ordinamento Penitenziario italiano, una misura alternativa alla detenzione che prevede la possibilità che i detenuti possano uscire dal carcere per lavorare o studiare.Positive le reazioni dei partecipanti. “La cosa bella è che c’è ancora qualcuno che crede in noi”, questa la dichiarazione di uno dei detenutidurante la prima riunione con tutto lo staff dell’iniziativa. Il progetto - Orto21 propone attività formative e pratiche di giardinaggio, orticoltura, frutticoltura e piccola manutenzione dello stabile del Centro di Palmetta al fine di promuovere la formazione e l’integrazione sociale di detenuti del carcere di Terni, l’educazione e la formazione di adulti e bambini, il rispetto per l’ambiente, la creazione e il consolidamento di legami sociali. Il progetto, della durata di un anno, vede impegnati tre detenuti in tirocinio formativo e un detenuto volontario che svolgeranno l’attività presso il Centro di Palmetta tutte le mattine sotto la guida di un tutor, un agronomo, operatori e volontari. Ampio spazio anche alla formazione con dei percorsi aperti a tutti i cittadini, tra cui un corso di potatura di ulivi e alberi da frutto e uno sul giardinaggio. Incontri informativi rivolte alle aziende agricole del territorio e incontri di sensibilizzazione e promozione riguardo alle misure alternative alla detenzione e a progetti sperimentali sull’economia carceraria. I partner - Orto21, ideato da Associazione Demetra, è realizzato in collaborazione con la casa circondariale di Terni e gli assessorati alle Politiche Giovanili, Politiche Sociali e alla Cultura ed è reso possibile grazie al sostegno della Regione Umbria e dalla Chiesa Evangelica Valdese. Partner del progetto sono l’Associazione Ora d’Aria, associazione Culturale Zoe di Foligno, Cmt cooperativa mobilità trasporti Soc. Coop. e alcune aziende agricole locali. Taranto: Progetto Leila a favore anche di detenuti ed ex detenuti corriereditaranto.it, 3 marzo 2019 Entra nella fase operativa il progetto L.E.I.L.A. (Legalità, Educazione, Integrazione, Lavoro, Associazionismo), di cui il Comune di Taranto è il capofila. Approvato dalla Regione Puglia nell’ambito del bando “Cantieri Innovativi di antimafia sociale”, il progetto è in Ats con Esperia 2000, Troisi Project, Homines Novi, Liceo di Scienze Umane Vittorino da Feltre. “Le azioni progettuali - afferma l’assessore al Welfare Simona Scarpati - riguardano laboratori artigianali, educativi, artistici e di formazione professionale per attività di assistenza familiare. Destinatari saranno ragazzi in età scolastica, minori affidati in casa famiglia, minori stranieri non accompagnati, detenuti/ex detenuti, studenti a rischio di dispersione scolastica, cittadini dei tessuti e contesti urbani a rischio devianza e condizionamento dovuto alla presenza di criminalità comune ed organizzata ed in particolare i partecipanti le cui famiglie sono senza lavoro”. Dal sito web del Comune di Taranto, nella sezione avvisi, è possibile scaricare il bando per la selezione dei partecipanti e conoscere termini e modalità per la presentazione delle domande. “Un ringraziamento particolare - conclude Simona Scarpati - va a tutti i partner istituzionali del progetto: Tribunale per i minorenni di Taranto, Ufficio Scolastico Regionale, Ussm di Taranto, Uepe di Taranto, Casa Circondariale di Taranto, Prap di Puglia e Basilicata, Garante dei Minori della Regione Puglia, Garante dei Detenuti della Regione Puglia, Csv di Taranto, Confcommercio. Si tratta di un progetto corale e complesso che l’amministrazione Melucci ha voluto fortemente sostenere, in quanto contiene risposte concrete a bisogni ed esigenze collettive del territorio in ambito di legalità, lavoro, integrazione ed associazionismo ed ottime opportunità di inserimento sociale e lavorativo per nostri concittadini giovani o che sono usciti dal circuito carcerario. Come assessorato al welfare stiamo puntando ad implementare ed attivare una serie di progetti mirati in ogni singolo settore, con attenzione particolare alle marginalità sociali”. Il progetto, data l’importanza che riveste, sarà presentato in conferenza stampa il 12 marzo alle 10.00 nel Salone degli Specchi di Palazzo di città. Pesaro: finisce in carcere per un furto di merendine a scuola La Repubblica, 3 marzo 2019 Condannato in contumacia, l’avvocato d’ufficio non ha potuto presentare richiesta di misure alternative. Sette anni dopo il furto di tre merendine (valore 5 euro), un giovane oggi 22enne finirà in carcere. Condannato in contumacia nei due primi gradi di giudizio perché fuggito all’estero e resosi irrintracciabile, ora andrà dietro le sbarre per due mesi e 20 giorni perché la Cassazione ha respinto il ricorso del suo avvocato, che non ha potuto chiedere misure alternative in assenza di una delega del suo assistito. Il furto avvenne nel 2012. Nel mirino di un gruppetto di ragazzini il distributore automatico della scuola. Ma Alban C., di nazionalità albanese e rintracciato dai carabinieri a Caserta dove vivono i suoi genitori, sarà l’unico a finire in carcere proprio perché condannato in contumacia e irrintracciabile anche dal suo avvocato d’ufficio. Avvocato che dichiara: “Sono avvilito, perché è incredibile quello che è successo”. “Siamo di fronte - insiste il legale Marco Vitali - ad un caso di malagiustizia che spedisce in carcere un ragazzo per una merendina del valore di 5 euro”. Napoli: i ragazzi di Nisida, dietro le sbarre vive la speranza di Rosanna Borzillo Avvenire, 3 marzo 2019 Il Centro studi sulla devianza minorile che ha sede nell’istituto penale di Nisida, nell’arcipelago delle Flegree, in provincia di Napoli, è gremito. In tanti hanno lo sguardo fisso su Len Cooper, giornalista e scrittore statunitense ma, soprattutto - come ama definirsi lui - “uno che ha sbagliato e che ha ritrovato la strada”. Ai 70 ragazzi che oggi abitano il penitenziario, Cooper ha detto che “il capitolo finale della vostra vita è ancora tutto da scrivere. Avete fatto delle scelte sbagliate ma dipende da ciascuno di voi continuare o cambiare strada”. Len Cooper vive da 12 anni a Napoli, che definisce “la mia casa”, facendo riferimento alla generosità, alla tolleranza e all’apertura nei suoi confronti. Oggi ha un ruolo di primo piano presso il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America, ma non è sempre stato così. Ha conosciuto la fame, la miseria, l’ emarginazione. Ai ragazzi, che ha incontrato per oltre un’ora, ha voluto raccontare la sua storia. “A 24 anni volevo uccidere mio padre per le violenze che subivo da lui”. La commozione è forte in un luogo dove in tanti conoscono, per esperienza, la sopraffazione, la povertà, l’emarginazione. Ma