Legittima difesa, la propaganda della Lega verso le Europee di Liana Milella La Repubblica, 31 marzo 2019 Ma per i magistrati si tratta solo di una legge “ingiusta e incostituzionale”. Evvai con la propaganda. Una legge venduta con una maglietta blu, esibita da Salvini davanti alle telecamere. Con su scritto in bianco “la difesa è sempre legittima”. Lui, e dietro quella che chiama “la sua squadra”. Il sottosegretario Molteni. Il capogruppo in commissione Giustizia Ostellari, relatore della legge a palazzo Madama. Si sottrae ai flash dei fotografi il ministro Giulia Bongiorno, che però tuitta subito lo slogan della ditta “la difesa è sempre legittima”. I 5stelle votano ma non si siedono ai banchi del governo? Salvini minimizza e porta a casa una legge che, dice, “stavamo aspettando da 15 anni”. Una legge “inutile, dannosa, incostituzionale” su cui le toghe dell’Anm preannunciano battaglia in direzione della Consulta. In compenso una legge per cui Salvini si fa fotografare e riprendere in aula a fine seduta contornato da tutti suoi senatori. Anche oggi, come ormai dalla nascita del governo, Lega e M5S si presentano divisi, quasi non fossero i partner della stessa coalizione, pronti a tirare ognuno dalla sua parte provvedimenti marcatamente elettorali. Come la battaglia in corso sulle donne. Perché, mentre al Senato si vota la legittima difesa, alla Camera il Carroccio presenta un emendamento al cosiddetto “codice rosso” - nuove norme per rafforzare la tutela delle donne aggredite - sulla castrazione chimica. Su “base volontaria” dichiara Bongiorno, se si vuole evitare la galera. Insorge M5S che dice subito no. Ma proprio sulle donne e sul “codice rosso” si gioca un balletto di “appropriazione”, prima Bongiorno presenta un testo, poi il Guardasigilli fa delle aggiunte rafforzando le pene e lanciando il carcere a 14 anni per chi sfregia con l’acido. Ma la Lega rilancia subito con la castrazione, una vecchia ossessione delle camicie verdi. Funziona così nel governo, ognuno porta a casa quello che gli interessa di più. La legittima difesa può essere considerato l’ultimo emblema. M5S è stato sempre freddissimo. In aula al Senato ha votato per dovere, ma senza alcuna “difesa”. Sui banchi del governo solo leghisti, Bongiorno sin dalla mattina, i sottosegretari Molteni e Morrone. Poi, alle 12 in punto, a mezz’ora dal voto, ecco Salvini. Che poi si esibisce nella dichiarazione finale con maglietta. Le europee sono vicine e tutto serve per acchiappare voti. Anche sulla pelle dei cittadini, illusi dalla possibilità di autodifendersi armi in pugno, mentre dovrebbe essere lo Stato, e in particolare il ministro dell’Interno, a occuparsene. Bongiorno: rivendico tutto, dalla castrazione chimica all’uso della parola “isterica” di Tommaso Labate Corriere della Sera, 31 marzo 2019 La ministra della Pubblica amministrazione è finita in una bufera dopo aver spiegato su Twitter la sua norma Codice Rosso: “Il razzismo in Italia è solo contro Matteo”. “Premessa. Io non sono certo il tipo di persona che non ammette quando sbaglia, che non cambia mai idea, che non sa chiedere scusa. Detto questo, da dove cominciamo?”. Iniziamo dalla fine. Se vuole scusarsi, può farlo ora. “Non ho nulla di cui scusarmi, questa volta. E glielo dico col cuore. Sono rimasta intrappolata nella rapidità a cui in quest’epoca i social, ma lo stesso vale per la tv, ci costringono. Ha presente la schedina del totocalcio?”. Che cosa c’entra adesso? “Per la schedina ci sono solo 1, X, 2. L’1 però non dice tutto. Dice che una squadra ha vinto ma non dice come, quanto, se ha giocato meglio. Io mi occupo di questioni per cui serve spiegare tutto e bene, purtroppo le cose che dovevo dire le ho sintetizzate in tv e sui social con un segno in schedina”. Il ministro Giulia Bongiorno è finita in una bufera. Su Twitter, dovendo spiegare la sua norma Codice Rosso, che obbliga un pm o un pg ad ascoltare entro tre giorni una donna che denuncia una violenza, ha scritto che quei tre giorni servono a stabilire “se si ha a che fare con un’isterica o con una donna in pericolo di vita”. Quell’”isterica” ha generato tantissime polemiche. Che si sono moltiplicate quando il titolare del dicastero della Pubblica amministrazione ha rilanciato la proposta di castrazione chimica per i condannati per violenza sessuale con pena sospesa. Iniziamo dal tweet con l’”isterica”. “Quell’”isterica” non è mio. Moltissimi detrattori della norma Codice Rosso che ho incontrato sulla mia strada, nell’insistere sulla tesi secondo cui molte delle donne che denunciano una violenza in realtà non l’hanno subita, citano sempre quella parola. “E se è un’isterica?”, “Perdiamo tempo a causa di un’isterica?”, cose cosi. Per me, tutte le donne che denunciano una violenza vanno sentite entro tre giorni, poi si vede se chi denuncia dice la verità o calunnia”. Una donna che calunnia, secondo lei, è “un’isterica”? “No, è una calunniatrice. Isterica fa parte del mio vocabolario solo come citazione altrui”. Lo riuserebbe per spiegare la legge? “Certo che sì. Ma lo metterò tra virgolette spiegando che Codice Rosso serve per appurare in tempi rapidi se una donna che denuncia una violenza è in pericolo di vita oppure, come dicono i detrattori della norma, “un’isterica”. Vede, molto spesso questo tempo non c’è. Tantissimi anni fa, difendevo un industriale che aveva appena spiegato ai pm una serie di delicatissime operazioni finanziarie difficili da spiegare. Visto che il caso era sotto gli occhi della stampa mondiale…”. Sembra il racconto del crac Cragnotti. “…lasciamo perdere, non c’entrano i nomi ma l’esempio. Esco dall’interrogatorio con un discorso preparato e dettagliato da dire alla stampa. Un giornalista del tg mi dice “ha cinque secondi, prego”. Risposi: “Abbiamo chiarito tutto”. Era vero. Ma io non avevo avuto il tempo di chiarire nulla”. Ci chiarisca perché vuole la castrazione chimica. “Anche qua, il tema dell’avere il tempo di spiegare. La gente mi chiede per strada “ma tu vuoi castrare le persone?”. Io non voglio castrare nessuno. Sono per la castrazione chimica come lo è la commissione anti tortura del Consiglio d’Europa. E cioè a tre condizioni: che il reo lo accetti, che ci sia il consenso informato, che il trattamento non sia irreversibile”. In tanti pensano che lei sia cambiata dopo che è finita nella Lega. “Io sono sempre io. Ero a favore della castrazione chimica anche da presidente della Commissione Giustizia della Camera”. La sua collega Trenta s’è detta delusa da lei “come donna”. “Se mi desse il tempo per spiegare che l’abuso sessuale non è un reato minore e che la castrazione chimica non è fisicamente castrare un uomo, glielo spiegherei volentieri”. Ha negato che in Italia ci sia razzismo. “E lo nego oggi. Per me non c’è razzismo”. Non penserà che sia Salvini la vittima di razzismo di molti suoi oppositori? “Diciamoci la verità. Molti pensano che Salvini sia un rozzo, ignorante, un cittadino di serie B che ha usurpato il potere che ha. Non gli riconoscono le grandi doti che solo chi lo conosce dal vivo può vedere. Che è una persona saggia, che sa ponderare rischi e opportunità, che è molto rapido nel prendere decisioni. Ecco, chi nega tutto questo un po’ razzista nei confronti di Salvini sì, lo è”. Entrando nel governo gialloverde sta perdendo i tanti fan che aveva nel mondo laico e di sinistra. Pentita di aver accettato? “Se avessi fatto un calcolo costi-benefici, al governo non sarei mai entrata. Economicamente non mi conviene e nemmeno come visibilità, visto che ne avevo tanta anche prima. Però vorrei vivere cento vite, se potessi. Avevo quella da penalista, ne ho aggiunta una seconda”. La legge “spazza-corrotti” che rischia di spazzare anche il volontariato di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 31 marzo 2019 La norma potrebbe essere uno tsunami sulle organizzazioni che si trovano, ad esempio, a dover far certificare i propri bilanci dalle società di revisione e a dover comunicare alla Camera ogni donazione superiore a 500 euro. La “spazza-corrotti” spazza anche il volontariato? Centinaia di enti di Terzo settore sono alle prese con il problema creato dalla normativa che, partendo dalla legge 3 del 2019 voluta dal governo gialloverde, modifica un comma della norma sulla trasparenza e equipara a partiti politici anche le realtà, dalla bocciofila del Comune di 600 anime alla Fondazione del Teatro alla Scala, dove abbia un ruolo amministrativo chi abbia fatto politica o abbia ricoperto incarichi amministrativi, ad ogni livello e anche in un periodo di tempo limitato. Uno tsunami sulle organizzazioni che si trovano, ad esempio, a dover far certificare i propri bilanci dalle società di revisione (avete idea dei costi?) e a dover comunicare alla Camera dei deputati ogni donazione superiore a 500 euro (e chi controlla poi tutti questi documenti?). Uno tsunami anche per centinaia di donne e uomini di buona volontà che per senso civico e altruismo prestano le loro competenze al Terzo settore e che stanno valutando se dimettersi da ogni incarico lasciando comunque un vuoto negli enti che saranno privati appunto da professionalità ed energie. Dopo l’allarme lanciato dal Forum del Terzo settore, un paio di interrogazioni parlamentari e un tam tam arrivato fino ai palazzi della politica, qualcuno sta valutando anche i possibili estremi anti-costituzionali della norma. Il ministro Alfonso Bonafede ha promesso di studiare un correttivo che limiti l’impatto di questo comma e comunque ha annunciato una circolare interpretativa che tranquillizzi almeno sui tempi di applicazione chi sta già ricorrendo al parere di giuristi, commercialisti ed esperti del tema. Ma di fatto ancora nulla è successo e tanti amministratori volontari vedono come unica soluzione quella delle dimissioni, per non creare problemi, costi e complicazioni burocratiche a fondazioni, associazioni e comitati per i quali operano. Un danno, comunque la si veda. Resta da capire perché, insieme ai corrotti, i legislatori abbiano pensato di spazzare la voglia di impegno civico, gratuito e disinteressato che sostiene il nostro Paese e di cui è elemento distintivo. Davvero: perché? Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze di Paolo Biondani L’Espresso, 31 marzo 2019 Sbagli, cantonate, fino ai casi limite di “esperti” reclutati da avvocati e criminali grazie a un sistema senza controlli. Diverse indagini portano alla luce il lato oscuro delle consulenze ai tribunali. Sono solo consulenti, in teoria. Ma spesso contano più dei magistrati. I giudici conoscono la legge, ma su tutte le questioni di scienza, medicina, tecnologia o ingegneria devono affidarsi a professionisti esterni. I periti. Che non sono magistrati dello Stato. Sono tecnici privati, professori, esperti veri o presunti. Però condizionano la giustizia. Le loro perizie, di fatto, anticipano e pilotano le sentenze. Perché è crollato il ponte di Genova? Stefano Cucchi è morto per un pestaggio in caserma o per problemi di salute? Cosa ha provocato il misterioso decesso di Imane Fadil, testimone d’accusa del caso Berlusconi-Ruby? L’autista del numero uno della sanità veneta provocò un omicidio stradale o investì un motociclista colpito da fatale malore un attimo prima dell’incidente? Domande di questo tipo si ripetono in tutti i processi più delicati e controversi. Ma a rispondere non sono giudici vincolati all’imparzialità. Sono liberi professionisti. Che in un processo rappresentano la legge, come arbitri indipendenti. Ma nella causa successiva possono lavorare a parcella, per interesse di parte. Degli errori dei giudici si parla e straparla molto. Anche se la macchina dei processi è organizzata proprio per ridurre le ingiustizie: ogni decisione, ogni sentenza viene ricontrollata in tre gradi di giudizio, fino alla Corte suprema di Cassazione. Le cantonate dei periti tendono invece a passare sotto silenzio. Così un consulente screditato può riciclarsi in nuovi procedimenti. E il faro dei controlli si accende solo in casi eccezionali, quando scoppia uno scandalo. Gli esempi, purtroppo, si sprecano. Nel 2018 viene arrestato per tangenti un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, poi condannato a cinque anni di galera: per vendere i suoi processi, utilizzava false perizie, affidate a una cerchia dorata di consulenti, solo ora smascherati dai magistrati anti-corruzione di Messina e Roma. Gli istituti di medicina legale firmano perizie decisive nei casi di omicidio, lesioni, droga e altri gravi reati. Ma perfino i luminari delle autopsie ora sono al centro di indagini-choc, da Padova a La Spezia, che ricordano storiche istruttorie di Palermo, Milano, Napoli e Roma, chiuse con pesanti condanne di singoli periti, ma senza nessuna riforma strutturale. Quindi gli scandali continuano a ripetersi. Il pm anticamorra Alessandro Milita ha definito “mostruosa” la vicenda che nel febbraio scorso ha portato alla condanna a dieci anni e mezzo, in primo grado, di un rinomato oculista dell’ospedale privato Maugeri di Pavia. Il presunto luminare, Aldo Fronterrè, certificò un’inesistente patologia a un occhio di Giuseppe Setola, il boss stragista del clan dei casalesi. Scarcerato grazie a quella perizia, nel 2008 Setola è evaso dai domiciliari. E prima di essere riarrestato ha potuto ordinare almeno 18 omicidi. Rischi e problemi dei consulenti giudiziari sono confermati, per contrasto, dalla tragica fine di un eroe della lotta alla mafia. Negli anni del terrore di Cosa Nostra, il professor Paolo Giaccone scopre un’impronta digitale di un killer, Giuseppe Marchese, sull’auto usata per una strage. L’esperto viene minacciato, ma rifiuta di aggiustare la sua perizia. E nell’estate 1982 viene ucciso per ordine di Riina e degli altri boss della cupola. Il killer, condannato all’ergastolo, cerca di fingersi pazzo: “Sono Napoleone”. Ma altri periti onesti lo sbugiardano. Dopo anni di carcere, Marchese diventa il primo pentito in grado di svelare i segreti sanguinari dei corleonesi. Compreso l’omicidio di Giaccone. L’onestà e il coraggio di tanti altri periti però non fermano gli scandali neppure nella lotta alla mafia. La pm Alessandra Cerreti, dopo anni di indagini tra Milano e la Calabria su medici al servizio della ‘ndrangheta, ha proposto alla commissione parlamentare Antimafia di creare “un albo nazionale dei consulenti tecnici, da selezionare con criteri rigorosi e continue verifiche di professionalità”. Anche Claudio Fava, presidente dell’Antimafia siciliana, propone “riforme, come l’albo nazionale, per ridurre la discrezionalità, o l’arbitrio, di troppe perizie che vengono usate come una clava contro la verità nei processi di mafia”. Morti resuscitati e favori, l’istituto di medicina legale di Padova nella bufera di Andrea Tornago L’Espresso, 31 marzo 2019 E poi provette sparite, cocainomani assolti, possibili conflitti d’interesse. Sotto accusa l’istituto di autopsie e analisi cliniche più famoso d’Italia. Perizie contestate, vivi fatti passare per morti, analisi fantasma per restituire la patente a cocainomani, pacemaker spariti. L’istituto di medicina legale di Padova, punto di riferimento per le autopsie e le consulenze tecniche di procure e tribunali di mezza Italia, sta precipitando in un vortice di scandali e inchieste giudiziarie. Da più di un anno la scuola di medicina forense, fiore all’occhiello della città del Santo, è nominata con imbarazzo negli uffici della procura di Padova, che con i medici legali e i tossicologi dell’università che fu di Galileo lavora a braccetto da sempre. Il direttore della medicina legale, Massimo Montisci, è indagato dai pm veneti con l’accusa di aver aggiustato gli esami che avrebbero consentito a due imprenditori, risultati positivi alla cocaina, di riottenere la patente. Le perquisizioni sono scattate il 18 luglio scorso, pochi giorni dopo una segnalazione proveniente dall’interno dell’istituto: nel registro informatico in cui vengono inseriti i risultati dei test di controllo - cruciali per la commissione patenti, chiamata a decidere se riammettere gli automobilisti alla guida oppure no - i due imprenditori risultano puliti, ma non c’è traccia dei certificati delle loro analisi. E non si trovano neppure i campioni delle urine e dei capelli che dovrebbero essere conservati nel laboratorio. Gli inquirenti sequestrano i registri e i computer della tossicologia forense e scoprono che, per i due presunti consumatori di cocaina, è stata utilizzata una procedura speciale, in grado di sfuggire a ogni verifica e agli standard di tracciabilità. L’accusa ipotizza uno stratagemma degno di un racconto noir: quelle analisi sarebbero transitate sul canale parallelo, utilizzato per gli esami sui cadaveri, dove la semplice sigla “dec” (“deceduti”), inserita accanto ai nomi degli interessati, era in grado di tenere riservati i relativi certificati e referti medici. Sbagli, cantonate, fino ai casi limite di “esperti” reclutati da avvocati e criminali grazie a un sistema senza controlli. Diverse indagini portano alla luce il lato oscuro delle consulenze ai tribunali Il sostituto procuratore Silvia Golin contesta a Montisci il reato di falso ideologico, in concorso con il chimico che dirige il laboratorio, Emanuele Nalesso, una specializzanda, un medico legale esterno all’istituto e i due imprenditori che avrebbero beneficiato dei referti ritenuti falsi: l’albergatore Rocco Sbirziola ed Edoardo Urschitz, titolare di un’agenzia infortunistica. Mentre si attendono i risultati della nuova perizia giudiziaria (il cosiddetto incidente probatorio), gli inquirenti stanno verificando tutti gli altri campioni sequestrati nel laboratorio, per capire se il presunto trucco dei “morti viventi” sia stato utilizzato anche in altri casi. Le indagini si profilano lunghe e difficili, dato che in Italia non esiste un registro nazionale, un’anagrafe centrale, per cui gli accertamenti devono essere ripetuti caso per caso. Nonostante queste accuse, nei confronti dei medici coinvolti non è stato adottato alcun provvedimento. Anzi, il chimico incriminato, dopo quattro mesi di sospensione dal lavoro ordinata dal giudice che ha confermato l’accusa di falso, non solo è tornato in servizio, ma è stato promosso: il direttore Montisci, cioè il principale indagato, gli ha affidato l’incarico di responsabile della qualità del dipartimento di medicina legale. Lo stesso professor Montisci, però, da più di un anno è escluso dalle perizie giudiziarie. “Il professore è indagato in questa procura, quindi non gli affidiamo consulenze tecniche”, spiega il procuratore reggente di Padova, Valeria Sanzari, che precisa: “Con gli altri medici dell’istituto il rapporto può invece continuare, in quanto i sostituti procuratori sono liberi di scegliere il consulente di propria fiducia”. A palazzo di giustizia però l’imbarazzo è generale. Non era mai successo che i magistrati potessero dubitare della medicina legale di Padova, da sempre simbolo di serietà scientifica. Nel caso che in Veneto ha fatto più rumore, per altro, il professor Montisci non è indagato. È il 13 settembre 2016 quando un signore di 73 anni, Cesare Tiveron, muore in un incidente in moto, schiantandosi contro un’auto di fronte al centro oncologico veneto, a Padova. La Fiat Bravo che ha invaso la sua corsia non è una vettura qualunque: è un’auto blu della Regione. E sul sedile posteriore siede il massimo dirigente della sanità veneta, Domenico Mantoan, l’uomo che amministra più di nove miliardi di euro all’anno del bilancio regionale. In Veneto, come nel resto d’Italia, gran parte della spesa regionale si concentra proprio nella sanità. Il caso è talmente delicato che il professor Montisci decide di effettuare personalmente l’autopsia, presentandosi al posto del medico legale di turno. Dieci mesi dopo, deposita una perizia che sostiene una tesi sorprendente: il motociclista sarebbe morto per “una causa patologica naturale”, una rottura dell’aorta verificatasi un istante prima dell’impatto. Al momento