Torna il sovraffollamento nelle carceri. Riforma o rivolta? di Franco Corleone L’Espresso, 30 marzo 2019 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato il 27 marzo la Relazione al Parlamento alla presenza del Presidente della Repubblica. E’ stata una occasione per riflettere sulla crisi delle carcere e sulla “costruzione positiva di una diffusa cultura dei diritti” come ha detto Mauro Palma, Presidente del collegio di garanzia che vede la presenza di Daniela de Robert e Emilia Rossi. I numeri destano grande preoccupazione. Nel 2018 si sono verificati 64 suicidi e gli atti di autolesionismo sono stati più di diecimila. Vuol dire che chi è senza voce e non è in grado di rivendicare i propri diritti usa il proprio corpo per farsi ascoltare. Si è superata la soglia dei 60.000 detenuti presenti rispetto a una capienza regolamentare di meno di cinquantamila posti. Va detto che questa cifra è causata dalla scelta di una politica repressiva sulle droghe, infatti oltre il 30% dei detenuti sono ristretti per violazione dell’art. 73 (detenzione e piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vietate) del Dpr 309/90 e una percentuale dello stesso livello riguarda i detenuti tossicodipendenti. D’altronde l’area della sanzione amministrativa in 28 anni ha riguardato 1.280.000 giovani, per l’80% dei casi sorpresi a fumare uno spinello! Il sovraffollamento colpisce la dignità delle persone, basti pensare alle condizione dei servizi igienici nelle celle. Qualcuno soffia sul fuoco e propone aggravamenti delle pene con l’effetto certo di far scoppiare le carceri. I garanti dei diritti dei detenuti chiederanno invece l’applicazione rigorosa delle norme dell’Ordinamento Penitenziario e del Regolamento di attuazione del 2000 in tante parti disapplicato e nella sostanza violato. Il confronto sarà tra la ragione e la violenza. L’appello di Mauro Palma a un linguaggio adeguato è stato molto opportuno. “Il linguaggio è il costruttore di culture diffuse e l’espandersi di un linguaggio aggressivo e a volte di odio, costruisce culture di inimicizia che ledono la connessione sociale e che, una volta affermate è ben difficile poi rimuovere”. Un monito da tenere in conto, sul serio. “La cura psichiatrica in cella dovrebbe essere limitata” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 marzo 2019 Il parere del Comitato Nazionale di Bioetica su come affrontare la malattia mentale in carcere. “In coerenza con la finalità terapeutica delle Rems, occorre limitare il ricovero nelle Rems ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva”. L’invito a limitare il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva, è uno delle raccomandazioni contenute nel parere “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere”, pubblicato dal Comitato nazionale di bioetica che sottolinea come la salute mentale in carcere rappresenta un’area particolarmente critica nell’ambito della tutela della salute generale delle persone condannate al carcere. “Se il carcere per sua natura comprime i diritti individuali - si legge nel documento - la salute mentale in particolare è insidiata dalla sofferenza legata allo stato di costrizione e di dipendenza totale del detenuto per qualsiasi necessità della vita quotidiana”. Il comitato nazionale di bioetica ritiene che dall’incompatibilità fra il carcere e la salute mentale discende l’indicazione che la presa in carico delle persone con disturbo psichiatrico debba avvenire di regola al di fuori del carcere, nel territorio. “La cura psichiatrica in carcere - viene sottolineato nel documento - dovrebbe essere limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico”. Il Comitato di bioetica ricorda che la salvaguardia della salute mentale non coincide con l’assistenza psichiatrica, per quanto importante essa sia: l’invito del Comitato è a predisporre un ambiente sufficientemente adeguato a mantenere l’equilibrio psichico delle persone detenute e a non aggravare lo stato di chi già soffre di disturbi, assicurando in primo luogo condizioni dignitose di detenzione e il rispetto dei diritti umani fondamentali. Il nodo salute mentale- carcere è complicato da altre questioni, fra cui, a monte, il diverso trattamento penale (il cosiddetto “doppio binario”) cui possono essere sottoposti gli autori di reato con problematiche psichiatriche. Alcuni (i cosiddetti “folli rei”), giudicati non imputabili per vizio di mente (totale o parziale) e perciò prosciolti per essere però sottoposti a misura di sicurezza in Ospedale Psichiatrico Giudiziario - Opg; ciò avveniva prima della legge 81/ 2014 che ha chiuso gli Opg: oggi invece i prosciolti sono avviati al nuovo articolato sistema di presa in carico territoriale, di cui fanno parte le Residenze per la Esecuzione della Misura di Sicurezza - Rems. Altri, i cosiddetti “rei folli”, giudicati imputabili e condannati al carcere, quando sviluppavano un disturbo psichiatrico grave o andavano incontro a un aggravamento di una precedente patologia, erano trasferiti in Opg. “Oggi - denuncia sempre il Comitato nazionale di bioetica -, dopo la sua abolizione, i “rei folli” non godono della tutela cui avrebbero diritto, poiché manca una normativa chiara per stabilire la loro incompatibilità col carcere e indirizzarle a misure alternative a fine terapeutico”. L’eredità dell’Opg è ancora viva sia sul piano concreto, per la sorte tuttora incerta delle varie tipologie di malati psichiatrici che affollavano questi istituti; sia soprattutto sul piano culturale, nel persistere della vecchia visione del malato psichiatrico quale soggetto di per sé pericoloso, e dunque da contenere più che da curare. “Tale concezione - viene sottolineato nel documento - è alimentata anche dall’eccessivo ricorso al “binario” di non imputabilità e di proscioglimento per “vizio di mente”, con corrispondente ampio utilizzo delle misure di sicurezza. Da qui la resistenza all’utilizzo di strumenti normativi che possano favorire la cura non in stato di detenzione, sia dei “rei folli”, sia “dei folli rei”, nonché i ritardi ad adeguamenti normativi in tale direzione”. Legittima difesa: una modifica pericolosa di Giorgio Beretta Città Nuova, 30 marzo 2019 C’è il via libera del Senato al testo sulla legittima difesa, che dunque diventa legge. I voti favorevoli sono stati 201, i contrari 38, gli astenuti 6. Eppure è solo nell’ambiente familiare che sempre più spesso si sfogano rancore, intolleranza e odio. In base alla riforma, la difesa di chi respinge, armato, un’aggressione o una minaccia subita in casa o sul lavoro è sempre legittima, e la persona non è punibile se era in “grave turbamento”. La legge che modifica le norme sulla legittima difesa porterà molti italiani ad armarsi. Con conseguenze che potrebbero essere più nefaste del problema che intenderebbe risolvere. Il testo della legge recita, infatti, che “sussiste sempre il rapporto di proporzione tra offesa e difesa” se taluno legittimamente presente nell’abitazione o ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale o imprenditoriale “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità, i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Si introduce così una presunzione di tutti i requisiti della legittima difesa, presunzione che è da ritenersi assoluta, considerato il ricorso all’avverbio “sempre”. Come ha evidenziato con un comunicato l’Associazione italiana dei professori di Diritto penale (Aipdp) questo disegno di legge trasforma l’attuale “diritto di legittima difesa” in “diritto di difesa”. E soprattutto in diritto di difesa con le armi. Ma la situazione attuale in Italia giustifica l’assunzione di misure che potrebbero invece