Cooper non si è arreso: “Anche voi, come me, potete sognare una vita migliore. Io ci sono riuscito”. Certo - dice Cooper -, ci sono momenti in cui si perde la speranza: ma in questo caso è fondamentale circondarsi di persone che ti aiutano a tornare sulla strada giusta”. “Ricordo un giorno, in particolare - racconta lo scrittore - in cui mi sono seduto per terra nella neve, piangendo perché non avevo soldi e nessun posto in cui vivere: là è intervenuta una persona per aiutarmi. Il segreto è questo: circondatevi di persone positive e di veri amici”. L’appello che lancia da Nisida è di “perdonare sempre. Anche se sembra che la società ti abbandona e non ti ascolta”. “Una società che giudica un minore e poi lo mette in carcere è una società malata” ha rilanciato il Garante regionale per i detenuti, Samuele Ciambriello, ricordando come “l’impegno per la prevenzione e per luoghi alternativi sia fondamentale per creare percorsi d’integrazione che fanno della società una società civile”. La storia di Cooper (raccontata a Nisida grazie alla Federazione italiana donne dottori commercialisti, che ha promosso l’evento di formazione) assomiglia a quella di Antonio, uno dei tre ragazzi che nel 2009 uccisero la guardia giurata Gaetano Montanino nel centro storico napoletano (e che poi si è salvato grazie ad un corso di cucina) e a quella dei tanti ragazzini che ora sono “dietro le sbarre”. Una struttura modello dove si cercano le straordinarie capacità di ognuno accendendo l’interesse nell’apprendere e nel lavorare. “Così - spiega il direttore dell’istituto di pena, Gianluca Guida - lavoriamo a diversi progetti: prevalentemente all’alfabetizzazione primaria dei ragazzi per recuperare il gap scolastico; al recupero delle capacità personali e quindi sul lavoro sulle identità e sulle competenze manuali (con il laboratorio di pasticceria, di cucina, di ceramica, di pizzeria, e persino di street food napoletano) tutti settori anche hanno un’attinenza con la cucina. Poi è nato anche un laboratorio naturalistico che punta alla manutenzione dei giardini. Ciò che ci sta più a cuore è il recupero del parco letterario di Nisida (d’intesa con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare) per restituire una parte dell’isola alla città”. Sull’isoletta che tanti poeti hanno cantato, primo fra tutti Omero, la vita per i ragazzi scorre tranquilla. “Ma - rimarca il direttore Guida - il sogno americano di Cooper lì è realtà: per noi è una opportunità più difficile”. Il direttore racconta che in tanti si sono rivolti a lui, una volta fuori il carcere: “Mi trovo nella difficoltà di dover dare delle risposte ai ragazzi. Ci siamo impegnati a sostenerli e con molti di loro c’è stato un patto di reciproco aiuto: se loro avessero risposto ai nostri stimoli, noi non li avremmo abbandonati”. “Sentiamo la responsabilità di doverli accompagnare in questo passaggio cruciale: sono in reali difficoltà - ha proseguito - e ci dispiacerebbe se dovessero sentirsi traditi ancora una volta”. Da Nisida parte un appello: “sono giovani uomini che meritano il nostro sostegno, se qualcuno può darci una mano per trovare attività che abbiano un minimo di stabilità, magari nel settore della ristorazione o della assistenza paramedica, ci contatti. Da soli non possiamo più farcela”. Milano: “Fa’ la cosa giusta!”, il carcere partecipa falacosagiusta.org, 3 marzo 2019 Nel carcere milanese di Bollate sta per partire un progetto di bilancio partecipativo, che coinvolgerà i 1.200 detenuti. Proporranno e voteranno interventi e iniziative per migliorare l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Interventi che verranno realizzati grazie a una raccolta fondi tra i cittadini “liberi”. Il progetto, “Idee in fuga”, è il primo in Italia ed è curato dall’associazione BiPart. Se ne parlerà a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, organizzata da Terre di mezzo dall’8 al 10 marzo nei padiglioni di Fieramilanocity. Interverranno, tra gli altri, la nuova direttrice del carcere di Bollate, Cosima Buccoliero, e l’imprenditore testimonial del progetto Primo Barzoni di Palm. Nelle prossime settimane intanto i detenuti si incontreranno in assemblea per elaborare le proposte di miglioramento del proprio carcere. Quelle più condivise saranno progettate e votate da tutta la comunità carceraria che sceglierà quelle prioritarie. “Gli obiettivi del progetto sono favorire la contaminazione cross-mediale - spiegano gli organizzatori - e riuscire a rendere accessibili temi delicati e complessi, spesso male interpretati e semplificati a danno di una convivenza civile: la detenzione come pena rieducativa e non come vendetta; la democrazia come metodo di cooperazione e non di competizione; la partecipazione come pratica di comunità e non di lotta; la libertà come apertura al prossimo e non come chiusura egoistica”. Grazie a “Idee in fuga” inoltre sarà possibile “avviare un processo di cittadinanza attiva in un luogo dove la cittadinanza è sospesa” e “creare relazioni positive tra detenuti, tra i detenuti e le istituzioni e tra i detenuti e noi”. L’Associazione “AI - Autori di immagini” è il primo partner che ha ideato la prima iniziativa a supporto del progetto, organizzando una raccolta di illustrazioni e grafiche a tema. Gli artisti invitati a partecipare hanno interpretato i concetti chiave alla base del progetto con un manifesto illustrato. Grazie alla realtà aumentata e virtuale, le opere sono “animate” dai video degli autori che spiegano la ragione della loro adesione al progetto Idee in fuga. Le illustrazioni, che comporranno una mostra, sono esposte negli spazi di Base Milano fino al 6 Marzo. “La paranza dei bambini” vista dalle paranze vere di Amalia De Simone Corriere della Sera, 3 marzo 2019 Arrivano sicuri di sé al cinema. Ed escono piangendo. Il film premiato a Berlino visto in un cinema di Fuorigrotta in mezzo ai ragazzini. Che vengono “schiaffeggiati” dalle crude verità della storia. E ne escono sconvolti. Sono andata a vedere la “Paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi tratto dal romanzo di Roberto Saviano con la sceneggiatura di Maurizio Braucci e no, non ho intenzione di parlarvi del film e ovviamente mi astengo anche dalle inutili, paludose polemiche di questi giorni sul bene e sul male di Napoli. Solo che domenica sera a vedere il film al cinema Med nel quartiere di Fuorigrotta, c’erano tanti ragazzi delle “paranze”. Quelle vere. Orologi tempestati di brillanti, orecchini, bracciali, collane da far impallidire gli ex voto della Madonna dell’Arco, barbe hipster ormai fuori moda ma omologate dal branco, pantaloni larghi sopra, stretti sotto e innaturalmente