dell’incidente, insomma, era già morto. Da pochissimo, però, visto che ha manovrato la moto fino all’ultimo. Nessuna responsabilità, dunque, per l’autista della Regione. La famiglia della vittima non accetta il verdetto e segnala un possibile conflitto di interessi: Mantoan, cioè il dirigente trasportato dall’autista indagato, è il capo della sanità veneta, quindi è anche il superiore di Montisci, che lavora per l’azienda ospedaliera pubblica. Quindi la famiglia chiede nuovi esami a tre consulenti di fama: il medico legale Antonello Cirnelli, il professor Daniele Rodriguez, ex professore ordinario della materia, e il cardiopatologo Gaetano Thiene. La squadra di esperti riesce a convincere il pubblico ministero Cristina Gava a ignorare la ricostruzione del consulente della procura stessa. E a chiedere il rinvio a giudizio dell’autista, Giorgio Angelo Faccini, con l’accusa di omicidio stradale. In particolare, secondo il professor Thiene, considerato un gigante della cardiopatologia, la morte del motociclista è “da ricondurre con certezza, oltre ogni ragionevole dubbio” proprio all’incidente. Mentre il quadro disegnato da Montisci sarebbe “fantasioso, illogico e pressoché impossibile sul piano probabilistico”. Ora il caso giudiziario è nella fase dell’udienza preliminare, davanti al giudice Elena Lazzarin. Che ovviamente ha nominato un nuovo collegio di esperti, chiamati a rivalutare le cause della morte e orientare la giustizia in una battaglia di perizie mai vista prima per un incidente stradale. A confrontarsi sul caso, infatti, sono ormai più di dieci consulenti, tra periti del tribunale, della famiglia Tiveron e delle assicurazioni. I quesiti formulati dal giudice ai propri esperti di fiducia, Carlo Vosa e Domenico Tarsitano, docenti dell’università Federico II di Napoli, confermano che questo procedimento penale si è trasformato in una sorta di “perizia sulla perizia”: al centro dei nuovi esami c’è proprio la rivalutazione dell’operato di Montisci. Ai nuovi periti, infatti, viene richiesto anche di accertare la “catena di custodia” del materiale analizzato e di capire quali misure siano state previste per evitare rischi di manipolazioni, sostituzioni di campioni e alterazioni. Il giudice chiede pure di verificare la presenza fisica e l’effettivo utilizzo dei macchinari descritti nella relazione di Montisci, che secondo diverse fonti consultate dall’Espresso non risulterebbero in dotazione all’istituto di Padova. La nuova perizia dovrà controllare anche il pacemaker del motociclista, che i consulenti della famiglia avevano richiesto, per effettuare esami importanti: quel dispositivo è in grado di registrare fino all’ultimo il funzionamento del cuore di Cesare Tiveron. Il pacemaker però non è stato messo a disposizione dei familiari. Ed è stato poi ritrovato in circostanze particolari. Nel luglio 2018, durante la perquisizione nello studio di Montisci all’istituto (per la vicenda delle analisi per la commissione patenti) gli inquirenti trovano quel pacemaker in una borsa di pelle marrone: è l’unico apparecchio di quel tipo conservato dal professore a distanza di più di un anno dal deposito della perizia. A complicare il quadro s’innestano i rapporti accademici. Quando viene incaricato dell’autopsia su Tiveron, il 19 settembre 2016, Montisci non è ancora al vertice dell’istituto di Padova, fino ad allora diretto dal professor Santo Davide Ferrara, che è anche presidente dell’International academy of legal medicine. In quei mesi Ferrara, oltre ad essere il superiore di Montisci, è anche consulente di parte dell’autista, indagato, del dirigente regionale Mantoan. Nei mesi seguenti, mentre procedono gli esami sull’incidente, è una commissione presieduta proprio dal professor Ferrara a promuovere Montisci al ruolo di professore ordinario: carica assegnata il 27 giugno 2017, una settimana prima del deposito della perizia sul caso Tiveron. Si tratta di rapporti assolutamente leciti, ma che non rasserenano i familiari della vittima. “In quel mese ero un direttore in scadenza - spiega oggi all’Espresso il professor Ferrara - e con la fine di settembre e dell’anno accademico sarei decaduto in via definitiva. Non vedo alcun profilo di inopportunità: il problema ci sarebbe se un perito fosse condizionabile, ma non è così perché deve rispondere solo alla scienza, basata sull’evidenza e sull’accertamento della verità, che è una”. Il professor Montisci respinge tutte le accuse, ma non rilascia commenti, perché preferisce far valere le proprie ragioni solo in sede giudiziaria. Fuori dal Veneto, intanto, il direttore dell’istituto padovano viene raggiunto, il 20 febbraio scorso, da una nuova denuncia. Anche a Ferrara, infatti, una consulenza effettuata da Montisci su richiesta di un pm emiliano viene contestata dai familiari di una vittima. Si tratta di Giuliano Catozzi, morto nell’agosto 2015 all’ospedale di Ferrara dopo aver contratto durante un ricovero una polmonite da legionella. Secondo i suoi parenti, assistiti dal Comitato vittime della pubblica amministrazione, la perizia di Montisci conterrebbe gravi incongruenze. E le conclusioni che scagionano i medici e i dirigenti dell’ospedale ferrarese non sarebbero conseguenti alle argomentazioni esposte. Il problema più vistoso è che in alcuni passaggi della consulenza c’è il nome di un altro paziente, deceduto a Sarzana nel settembre 2015, sempre per legionellosi, dopo un soggiorno in un albergo di Abano Terme. Una morte di cui si era occupato, da consulente della procura di Padova, sempre il professor Montisci. L’Espresso ha confrontato le due perizie: in diversi punti, in particolare nelle conclusioni, risultano quasi identiche. Su questa nuova denuncia ora indaga la Procura di Ferrara. Il caso di Padova, purtroppo, non è isolato. Nel marzo 2018 la direttrice dell’istituto di medicina legale di Imperia, Simona Del Vecchio, è stata condannata a sei anni e mezzo, in primo grado, per falso, truffa e peculato. Secondo l’accusa, avrebbe firmato 46 certificati necroscopici senza esaminare i cadaveri e avrebbe inserito false cause di morte in un certificato per l’Istat. La dottoressa Del Vecchio respinge ogni addebito: il processo d’appello si aprirà in aprile. L’inchiesta ha fatto scalpore anche perché la specialista ligure si è occupata di storici misteri italiani, dal decesso del colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato impiccato a un portasciugamani a un metro da terra nella sua casa all’Eur, al caso dell’ufficiale di marina Natale De Grazia, morto mentre indagava sulle navi dei veleni. Inchieste archiviate negli anni Novanta in base alle perizie medico-legali. Il problema delle consulenze tecniche è drammatico soprattutto nei processi di mafia. Da Palermo a Napoli, da Milano a Reggio Calabria, molte indagini hanno svelato storie di killer e boss mafiosi scarcerati grazie a false perizie sanitarie. A Roma l’avvocato Marco Cavaliere è stato arrestato e condannato in primo grado, prima di morire nel 2015, come grande corruttore di una rete di medici che nei processi d’appello, quando l’attenzione dei media è minore, certificavano finte malattie per far rilasciare i criminali. Tra i presunti beneficiari, spiccano Michele Senese e Carmine Fasciani: due dei quattro “re di Roma” smascherati da un’inchiesta dell’Espresso sulla criminalità della capitale. Palermo: “La mia vita in carcere dove ho imparato a far convivere la legge e l’umanità” di Sara Scarafia La Repubblica, 31 marzo 2019 Intervista a Rita Barbera, ex direttrice dell’Ucciardone. Prima di lei nessuna donna aveva ricoperto quest’incarico. Quando Rita Barbera entra all’Ucciardone come vice-direttore di Orazio Faramo ha trent’anni e due figlie. È il 1986, comincia il maxi-processo e la giovane vice-direttrice si ritrova faccia a faccia con i boss di Cosa Nostra. “Calò, Madonia: nomi che fino a quel momento avevo letto solo sui giornali”. Oggi, trentatré anni dopo il suo primo ingresso, Rita Barbera lascia l’Ucciardone nel quale era tornata da direttrice nel 2011. Va in pensione dopo una carriera che ha attraversato gli anni più intensi della storia di Palermo, dal maxi-processo alle stragi alla riscossa civica contro la mafia. Com’è stato per una giovane donna trovarsi faccia a faccia con i boss di Cosa Nostra? “Per me fu un’esperienza fortissima. Ma devo dire che non ho mai avuto la percezione che non mi considerassero un interlocutore all’altezza perché donna. Erano sempre gentili, fin troppo. Le resistenze più grosse all’inizio le incontrai col personale di polizia penitenziaria. Non c’erano molte donne nelle carceri a quei tempi”. Come mai scelse di fare questa carriera? “In realtà fu per caso. Dopo il liceo Umberto, mi iscrissi a Giurisprudenza. Quando mi laureai, a 24 anni, ero già mamma della mia prima figlia, Raffaella. Mia madre, un pilastro della mia esistenza, mi convinse a iscrivermi a un corso per la preparazione del concorso in magistratura pagandomi una baby-sitter. Lei gestiva una tabaccheria in via Leonardo Da Vinci, la zona in cui sono cresciuta”. Voleva fare il magistrato? “Pensavo di sì. Mentre studiavo - era nata anche la mia seconda figlia, Costanza - bandirono questo concorso per vice-direttore di penitenziari e io mi iscrissi per capire come funzionasse un concorso. Ero certa di non passare”. E invece lo vinse… “Mi sembrò un segno e decisi di accettare. Mi spedirono a Parma. Io partiì da sola con le mie figlie piccole. Il carcere mi sembrò da subito un mondo pieno di zone grigie. Ma il lavoro era esaltante. Nel 1985 tornai in Sicilia, a Marsala, e nel 1986 mi proposi per dare una mano a Faramo all’Ucciardone che era nel caos per l’inizio del maxi-processo”. Era ancora il “grand hotel Ucciardone”? “No, non erano più quegli anni. C’era la tensione del maxi-processo e ricordo che col direttore cercavamo di non creare scontri per motivi stupidi, che ne so l’acquisto di un prodotto invece che un altro. C’era la necessità di arrivare alla sentenza. Ma non c’erano