avere conseguenze molto pesanti? Nient’affatto! Furti e rapine in abitazioni e negozi sono in costante calo nell’ultimo decennio e soprattutto sono più che dimezzati gli omicidi per furti o rapine: si passa da una media annuale di oltre 70 ad inizio anni Novanta a circa 30 nell’ultimo quinquennio, di cui 19 nel 2016. Nel 2017 sono stati 16, poco più di uno al mese. Di contro, nel 2016 gli omicidi non attribuibili alla criminalità bensì di tipo interpersonale costituiscono quasi un terzo di tutti gli omicidi perpetrati in Italia. Ciò significa che oggi il pericolo maggiore per l’incolumità delle persone non consiste nelle rapine nelle case o nei negozi, ma nell’ambiente familiare e nei rapporti interpersonali. È questo il contesto in cui sempre più spesso si sfogano rancore, intolleranza e odio che vanno crescendo nel nostro Paese. Non tener conto di questi aspetti rappresenta un grave pericolo, sul quale tutte le forze politiche dovrebbero riflettere prima di approvare norme per assecondare le pulsioni di alcuni settori della società. O, peggio ancora, per cercare di incassare un po’ di consensi sull’onda emotiva suscitata da qualche raro caso continuamente riproposto da taluni mezzi di informazione. Ne va della sicurezza di tutti. In democrazia la legge non si regala. Si regala nei regimi autoritari di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 30 marzo 2019 Il ministro Matteo Salvini si compiace di aver “regalato” agli italiani il provvedimento sulla cosiddetta legittima difesa. E’ un vizio pressoché esclusivo di questo ministro e di questo governo, non casualmente presieduto (si fa per dire) “dall’avvocato degli italiani”. Perché in un Paese pur abituato ad assistere a una certa retorica gentista non s’era mai sentito così frequentemente di leggi “regalate” al popolo. La classe parlamentare e di governo deve fare le leggi e amministrare, possibilmente bene, e le leggi e l’amministrazione saranno buone per alcuni e cattive per altri, com’è normale in un Paese normalmente civile e di democrazia non arretrata. Ma l’idea che una legge, per quanto magari ben giudicata da molti, costituisca un “regalo”, e fatto per giunta “agli italiani”, come se tutti fossero d’accordo, denuncia una concezione profondamente autoritaria del potere e dei rapporti tra lo Stato e i cittadini. L’idea che il governante sia issato al potere non per amministrare, appunto, non per organizzare ragionevolmente il vivere civile, non per far funzionare in modo efficace l’apparato pubblico, ma per “donare” al popolo provvedimenti favorevoli, rinvia spaventosamente all’immagine detestabile dell’autocrate che distribuisce pubbliche provvigioni. Che non è molto diverso dal gangster newyorkese che a natale apre i portelloni di un camion pieno di tacchini e li offre ai disperati riconoscenti del quartiere. Una specie di miserabilismo sopraffattorio e drammaticamente illiberale spiega questa propensione quasi meccanica a credere e far credere che compito del governo sia questo, di “regalare agli italiani” un provvedimento di legge. E la devastante incultura di cui sono interpreti e portatori preclude a questi governanti di capire, anche solo di sospettare, che il potere di imporre leggi che valgono per tutti non significa in nessun modo fare le mostre che esse incontrino il consenso di tutti. Tanto meno significa che tu abbia il potere di farne “regalo”. Invece questi la pensano e la dicono proprio così, e si teme di non dover aspettare molto per vedere un ministro che lancia da un balcone le prime buste del reddito di cittadinanza, o quest’altro che organizza un premio civile per i primi tre che sparano ad altrettanti zingari (quelli che “purtroppo ce li dobbiamo tenere”). Potrebbe trattarsi della legge migliore del mondo, ma è un atto di insopportabile violenza celebrarne l’approvazione annunciandola come un “regalo”. La temperie democratica e civile di un Paese si misura anche alla luce di questi segnali, e c’è da sperare che lo capiscano gli italiani cui questo governo fa tanti doni. Carroccio e lobby delle armi, la battaglia comune per la libertà di sparare di Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 30 marzo 2019 Convegni e incontri riservati confermano i legami tra Lega e gruppi di pressione. Ma intanto Salvini costretto a bloccare la legge che facilita la vendita di fucili. Non è stato un equivoco. Il caso della proposta di legge per aumentare la potenza dei fucili ad aria compressa di libera vendita, firmata ad ottobre da 70 deputati leghisti e che ieri - dopo un primo stop di Di Maio - il leader Matteo Salvini è stato costretto a sconfessare uccidendola nella culla (“non arriverà al voto in Parlamento”), è stato tutt’altro. La naturale conseguenza di un dato di fatto che il ministro dell’Interno conosce benissimo: la Lega ha uno storico, intimo e costante legame con la lobby italiana delle armi. C’è una scena che racconta bene la natura di questo legame ed ha per proscenio una sala riservata del Senato. Siamo nel luglio scorso. Sono i giorni in cui Repubblica rivela l’esistenza di un impegno sottoscritto in campagna elettorale da Salvini con il Comitato Direttiva 477, l’associazione che tutela i cittadini possessori di armi e che si batte perché l’Italia recepisca nel modo meno stringente possibile la direttiva europea sulla detenzione e il trasporto di pistole e fucili, introdotta dopo l’attentato di Charlie Hebdo. A seconda delle decisioni che prenderà di lì a poco il Parlamento, per il comparto armiero italiano si possono aprire o chiudere importanti occasioni di mercato. Al Senato, in quegli stessi giorni, si tiene dunque una riunione. “Non la definirei segreta, ma certo non era pubblica”, dice oggi uno degli animatori di quell’incontro che non vuole essere citato. Un’altra fonte, però, è più loquace. “La sala era piena: c’erano parlamentari leghisti, tra cui ricordo Massimo Candura, Stefano Candiani, Stefano Borghesi, Claudio Barbaro e Toni Iwobi. Con loro i rappresentanti di tutte le più importanti associazioni della lobby: Anpam, Conarmi, Assoarmieri, Comitato 477 e federazioni sportive. Per la natura non pubblica dell’evento, non posso rivelare di cosa abbiamo parlato ma certamente la lobby manifestò ai parlamentari le aspettative sul recepimento della direttiva”. La famiglia Bonfrisco Ad organizzare l’incontro è un’altra leghista, la senatrice Anna Cinzia Bonfrisco, da sempre interlocutrice degli armieri: si è candidata nella circoscrizione di Pesaro, dove ha sede la Benelli Armi e dove gli elettori sono sensibili al tema. Quel giorno, ad illustrare alcune delle esigenze del comparto, c’è suo marito Stefano Ciccardini, ex carabiniere e appassionato di tiro. E non si capisce a che titolo parli in tale consesso, visto che di mestiere fa il dirigente di una società che niente ha a che vedere con il settore. “Eppure - spiega la fonte più loquace tra quelle presenti - tutte le volte che in Italia si parla di armi Ciccardini spunta fuori all’improvviso”. In effetti Ciccardini, che minaccia querele a chiunque si azzardi a definirlo “lobbista”, si era già distinto nella battaglia - vinta dalla moglie - sul blocco della regolamentazione dei poligoni privati. Uno stop ottenuto grazie anche alla interrogazione parlamentare presentata da Bonfrisco (aprile 2018) che fece contenti i gestori di centinaia di poligoni privati sparsi in Italia. Tre battaglie vinte dalla lobby La riunione al Senato non è stata l’unica. Il 31 luglio più o meno la stessa compagnia di giro si ritrova all’Hotel Quirinale di Roma. Anche in quel caso diversi onorevoli leghisti sono presenti, tra cui Gianluca Vinci il cui nome figura tra i 70 firmatari del