corti sulle caviglie, come per evitare le pozzanghere, e ragazzine al seguito avvolte nei visoni che sembravano appena uscite dal trucco e parrucco di una trasmissione della De Filippi, maschere tutte così simili e tutte abili a cancellare la freschezza della loro adolescenza. Prima della proiezione era tutto un vociare di “Amò, fratammé, m’ea murì tu” (amore, fratello mio, e mi devi morire tu, espressione intraducibile che serve a sottolineare che si sta talmente dicendo una cosa vera da poter mettere anche a rischio la vita di una persona cara che in questo caso (tu) è l’interlocutore). Mi sembrava già così strano vederli varcare la soglia di un posto dove comunque si diffonde cultura. In fondo questa volta mi facevano quasi tenerezza, a gruppetti a seconda della provenienza di quartiere, un po’ a disagio si sfidavano con lo sguardo a cattivone in una tregua che sembrava voler dire: uagliù stiamo andando a vedere la storia nostra. E così tronfi delle aspettative su un racconto che speravano rendesse giustizia a quella finta fiera ma realmente precoce vita criminale, ordinati prendevano posto in sala, sicuri di mostrarsi “eroi oscuri” alle loro ragazze e soprattutto a se stessi. Ma il film li ha schiaffeggiati. Fotogramma per fotogramma. Con ogni primo piano, sguardo, lacrima, disillusione, rabbia, dolore, verità. Poca cronaca e in quella che c’era ho riconosciuto anche frammenti delle mie videoinchieste sul tema. C’era invece una mano che senza nemmeno troppo riguardo scavava nelle esistenze giovanissime dei protagonisti, nelle loro intimità. Come si finisce così? Da dove viene l’educazione criminale? Tutto sommato non solo dal male. Viene anche un po’ da cose importanti e che però prendono canali e vie sbagliate. La necessità di un senso di giustizia tradito, inascoltato. La volontà di emergere e affrancarsi in un sistema che non ti dà opportunità se non sei “figlio di” o “segnalato da” o ricco di famiglia o se sai che anche se ce la metti tutta può arrivare l’ultimo stronzo con le spalle coperte e passarti addosso. E così il male può sembrare perfino l’opportunità per un riscatto. Il prezzo è altissimo e il film te lo sbatte tutto in faccia. A quindici anni già sai che la morte disgrega, corrode, torce, distingue. Lo diceva Pasolini e non pensava ai 15 anni. Quindici. Solo quindici. A quindici anni capisci che non puoi sognare, non puoi andare ad un concerto, che non puoi fare una vacanza, che può succedere che non dovrai più vedere la ragazza di cui sei innamorato perché abita in un quartiere nemico. Ti accontenterai della serata in discoteca dove devi ostentare anche quello che non hai, di spendere quei soldi facili e sporchi che non sono nemmeno poi così tanti. E sei un operaio del crimine, un sottoproletario dell’abisso ma fingi di sentirti un re. Per non sprofondare dentro. A quindici anni vedrai falciati via anche quel paio di principi che credevi imprescindibili e figli dell’onore. A quindici anni sarai tradito e condannato. A quindici anni tradirai e condannerai. A quindici anni puoi perdere tutto l’amore che hai. E allora durante il film erano i commenti, i sospiri, i singhiozzi a schiaffeggiare me che osservavo tutto. L’unico momento di ilarità è arrivato con il protagonista truccato da donna ma pochi minuti dopo le risatine sono diventati colpi di tosse e singhiozzi, perché il travestimento era solo l’outfit per il primo omicidio. Quando poi sono arrivati i titoli di coda, le luci hanno sorpreso quei ragazzi nel silenzio. Un silenzio sempre così lontano dalle loro vite. Un silenzio così frastornante da svegliare l’attenzione su tutti quegli occhi atterriti. Le ragazze in piedi fissavano lo schermo. Uscendo non si sono mai più guardati in faccia. I “lui” cercavano sempre qualcos’altro sul cellulare. Le “lei” affossavano il viso nei peli del visoncino e sembravano perse nei pensieri. Forse a bussare sulle tempie era il ricordo di quella vacanza spezzata dall’arrivo della polizia, o a quella volta che era una giornata così bella che avrebbero voluto passeggiare spensierate e invece si ritrovavano consumate dal sole in fila a Poggioreale per entrare ai colloqui. Giovanissimi già faccia a faccia con la loro matura miseria e un’innocenza sospesa. E difronte l’immagine chiara del loro spietato destino: quello comunque di un fine pena mai. La lezione della piazza (e di “Green Book”) di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 3 marzo 2019 Si può essere preoccupati per l’immigrazione (malgestita) e non essere razzisti. Non ho deciso di scrivere questa rubrica ieri, dopo aver saputo del grande raduno “People” a Milano. L’ho deciso giovedì, dopo aver visto un bel film, “Green Book”. Stesso tema: il razzismo. La piazza e il cinema possono fare molto; per esempio, svegliarci dall’incantesimo secondo cui l’Italia sta diventando un po’ razzista, e va bene così. Bè, non va bene per niente. E, soprattutto, non è vero. Non ancora. Si può essere preoccupati per l’immigrazione incontrollata (o malgestita) e non essere razzisti: vi assicuro. Il film, dunque. È la storia di una bizzarra amicizia on the road tra un buttafuori italo-americano del Bronx (Tony “Lip” Vallelonga, interpretato da Viggo Mortensen) e un virtuoso, coltissimo pianista afroamericano (Don Shirley, Mahershala Ali), nell’America dei primi anni Sessanta (guardatela in inglese coi sottotitoli, gli accenti sono formidabili!). Un viaggio negli Stati del Sud per una serie di concerti, ispirato a una storia vera. La gente ai tempi trovava normale applaudire un celebre concertista e poi chiedergli di usare la latrina all’aperto perché aveva la pelle scura. Finché qualcuno non gli ha detto che non era normale: era mostruoso. L’America da allora è cambiata, e speriamo non torni indietro (alcuni rigurgiti preoccupano, un presidente come Trump non aiuta). L’Italia, invece, non deve cambiare: resti quello che è, una nazione accogliente e tollerante. Non è debolezza, come qualche carciofo da talk-show vuole farci credere; è una dimostrazione di forza e lungimiranza, invece. Perché “Green Book” commuove e funziona? Perché prova, in maniera spettacolare e divertente, una cosa che sappiamo tutti, ma tendiamo a dimenticare: i razzisti sono, prima di tutto, ignoranti spaventati. Quando due esseri umani si trovano a condividere un pezzo di strada o di vita - stessa cosa - scoprono che non è così difficile capirsi, e migliorarsi a vicenda. Perché c’è sempre da migliorare. Non ci sono neri e bianchi, non ci sono buoni e cattivi: ci sono uomini e donne imperfetti. Per chiudere. Se avete letto fin qui e state pensando “Bah, questi sono discorsi da élite...”, preoccupatevi: qualcuno potrebbe