sconti, né trattamenti di favore”. Che ricordo ha dei boss di Cosa Nostra? “C’è una sola strada per fare bene le cose in carcere ed è quella della fermezza. Se le posizioni sono chiare, se non dai spazio ai compromessi, tutto si può gestire. I detenuti si affidavano”. Le fecero mai richieste strane? “Una sola volta, quando ero direttrice a Termini Imerese - ci andai nel 1991 - un boss mi chiese di poter fare il colloquio con la figlia, alla quale avevano diagnosticato la leucemia, senza il vetro. Erano i primi anni del 41bis. Gli dissi che avrei chiesto, che umanamente capivo le sue ragioni, ma che difficilmente avrei potuto accontentarlo. Chiesi in effetti, ma mi dissero di no. Lui capì”. Cosa accadde dopo le stragi? “Io ero a Termini Imerese. Era un carcere di massima sicurezza, nel quale arrivarono molti dei mafiosi più pericolosi: Michele Greco, i Madonia, Calò. Noi dall’altro lato eravamo avviliti, arrabbiati. C’era grande sete di giustizia, ma anche di vendetta. Il clima era teso. Furono gli anni del 41bis. Ma fu proprio a Termini che capì che ci doveva essere un altro modo per far vivere la detenzione. Quando nel 1996 nacque il Pagliarelli chiesi di andare”. Perché? “Perché c’erano spazi dove poter fare le attività che avevo in mente: nel 1997 inaugurammo la prima biblioteca grazie all’iniziativa “un libro per un detenuto”. Nelle librerie che avevano aderito si potevamo acquistare libri da destinare al carcere. Fu un successo. In quegli anni cominciammo anche la scuola in carcere e cominciò pure la collaborazione con Lollo Franco: venne in carcere perché il Comune offrì uno spettacolo e mi chiese di lavorare con i detenuti. Gli dissi “proviamo”. Quest’anno i detenuti dell’Ucciardone realizzeranno con Franco il carro del Festino… “Bellissimo. Negli ultimi anni all’Ucciardone è nato l’orto, il pastificio, adesso anche la sartoria. Abbiamo inaugurato lo spazio verde nel quale i papà possono incontrare i figli, abbiamo organizzato le partite di pallone sacerdoti contro detenuti. La cosa più importante in un penitenziario è far passare il tempo, riempirlo di cose utili. Io ci credo nella rieducazione. Il carcere è già duro e tanto più tu fai amare la libertà tanto più diventa duro. Bisogna esercitare una pressione al contrario. Per un periodo fui direttrice al Malaspina: lì capii l’origine di tutto. Credo che il regime carcerario così simile a quello degli adulti non sia una buona misura per i ragazzini. I giovani hanno bisogno di fare delle cose accanto a persone che facciano vedere loro che esiste un’altra strada”. Lei si è trovata di fronte mafiosi, condannati all’ergastolo per omicidio, stupratori. Come si sospende il giudizio? “Si sospende davanti all’uomo. Una volta mi chiese un colloquio la moglie di un detenuto in carcere per aver ucciso la figlia. Mi raccontò la loro storia, mi disse che lui amava la loro bambina. Pensai che non sappiamo niente delle storie delle persone. Ma questo non vuol dire che non si debba essere rigorosi. Ci sono atteggiamenti che non possono essere tollerati: non ho mai accettato soprusi nei confronti del personale carcerario”. Lei fu candidata alla Regione con i Ds nel 2006, capolista alla Regione quando Rita Borsellino sfidò Cuffaro. Che ricordo ha? “Fu bellissima e io presi quasi 3mila voti che non bastarono. Mi ricandidai con la Finocchiaro, ma fu un’esperienza terribile. Piano piano poi mi allontanai. Nessuno mi propose di restare”. Anche al Pagliarelli, la direttrice è una donna. Un caso o una tendenza? “Statisticamente i concorsi li vincono le donne”. Essere donna l’ha penalizzata in questo mestiere? “Non sono stata nominata dirigente generale, non so se per un pregiudizio di genere o perché non ho cercato gli agganci giusti. Ma rimpianti non ne ho. Ho amato tantissimo questo lavoro”. Venezia: caso Sissy, la perizia sulla pistola non toglie i dubbi sul suicidio di Nicola Munaro Il Gazzettino, 31 marzo 2019 I consulenti: niente sangue sulla canna fragile l’ipotesi di colpo sparato a contatto. Sulla pistola “nessuna traccia biologica di altre persone”. Perché l’unico dna trovato, e si tratta di due sole tracce ematiche nella parte latero-posteriore destra, è quello lasciato da Sissy sulla sua arma di ordinanza, la stessa che l’1 novembre 2016 aveva esploso il colpo diventato fatale due anni dopo. E poi il computer, perfettamente integro e su cui sono stati esclusi “interventi di formattazione o altre anomalie di rilevo”. Certezze scientifiche messe nero su bianco dalla relazione finale delle consulenze disposte dalla magistratura sulla pistola e sul computer di Maria Teresa Trovato Mazza, per tutti Sissy, l’agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere femminile della Giudecca, a Venezia, morta il 12 gennaio dopo due anni di coma dovuti ad un colpo di pistola esploso mentre si trovava in un ascensore dell’ospedale Civile di Venezia, domenica 1 novembre 2016. Una relazione che sembra portare ad escludere la presenza di altre persone nell’ascensore del Civile, la mattina dell’1 novembre 2016, come sostenuto dalla procura, che ha sempre optato per l’ipotesi del suicidio di Sissy. Ma che comunque non basta a far demordere la famiglia dell’agente Trovato Mazza, secondo cui si è trattato di un’esecuzione. Tanto che lo stesso avvocato della famiglia, Girolamo Albanese, spiega come “tali risultanze confermano la necessità di ulteriori approfondimenti sulla dinamica complessiva dell’evento, ancora non chiarita”. A firmare la memoria conclusiva sono stati la genetista forense Anna Barbaro e l’informatico forense Angelo La Marca, nominati consulenti di parte per conto della famiglia dell’agente penitenziaria della Giudecca. Tocca agli stessi consulenti commentare il risultato delle analisi chieste dal giudice Barbara Lancieri, che a ottobre aveva respinto la richiesta di archiviazione inoltrata dal pm veneziano Elisabetta Spigarelli, titolare del caso e di un fascicolo contro ignoti per induzione al suicidio. Per quanto riguarda le due sole tracce ematiche rinvenute, per giunta appartenenti a Sissy, gli esperti spiegano che dato “il loro posizionamento e la loro unicità si ritiene che possano derivare anche da imbrattamento nelle fasi successive all’evento. Nessuna ulteriore traccia biologica né di Sissy né di altre persone è stata rinvenuta sull’arma che è stata sottoposta a prelievi in tutte le sue componenti, impugnatura e grilletto compresi”. Come anticipato nelle scorse settimane “l’assenza di tracce ematiche sulla canna e sul vivo di volata (la parte ultima della pistola, ndr) che nel caso di un colpo da contatto o ravvicinato rappresenta la parte della pistola dove maggiormente ci si aspetta di ritrovare tracce ematiche o residui di materiale organico, pone in dubbio l’ipotesi che il colpo sia stato sparato a contatto. Così come - continuano i consulenti - non si può escludere che l’arma sia stata ripulita, tanto meno si può escludere che eventuali tracce biologiche minime derivanti dal maneggiamento dell’arma, qualora fossero state presenti, possano essersi deteriorate nelle precedenti fasi degli accertamenti dattiloscopici e balistici, anche in ragione del tempo trascorso”. “Per quanto riguarda gli accertamenti sul pc portatile di Sissy - spiegano - gli stessi hanno escluso interventi di formattazione o altre anomalie di rilievo”. Insomma, nessuno avrebbe mai messo mano al portatile dell’agente di polizia penitenziaria e la data del 25 dicembre 2007 ricomparsa all’accensione del computer, altro non sarebbe che l’effetto naturale della lunga inattività del portatile. “Rimane comunque da esperire l’analisi di tutti i files estratti dall’hard disk- concludono i consulenti di parte - che potrebbero fornire spunti utili alle indagini”. Come mancano gli esiti degli accertamenti chiesti dalla procura sui telefoni e sui tabulati di quegli ultimi giorni di vita di Sissy. Pozzuoli (Na): dignità dietro le sbarre con l’aroma del caffè di Francesco Riccardi Avvenire, 31 marzo 2019 Non ha il profumo della libertà. Non ancora, per lo meno. Ma l’aroma di caffè che si libera nei locali e nelle celle del carcere femminile di Pozzuoli hall sapore forte di una dignità ritrovata attraverso il lavoro, il gusto del “fare assieme” e l’aroma intenso di un futuro diverso. Imma Carpiniello, presidente della cooperativa Lazzarelle, al Festival dell’Economia civile a Firenze lo spiega così: donne libere e recluse hanno creato dal 2010 una torrefazione all’interno del più grande carcere femminile campano per produrre prima caffè e ora anche the e tisane. “L’idea è stata quella di dar vita a un’impresa tutta al femminile per generare inclusione sociale attraverso il lavoro e dare una possibilità reale di riscatto sociale alle persone recluse”. Anche il processo produttivo segue criteri etici perché i grani di caffè vengono acquistati dalla Shadhilly che li coltiva in cooperative di produttori in Paesi in via di sviluppo, torrefatti seguendo la tradizione napoletana e senza aggiunta di addittivi chimici, impacchettati in contenitori di sola plastica senza alluminio per facilitare la raccolta differenziata e il riciclo degli imballaggi. Nella cooperativa si sono già avvicendate oltre 50 donne recluse, ognuna con la propria storia, le proprie difficoltà, molte delle quali non avevano mai avuto prima un regolare contratto di lavoro. “Con noi - conclude la presidente - imparano un mestiere, fanno un’esperienza di lavoro che possono poi far valere una volta uscite dal carcere, ma soprattutto acquisiscono coscienza dei loro diritti e più ancora delle loro possibilità”. Perché, parafrasando Simone de Beauvoir, “Lazzarelle, e donne, non si nasce, ma si diventa”. Anche grazie a un caffè. Roma: il regalo di Regina Coeli all’asilo nel bosco di Erica Battaglia Vita, 31 marzo 2019 Un tavolino pieghevole e trasportabile per permettere ai bambini di giocare con l’acqua: è il regalo dei detenuti impegnati nella falegnameria del carcere romano ai bambini del progetto “A scuola nel bosco”. Grazia