progetto di legge di ottobre. “Gli incontri aumentavano a mano a mano che ci avvicinavamo alla decisione del Parlamento sulla direttiva Ue”. Decisione infine presa il 18 settembre. Già ad agosto, però, la lobby ne conosce l’esito. “Finalmente abbiamo avuto un’incidenza netta sul processo di formazione delle leggi”, scrivono sul proprio sito quelli del Comitato D-477. Oltre ai poligoni e alla direttiva c’è però una terza battaglia ascrivibile alla lista di quelle vinte dalla lobby. La riforma della legittima difesa. Nessuno degli armieri vuole ammetterlo. “Non c’è nessun rapporto con la possibile proliferazione delle armi”, dicono. È lo stesso concetto ribadito ovunque dal ministro dell’Interno Salvini. “È solo un tema di diritto”. O almeno, così dovrebbe essere. Non si spiega, quindi, perché il più rilevante convegno tecnico sulla riforma della normativa si sia tenuto nella sala conferenze della fabbrica d’armi Beretta su iniziativa di Assoarmieri. Grazie al successo sulla direttiva, il Comitato D-477 ha fatto un oggettivo salto di qualità: ha cambiato nome (ora si chiama Unarmi) e statuto, rafforzando i suoi legami con il network internazionale Fire Arms United, la cui missione dichiarata è impedire che l’Europa renda difficile l’accesso alle armi e spingere per allargare le maglie delle norme. Come intendeva fare la proposta di legge dei 70 deputati leghisti. Il valore delle armi di Michele Serra La Repubblica, 30 marzo 2019 Francamente irritante che il giorno dopo l’approvazione di una legge che proclama “sempre legittima” la difesa, i Cinque Stelle dal loro canto, Matteo Salvini dal suo, dicano di non volere “una sola pistola in più”. Lo dicono per prendere le distanze da una ulteriore proposta di legge (dei leghisti: di chi, se no?) che tende a facilitare l’acquisto delle armi da fuoco. Ma sanno benissimo che già adesso, senza alcun bisogno di semplificare le normative per la vendita di armi, il loro numero è destinato ad aumentare. E anzi, è già aumentato. E aumenterà ancora. La legge appena approvata dalla maggioranza di governo non permette illusioni: il solo fatto che l’uso delle armi per uso difensivo sia, nella sostanza, depenalizzato, è di per sé un incentivo ad armarsi e a usare le armi. Anche perché in parallelo, e a dispetto delle statistiche sul crimine, politica e media di destra soffiano (e lo fanno da molti anni, metodicamente) nelle vele della paura, ingigantendo i rischi, gonfiando lo spavento, speculando sul sentimento dell’insicurezza come si fa con un titolo quotatissimo in Borsa. Per rassicurare quella parte di opinione pubblica più ostile all’uso privato delle armi, ora il ministro della Paura e i suoi pallidi alleati di governo assicurano di non essere amici di pistole e fucili. Impossibile non far notare l’ipocrisia di chi prima lancia il sasso e poi nasconde la mano. Basterà un giro per le armerie italiane, nei prossimi mesi, per capire come è andata a finire. La contromossa M5S al Senato: ecco la stretta sui reati di omofobia Il Messaggero, 30 marzo 2019 Il carcere fino a quattro anni e, in previsione di una sospensione del processo, l’alternativa di “ripulire i luoghi pubblici”. Questo il destino di omofobi e transofobi previsto da un disegno di legge presentato da M5s in Senato. La Lega in estate con il ministro Fontana propose di abrogare la legge Mancino che sanziona le discriminazioni razziali, etniche e religiose. M5S, invece, spinge per allargare di fatto la Mancino anche ai reati di omofobia e transfobia. “Questo provvedimento - spiega la senatrice Maiorino, prima firmataria della legge sottoscritta anche dal capogruppo a palazzo Madama Patuanelli e da altri 40 pentastellati - punta a contrastare discriminazione e violenze. Basta insulti. Occorre dare una tutela ad una minoranza che senza una norma ad hoc è esposta alla discrezione dei giudici per potersi difendere”. M5S auspica che la Lega non chiuda: “Ci auguriamo - aggiunge Maiorino - che arrivi un appoggio per mettere fine ad espressioni di disprezzo e ad aggressioni di ogni tipo. Siamo aperti ad ogni modifica migliorativa”. “Il presente disegno di legge - si legge nella premessa - mira ad introdurre una specifica tutela giuridica delle vittime di omofobia e transfobia volta a colmare l’attuale vuoto normativo italiano”. L’omofobia e la transfobia vengono aggiunti “tra i moventi dei reati” annoverati nell’articolo 604-bis del codice penale. Chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sull’omofobia o sulla transfobia” viene quindi punito “con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6000 euro”. Ed ancora: “Chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza fondati sull’omofobia o transfobia” viene punito “con la reclusione da sei mesi a quattro anni”. Infine “è espressamente vietata ogni forma di organizzazione, associazione o movimento o gruppo fondati sulla transfobia e omofobia”. Chi si macchia di questi reati e ottiene la sospensione del procedimento “con messa alla prova” dovrà “dedicarsi” ai lavori di pubblica utilità “per lo svolgimento - questa la proposta - di attività di ripristino e di ripulitura di luoghi pubblici o ad attività lavorativa in favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”. Le vittime potranno ottenere il patrocinio dello Stato per quanto riguarda le spese. Inoltre con la modifica dell’articolo 90-quater del Codice di Procedura Penale si prevede che “la valutazione della condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa sia determinata anche sulla base di atteggiamenti improntati all’omofobia o alla transfobia”. Violenza sulle donne: vi spiego perché sono contraria all’aumento delle pene di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 30 marzo 2019 Nel 1996, quando ero Presidente della commissione giustizia della Camera, riuscii, grazie anche alla sapienza della mia collega e avvocata Tina Lagostena Bassi, a mettere all’ordine del giorno e infine arrivare all’approvazione della legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale in reato contro la persona e le sue libertà. Nessuno sa che io quella legge stavo per non votarla. La presenza di tante donne, donne forti, in Parlamento è importante e di grande conforto non solo per tutto quanto il mondo femminile, ma anche e soprattutto per la difesa dei diritti individuali. Nessuno come un soggetto che ha subìto storica sottomissione sa specchiarsi negli occhi e nella vita distrutta di una donna che ha subìto violenza. Ma essere in così tante in Parlamento vuol dire anche saper trovare la capacità di andare oltre la protesta, e darsi e dare gli strumenti per combattere fenomeni degenerativi delle relazioni umane come lo stupro e il “femminicidio”. Sorvegliare e punire. Conoscere e deliberare. “Codice rosso”, la proposta di legge che si sta discutendo in questi giorni alla Camera dei deputati, è un segmento di un percorso che viene da lontano e che necessitava di un adeguamento ai tempi, ai mutati rapporti tra i sessi, all’ingresso turbinoso delle tecnologie e dei social, che rendono subito tutto trasparente e pubblico. Gli stupratori ormai compiono due delitti, la violenza fisica e poi la distruzione della persona con la pubblicità data alle immagini del fatto. Fino a portare la donna al suicidio, come è purtroppo accaduto. Giusto quindi deliberare ancora e ancora e ancora. Le donne lo stanno facendo. Ma la difesa dei diritti rischia troppo spesso di limitare la propria attività all’inasprimento delle pene. Il che, come la storia ci insegna ogni giorno, non ha mai fatto desistere nessuno dal ripetere lo stesso reato. Ancora e ancora e ancora. Pure le donne parlamentari non si arrendono. Ho un ricordo personale che ancora mi turba, dopo tanti anni. Quel giorno del 1996, quando da Presidente della commissione giustizia della Camera ero riuscita, grazie anche alla sapienza della mia collega e avvocato Tina Lagostena Bassi, a mettere all’ordine del giorno e infine arrivare all’approvazione della legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale in reato contro la persona e le sue libertà. Un evento storico che unì tutte le donne del Parlamento e che fu mal digerito dai nostri colleghi, che mostravano insofferenza ai nostri discorsi e addirittura al momento della votazione si defilavano uscendo alla chetichella dall’aula. Pur di portare a casa il risultato fummo costrette a ricorrere all’astuzia femminile. Presi la parola dichiarando che avremmo voluto votare subito, consegnando i nostri testi scritti e rinunciando agli interventi orali. Fu a quel punto che la subcultura maschilista toccò il suo fondo, quando una voce dagli ultimi banchi gridò, in mezzo agli sghignazzi: “Ma chi ve l’ha chiesto l’intervento orale?”