farvi diventare ciò che non siete. Il razzismo è un veleno sottile, e qualcuno sta provando a spargerlo in giro. Va fermato. Libertà e giustizia andiam cercando di Antonio Funiciello L’Espresso, 3 marzo 2019 Libertà e giustizia non se la passano bene. Per anni, dalla fine della seconda guerra mondiale, le democrazie occidentali fondate sulle libertà fondamentali sono state il modello di riferimento globale. Il loro soft power, più del loro hard power, ha attratto nazioni e popoli di tutto il mondo, in virtù di un modello di libertà non astratto, ma fondato sulla possibilità concreta di poter realizzare liberamente il proprio progetto di vita. L’alleanza tra liberal-democrazia ed economia di mercato ha dimostrato per lungo tempo di essere il terreno più fertile per far germogliare l’eguaglianza sociale. Mentre i modelli alternativi di democrazie illiberali e dittature testimoniavano, all’opposto, il proprio doppio fallimento: la negazione istituzionale della libertà e la crescita smisurata della povertà. Le democrazie liberali oggi però arrancano. Al loro interno mostrano un affaticamento misurabile nell’aumento delle diseguaglianze sociali. Viste invece dall’esterno, da paesi illiberali o totalitari in cui centinaia di milioni d’individui escono dall’indigenza, le democrazie liberali sembrano aver perso il loro appeal culturale. Una domanda assilla chi ci osserva da fuori: cosa farsene di tanta libertà, se non può essere concretamente vissuta e trasformata in progetto di vita? Tenere insieme libertà fondamentali ed eguaglianza sociale non è un assioma matematico. È la più politica tra le scelte politiche. In genere è la sinistra che prova a fare questa scelta; ma ci riesce solo quando le sue due principali matrici, quella liberale e quella radicale, riescono a trovare una sintesi culturale e un accordo politico. Mai come oggi queste due sinistre sono, nel mondo occidentale, non soltanto lontane, ma in lotta l’una contro l’altra. La guerra civile che ingaggiano da qualche tempo, le distrae dall’obiettivo di avversare una destra che, allo scopo di inglobare le pulsioni populiste del proprio campo, si spinge sempre più a destra. Sinistra liberale e sinistra radicale si azzuffano e sembrano provare un perverso gusto autoassolutorio in questa chiassosa baruffa. La sinistra liberale proclama che destra e sinistra non ci sono più e si presta al ruolo di componente ragionevole e competente di un nuovo centrismo, che è poi un modo diverso di sperimentare una forma aggiornata di conservatorismo. L’ex primo ministro socialista Valls che, candidato sindaco di Barcellona, manifesta accanto al centrodestra spagnolo (estremisti e razzisti compresi) è il simbolo di questo disegno (e di questa ipocrisia). La sinistra radicale non è da meno. A New York Amazon aveva progettato di costruire un nuovo quartier generale. Aveva trovato un’intesa sia con Andrew Cuomo (governatore dello stato di orientamento di sinistra liberale) sia con Bill De Blasio (sindaco di sinistra più radicale, ma pragmatico). Tuttavia Amazon non aveva fatto i conti con la pasionaria del 14esimo distretto di Nyc, Alexandria Ocasio Cortez, che ha capitanato la protesa contro l’orrenda multinazionale. Risultato: 25mila posti di lavoro in meno e un favore, grande come uno dei suoi grattacieli, a quel Donald Trump che considera Jeff Bezos, capo di Amazon ed editore del Washington Post, uno dei suoi peggiori nemici. Gli esempi potrebbero continuare. Ma il meccanismo del gusto perverso è chiaro. Invece di costruire una sintesi delle diverse istanze che rappresentano e accettare la sfida del governo contro la destra, sinistra liberale e sinistra radicale si combattono, accettando la propria subalternità. Nelle versione più hard (modello Valls od Ocasio Cortez), questa subalternità diventa una forma di esplicita o implicita complicità. Nella versione più prudente, la subalternità finisce per essere malinconica testimonianza, quando non impegna sinistra liberale e sinistra radicale nella guerra civile cui prima sí accennava. Come uscirne? Prima di capire come uscirne, è forse necessario chiedersi se valga la pena uscirne. E qui si torna a libertà e giustizia. Se difatti le due sinistre riuscissero nuovamente a parlarsi, l’incrocio delle loro strategie potrebbe riproporre sia la forza espansiva delle libertà fondamentali, sia ricette di equità sociale che curino le crescenti diseguaglianze. Il perduto appeal del modello culturale liberaldemocratico potrebbe riprendere vigore e attrattività, se l’ascensore sociale fosse rimesso in funzione. In un’epoca che un po’ ricorda la presente, quegli anni 30 aperti da una grande crisi economica e contraddistinti dall’avanzata dei totalitarismi, Franklin Roosevelt comprese che le due principali libertà americane, quella di parola e quella di religione, erano concetti astratti senza la difesa della libertà dalla paura e, soprattutto, senza il rilancio della libertà dal bisogno. Specularmente è pericolo pensare di riparare l’ascensore sociale indebolendo le libertà fondamentali su cui è eretto lo stato occidentale contemporaneo. In Italia impazza il revival del salario come variabile indipendente, animato da politici e intellettuali della sinistra radicale. Sebbene sul punto, in un’intervista a Eugenio Scalfari, quarantuno anni fa un certo Luciano Lama abbia avuto parole definitive: “Ci siamo resi conto che un sistema economico non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente. I lavoratori e il loro sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto in questi anni che il salario è una variabile indipendente. n parole semplici: si stabiliva un certo livello salariale e un certo livello dell’occupazione e poi si chiedeva che le altre grandezze economiche fossero fissate in modo da rendere possibile quei livelli di salario e d’occupazione. Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra”. Nel 1978 Luciano Lama mostrava di avere una visione profetica dello sviluppo del mondo. In un’economia aperta e in una società aperta, non c’è variabile che non dipenda dall’altra, in un gioco continuo di connessioni e di rimandi. Ogni tentativo forzoso di imporre correzioni sociali produce storture. Le correzioni sono indispensabili, ma solo se organicamente ideate e gradualmente realizzate in un contesto vivo di relazioni umane e rapporti di forza. Internet e globalizzazione hanno, d’altronde, moltiplicato esponenzialmente il numero di variabili e quello delle loro connessioni. È questa la ragione per cui la governance è più orizzontale e più complessa. Sinistra liberale e sinistra radicale rappresentano variabili talvolta diverse. Eppure queste variabili interagiscono tra loro, indipendentemente dal fatto che le due sinistre vogliano farsi carico o meno di questa interazione. La mera rappresentanza delle differenti variabili così non è sufficiente. Solo la pace tra le due sinistre e un nuovo progetto comune di governo può garantire che le istanze di rappresentanza non siano svolte regressivamente. Ma siano integrate e mutuamente rinvigorite. Ovvio che tra le due sinistre e le variabili che intendono rappresentare ci sia competizione, con l’obiettivo di guidare il proprio campo di riferimento. Una cosa è, però, la competizione tra chi accetta di stare insieme e costruisce un progetto comune. Un’altra è la guerra civile in corso, che non potrà mai vedere un vincitore. Solo la destra ha da guadagnarci dal protrarsi della guerra civile. Più tardi le due sinistre ne saranno consapevoli, più difficile sarà tentare la rimonta. Vittime del razzismo: una guida per difendersi dall’odio di Jacopo Storni Corriere della Sera, 3 marzo 2019 L’opuscolo, tradotto in inglese, francese e arabo, è stato distribuito gratuitamente dalla Ong Cospe. Il progetto V-Start oltre all’Italia coinvolge altri Croazia, Austria, Germania. Erano 71 nel 2012, sono diventati 803 nel 2016. Sono i numeri delle aggressioni a stampo razzista in Europa secondo l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (Odihr) dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Numeri in crescita esponenziale che allarmano. Per aiutare le vittime di offese e discriminazioni razziste, arriva una guida in loro supporto. È stata realizzata dalla Ong Cospe su finanziamento del programma Justice dell’Unione Europea. È un piccolo opuscolo, tradotto in inglese, francese e arabo e distribuito in mille copie gratuitamente in tutta Italia. La guida è una forma di supporto pratico e psicologico a chi subisce aggressioni di tipo razzista, omofobo e contro la disabilità. “Hai subìto un crimine d’odio?” A partire da questa domanda vengono forniti suggerimenti su come reagire: “Innanzitutto non sottovalutare quello che ti è accaduto”. Spiega la guida: “Anche un episodio che ti sembra poco importante può portare con sé delle conseguenze negative. La violenza e l’aggressività non devono diventare la norma”. Poi si invita la vittima a non sentirsi a disagio: “Non hai nessuna colpa. Ricorda che hai il diritto di essere trattato in modo delicato e non giudicante dalle forze dell’ordine e da tutti i servizi a cui ti vuoi rivolgere”. L’opuscolo invita a denunciare l’accaduto: “Anche se l’aggressione non ti ha provocato ferite, non denunciare significa non avere la possibilità di individuare e perseguire l’autore della violenza che, di conseguenza, potrebbe essere commessa nuovamente, coinvolgendo altre persone”. In caso di denuncia, la guida risponde alle domande che solitamente si pongono le vittime: “Cosa succede se faccio denuncia? Devo partecipare obbligatoriamente al processo? Come faccio se non ho soldi per pagare l’avvocato?”. Dopo aver riportato tutti i numeri telefonici delle forze dell’ordine, la guida invita la vittima a parlare dell’accaduto tra amici e parenti affinché quanto accaduto non resti argomento tabù. Inoltre l’opuscolo fornisce anche i numeri telefonici di tutte le forze dell’ordine, oltre a quelli delle strutture delle associazioni e di vari servizi sociali regione per regione: dall’ufficio nazionale anti discriminazioni razziali (Unar) di Roma alla Rete Dafne di Torino, dalla fondazione per le vittime di reati a Bologna all’associazione L’altro diritto a Firenze, dalla cooperativa Dike di Milano all’associazione degli avvocati Asgi. La guida è accompagnata anche da un video animato dove vengono raffigurati episodi emblematici di offese o discriminazioni: dalla donna col velo presa in giro sull’autobus al disabile bullizzato, dai pazienti d’ospedale impauriti dall’infermiere di colore alla coppia omosessuale spintonata al parco. Il progetto V-Start (acronimo di Victim support through awareness raising and networking) oltre all’Italia coinvolge altri tre Paesi europei (Croazia, Austria, Germania) e altrettanti partner europei. Milano, la marcia antirazzista è una festa per 200mila persone di Zita Dazzi La Repubblica, 3 marzo 2019 Un fiume di persone colorato e allegro. Una partecipazione straordinaria. Poco dopo la partenza del corteo antirazzista di Milano, c’è già un numero: “Siamo 200mila”, aggiornato a distanza di due ore con un “oltre 250mila”. Lo dice Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali in prima linea nell’organizzazione. E in effetti la coda della marcia non fa in tempo a muoversi per l’inizio della manifestazione che la testa è già in Duomo, a un paio di chilometri di distanza: la piazza è subito piena e la folla canta “Bella ciao”. Tanti, tanti bambini. E un dragone cinese, in rappresentanza della numerosa comunità cinese. Sfila “l’altra Italia” - Felice il sindaco Beppe Sala, che vede nella giornata un segnale di un prima e un dopo: “È un momento di grande cambiamento per il Paese, è questa la nostra visione dell’Italia. Uno spartiacque per la società. Uno spartiacque tra apertura e chiusura, tra qualche sogno autarchico, che si manifesta nell’idea di trasmettere solo canzoni italiane alla radio, e una visione internazionale. Non lasciate la politica solo ai politici - raccomanda - da Milano può ripartire un’idea diversa dell’Italia”. Tanti i volti della politica che non sono voluti mancare all’appuntamento e sfilano nel lungo serpentone accompagnato da una decina di carri musicali, fra cui quello dedicato alla legge Pillon e all’omofobia (dei Sentinelli) e quello a forma di barcone di volontari e sostenitori delle ong Mediterranea, Open Arms e Sea Watch. Salvini: “Io non cambio idea” - In tanti dicono che da qui la sinistra può ripartire. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini - destinatario con l’intero esecutivo dei messaggi che da qui partono - fa sentire la sua voce a sera, per dire che “il messaggio al governo lo hanno dato gli Italiani con il voto rinnovando la fiducia a me, alla Lega e al governo di mese in mese e di elezione in elezione”. Salvini commenta al Tg Lombardia: “Bene le manifestazioni pacifiche ma io non cambio idea e vado avanti per il bene degli Italiani: in Italia si arriva solo col permesso, lotta dura a scafisti, trafficanti, mafiosi e sfruttatori”. La manifestazione - Partita alle 14 in via Palestro angolo corso Venezia per arrivare in Duomo, è subito un successo (anche oltre le aspettative) la lunghissima passeggiata nel centro della città, accompagnata dalla musica, dai colori, dai balli e dalle speranze centinaia di migliaia di persone. Più che una manifestazione tradizionale, quello di oggi è un grande evento con un afro street party finale in piazza Duomo del dj italo nigeriano Simon Samaki Osagie, l’inventore dell’ultima moda britannica in fatto di flash mob musicali a tema politico, venuto appositamente da Londra. “People-prima le persone”, contro tutte le discriminazioni, sfida apertamente il governo sui diritti, sul rispetto, perché - per usare sempre le parole di Sala qui si materializza “un’altra visione del mondo”. L’idea è stata lanciata in autunno da sei sigle del terzo settore (Insieme Senza Muri, Anpi, Acli, Sentinelli, Mamme per la pelle e Action Aid). Le adesioni - Pullman e delegazioni da tutta Italia e numeri da record, 1.200 fra enti e associazioni presenti con striscioni loro, 40mila adesioni solo su Facebook, 700 Comuni aderenti, 20 presenti in piazza anche con il gonfalone e gli assessori, fra questi quello di Riace. Tanti i politici, leader nazionali e segretari generali di sigle come Cgil, Cisl, Uil, Arci, Emergency, Amnesty International, Medici senza frontiere. Tutti uniti in nome della tolleranza e del rispetto dei diritti delle persone e delle minoranze, in un ventaglio larghissimo che va dai migranti all’universo Lgbt, dai disabili alle donne. In strada 200mila persone - Obiettivo dichiarato era quello di uguagliare quel traguardo del 20 maggio del 2017 che portò in piazza sempre a Milano 100mila persone e di superare i 50mila arrivati in piazza del Popolo a Roma per il raduno #primaglitaliani del leader leghista Matteo Salvini. Ma la risposta di Milano anche stavolta c’è stata: “Siamo 200mila! - twitta Majorino a un’ora dalla partenza - corteo allegro, festoso e tranquillo, di tutti i colori”. Poi dal palco di piazza Duomo, l’aggiornamento contabile che fa esultare i presenti: oltre 250mila. Nessun comizio finale e discorsi paludati, tutto si conclude al tramonto, al suono dell’inno “People have the power” di Patty Smith. E il potere di Milano, ancora una volta, è stato quello di portare in strada la voce di chi chiede un altro approccio alle tematiche dell’immigrazione, delle persone omosessuali, dei disabili, della società che cambia “restando umana”. “Da questa piazza va ricostruita la sinistra” - “Abbiamo bisogno delle persone e di tornare alle persone”, dice Nicola Zingaretti, candidato alle primarie del Pd, al corteo con lo sfidante Maurizio Martina, che su Twitter scrive: “Oggi e domani. Per la primavera democratica #primalepersone”, postando un’immagine dei due insieme. “Da qui, da manifestazioni come questa, va anche ricostruita la sinistra. Questo governo non garantisce lavoro, sviluppo e benessere ma distribuisce tanto odio, rancore e divisione. L’Italia non può essere questo”, spiega Zingaretti. La lezione è stata compresa da tutti. “Il Pd unito è indispensabile per battere i seminatori d’odio in questo Paese, quelli che pensano che si costruisca il futuro dell’Italia sul rancore - aggiunge Martina - questa piazza ci chiede unità e apertura e noi non dobbiamo assolutamente deluderla”. In corteo la giunta e i consiglieri comunali, l’ex sindaco Giuliano Pisapia, il governatore della Toscana Enrico Rossi. A Milano anche Gino Strada di Emergency e Carla Nespolo, presidente dell’Anpi. “Non è una piazza per mandare un messaggio Salvini - sottolinea il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - ma al paese che chiede di partecipare e di cambiare le politiche economiche. Questo è un governo che fa politiche sbagliate e non sta combattendo le disuguaglianze. Questa piazza va oltre la sinistra, chiede l’unità sociale per riconoscere il lavoro come fondamento del Paese”. “Qui invece c’è vita, speranza e voglia di andare avanti”, le parole di Laura Boldrini, ex presidente della Camera. Per Nicola Fratoianni, quella di Milano, è “una manifestazione straordinaria”, con “centinaia di migliaia di persone che si ribellano insieme all’onda nera che vuole sommergere l’Italia, al razzismo dilagante”. Perché, aggiunge il deputato radicale di +Europa Riccardo Magi, “c’è un’Italia che si sente meno sicura proprio a causa di misure come il decreto sicurezza: aumentano le discriminazioni e vengono ulteriormente affossate le politiche per l’accoglienza e l’inclusione. Essere qui è un dovere”. Le mamme adottive - Ma al di là delle dichiarazioni dei politici, esiste e si fa sentire per le vie del centro della città la vita vera: i nuovi italiani, le famiglie, di tutti i colori. Adriana Pumpo, del direttivo dell’associazione “Mamme per la pelle”, nata il 30 novembre del 2018 dopo una lettera aperta scritta da una mamma adottiva al ministro dell’Interno Matteo Salvini, racconta l’emozione della giornata. “Per noi era fondamentale essere qui - dice - perché il clima si è inasprito e sono molti gli episodi di razzismo soprattutto da parte di adulti nei confronti di bambini. È una gioia enorme che tante persone condividano il nostro spirito”. Uno spirito che riempie il cuore di Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità che assiste i migranti: “Oggi Milano dimostra che l’accoglienza non è un seme di coesione sociale che contagia positivamente tutta la società”. “L’Italia non è e non è destinata a diventare un Paese razzista”, assicura Luigi Manconi, direttore dell’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali della presidenza del Consiglio dei ministri, non nascondendo però i pericoli. “I razzisti esistono, gli atti di intolleranza crescono, così come l’ostilità verso gli stranieri da parte di strati popolari provati e mortificati dalla crisi economico sociale: una intolleranza - spiega - spesso assecondata e addirittura incentivata da settori della classe politica”. Milano dimostra che una luce splende. “Nella società italiana è presente una forte disponibilità alla convivenza pacifica con i 5 milioni e 200mila stranieri regolari e con i 900mila minori presenti nelle nostre scuole. È ancora sotterranea e fatica a emergere, ma bisogna sostenere questo rifiuto dell’intolleranza”. I volti dello spettacolo - Decine di volti del mondo dello spettacolo e della cultura: fra loro, Malika Ayane, Silvio Soldini, Giobbe Covatta, Claudio Bisio, Luca Bigazzi, Amelia Monti, Lella Costa. Ma il grosso, sono i cittadini, giovani e anziani, single e famiglie. C’è anche Ornella Vanoni: “Perché tutto questo odio? - chiede - Spero che questa piazza abbia un senso, siamo qui per dire che non siamo razzisti. Una città importante come Milano deve diventare multietnica come lo sono Parigi e New York”. Flash mob finale sulle note di “People have the power” di Patty Smith, una grande catena umana e mani a formare migliaia di cuori che si alzano al cielo. La marcia