Piletti (Associazione “A Roma Insieme - Leda Colombini”): “Ringrazio la coordinatrice scolastica per un dono che viene da una realtà complessa”. Una splendida mattina di sole e solidarietà presso la scuola materna “Il Paese dei Balocchi” di via Raimondo D’Aronco 28 a Roma dove, tra genitori e insegnanti impiegati volontariamente in piccole attività di manutenzione esterna, si è svolta una piccola “cerimonia del dono” tra i detenuti del carcere di Regina Colei, rappresentati dall’Associazione “A Roma Insieme - Leda Colombini”, e i piccoli beneficiari del più ampio progetto de “La scuola nel bosco”. Oggetto del dono: tavolini pieghevoli e trasportabili che da piccola valigia si trasformano in piani di lavoro dotati di bacinella dove permettere di giocare con acqua e terra attraverso appositi attrezzi in legno “da bosco”. A promuovere e sostenere le realizzazione di questi tavolini l’Associazione “A Roma Insieme”, da decenni impegnata in attività rivolte alla riabilitazione e al reinserimento sociale delle persone detenute. Già nel maggio 2017 infatti, riattivando la falegnameria esistente all’interno del carcere romano di Regina Coeli, l’Associazione aveva di fatto avviato un’attività di formazione professionale: le difficoltà però legate al continuo ricambio di persone detenute, essendo un carcere giudiziario, aveva impedito un percorso più concreto di vera e propria professionalizzazione sull’uso di macchinari complessi. La creazione di piccoli oggetti è stata quindi l’idea alternativa che ha permesso di andare avanti, limitando il laboratorio ad attività che presupponessero solo l’uso di utensili manuali ed elettromeccanici (trapani, seghetti elettrici, levigatrici, elettrosmerigliatrici). In quest’ultima fase del progetto, iniziata a settembre 2018, nasce appunto l’idea di realizzare un tavolo portatile per agevolare i bimbi al gioco con la terra e con l’acqua. “I detenuti - ha spiegato la Segretaria dell’Associazione, Grazia Piletti - si sono dimostrati entusiasti all’idea di realizzare qualcosa destinato a dei bambini, ed hanno lavorato celermente. Su ogni tavolino è anche incisa la dedica ‘Dagli amici di “Regina Coeli’. Questo giorno per noi è importante: è la giornata del dono delle persone detenute a uno degli istituti scolastici coinvolti nel progetto de ‘La scuola nel bosco’, attivato dal circolo ‘Parco della Cellulosa’ di Legambiente e Roma natura. Questo progetto ha il pregio di educare i bambini al rapporto con la Natura. Ringrazio la coordinatrice scolastica, Stefania Bossini, che ha accettato il nostro dono e ha aperto con grande sensibilità le porte della scuola ad una realtà complessa come quella carceraria”. “Il progetto - ha poi concluso Grazia Piletti - si è potuto realizzare grazie al finanziamento della Fondazione Prosolidar Onlus, che da anni opera in Italia e nel mondo sostenendo progetti di solidarietà. Questa fondazione ha già finanziato per esempio la costruzione di una tensostruttura all’interno del carcere di Rebibbia, sezione femminile, destinata agli incontri delle donne detenute con le loro famiglie e ad altre attività”. Per informazioni o anche per acquistare i tavolini, sostenendo di fatto le attività dell’Associazione “A Roma Insieme - Leda Colombini”, basta visitare il loro sito Internet all’indirizzo www.aromainsieme.it. Milano: Vivicittà, lo sport entra nelle carceri di Antonio Ruzzo Il Giornale, 31 marzo 2019 Tre corse da 12 chilometri: al via 600 iscritti. C’è anche Formigoni. Lo sport in carcere è una sfida nella sfida. Perché è ovvio che è anche tante altre cose insieme che la pratica sportiva si porta naturalmente con sé e che dietro le sbarre vengono amplificate. Opportunità importante per il benessere psicofisico dei detenuti ma anche un momento fondamentale per scaricare le tensioni e per favorire l’aggregazione per concedere una chance ulteriore e per un riscatto. Così saranno più di 600 gli sportivi ospiti delle case circondariali milanesi che la Uisp (Unione Italiana Sport Per Tutti) coinvolge in occasione di Vivicittà 2019. “L’attività sportiva negli istituti penitenziari è un momento di distensione per chi vi partecipa spiega Antonio Iannetta, dirigente Uisp. Specialmente negli istituti minorili, lo sport può essere un’ottima occasione per acquisire una prima alfabetizzazione motoria perché ci sono ragazzi che non hanno mai avuto la possibilità di fare sport in vita loro, oltre ad essere un percorso di crescita e di riscatto sociale”. Si parte oggi a Bollate quindi al Beccaria venerdì 2 aprile e si termina a Opera domenica 7 aprile. Le gare sono parte del progetto che coinvolge più di 60 città in tutta Italia e quasi 20 nel mondo, oltre a più di 24 istituti penitenziari nel nostro Paese. Migliaia di persone unite per correre insieme, perché lo sport è di tutti Nel fine settimana sono previste tre gare podistiche di 12 chilometri l’una, in tre differenti case circondariali. “Corse che si svolgono interamente tra le mura dei penitenziari e sono un grande momento di aggregazione - spiega Iannetta - perché è vero che ci sono detenuti che le prendono estremamente sul serio e si allenano per vincere e fare un buon risultato anche cronometrico ma ce ne sono tanti che ne approfittano per godersi un momento di svago e di socialità anche perché in molti casi corrono insieme anche alle detenute con cui in genere non hanno contatti”. Ed è con questa finalità quindi che Uisp a Milano e in tutta Italia da sempre organizza attività sportive : dalle gare di atletica, alle mezze maratone, ai tornei di calcio e anche di tennis coordinati dagli istruttori e dai giudici ufficiali delle varie Federazioni. “Sono 29 anni che facciamo sport nelle carceri spiega Renata Ferraroni, responsabile del progetto carceri della Uisp gli istituti penitenziari coinvolti nell’iniziativa sono più di 20 sparsi in tutta Italia, ma il nostro lavoro non si ferma certo a Vivicittà, siamo attivi tutto l’anno per quanto ci è possibile, perché lo sport è un diritto di tutti, nessuno escluso”. Lo sport diventa così lo strumento perfetto per trasmettere i valori fondamentali del vivere civile, il rispetto delle regole con l’unico limite di dover coniugare l’attività sportiva con le disposizioni delle carceri e le misure di sicurezza. “Ma il gioco vale sempre la candela - spiega Iannetta. Queste attività diventano un momento imprescindibile nel recupero dei detenuti perché lo sport li riporta a contatto con i valori, con la condivisione degli obbiettivi di squadra, con le regole e in molti casi diventa occasione di riscatto”. Si parte oggi dal carcere di Bollate dove è in programma una corsa di 12 chilometri tra i viali del penitenziario. Tanti gli iscritti, tra cui anche l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni. Centinaia di italiani intercettati per l’errore di un hacker di Stato Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019 Alcune centinaia di utenti italiani, forse oltre un migliaio, sono stati infettati per errore da un software pensato per intercettazioni di Stato, tramite una ventina di app inserite su Google Play Store. Lo spyware, il cui nome è Exodus, è stato scoperto dalla società no profit Security Without Borders, in un’inchiesta fatta in collaborazione con la rivista Motherboard. A quanto si legge nel rapporto, Exodus è usato dalle principali procure per intercettare criminali (le loro telefonate, registrare i suoni ambientali, copiare la rubrica, il registro telefonico, la posizione gps, le conversazioni Facebook). Il problema è che per un errore nel codice di questo software finiva per intercettare in modo indiscriminato chiunque scaricasse queste app con lo spyware, presenti liberamente sullo store di Google. Perlopiù si trattava di app che si presentavano come strumenti per migliorare le prestazioni del cellulare o per ricevere offerte promozionali del proprio operatore e quindi esclusive per chi le installava. Profughi, il Papa in Marocco: “Basta espulsioni di massa” di Domenico Agasso jr La Stampa, 31 marzo 2019 A Rabat il monito del pontefice: “Barriere e respingimenti non sono soluzioni”. E firma un appello con re Mohammed VI: Gerusalemme patrimonio comune. Il “no” è forte e chiaro: le espulsioni di migranti in massa non possono e “non devono essere accettate”. Un motivo su tutti: “Non permettono una corretta gestione dei casi particolari”. Nel primo giorno della visita in Marocco papa Francesco pronuncia il suo monito - mai lanciato prima in questi termini - davanti a una sessantina di immigrati, ospitati dalla Caritas di Rabat. E firma con il re Mohammed VI un appello per “preservare la Città santa di Gerusalemme come patrimonio comune dell’umanità”. Ventiquattro anni dopo san Giovanni Paolo II, un altro Papa arriva in questo Paese a maggioranza musulmana, simbolo dell’islam moderato e dialogante. È un nuovo passo, dice sull’aereo Bergoglio, dopo il punto di svolta del “Documento sulla fratellanza umana”, siglato ad Abu Dhabi con il grande imam di Al-Azhar per mettere fine a terrorismo e guerre. Breve e bagnata dalla pioggia la cerimonia di accoglienza all’aeroporto, dove Francesco riceve il benvenuto dal re. Poi entrambi, su due auto diverse vanno in un unico corteo alla grande spianata della Torre Hassan, che domina Rabat, per l’incontro con il popolo marocchino e le autorità. Migliaia le persone che lo salutano lungo i viali di una Rabat che ha fatto della liberalizzazione economica la sua bandiera, costellata di gru e cantieri. Tra le colonne dell’antico minareto, crollate per il terremoto del 1755 e restaurate negli Anni 60 lo attendono in più di 12mila. Qui Francesco ribadisce che i problemi legati alle migrazioni non si risolvono con le barriere e la diffusione della paura. Serve invece attuare gli impegni del Global compact. Il Papa si dice “lieto di poter visitare l’Istituto per imam”. È la prima volta per un pontefice. A Rabat è stata fondata una scuola per la formazione di imam, predicatori e predicatrici - sì, anche donne, altro