. Incredibile ma vero, ancora nel 1996, in piena “seconda repubblica”. Quel che colpisce anche oggi è il fatto che siano di nuovo (e solo) le donne a dover legiferare su una violenza quotidiana che arriva spesso all’omicidio (femminicidio) e che mostra ogni giorno come il corpo della donna sia sempre al centro della necessità di affermazione del maschio. Si va dal barbarico “o sei mia o di nessun altro” fino al vanaglorioso “quella lì ci sta”. Se è vero che sono una minoranza gli uomini che non sanno controllarsi, è altrettanto vero che il fardello politico dell’occuparsene rimane ancora e sempre sulle spalle delle donne. Significativa la bellissima foto di ieri delle deputate di opposizione che occupavano simbolicamente i banchi del governo per la mancata approvazione dell’indispensabile norma sul “revenge porn”, lo sputtanamento in internet dell’intimità di una donna. Su quegli scranni non c’era un uomo. Timidezza? Disinteresse? O nella mente qualche frase volgare come quella del mio collega di tanti anni fa? La conseguenza di questa appartenenza quasi corporativa del tema a un solo genere ha conseguenze negative anche sul piano del legiferare. Stimolo per un attimo ancora il ricordo di quel 1996. Nessuno sa che io quella legge stavo per non votarla, pur avendola voluta con tanta forza. Il fatto è che vivevo la contraddizione di aver fatto approvare una norma che aveva dovuto bilanciare la conquista di un diritto - se mi tocchi hai violato la mia libertà, non la morale corrente - con un forte inasprimento delle pene, in alcuni casi, come nella violenza di gruppo, una lesione di alcuni diritti individuali. Non ci avevo dormito la notte. Poi ho votato una legge che non mi piaceva. Non mi piace del tutto neanche “Codice rosso” nella parte della quantificazione delle pene. E mi domando se almeno una delle parlamentari (c’è qualche vecchia amica, come Stefania Prestigiacomo e Valentina Aprea e Jole Santelli) che la settimana prossima voteranno la legge sappia bene che cosa vuol dire privare della libertà per 24 anni qualcuno che ha avuto comportamenti gravissimi pur senza aver ucciso o compiuto stragi. È la contraddizione di noi donne, che spesso vogliamo vendetta proprio perché, noi o le nostre sorelle di genere, ne abbiamo sopportato tante. Per tutto ciò io oggi penso che sarebbe il momento degli uomini. Le scrivano loro le leggi che puniscono i loro simili. Sono sicura che lo farebbero con maggiore distacco, quindi meglio. Perché non è giusto chiedere sempre alla vittime come si debbano punire i loro carnefici. Sette aprile 1979: la madre di tutte le inchieste bufala di Paolo Delgado Il Dubbio, 30 marzo 2019 Quarant’anni fa la retata dei 21 militanti di “Potere Operaio” una vicenda kafkiana che portava la firma dell’allora pm di Padova Pietro Calogero. Tra pochi giorni, il 7 aprile, saranno quarant’anni tondi da una delle date più nere nella storia della giustizia italiana. Iniziò quel giorno, con 21 mandati di arresto spiccati dal pm di Padova Pietro Calogero, una vicenda processuale nella quale sarebbero state ridotte a carne da macello le garanzie minime senza le quali è impossibile parlare di uno Stato di diritto. Un’odissea che andrebbe definita surreale, se non fosse stata invece drammatica e a volte tragica, nella quale articoli e saggi vennero considerati prove a carico. Una pagina scura nella quale un partito politico, il Pci, si occupò in prima persona di trovare i ‘ testi’ e indicarli alla Procura. Un percorso kafkiano che comportò nel corso degli anni numerosi cambi dei reati contestati, senza che però la sostituzione facesse decadere le fattispecie dimostratesi nel frattempo inconsistenti, al solo fine di prolungare per anni la carcerazione preventiva degli imputati. Un’offensiva politica mascherata da inchiesta giudiziaria nella quale la grande stampa, con appena un paio di rilevanti eccezioni, scelse non di cercare e raccontare la verità ma, al contrario, di difendere un teorema puntualmente smentito dai fatti in nome di una esigenza, la ‘ lotta al terrorismo’, considerata prioritaria rispetto alla verità e alla deontologia professionale. Nel mirino c’erano alcuni tra i principali teorici e dirigenti dell’area detta allora ‘dell’Autonomia’, da Toni Negri, il pesce più grosso, a Franco Piperno, da Oreste Scalzone alla redazione del periodico Metropoli, il cui primo numero era uscito nella stessa primavera del ‘ 79. Sullo sfondo una scelta strategica assunta dal pool di magistrati che si occupavano della lotta armata, riassunta nella formula ‘ togliere l’acqua intorno al pesce’: significava colpire l’area limitrofa alle organizzazioni armata, quella sospettata di coprire e fiancheggiare anche senza partecipazione diretta. Il caso 7 aprile è un labirinto: ricostruirlo puntualmente significherebbe cimentarsi in un’impresa titanica. Furono coinvolte, dopo quella di Padova, diverse Pocure, in particolare quelle di Roma e Milano. Agli arresti del 7 aprile si aggiunsero quelli del 21 dicembre 1979, una cinquantina e passa di mandati, in seguito al pentimento di Carlo Fioroni, ex militante di Potere operaio e poi dei Gap fondati da Giangiacomo Feltrinelli, in carcere dal 1975 per il sequestro e l’uccisione dell’amico Carlo Saronio, e poi una terza ondata nella primavera dell’ 80. Confluirono nel caso una quantità di inchieste tra loro molto diverse, senza arrivare mai a una vera unificazione anche se essenzialmente il processone fu diviso in due tronconi, quello romano e quello padovano. L’uso disinvolto della sostituzione a più riprese dei reati contestati contribuisce a propria volta a rendere arduo districarsi nella vicenda. In concreto, l’ipotesi accusatoria da cui partiva Pietro Calogero era un modello di ‘ dietrologia’ fondata sul nulla. Il magistrato si era convinto che Potere operaio, forse il gruppo della sinistra extraparlamentare più radicale e favorevole all’uso della violenza tra il 1969 e il 1973, quando si era sciolto al congresso di Rosolina, non avesse mai davvero chiuso i battenti. Si era tratto di un finto scioglimento, una messa in scena che permetteva ai dirigenti di quella organizzazione di costituire una ‘cupola’ che dirigeva sia le organizzazioni armate, in particolare le Brigate Rosse, sia l’Autonomia, due facce della stessa medaglia. La galassia della sinistra estrema, apparentemente divisa in un’area che agiva alla luce del sole, l’Autonomia, e un’altra clandestina, le organizzazioni armate, ciascuna delle quali composta a propria volta da gruppi apparentemente distinti, rappresentava invece una realtà unica e monolitica, diretta nell’ombra dagli ex