anti-razzista che sfida il governo di Paolo Madron lettera43.it, 3 marzo 2019 L’iniziativa “People - Prima le persone” porta in piazza migliaia di voci contro “la politica della paura”. A inizio corteo il sindaco Sala. Majorino: “Siamo 200 mila”. Presenti anche i sindacati. È partita attorno alle 14.30 del 2 marzo la manifestazione nazionale anti-razzista “People - Prima le persone”, che ha portato nelle strade di Milano migliaia di voci contro la “politica della paura”. Duecentomila, secondo l’assessore alle Politiche sociali del Comune Pierfrancesco Majorino. A inizio corteo uno striscione giallo con il nome dell’evento, tenuto dagli scout. Vicino a loro il sindaco del capoluogo lombardo Giuseppe Sala. In un “momento di grande cambiamento” per il Paese “è questa la nostra visione di Italia”, ha detto il primo cittadino di Milano per il quale, ora, “ci troviamo a uno spartiacque” a livello di società. Fra i presenti alla manifestazione, anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, quello della Uil Carmelo Barbagallo, i governatori della Toscana Enrico Rossi e del Lazio Nicola Zingaretti, oltre a Sergio Cofferati e Roberto Vecchioni. Molte le famiglie con i bambini arrivate alla coloratissima manifestazione. L’appello di People parla di “una grande iniziativa pubblica per dire che vogliamo un mondo che metta al centro le persone. La politica della paura e la cultura della discriminazione viene sistematicamente perseguita per alimentare l’odio e creare cittadini e cittadine di serie A e di serie B. Per noi, invece, il nemico è la diseguaglianza, lo sfruttamento, la condizione di precarietà”. La manifestazione è promossa da 30 realtà, dall’Arci ai sindacati passando per le organizzazioni anti-razziste. In tutto, oltre 1.000 associazioni. “Inclusione, pari opportunità e una democrazia reale per un Paese senza discriminazioni, senza muri, senza barriere” sono i motivi - come si legge nell’appello - per cui è stata promossa questa mobilitazione nazionale. Ma anche “perché crediamo che la buona politica debba essere fondata sull’affermazione dei diritti umani, sociali e civili. Perché pensiamo che le differenze - legate al genere, all’etnia, alla condizione sociale, alla religione, all’orientamento sessuale, alla nazione di provenienza e persino alla salute, non debbano mai diventare un’occasione per creare nuove persone da segregare, nemici da perseguire e ghettizzare o individui da emarginare”. Droghe. “Le dosi, gli zombie: così sono riemersa”: il libro di Ambra scritto a Rogoredo di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 3 marzo 2019 La donna assistita al centro di via Ventura. “Mi sono immersa nel fiume del Toxic Park per cinque mesi e ho dato un’occhiata da vicino ai pesci che lo popolano. Prima che iniziassero a crescermi le squame, sono riuscita a risalire in superficie e ho deciso di mettere nero su bianco la mia esperienza in modo da fornire uno sguardo autentico, il più possibile scevro da pregiudizi, su questa realtà”. È l’inizio di un libro che per ora ha solamente tre capitoli densi, sofferti, preziosi. A scriverlo è Ambra - 40 anni, bionda, carina, rossetto rosso un po’ sbavato sulle labbra, caduta nella trappola dell’eroina un anno fa e negli ultimi mesi frequentatrice assidua del boschetto di Rogoredo. È stata riacciuffata dall’équipe di operatori e volontari che da due settimane entra nel cuore dell’area di spaccio e cerca di agganciare i tossicodipendenti, trascinarli via da lì, fuori dal boschetto, proponendo ospitalità anche notturna presso lo Smi di via Ventura (un Serd privato convenzionato), con una prima fase di stabilizzazione o disintossicazione (per lo più con metadone, ma nel suo caso senza farmaci sostitutivi) e poi il passaggio diretto in comunità. “Al tramonto, nella penombra di una sera d’autunno, cinque individui siedono attorno al fuoco circondati da alberi e foglie cadute. Hanno tutti un’aria assorta, ognuno perso nei propri pensieri. Una di loro, Viola, osserva sorridendo il sole che colora di rosso il cielo fra gli ippocastani. In lontananza, una voce malinconica e monotona ripete ritmicamente, ogni cinque secondi: “Spade, fiale” - si legge nelle pagine di Ambra -. Accanto a lei siede Pompeo intento a “cucinare” la cocaina in una fiala piena per metà di ammoniaca che porta ad ebollizione con la fiamma dell’accendino. Geco, alla sua sinistra, gli porge un fazzoletto di carta. La coca è pronta. L’eroina anche”. È incredibile la lucidità con cui questa donna è riuscita a osservare quel mondo, pure con occhi persi tra una dose e l’altra, e poi ricostruirlo. “Per chi indulge a lungo nella frequentazione del Toxic Park, la metamorfosi è inevitabile ma non irreversibile. La chiave è il tempo: più ci si sguazza e più se ne porteranno i segni. Le squame. Mi ha molto colpito l’alto numero di giovani e giovanissime pescioline che quotidianamente viene ingerito e rigurgitato da un certo numero di viscidi squali che risalgono la corrente per accumulare le loro prede. Propongono varietà di sostanze sempre diverse, a prezzo sempre più basso”. Ultimamente regalano anche siringhe già pronte: “Non sai bene cosa ci sia dentro ma nell’urgenza ti fai. E in un angolo ci sono gli zombie, altri tossici, quelli che se parlano al massimo ti chiedono una spada”. Come è entrata nel tunnel della droga e poi precipitata nel pozzo nero dell’eroina e del boschetto? È stata sposata, aveva un buon lavoro, ha vissuto per nove anni a Londra con il marito con cui stava fin da ragazzina, e le tre figlie. Una storia difficile, però, finita con la separazione. Da lì: la deriva, la depressione. Farmaci. E poi la droga, con gli ultimi cinque mesi di vita per strada, a fare la spola tra il centro (per recuperare le monete) e il boschetto di Rogoredo. Ieri ha finito i dieci giorni di disintossicazione allo Smi di via Ventura ed è entrata in comunità. Prima di lasciare la struttura ha scritto queste parole di incoraggiamento per chi occuperà di notte il materasso che ha ospitato lei, in quel “ricovero” di salvezza: “Lo so: adesso stai male. Ma ricordati che questi dolori, questo freddo, questa tristezza, questo vuoto, non dureranno in eterno. Tra qualche giorno saranno passati e poi se lo vorrai diventerai libera per sempre”. Egitto. Isis controlla parte del sistema carcerario agcnews.eu, 3 marzo 2019 Le prigioni egiziane sono esattamente ciò che Isis cerca per ottenere facili e nuove reclute: centri di umiliazione, abuso e tortura. Sono diventate terreno fertile per l’estremismo: una sorta di linea di produzione continua di nuove reclute per l’Isis. Si tratta di un problema per l’Egitto, il Medio Oriente e anche gli Stati Uniti, riporta