elemento di apertura dell’islam marocchino - voluta nel 2015 proprio dal Re, guida politica e religiosa del Paese che, soprattutto dopo gli attacchi terroristici a Casablanca nel 2003, ha promosso iniziative per stemperare le tendenze radicali. Il Papa e il re firmano una richiesta particolare: “Riconoscendo l’unicità e la sacralità di Gerusalemme e avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di Città della Pace”, ritengono “importante preservare la Città santa di Gerusalemme come patrimonio comune dell’umanità” e soprattutto per i fedeli “delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica”. Si augurano che “siano garantiti la piena libertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto di ciascuna di esercitarvi il proprio culto”. Ai 60 migranti dell’Africa sub-sahariana scelti per rappresentare i circa 100mila che vivono oggi in Marocco, il Papa dice: “Voi affrontate una ferita grave, che grida al cielo. Non vogliamo che l’indifferenza e il silenzio siano la nostra parola”. Francesco invoca più canali migratori regolari, e un “impegno comune” per non lasciare “nuovi spazi ai “mercanti di carne umana”“. Finché questo non sarà realizzato, si dovranno affrontare i “flussi irregolari con giustizia, solidarietà e misericordia”. Le forme di “espulsione collettiva, che non permettono una corretta gestione dei casi particolari, non devono essere accettate”. Mentre i “percorsi di regolarizzazione straordinari”, in particolare nei casi “di famiglie e minori, devono essere incoraggiati”. E anche “semplificati”. Galles. “Il carcere deve rieducare”: il direttore affida le chiavi della cella ai detenuti di Kelly Williams Daily Post, 31 marzo 2019 Nonostante in tanti credano che il carcere sia un luogo punitivo, il suo scopo principale è quello di rieducare. Il reinserimento nella società di un criminale negli ultimi anni sta vivendo una nuova fase sperimentale che comprendono attività in carcere o fuori, sotto stretta sorveglianza. Proprio nell’ambito di una di queste sperimentazioni, il carcere Hmp Berwyn di Wrexham, in Galles, ha deciso di affidare ai detenuti la chiave della loro cella. Tra l’altro lo spazio di reclusione non è delimitato da sbarre, ma da porte speciali che permettono comunque la supervisione della polizia penitenziaria. Il carcere da oltre 250 milioni di sterline sta tentando di adottare un approccio più “riabilitativo”, in pieno rispetto per i prigionieri. Ciò non significa però che le guardie carcerarie saranno meno rigide. La Hmp Berwyn è la più grande prigione del Regno Unito. All’interno sono detenuti criminali di livello C, ovvero ritenuti “non a rischio di fuga”. Ma chiaramente il carcere è dotato di massimi livelli di sicurezza e inoltre le guardie carcerarie avranno accesso 24 ore su 24 alle camere di detenzione. Il nuovo approccio deciso dalla direzione del carcere è stato descritto in un rapporto del Royal Institute of British Architects e del Ministero della Giustizia. Un documento chiamato “Wellbeing in Prison Design”. Nel rapporto si legge: “Permettere loro di personalizzare i propri ambienti può avere una vasta gamma di benefici per la salute e il benessere delle persone in custodia. Contribuisce anche a creare un senso di identità”. “Permettere agli uomini in custodia di controllare le condizioni atmosferiche come l’apertura di finestre o ventilatori, il controllo del riscaldamento, etc., può alleviare gli impatti negativi della detenzione e può iniziare a farli sentire autosufficienti”. “È solo una fase sperimentale - assicurano nel report - potrebbe non essere adottato da altri carceri”. Articolo in lingua originale: https://www.dailypost.co.uk/news/north-wales-news/hmp-berwyn-inmates-lock-cells-16046015 Così la mafia ha conquistato la Germania (grazie anche alla caduta del muro di Berlino) di Ambra Montanari e Sabrina Pignedoli L’Espresso, 31 marzo 2019 I clan tra la capitale tedesca e Duisburg sono sempre più potenti. Una forza che nasce dopo la caduta del muro, quando i boss hanno sfruttato le privatizzazioni fatte nella ex Ddr. L’inchiesta finanziata da Journalismfund.eu. “Il capoclan aprì negozi e capannoni in Germania un momento prima dell’apertura della frontiera con la Ddr - racconta un pentito. Dopo il crollo del muro di Berlino si lanciò sui mercati della Germania Est, avendo come base la stessa Berlino”. ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra si sono date appuntamento a Berlino per la caduta del muro. Dalla notte del novembre 1989, in cui i berlinesi dell’est si riversarono a ovest, le maggiori mafie italiane, invece, si spostano a est. Investono in modo massiccio i capitali mafiosi in imprese legali, alterando le leggi del libero mercato. Un mosaico cominciato trent’anni fa, e ora ricostruito da questa inchiesta giornalistica realizzata con il patrocinio europeo di Journalismfund, non profit che ha come obiettivo quello di promuovere e gestisce progetti di giornalismo investigativo cross border. “Arrivavano con valigette piene di contanti, volevano comprare edifici e terreni agricoli. I funzionari la ritenevano una cosa curiosa, ma non era nulla di illegale all’epoca - ricorda Bernd Finger ex investigatore capo della Bka, l’ufficio federale della la polizia criminale.- All’epoca non ci furono indagini, nulla di quello che veniva registrato era illegale”. Finger racconta per la prima volta ai giornalisti le infiltrazioni legate al meccanismo di privatizzazione. La Treuhand o Treuhandgesellschaft era un’azienda fiduciaria incaricata dal governo della Ddr in transizione di vendere le proprietà pubbliche della Germania Est. I suoi dipendenti, estremamente impreparati alla mole di lavoro che avevano davanti, furono soggetti a pesanti critiche, minacce, accuse di corruzione. La Treuhand continuò comunque nel suo sforzo di cambiare l’economia della Germania Est, arrivando a vendere compagnie a ritmo di 20 al giorno. Era incaricata di privatizzare 22mila imprese, due terzi delle foreste, 8mila compagnie, innumerevoli edifici, e il 28% dei terreni agricoli. Fu un’opera di privatizzazione senza precedenti. Alle accuse di avere un approccio morbido sulla corruzione, l’allora presidente della Treuhand rispose: “Non è evitabile quando si lavora con migliaia di aziende - sbottò Birgit Breuel, presidente dal 1991 - Se si prendessero altrettante aziende della Germania ovest e si revisionassero, si troverebbe corruzione anche lì”. Le mafie italiane questo lo capirono presto e cominciano ad acquistare. “Nei periodi di transizione economica, di crisi congiunturali o strutturali, si sono presentate occasioni prontamente sfruttate dalle organizzazioni criminali di tipo mafioso per trarre motivi di più ingenti profitti, di ulteriore arricchimento, di più profonda penetrazione nell’economia e nella finanza”. Sono le parole pronunciate da Piero Grasso, allora a capo della Direzione nazionale antimafia, nell’audizione del 25 febbraio 2009 davanti alla Commissione parlamentare antimafia. I primi a vedere nel territorio tedesco un campo fertile per gli investimenti furono i mafiosi di Cosa Nostra. “Ricordo - continua Grasso durante l’audizione - un’intercettazione telefonica raccolta il giorno della caduta del muro di Berlino nel corso della quale un mafioso diceva al suo corrispondente a Berlino Ovest di recarsi subito a Berlino Est per comprare. Alla richiesta di chiarimenti del suo interlocutore il mafioso rispose che doveva comprare tutto quello che capitava: pizzerie, discoteche, alberghi”. Gli investimenti di Cosa Nostra in territorio tedesco, secondo quanto riportato dal pentito Gaspare Mutolo alla Commissione parlamentare antimafia, cominciano già negli anni Ottanta. “Quando si parlava della legge di Pio La Torre - racconta il pentito riferendosi a quello che poi è diventato il 416 bis -, siamo nei primi mesi del 1982, Madonia (Nino, boss del mandamento di Resuttana, alleato dei Corleonesi, ndr) ci consigliò, a me e a Micalizzi, poiché sapeva che lavoravamo a pieno ritmo con l’eroina, di non correre rischi. Ci disse che, se avessero approvato questa legge, ci avrebbero tolti i soldi e ci proposero di investirli in Germania dove c’era tranquillità”. E precisa: “La maggior parte degli investimenti consiste in terreni”. La ‘ndrangheta è sicuramente la mafia più attiva in territorio tedesco. E proprio la caduta del muro di Berlino è stato il momento in cui ha fatto il salto di qualità. Ma gli atti giudiziari al riguardo sono pochi perché la ‘ndrangheta all’epoca era ancora vista come una mafia di serie B. Molte risposte potrebbero trovarsi, invece, nei documenti della Treuhandgesellschaft presenti nell’archivio di Stato di Berlino: se si allineassero tutti si conterebbero 70 chilometri di polverosa carta ingiallita. Il vincolo legale che per 30 anni rende secretati i documenti, non permette di accedere a nomi e date. Alcuni protagonisti però sono emersi da atti informativi della polizia italiana e tedesca. Come Spartaco Pitanti, proprietario di numerosi ristoranti nella Germania Est, compresa, per un periodo, la pizzeria “Da Bruno”, dove a Ferragosto del 2007 ci fu la strage di Duisburg, epilogo di una lunga guerra di ‘ndrangheta, iniziata a San Luca, in Calabria, e terminata in Germania. Il nome di Pitanti e del suo socio Domenico Giorgi compaiono in diverse relazioni della BKA e nuovamente nella recente inchiesta Stige, condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. La loro attività di ristorazione, “Il Convento” di Kassel, viene indicata, insieme a una decina di altre attività commerciali, come “intestate o comunque collegate ad esponenti della cosca o a persone vicine alla cosca”. Allo stato si tratta solo di ipotesi investigative, che dovranno trovare conferme nei processi ancora in corso. Certo è che Pitanti, al momento della sua morte, avvenuto nell’ottobre scorso, non aveva mai ricevuto condanne per questioni legati alla criminalità organizzata. Nemmeno i clan della camorra si sono lasciati sfuggire gli investimenti