leader di Po. Un simile impianto, i cui tratti ricordavano da vicino il delirio paranoico, non era supportato da nessun elemento concreto ma solo dall’attento studio dei documenti prodotti da quell’area da parte del magistrato padovano e dalle testimonianze raccolte grazie all’attivo interessamento del Pci, nessuna delle quali aveva però vero valore probatorio. Su questa base furono spiccati il 7 aprile, tra gli altri, i mandati contro Negri, contro il direttore di Radio Sherwood, emittente dell’Autonomia padovana, Emilio Vesce, contro gli ex leader di Pot op Oreste Scalzone, Franco Piperno e Lanfranco Pace, ma gli ultimi due sfuggirono all’arresto riparando in Francia, ma anche contro il giornalista di Repubblica Pino Nicotri. Lo stesso 7 aprile si aggiunse a quella di Padova la Pocura di Roma, diretta allora da Achille Gallucci. Negri fu accusato di aver organizzato e realizzato il sequestro Moro, e fu indicato anche come ‘telefonista’ delle Br durante i 55 giorni, accusa che ricadde peraltro anche su Nicotri. La stampa si schierò subito e senza un attimo di esitazione. Nessun dubbio, nessuna ricerca approfondita. Negri era ‘il rapitore di Moro’ e anche quando la montatura crollò, nel giro di pochi mesi, non fece una piega. Quando Nicotri fu scarcerato, dopo 90 giorni, trovò di fronte al carcere una macchina del giornale che lo portò da Scalfari. Il direttore chiedeva di non difendere gli altri imputati e di non ‘delegittimare’ l’inchiesta. Non fu accontentato. Nel panorama della stampa italiana solo Rossana Rossanda e Giorgio Bocca dissero quel che molti intuivano, e cioè che il processo era una montatura. L’accusa fantasmagorica contro Negri si rivelò presto inconsistente ma le deposizioni di Fioroni permisero di mettere altra legna al fuoco. Br o non Br, Negri e gli altri imputati erano colpevoli di ‘insurrezione armata’, più varie ed eventuali tra le quali un pacchetto di omicidi. Il caso 7 aprile si prolungò per anni. Squassò la procura di Padova con uno scontro violentissimo tra il procuratore Calogero e il giudice istruttore Giovanni Palombarini, convinto a ragione che non fosse possibile ‘ricondurre a un’unica generale realtà associativa’ il fenomeno dei gruppi armati e delle strutture dell’Autonomia. Calogero reagì accusando il collega di sabotare o quasi l’inchiesta. L’Unità gli diede ragione. Il caso irruppe in Parlamento nel 1983. Negri, già in carcere da quattro anni in attesa di giudizio, fu candidato dal Partito Radicale ed eletto. La Camera si riunì, caso unico nella storia, a ferragosto per votare l’autorizzazione all’arresto. Nel Pci qualcosa era cambiato: decise di astenersi sino alla condanna in primo grado. La Federazione di Padova protestò indignata. L’autorizzazione passò comunque ma Negri, nonostante gli impegni assunti con Pannella aveva scelto di fuggire e raggiungere la Francia. In aula la montatura fu smantellata: nessuna condanna per insurrezione armata, nessuna conferma del ruolo occulto che nel terrorismo avrebbe svolto Potere operaio, a cui si negava la qualifica di banda armata, negazione assoluta della tesi portante della procura di Padova, quella sull’unicità dell’organizzazione sovversiva armata e autonoma. Le condanne in primo grado furono pesantissime, quelle del 1986 in appello, poi confermate dalla Cassazione nel 1988, molto meno. Pace, Piperno e Scalzone furono condannati solo per associazione sovversiva. Per Negri si aggiunsero le condanna per partecipazione a banda armata e concorso morale in rapina. Molti altri imputati, tra cui i redattori di Metropoli Paolo Virno e Lucio Castellano, furono assolti. Tutti avevano scontato lunghi periodi in prigione. Rispetto alle accuse originarie, le condanne erano robetta, e destavano il sospetto che servissero soprattutto a giustificare almeno in minima misura gli arresti e la lunghissima carcerazione preventiva. In questi casi si suole dire che si tratta di ‘un’esperienza da dimenticare’. E’ precisamente quel che è successo. Lo scandalo del processo 7 aprile è stato semplicemente dimenticato. Nessuno ha mai rinfacciato quell’aberrazione giudiziaria ai magistrati che la edificarono con lo spago, i quali al contrario rivendicano a tutt’oggi con non ingiustificato e incomprensibile orgoglio. Il collega di Nicotri che aveva scritto ‘l’ergastolo non glielo toglie nessuno perché una perizia fonica dimostra senza possibilità di dubbio che la voce del telefonista delle Br era la sua’, si ritrovò anni dopo nella stessa redazione del mancato ‘telefonista’. Nonostante la perizia della quale aveva scritto non fosse mai esistita non si sentì neppure in obbligo di presentare le scuse. Il 7 aprile è stato dimenticato perché a tutt’oggi è opinione comune che in nome della ‘lotta al terrorismo’ tutto fosse giustificato e su tutto la stampa democratica dovesse chiudere gli occhi per ‘fare la propria parte’. Ma quel prolungato silenzio, la scelta consapevole di fare finta di niente, ha reclamato un prezzo persino superiore a quella dello scandaloso caso 7 aprile in sé. Allora, per la prima volta, la magistratura si sostituì alla politica e scelse di aggirare, se non ignorare, limiti e garanzie in nome di un’ ‘ esigenza superiore’. Quel sentiero pericoloso avrebbe potuto chiudersi ‘ a guerra finita’. Invece, di emergenza in emergenza, si è allargato sempre di più. Quel giorno di aprile di 40 anni fa, quando la politica si consegnò ai Pm di Piero Sansonetti Il Dubbio, 30 marzo 2019 Quarant’anni fa, il 7 aprile del 1979, è nata quella che oggi conosciamo come democrazia giudiziaria. Tangentopoli era ancora lontana. La Dc e il Psi erano partiti forti, il Pci usciva appena dall’esperienza del compromesso storico. Cinque giorni prima erano state sciolte le Camere, proprio perché l’esperienza del compromesso storico era andata male. Il ministro dell’Interno era un uomo pacifico e serio come Virginio Rognoni. Pacifico, serio, ma non fortissimo. Il ministro della Giustizia si chiamava Tommaso Morlino, uno scudiero di Aldo Moro, orfano di Moro e anche lui abbastanza in ombra. Chi prese l’iniziativa fu un magistrato padovano che portava il nome di un filosofo liberale: Calogero. Lo seguirono alcuni giudici romani. Rasero al suolo tutto il vecchio gruppo di Potere Operaio, che era stato una delle colonne del sessantotto italiano, guidato da Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone. Lo rasero al suolo nel senso che sbattono tutti in prigione, tranne i fuggiaschi che ripararono in Francia. Piperno riuscì a scappare, perché mentre si stava recando nella redazione di Metropolis (la rivista del gruppo), siccome era in ritardo, si fermò ad un telefono a gettone e chiamò il giornale. Scalzone riuscì a rispondere - almeno, così si racconta - e disse: ti aspettiamo, Franco, c’è anche la polizia… Le accuse - gravissime - erano tutte infondate. La magistratura sosteneva che quelli di Potere Operaio e dell’autonomia operaia fossero la mente vera della lotta armata. Prove, indizi? Il tono degli articoli che quelli di Potere Operaio scrivevano sui giornali. Tutto qui. Come racconta molto bene Paolo Delgado alle pagine 8 e 9, al processo si dimostrò che non era vero niente. Ma intanto quei poveretti si erano fatti vari anni di prigione, qualcuno, come Negri, aveva anche partecipato a una rivolta in carcere e si era beccato svariati anni supplementari di condanna, anche se, in realtà, in quel carcere della rivolta non avrebbe dovuto esserci. Il problema però non fu soltanto l’ingiustizia verso alcune persone. Fu anche che in quella occasione la magistratura ottenne la certificazione della delega in bianco che aveva ricevuto dalla politica. Dal Pci, soprattutto, che