Human Rights First. L’Amministrazione Trump ha elogiato il Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, nonostante le diffuse violazioni dei diritti umani sia all’interno che all’esterno delle carceri. Parlando al Cairo a gennaio, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ringraziato Sisi “per i suoi vigorosi sforzi per combattere la continua minaccia del terrorismo e l’islamismo radicale che lo alimenta (…) La nostra battaglia contro ISIS, al-Qaeda e altri gruppi terroristici continuerà”. Secondo l’attuale legislazione Usa, 300 milioni di dollari degli 1,3 miliardi di dollari che il governo degli Stati Uniti dà all’Egitto dovrebbero essere legati al progresso dei diritti umani, ma non vengono rispettati. Le prigioni di Sisi stanno producendo membri di Isis ad un ritmo crescente. In effetti, il Califfato è ora così potente da avere di fatto il controllo di parti del sistema carcerario egiziano. Stando alle testimonianze, “In alcune prigioni, come El Netrun, ci sono centinaia di uomini Isis e sono davvero potenti. Controllano come viene gestita la prigione e possono identificare i prigionieri vulnerabili che vogliono trasferire nella loro cella per radicalizzarli, e le guardie lo fanno”. Tutti gli ex detenuti hanno detto che la fine degli abusi nel sistema carcerario renderebbe molto più difficile per Isis reclutare. Le testimonianze riportano che: “A volte le persone in carcere sono lì perché sono state prelevate ad un posto di blocco o perché avevano qualcosa contro il governo su Facebook. Poi in prigione vengono sottoposte ad elettroshock, in bocca, sui genitali. Dopo di che sono pronti ad ascoltare Isis”. Nessuno sa quanti prigionieri politici ci sono in Egitto, anche se le stime riportano generalmente circa 60.000 persone. Più a lungo la tortura continua, più facile sarà per Daesh reclutare i detenuti. Rep. Centrafricana. Nel Paese con due soli pediatri l’ospedale voluto da Papa Francesco di Michele Farina Corriere della Sera, 3 marzo 2019 Viaggio a Bangui, nello Stato peggiore dove nascere. La banda con la divisa gialla, le grida dei bambini, folate di pesce fritto che il vento porta dalla città. Le parole di Francesco all’entrata dell’ospedale pediatrico sono più che un messaggio registrato: “Il Papa non ha mai lasciato la Repubblica Centrafricana” dirà poi il cardinale Konrad Krajewski, l’elemosiniere pontificio che è come un “ministro della Carità”. Il 29 novembre del 2015 Bergoglio si fermò e baciò tutti i bambini di questo ospedale dimenticato nella dimenticata capitale di un Paese stremato dalla guerra. Un’estrema periferia africana dove Francesco era venuto per dare il via al Giubileo, aprendo la porta della cattedrale di Bangui prima di quella di San Pietro. “Non ho dimenticato”, dice il Papa dal piccolo maxischermo che impallidisce tutto sotto il sole dell’Equatore: “Mi ricordo ancora le parole di un’operatrice sanitaria accanto a me: “La maggioranza di questi bambini moriranno, perché hanno una malaria grave e sono denutriti”. Quell’operatrice, Ombretta Pasotti, è qui per l’inaugurazione del Nuovo centro per la nutrizione terapeutica che l’ha vista coinvolta nella squadra dell’ospedale Bambino Gesù di Roma. La sua presidente, Mariella Enoc, racconta di quando il Papa tornò in Vaticano e le raccontò dei piccoli malnutriti di Bangui: “Quello che ho visto mi ha strappato il cuore - mi disse il Papa -. Tanti bambini che si passavano il respiratore attaccati a un’unica bombola d’ossigeno”. Facciamo qualcosa, disse. E le risorse? “Ce le metto io”, rispose il Papa. Da quella visione è nato questo rifugio a due piani, protetto da un brisesoleil in legno che permette all’interno di avere luce, aria e ombra, con moderni “dispensatori” di ossigeno che eviteranno ai bambini di dover respirare a turno. “Con il governo centrafricano vogliamo che diventi un polo di eccellenza per la cura della malnutrizione”, dice Mariella Enoc mentre mostra il centro al presidente Faustin Archange Touadéra e ai suoi ministri. È una giornata di festa per un Paese che vive di gioie centellinate: poche settimane fa è stato firmato un accordo in cui i capi delle 14 milizie che si sono spartite il Paese hanno accettato il piano di pace (il settimo) messo a punto dal governo. Chi ha patito la guerra cominciata nel 2013 (e divenuta anche scontro tra cristiani e musulmani) è stata ed è la popolazione civile. La Repubblica Centrafricana è agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo umano, il Paese peggiore per un bambino che nasce. Sono scomparsi gli insegnanti e i dottori. Eppure qualcosa si è messo in moto. E questo piccolo gioiello di ospedale pediatrico aggrappato alla collina di Bangui è visto come un motore di sviluppo: oltre alla creazione ex novo del centro per la malnutrizione, l’intero complesso è stato rinnovato grazie all’intervento della Fondazione Bambino Gesù. Su invito della presidente Enoch da quasi un anno i medici e il personale del Cuamm accompagnano i locali nella gestione. Se il nuovo centro ha i profumi e i vuoti dei luoghi non ancora in uso, il vecchio centro per la malnutrizione offre il palpitante groviglio umano tipico degli ospedali africani. Il piccolo Bien Fait (ben fatto) dorme nel letto con la sua mamma: cosa mangia di solito a casa? “Manioca”. E poi? “Manioca”. I tuberi riempiono la mancia ma non nutrono, dice suor Maria Corinne. “Qui ne arrivano almeno 140 al mese - racconta la dottoressa Jacqueline Tchebemou di Action contre la faim - Sia dai quartieri cristiani che da quelli musulmani”. È una notizia promettente: un ospedale, luogo di dolore, che diventa un teatro di cura per le ferite dell’esclusione. Dopo l’inaugurazione, “la squadra papale” si ritrova alla cattedrale di Bangui. Una preghiera, una foto per dare un segno al messaggio del Papa: “Mi piace pensare che questa porta santa sia ancora aperta, e che il suo fiume di misericordia rifluisca fino all’ospedale pediatrico, ai suoi bambini e a tutti coloro che ci lavorano”. C’è tempo per rivivere le emozioni di quel giorno del 2015 quando il Papa planò qui anche se molti lo sconsigliavano: “Piuttosto mi butto con il paracadute - disse Francesco. Temo soltanto le zanzare”. A fargli da apripista c’era Domenico Giani, comandante della Gendarmeria vaticana. È stato lui a vedere per primo l’ospedale: “Era un acquitrino, con i topi che giravano tra i bambini”. Nacque così l’idea di quella visita fuoriprogramma che tanti frutti ha portato. “È un bellissimo inizio - racconta Mariella Enoc - Vogliamo completare la ristrutturazione dell’ospedale e lavorare molto sulla formazione”. I pediatri in Centrafrica, 4,6 milioni di abitanti, sono solo due.