della Germania Est. “A seguito della caduta del muro di Berlino - spiega il pentito Guglielmo Giuliano - l’associazione che fa capo ai Licciardi, Contini e Mallardo (l’Alleanza di Secondigliano, ndr) ha iniziato a operare nei paesi dell’est e in particolar modo nella ex Germania dell’est. Utilizzando canali facenti capo a napoletani che già si trovavano in Germania, è iniziato un vero e proprio monopolio nella commercializzazione di abbigliamento in finta pelle - oltre che - a trapani di marca Bosch taroccati”. Un vero e proprio colpo al cuore del ‘made in Germany’. A partire dalla caduta del muro di Berlino, viene messa in piedi dalla camorra una rete capillare di attività commerciali, presenti in tutto il territorio tedesco. “I negozi in questione - spiega il collaboratore di giustizia Gaetano Guida - spesso sono gestiti da prestanome ma sempre servono in realtà come riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite ma anche come coperture di ulteriori attività criminali quali il traffico di droga e armi e la copertura di latitanti. Questi negozi sono presenti in tutta la Germania, ad esempio a Berlino, Amburgo, Francoforte, Dortund, Dusseldorf, Lipsia”. Così come succede nel nord Italia, anche in Germania - e all’estero in generale - le differenti organizzazioni criminali non entrano in contrasto tra loro, ma collaborano, stringono alleanze, si spartiscono, più che i territori, le attività economiche da portare avanti. In questo modo dalla caduta del muro a oggi le mafie italiane sono cresciute e si sono insediate indisturbate in territorio tedesco. Anche perché una presenza così forte e capillare trova un contrasto solo parziale: in Germania non esiste il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Un discrimine non da poco dal momento che in Italia può essere punita la semplice appartenenza all’associazione anche se chi vi appartiene non commette altri reati. In Germania servono reati fine per poter perseguire una persona. Un altro fattore di debolezza ancora più grave, se si considera che larga parte delle attività della criminalità organizzata in Germania è di tipo economico, è rappresentato dalla normativa sul sequestro dei beni è differente. È necessario che l’accusa dimostri l’esatta provenienza da uno specifico reato: prova che diventa molto difficile da portare davanti a un giudice nel momento che in territorio tedesco vengono riciclati i capitali accumulati illecitamente dalle cosche, ma in vario modo e spesso in altri Stati. Alcuni passi verso il miglioramento del contrasto si stanno compiendo, per esempio con l’ultima risoluzione Onu approvata a Vienna e con una nuova normativa sul sequestro dei beni a livello di Unione Europea che entrerà in vigore nel 2020. Ma mentre le mafie si internazionalizzano velocemente, gli accordi bilaterali hanno tempi molto più lenti. Anche perché troppo spesso ‘ndrangheta, Cosa nostra e camorra vengono viste all’estero come una questione fra italiani. Anche se questi italiani ormai sono diventati cittadini tedeschi ed è anche l’economia teutonica a essere messa a repentaglio. Svolta repressiva in Romania, incriminata la giudice anti-corruzione di Andrea Tarquini La Repubblica, 31 marzo 2019 Laura Codruta Kovesi è nel mirino del partito socialdemocratico, guidato dal pregiudicato Liviu Dragnea, ma resta una forte candidata al ruolo di Procuratore generale dell’Unione Europea. Brutale svolta repressiva nella Romania guidata dal corrotto partito socialdemocratico (ma sovranista ed euroscettico di fatto) guidato dal potentissimo e pregiudicato Liviu Dragnea. Proprio nel corso del semestre di presidenza di turno romeno dell’Unione europea, l’ex super magistrata anticorruzione e massima eroina delle proteste della società civile, la coraggiosa 45enne Laura Codruta Kovesi, è stata incriminata per corruzione. È un’accusa che appare costruita di sana pianta. La decisione è stata comunicata dopo un procedimento-lampo di sei ore, che ricorda sinistramente i processi-farsa dell’epoca staliniana nell’Impero sovietico. Laura Codruta Kovesi, che l’anno scorso era stata licenziata dall’incarico di capo della Directia Nationala Anticoruptiei, la procura speciale anticorruzione, deve presentarsi ogni giorno al commissariato del suo quartiere, e le è vietato sia di lasciare il paese sia di parlare con i media. La Commissione europea a Bruxelles ha subito espresso estrema preoccupazione e deplorazione per il colpo contro la super giudice, chiedendo formalmente alle autorità romene di tornare sui loro passi. Per anni, Laura - piú volte intervistata da Repubblica, cui ha sempre detto di non fidarsi del potere ma di non avere paura nonostante lunghi costanti periodi di minacce e una vita sotto scorta - ha indagato contro politici di ogni colore sospettati di corruzione, malversazione, frode elettorale, assicurando un migliaio di colpevoli alla giustizia. Ieri arrivando a presentarsi per la prima volta al commissariato ha detto: “È evidente che si tratta di una campagna di intimidazione e di persecuzione contro di me e contro chiunque lotti contro la corruzione, cancro di società ed economia, una campagna che viola leggi e Costituzione”. Laura Codruta Kovesi è considerata la piú forte candidata nella futura Commissione europea al nuovo ruolo di Procuratore generale dell’Unione. Da sempre Liviu Dragnea - che condannato per frode elettorale e indagato per malversazione di fondi Ue non può ricoprire incarichi governativi ma ha in mano la maggioranza come un padrino - conduce una guerra senza scrupoli contro la super giudice. C’è da aspettarsi che nelle prossime ore, col weekend, la società civile scenderà in piazza. In solidarietà con Laura, e contro diverse leggi governative che passo passo stanno abrogando l’autonomia del potere giudiziario e ampliando in modo pesante le possibilità di ogni politico corrotto indagato di salvarsi o di godere di amnistie o perdoni. La Romania dopo la sanguinosa caduta del tiranno “Conducator” stalinista Nicolae Ceausescu è tornata alla democrazia e vanta uno tra i massimi tassi di crescita economica dell’Unione europea, ma è anche ai vertici nell’indice di corruzione e soffre di una enorme emigrazione giovanile che è anche reazione al malgoverno. Turchia. L’ambiguo “dopoguerra” dell’erede del Califfato di Alberto Negri Il Manifesto, 31 marzo 2019 L’Ue tace sulla repressione dell’opposizione e dei curdi, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui giornalisti dietro le sbarre Il presidente turco Erdogan a una manifestazione pre-elettorale a Istanbul. L’erede della sconfitta del Califfo Al Baghadi è proprio lui, Erdogan. “Risolveremo la crisi siriana sul campo”, ha dichiarato prima del voto. La Turchia intanto fa “ciaone” alla Nato, conferma l’acquisto dei missili dalla Russia e annunciando che Santa Sofia tornerà moschea, raccoglie la bandiera delle istanze islamiste dalle rovine dell’Isis. Che per altro in questi anni ha ampiamente sostenuto, come confermato dall’”ambasciatore dell’Isis” in Turchia, Abu Mansour, in una lunga conversazione riportata da Homeland Security Today, un sito diretto dall’ex segretario alla sicurezza di Bush junior, Michael Chertoff. Alla vigilia di un incerto e rischioso voto alle amministrative di oggi, segnato dalle difficoltà economiche, finanziarie e da una forte crisi occupazionale, il presidente turco ha provato a compattare l’elettorato più devoto all’Islam religioso con quello che ormai è un classico: la riapertura al culto islamico di Santa Sofia, l’ex basilica bizantina, trasformata in museo nel 1935 da Atatürk. Ankara ha poi annunciato l’acquisto del sistema missilistico S-400 dalla Russia durante la visita di Sergei Lavrov ad Antalya mentre gli Usa si preparano a bloccare la consegna dei caccia F-35 nella cui produzione è coinvolta anche la Turchia, membro della Nato dal 1953. Con una crescita economica quasi ferma, la lira sotto pressione e gli effetti dell’afflusso dei migranti siriani, usati per ricattare l’Unione europea, Erdogan ha cercato di sfruttare l’onda emotiva provocata dall’attentato terroristico contro le due moschee a Christchurch. Non solo ha fatto circolare il video della strage, a Gallipoli, in occasione delle commemorazioni della battaglia del 1915, cui parteciparono con gli inglesi anche reparti australiani e neozelandesi, ha dichiarato: “I vostri nonni vennero qui e li abbiamo rimandati indietro nelle bare. Non abbiamo dubbi: rimanderemo a casa nelle bare anche voi nipoti”. Ci sarà un giorno in cui, riscrivendo le cronache di questi anni, che qualcuno si domanderà come mai gli stati dell’Ue non abbiano detto o fatto nulla nei confronti Turchia di Erdogan. E quando vorranno trovarne le ragioni sarà per constatare che i Paesi trainanti dell’Unione, insieme agli Stati Uniti, sono stati suoi complici e allo stesso tempo l’hanno preso in giro con la chimera dell’ingresso in Europa. Non c’è ovviamente soltanto la questione di profughi siriani ma anche quella del Golan e di Gerusalemme. Erdogan ha gioco facile a presentarsi come un leader perché l’Europa non si oppone davvero al riconoscimento americano di Gerusalemme capitale dello stato ebraico o all’annessione del Golan, contro ogni risoluzione dell’Onu. Anzi si divide e la Romania, che ha la presidenza di turno del Consiglio Ue, si accoda alle decisioni americane. Ormai, euro a parte e consorzi di armamenti compresi, non si capisce neppure perché stiamo insieme, visto che non esiste una politica estera comune nemmeno su fatti eclatanti come questi. L’Europa non dice nulla sulla repressione dell’opposizione in Turchia, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui politici, i giornalisti e gli intellettuali dietro le sbarre con condanne all’ergastolo, sui curdi in Turchia e in Siria: non pervenuta. Gli europei e i loro governi vivono una contraddizione perenne nei confronti di Erdogan e del Medio Oriente, come se non nascessero lì guerre devastanti cui noi stessi contribuiamo come volonterosi