era il partito più esposto nella lotta all’estremismo di sinistra e al terrorismo (categorie alquanto distanti, ma in quegli anni venivano accostate o anche sovrapposte, dai partiti e dall’informazione), ma non solo dal Pci. La politica si sentiva messa all’angolo dalla lotta armata ma anche dai movimenti giovanili, impetuosi, ribelli, talvolta anche violenti. E non trovava la soluzione. Allora cercò la soluzione nella magistratura. La quale, in cambio, come era logico, chiese qualcosa. Cosa? Leggi di emergenza e, nella sostanza, sospensione almeno di alcune parti dello Stato di diritto. Nell’inchiesta del 7 aprile, lo Stato di Diritto fu sospeso del tutto. Si stabilì che un teorema politico, una ipotesi sociologica o investigativa, poteva tranquillamente diventare atto di accusa e giustificare arresti e processi e prigione. I partiti accettarono queste condizioni. E accettarono che la magistratura attuasse la sua nuova strategia: colpire l’estremismo di sinistra, anche se non armato, per togliere ossigeno alla lotta armata. La pesca a strascico, si dice ora, la strategia del napalm, del bombardamento a tappeto, del diserbante, si diceva allora. Le conseguenze furono due. La magistratura fu mandata in prima linea, e pagò un prezzo anche molto alto (come, in situazione analoga, lo pagò qualche anno dopo nella lotta alla mafia), soprattutto in termini di sangue, di vite umane. La seconda conseguenza fu il ribaltamento dei rapporti di forza (e delle competenze) tra politica e magistratura. La magistratura assumendo il comando (e l’esclusiva) della lotta al terrorismo (e poi alla mafia) metteva fuori gioco la politica, la quale accettava di buon grado, in cambio del servizio svolto dai Pm. Senza accorgersi che quel processo che si era aperto rischiava di diventare irreversibile. Era più di un rischio. Le leggi speciali diventarono ordinarie, le leggi sui pentiti stravolsero il funzionamento della giustizia e dei processi, la magistratura vide il suo prestigio crescere in modo esponenziale, mentre in modo esponenziale decresceva il prestigio della politica. Quando, un po’ più di 10 anni dopo, arrivò Tangentopoli, i tempi erano maturi per il completo ribaltamento dei ruoli e per l’invasione di campo definitiva del potere giudiziario, che diventò un potere sovraordinato rispetto al potere rappresentativo ed esecutivo. Provate a mettere a confronto il processo sette aprile con il processo sulla presunta trattativa stato mafia, che si svolge in questi anni. L’impianto è identico: niente indizi, niente prove, ma una suggestione letterario- politica, cioè una ipotesi, un racconto, sostenuto dai Pm con l’aiuto, scarso, di qualche brandello di deposizioni di pentiti assai poco credibili. La differenza tra allora e oggi? Allora, comunque, il tribunale smantellò il teorema Calogero, anche se questo non ebbe nessuna conseguenza politica. Oggi il tribunale rende omaggio ai Pm e condanna. Senza prove, senza una logica, senza nemmeno qualche riscontro storico, ma condanna. Scalzone fu sbattuto in cella, allora, con Negri, Vesce e tanti altri. Poi presero anche Piperno. So - scrivendo quello che sto per scrivere - di urtare gli uni e gli altri, ma trovo grandi somiglianze tra quelle retate e il processo e la condanna e l’arresto di Roberto Formigoni. Piperno e Formigoni: il capo del sessantotto e il fondatore, negli stessi anni, del movimento ultracattolico che tentò - con qualche successo - il controsessantotto. Cosa hanno in Comune? La persecuzione giudiziaria. Marche: il mestiere? Si impara in carcere di Marco Benedettelli Avvenire, 30 marzo 2019 I volontari di “Bracciaperte” insegnano ai detenuti a riparare elettrodomestici. Frigoriferi, lavatrici, aspirapolvere. Saperli aggiustare è un’abilità sempre più rara, che Mario Di Palma trasmette ai detenuti con ingegnosi corsi formativi. Pochissimi fondi a disposizione, anzi sempre meno, tante idee e una tenacia inossidabile nel dare Ama speranza in più a chi è chiuso in carcere, Di Palma ha dato vita a una piccola ma agguerrita associazione - “Bracciaperte” - che da sei anni organizza progetti negli istituti penitenziari delle Marche. “A Ferragosto 2011 mi sono trovato a fare una visita al carcere di Pesaro. Fu un’esperienza che mi colpì profondamente. Io che ero sempre stato un rigido giustizialista, capii che dovevo portare qualcosa a chi viveva là dentro”, racconta Di Palma, 41 anni. È così che è nata Bracciaperte, oggi formata da otto volontari-tutor in progetti professionalizzanti. Mario è tecnico riparatore di elettrodomestici anche di mestiere, ed è ciò che si è messo a insegnare ai detenuti e alle detenute. In 6 anni ne ha coinvolti ben 560, anche nei reparti di massima sicurezza, anche fra gli ergastolani. “A riparare lavatrici si impara solo a bottega. Con corsi di 60o 70 ore, quelli che Bracciaperte organizza, si possono già avviare i detenuti a maneggiare competenze”. Ma le risorse languono. Sono sempre meno, lamenta Di Palma. Nelle Marche per la legge regionale 28 che regola gli interventi a favore dei detenuti i fondi vengono decurtati di anno in anno. Per il prossimo triennio c’è solo una manciata di migliaia di euro: “Noi dovremmo coprire le nostre attività con 500 euro... Viene lo sconforto”, racconta il presidente di Bracciaperte. I corsi dell’associazione richiedono almeno 2.000 euro di budget, per attrezzature e rimborsi spese. Ci sarebbero i fondi europei, spiega Di Palma, “ma quelli impongono una documentazione mastodontica, poi sono modulati per centinaia di ore, troppo, molti detenuti vi si perdono. Una piccola realtà come Bracciaperte non riesce ad adeguarsi. Eppure noi organizziamo formazione incisiva, con una quantità di ore ben assestata”. La sede dell’associazione coincide con quella dell’azienda di Di Palma, a suggello anche della simbiosi fra lavoro e passione per il volontariato. Sono tante le attività. Ultima in cantiere è una serie di video-tutorial con otto detenute che mostrano come risolvere problemi comuni degli elettrodomestici. Cosa fare se la lavatrice perde acqua? E se non scarica? E poi ci sono i corsi di pelletteria, i banchi alimentari per detenuti (“Portiamo alcuni prodotti, soprattutto sotto le feste, panettoni, colombe, per chi non ne riceve da fuori”, spiega Mario Di Palma). Oppure si organizzano donazioni: “Una parrucchiera di Pesaro ci ha passato le sue strumentazioni, permettendoci di avviare un laboratorio”. Nel 2014 Bracciaperte ha vinto il premio “Volontariato e Imprese” istituito dal Centro Servizi per il Volontariato (Csv) Marche: “C’è tantissimo da fare, il mondo carcerario è davvero trascurato”. Viterbo: detenuto uccide il compagno di cella per un accendino di Massimo Luziatelli Il Messaggero, 30 marzo 2019 È morto all’ospedale di Belcolle dove era stato trasportato dal 118. L’uomo, un 62enne di Viterbo, quando è giunto al pronto soccorso era in condizioni disperate a causa delle gravissime lesioni riportate. Lesioni procuratigli dal compagno di cella, un indiano di 48 anni, al termine di una lite nata per futili motivi, sembra per la “scomparsa” di un accendino. Il fatto è accaduto in nottata al carcere di Mammagialla di Viterbo. I due dividevano una cella del reparto “definitivi”, quello dove si trovano i detenuti per reati comuni che stanno scontando la pena. Ad accorgersi di quello che stava accadendo sono stati gli agenti della polizia penitenziaria in servizio nel reparto richiamati dal frastuono che proveniva da quella cella. Immediato il loro intervento: hanno immobilizzato l’indiano e portato i primi soccorsi al ferito. Con un’ambulanza del 118 il detenuto viterbese è stato portato in ospedale dove però è morto poco