carnefici di un’intera regione. Tutto questo lo racconta - dal suo punto di vista naturalmente - l’ambasciatore del Califfato Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria del 2013. “Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia, pagare il network locale per i trasferimenti e tenere d’occhio il confine turco-siriano, C’erano degli accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato”. L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo. E quando il Califfato, dopo la caduta di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdogan il rilascio dei diplomatici turchi ha ottenuto in cambio a scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel Siraq. “La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e un quantitativo inferiore anche ad Assad”. Mansour per il suo ruolo era asceso al titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato. “Erdogan, con le sue aspirazioni islamiste, ha lavorato con noi mano nella mano”, dice Mansour dalla carceri irachene. Oggi Erdogan promette a modo suo di “sistemare” la Siria: c’è da fidarsi? Libia. “Orrori indicibili sui migranti” di Nello Scavo Avvenire, 31 marzo 2019 Intanto a Malta sul caso del mercantile, il tribunale della Valletta conferma l’arresto di tre subsahariani. Ma è ancora poco chiara la posizione del comandante. Potrebbe essere incriminato per dirottamento. Restano ancora molte domande sul “dirottamento” della petroliera con 108 migranti sbarcati a Malta. Gli investigatori de La Valletta stanno riesaminando le dichiarazioni dell’equipaggio, e in particolare la posizione del comandante libico. Intanto dalla Libia arrivano altre accuse ufficiali sul trattamento inumano riservato dalle autorità ai migranti. A La Valletta su una cosa le indagini concordano: i migranti non volevano tornare in Libia ed erano disposti anche a gettarsi dalla nave. Timori più che fondati. Dopo le smentite di Onu e Ue al ministro Salvini, che in una direttiva aveva considerato la Libia come “Paese affidabile”, arrivano adesso nuove valutazioni dalla missione Onu a Tripoli e dall’Altro commissariato per i diritti umani, che descrivono condizioni orribili. Il 21 marzo nel corso di un aggiornamento nella sede Onu di Ginevra, il segretario generale aggiunto per i Diritti umani, Andrew Gilmour, ha rinnovato la preoccupazione: “I migranti vengono sottoposti a “orrori inimmaginabili” dal momento in cui entrano in Libia”. Gilmour ha confermato la veridicità della relazione dell’Unsmil, la missione delle Nazioni Unite a Tripoli, che a dicembre aveva documentato “gravi violazioni dei diritti umani e abusi sofferti da migranti per mano di funzionari statali e membri di di gruppi armati, così come le atrocità commesse dai trafficanti”. La quotidianità per i migranti è fatta di continue “torture e maltrattamenti” che anche nei centri di detenzione governativi “continuano senza sosta”. Gilmour ha anche riferito di avere incontrato in Niger nei giorni scorsi un gruppo di “migranti e rifugiati recentemente liberati dalla detenzione in Libia”. Ognuno di loro, “donne, uomini, ragazze e ragazzi, era stato stuprato o torturato, molti ripetutamente con scariche elettriche. Tutti hanno testimoniato sulla tecnica estorsiva diffusa, in base alla quale i torturatori costringono le vittime a chiamare le loro famiglie a cui fanno ascoltare le urla dei propri cari che, minacciano, continueranno fino a quando pagheranno un riscatto”. Il giorno prima, riferendo davanti al Consiglio di sicurezza Onu a NewYork, l’inviato del Palazzo di vetro a Tripoli, Ghassam Salamé, ha confermato il deterioramento delle condizioni di vita per i migranti e per i libici: “Si stima che 823.000 persone, inclusi migranti e 248.000 bambini, abbiano bisogno di assistenza umanitaria in Libia”. Parole che raramente ottengono una reazione delle autorità di Tripoli, al contrario di quanto avvenuto con una intervista nella quale Salamé accusava di corruzione la classe politica del Paese. Un nervo scoperto che ha visto reagire un’alleanza inedita. Di “insulto” hanno parlato l’Alto consiglio di Stato libico (Hsc) la Camera dei Rappresentanti (Hor), organismi che di solito si danno battaglia ma che davanti all’accusa di arricchirsi grazie alla propria posizione, hanno ritrovato l’unità. Salamé ad Al Jazeera aveva affermato che “i leader politici in Libia sono corrotti in maniera indicibile. Usano i loro posti per prendere il denaro e investirlo a loro beneficio all’estero”. L’attenzione internazionale, però, è spostata su Malta e il “dirottamento” di cui sono accusati i migranti. Il tribunale della Valletta ha confermato gli arresti con l’accusa di terrorismo per tre delle persone fermate al momento dello sbarco del mercantile “El Hiblu 1”, dirottato verso Malta mentre stava apparentemente riportando verso la Libia un gruppo di 108 naufraghi. Si tratta di un 19enne e due minorenni di 16 e 15 anni. Secondo l’accusa, i tre hanno preso possesso della nave “con minacce e intimidazioni”. Fonti militari maltesi dicono che non sono state però trovate armi e non è stata opposta alcuna resistenza al momento dell’abbordaggio da parte delle forze speciali maltesi. Secondo il codice penale maltese il dirottamento di una nave è un “atto di terrorismo” ed è questa l’accusa che è stata confermata oggi a carico dei tre arrestati. Il capitano della nave non è indagato ma fonti di polizia hanno detto al “Times of Malta” di “non poter escludere” che il comandante libico abbia fornito una versione di comodo, e potrebbe rischiare l’accusa di traffico di esseri umani. Egitto. Liberato il blogger Alaa Abdel Fattah, icona della rivoluzione di Pino Dragoni L’Espresso, 31 marzo 2019 Il blogger e attivista torna libero dopo cinque anni di prigione, ma sarà sottoposto a sorveglianza: 12 ore al giorno in una stazione di polizia per i prossimi cinque anni. Alaa Abdel Fattah è fuori dal carcere. L’attivista e blogger 38enne ha finito di scontare la sua pena di cinque anni e dopo alcuni giorni di lungaggini burocratiche per il rilascio è finalmente tornato a casa. I suoi primi passi fuori dalla prigione, gli abbracci e i sorrisi hanno iniziato subito a circolare sui social network, insieme alla gioia dei tanti, egiziani e non, che da tempo attendevano la notizia. Alaa era stato arrestato nel novembre 2013, per un sit-in contro i processi militari, organizzato proprio alcuni giorni dopo che il nuovo regime golpista aveva emanato la famigerata legge anti-proteste. Anche se non era presente in quell’occasione, la condanna riguardava anche una sua presunta aggressione a un ufficiale di polizia. Alaa ha scontato l’intera condanna (inizialmente di 15 anni, poi ridotta a cinque), a differenza di altri implicati nello stesso processo e che hanno beneficiato di un’amnistia. Ingegnere informatico e sviluppatore di software, Alaa Abdel Fattah è stato un pioniere della blogosfera egiziana, insieme alla sua compagna e moglie Manal Hussein. In lui si condensa il percorso di una lunga tradizione di attivismo laico in Egitto. Il padre Ahmed Seif El-Islam Hamad, militante comunista arrestato negli anni 80 durante il regime di Mubarak, è stato tra i fondatori del Hisham Mubarak Law Center, una delle prime e più importanti organizzazioni egiziane per la difesa dei diritti umani. Sua madre, Laila Soueif, anche lei attivista di lunga data, è docente di matematica all’università del Cairo e sorella della celebre scrittrice Ahdaf Soueif. La moglie Manal è invece figlia di Bahi El-Din Hassan, tra i padri fondatori del movimento per i diritti umani in Egitto, attualmente costretto all’esilio. Le sorelle, Mona e Sanaa Seif, sono anche loro attiviste di primo piano. Icona della rivoluzione del 2011, la vita e la militanza di Alaa in qualche modo racchiudono quelle di un’intera generazione e di tutto il movimento democratico egiziano. Ma la sua storia è anche strettamente legata alle prigioni dei vari regimi avvicendatisi negli anni. Arrestato per la prima volta a soli 22 anni nel 2006 durante una manifestazione a sostegno dell’indipendenza della magistratura, dal 2008 era andato a lavorare in Sud Africa. Ma allo scoppiare della rivolta del gennaio 2011 era tornato subito in Egitto in tempo per partecipare alla famosa “battaglia dei cammelli” a Tahrir (in cui i manifestanti difesero strenuamente la piazza da un assalto di bande criminali assoldate dal regime) e per assistere con i suoi occhi alla caduta di Mubarak. Dopo aver deciso di tornare a vivere stabilmente in Egitto, sempre presente nelle piazze del cosiddetto “periodo di transizione”, Alaa è tornato in carcere nel novembre 2011. La sua “colpa”: aver testimoniato e denunciato il massacro del Maspero, una manifestazione di copti e solidali attaccata brutalmente dai tank dell’esercito, che uccisero nella loro corsa cieca sul sit-in pacifico almeno 27 persone. Dopo il suo arresto a migliaia sono scesi in piazza ripetutamente al Cairo e ad Alessandria per chiederne la liberazione. Quella volta il carcere gli ha impedito di veder nascere il figlio Khaled. L’ultima detenzione invece lo ha privato della possibilità di salutare per l’ultima volta suo padre. Di tre figli, due (Alaa e Sanaa) non hanno potuto partecipare ai funerali perché in carcere. Anche durante la sua logorante prigionia, Alaa ha continuato le sue battaglie attraverso scioperi della fame, trattative con le autorità carcerarie, lettere pubbliche e scritti. Sfidando il divieto, ha rilasciato interviste e denunciato le condizioni di detenzione e le torture subite dai suoi compagni di prigionia. Ora che è fuori, però, è libero solo a metà. Come centinaia di altri prigionieri politici, sarà sottoposto per altri cinque anni a un regime di sorveglianza che gli impone di trascorrere 12 ore al giorno (dalle 18 alle 6 del mattino) in una stazione di polizia, ancora una volta privato di fatto della libertà personale, gli affetti, la possibilità di lavorare e di muoversi. L’ennesima vendetta punitiva del regime contro chi lo ha sfidato.