dopo. La salma adesso si trova presso la camera mortuaria a disposizione dell’autorità giudiziaria. Su quanto accaduto a Mammagialla stanno facendo accertamenti i carabinieri di Viterbo. Milano: Salvini nel carcere di Opera, a pochi passi Formigoni misura i metri della cella di Francesco Damato Il Dubbio, 30 marzo 2019 Mi associo molto volentieri agli auguri di Piero Sansonetti all’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Che compie oggi, 30 marzo, i suoi 72 anni, purtroppo in un carcere: quello di Bollate. Dove sta scontando i 5 anni e 10 mesi di condanna definitiva per corruzione, senza diritto ai domiciliari, già negatigli, a servizi sociali e quant’altro per la stretta contemplata dalla legge cosiddetta “spazza-corrotti”, ancora fresca d’inchiostro, diciamo così, della Gazzetta Ufficiale della Repubblica. È una legge della quale non si può lamentare e tanto meno denunciare l’applicazione retroattiva senza incorrere nella derisione, quanto meno, dei manettari in servizio permanente effettivo, come le tricoteuses che se la godevano sferruzzando davanti alla frequentatissima e calda ghigliottina della Rivoluzione francese del 1789. Formigoni agli occhi di questo pubblico più o meno selezionato dell’indignazione ha aggravato la sua posizione scegliendosi con tempestività galeotta il carcere. Egli si costituì il mese scorso a Bollate, da lui scambiato secondo qualche magistrato per uno degli alberghi a 5 stelle quante quelle stampate peraltro nei manifesti e nei loghi dell’omonimo movimento politico che era solito frequentare da uomo libero, in vacanze e non, a spese sue e qualche volta, o spesso, di amici. Dai quali - riconosco - l’allora governatore avrebbe fatto meglio a non farsi pagare neppure un cappuccino al bar, figuriamoci case, barche e quant’altro, sapendoli interessati direttamente o indirettamente alle sue pur avvedute scelte o decisioni amministrative: avvedute, visto il funzionamento dei servizi, settori ed enti destinatari. Ma per questo modo di fare e di essere del “Celeste”, con una corruzione da “utilità” più che da denaro, con questa confusione lamentata da Tiziana Maiolo tra peccato e reato, ritengo francamente, anche a costo di guadagnarmi improperi, che Formigoni abbia già molto pagato, da uomo ancora libero, con le macchiettizzazioni fattene da Maurizio Crozza: micidiali per sputtanamento, diciamo così, più di una valanga di avvisi di garanzia, di processi e di condanne. Ne sanno qualcosa, per i voti che Crozza è riuscito a portar via alle loro persone e ai loro partiti, il buon Pier Luigi Bersani - buono anche a riderne lui stesso, e di cuor - e il meno buono, per i miei gusti assai personali, Antonio Ingroia. Che da magistrato in aspettativa, avvolto nella leggenda di un epico scontro avuto più o meno direttamente con l’allora capo dello Stato in carica per le vicende processuali della famosa “trattativa” fra lo Stato e la mafia, si schiantò nella sua corsa elettorale a Palazzo Chigi, nel 2013, contro le imitazioni di Crozza, appunto, prima e più ancora che contro il verdetto degli elettori. Ho letto da qualche parte che il carcere di Bollate, dove Formigoni - ripeto - sta scontando la sua pena in una cella, esattamente la numero 315, è provvisto ora non solo di un laboratorio di pasticceria e di uno di pelletteria, ma anche di un ristorante aperto in qualche modo al pubblico. Dove quella diavola del garantismo chiamata Annalisa Chirico, vezzeggiata come “Chirichessa” sul Foglio dal fondatore Giuliano Ferrara, è riuscita a portare a cena addirittura il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, non contenta dei guai mediatici già procuratigli con una iniziativa, sempre di ristoro, a Roma. A leggerne ho subito pensato non solo al magistrato certificatore delle 5 stelle del carcere di Bollate, ma anche al suo detenuto eccellente Formigoni. Che magari a quella stessa ora stava di nuovo contando i centimetri che mancano al suo letto per contenerne il corpo in tutta la sua lunghezza, che è da corazziere. Ma mi sono subito consolato apprendendo che, complice l’ambiente, la qualità e quant’altro del ristorante, la brava Annalisa era riuscita a strappare a Salvini, tra un piatto e l’altro, la promessa di non lasciarsi più scappare non dico dalla testa ma almeno dalla lingua il desiderio obiettivamente infelice di vedere “marcire in galera” chi vi finisce, magari a condanna definitiva emessa, escludendo almeno quelli in attesa di giudizio. Che notoriamente non mancano, specie nei penitenziari italiani. L’idea che Salvini possa avere mai desiderato di vedere “marcire in galera” uno come Formigoni, dopo averlo peraltro conosciuto almeno come elettore lombardo e alleato politico del suo partito nella più importante regione d’Italia e altrove, a dire il vero, non mi è mai venuta davvero. Ma è ugualmente importante che “Chirichessa” sia riuscita a fare breccia nella testa o nel cuore del leader leghista parlando dei detenuti in genere, a prescindere da quello eccellente che era a così poca distanza da loro quella sera a cena. C’è tuttavia dell’altro ancora che io vorrei evitare che marcisse nel posto in cui è finito, che è in questo caso il nostro codice penale. E’ la legge “spazza-corrotti” cui ho già accennato. E non solo per l’applicazione retroattiva che se ne sta già facendo, e che proverà sulla propria pelle Formigoni, ma anche per quella sostanziale soppressione della prescrizione infilatale all’ultimo momento, tra polemiche esplose anche all’interno della maggioranza e dello stesso governo, per non parlare del parere negativo espresso dal Consiglio Superiore della Magistratura. Dove si sarebbe voluto qualcosa di più impegnativo di una promessa di riforma del processo penale per stabilire che dal primo gennaio dell’anno prossimo la prescrizione finirà con la sentenza di primo grado. Oltre la quale pertanto si potrà rischiare di rimanere imputati a vita. Prima o poi questa legge arriverà alla Corte Costituzionale. E sono davvero curioso di vedere come ne uscirà, anche dopo averla vista uscire indenne dal palazzo dirimpettaio, che è quello del Quirinale. Dove il presidente della Repubblica, a mio modestissimo avviso di anziano giornalista ed elettore, avrebbe avuto più di un motivo per allungare i tempi della sua riflessione e rinviarla al Parlamento per una ulteriore “deliberazione”, come dice e consente l’articolo 74 della Costituzione. Che obbliga il capo dello Stato alla firma, e alla conseguente promulgazione, solo in seconda battuta, se la legge viene “nuovamente” approvata dalle Camere, sempre per espresso dettato di quell’articolo della Costituzione. Un uccellino, diciamo così, mi informò dei dubbi che anche al presidente Sergio Mattarella, come al Consiglio Superiore da lui stesso presieduto, erano venuti leggendo il testo di quella legge trasmessogli da Montecitorio nel testo definitivo approvato il 18 dicembre dello scorso anno. Lo stesso uccellino mi informò non più tardi del giorno dopo che il capo dello Stato di fronte alle voci che cominciavano a circolare sui suoi dubbi o sulle sue esitazioni, e al malumore che queste voci provocavano in almeno una parte del governo, giù agitato per tante altre questioni, si era deciso a firmare la legge senza aspettare tutti i trenta giorni a sua disposizione per decidere. Ma l’uccellino per un certo verso è morto, non so se più di vergogna per avermi raccontato una balla o di pentimento per avere tradito l’obbligo al segreto, o alla discrezione. Cui sono tenuti gli uccellini che volano attorno al Quirinale. Roma: a Regina Coeli aperto un laboratorio di falegnameria di Maria Grazia Piletti* Ristretti Orizzonti, 30 marzo 2019 L’associazione “A Roma, Insieme - Leda Colombini” dal 2017 ha avviato, presso la Casa di Reclusione di Regina Coeli, un laboratorio di falegnameria utilizzando il legno dei parchi di Roma. L’iniziale finalità del progetto era quella di accedere alla falegnameria già esistente nell’Istituto e di iniziare un’ attività di formazione al rapporto con le macchine e di progettazione. Ciò però non è stato possibile a causa del continuo turn-over dei detenuti e della carenza del personale penitenziario. Abbiamo quindi optato per una attività di creazione di piccoli oggetti da destinare ai famigliari delle persone detenute, usando utensili manuali ed elettromeccanici (trapani, seghetti elettrici, levigatrici, elettrosmerigliatrici, ecc.). Il progetto si è potuto realizzare grazie al finanziamento della Fondazione Prosolidar Onlus che da anni opera in Italia e nel mondo sostenendo progetti di solidarietà. Nell’ultima fase del progetto, iniziata nel settembre 2018 grazie alla collaborazione di Lega Ambiente Lazio, del Circolo Lega Ambiente Parco della Cellulosa e Romanatura, le persone detenute hanno realizzato dei tavolini portatili destinati al progetto “Scuola del Bosco”. Questo progetto, avviato nel 2017 dalle suddette associazioni ed al quale aderiscono alcune scuole materne, prevede che i bimbi durante giorni prestabiliti restino nel parco per tutto l’orario scolastico, impegnati in laboratori creativi con materiali naturali. I detenuti si sono dimostrati entusiasti all’idea di realizzare qualcosa destinato a dei bambini ed hanno lavorato celermente. Su ogni tavolino, costruito in modo da stimolare il gioco con la terra, con legnetti e altro materiale naturale, è anche incisa la dedica “dagli amici di Regina Coeli”. La consegna avverrà domani 30 marzo alle ore 10.00 presso la sede della scuola materna “Il Paese dei Balocchi” in Roma, Via R. D’Aronco n. 28. *Responsabile progetto per “A Roma, Insieme - Leda Colombini” Reggio Calabria: inaugurata in Consiglio regionale sala dedicata a vittime femminicidio ildispaccio.it, 30 marzo 2019 E’ stata inaugurata oggi a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, una sala dedicata alle vittime di femminicidio che raccolga testimonianze, documenti e fotografie sulla violenza alle donne, grazie all’iniziativa dell’Osservatorio regionale contro la violenza di genere, coordinato da Mario Nasone. E’ stata la vicepresidente Giovanna Cusumano a illustrare lo spirito dell’iniziativa: “La Stanza della Memoria è il contributo concreto per mezzo del quale questo osservatorio regionale dà oggi il “là” per quella rivoluzione culturale necessaria per contrastare la violenza sulle donne. È il luogo in cui si parlerà attraverso il linguaggio delle emozioni, perché se le parole faticano a trovare strada nella memoria, le immagini rappresentano il linguaggio primordiale, l’alfabeto universale capace di incidere sulle coscienze”. Così, oggi, in una stanza colma di familiari delle vittime di femminicidio calabrese, associazioni e alti rappresentanti istituzionali, ho presentato la Stanza della memoria intitolata a Mary Cirillo, ammazzata brutalmente a Monasterace nel 2014. Erano presenti i genitori e i figli di Mary Cirillo, così come il fratello di Maria Chindamo e la figlia di Antonietta Rositani. La strada è tutta in salita, ma la rivoluzione culturale, non più procrastinabile, in Calabria mi pace pensare che sia cominciata oggi!”. Al taglio del nastro hanno partecipato i familiari di vittime della violenza di genere in Calabria: Francesco Chindamo, fratello di Maria Chindamo, Annie Russo, figlia di Maria Antonietta Rositani, e una delle figlie di Mary Cirillo, a cui e’ stata dedicata la “Stanza della memoria”. “Una stanza che vuole dare un nome e un volto alle tante vittime da femminicidio di questa regione - ha affermato Mario Nasone -. Persone concrete che noi vogliamo ricordare a tutta la comunita’ calabrese in questo luogo simbolico che e’ la casa dei calabresi, dove ascoltare il grido di sofferenza che viene da queste storie che hanno riguardato donne, ma anche i loro figli, che sono considerati vittime secondarie ma che pagano un prezzo altrettanto pesante”. Una cerimonia sobria, resa pero’ significativa dalla presenza dei familiari di donne uccise: da Rosetta Origlia, madre di Mary Cirillo, con il marito ed i quattro figli, ancora minori della donna di Monasterace uccisa dal marito il 18 agosto del 2014, a Matilde Spadafora, madre di Roberta Lanzino, presente assieme al marito Franco Lanzino, oltre alle presenze del procuratore generale di Reggio Calabria Bernardo Petralia, e del presidente della Corte d’appello di Reggio Calabria Luciano Gerardis. “Una stanza della memoria che è parte di un progetto più ampio - ha sottolineato il presidente del Consiglio regionale Nicola Irto. Mi riferisco all’invito rivolto alle scuole della nostra Regione di intitolare, di dare un segno di riconoscimento, ad una vittima di femminicidio. Serve non solo una nuova legge regionale, o nuove risorse da mettere a disposizione, è necessario un fortissimo investimento culturale che va fatto su questa materia”. Irto ha anche sottolineato l’importanza di inserire la stanza della memoria delle vittime di femminicidio, tra le tappe del percorso riservato agli studenti in visita a palazzo Campanella. “Immagino e spero - ha detto - che possa servire per dare un messaggio, per far capire alle nuove generazioni quello che vuol dire il femminicidio”. Genova: ucciso durante un Tso con 6 colpi di pistola, poliziotto a processo Corriere della Sera, 30 marzo 2019 Il gip del capoluogo ligure ordina l’imputazione coatta per l’agente che sparò all’ecuadoriano Jefferson Tomalà. “Anche se c’era pericolo, sei colpi sono troppi” Il poliziotto che uccise Jefferson Tomalà, ecuadoriano di 22 anni, durante un intervento di Tso nella sua abitazione di Genova nel giugno 2018 deve essere processato. Lo ha deciso il gip Franca Borzone che ha respinto la richiesta di archiviazione della procura disponendo l’imputazione coatta. L’agente aveva sparato sei colpi contro il giovane per difendere il collega. Per il giudice, però, anche se vi era un pericolo il poliziotto non avrebbe dovuto sparare così tanti colpi. Durissima era stata la reazione dei familiari della vittima mentre il ministro Matteo Salvini aveva elogiato il comportamento dell’agente. Jefferson Tomalà, che soffriva di disturbi psichici, aveva reagito in maniera aggressiva davanti al tentativo di ricovero; per reazione il poliziotto aveva sparato sei colpi, cinque dei quali avevano centrato al torace l’ecuadoriano. Quel giorno era stata la madre stessa a chiamare le Volanti nell’appartamento di famiglia in via Borzoli. Al telefono aveva raccontato che il figlio impugnava un coltello e minacciava di uccidersi. I componenti della pattuglia avevano provato a convincere Tomalà a posare l’arma ma di fronte a uno scatto di aggressività avevano spruzzato dello spray al peperoncino. L’ecuadoriano aveva perso del tutto il controllo di sè e aveva ferito due degli intervenuti. Il terzo a quel punto aveva sparato i sei colpi per difendere il collega ma freddando l’ecuadoriano. Siena: “Questa tazzina di caffè”, copione teatrale dei detenuti vince il concorso Siae sienafree.it, 30 marzo 2019 La letteratura, si sa, può essere terapeutica: per chi legge ma anche per chi scrive, che raccontando la propria storia se ne distacca e la guarda alla fine in un altro modo. Il teatro e scrivere di teatro (in carcere) diventa così un potente strumento di risocializzazione: un modo per ‘uscire’ dal carcere (o attrezzarsi a farlo) prima che ciò realmente avvenga. Il progetto dell’associazione “Sobborghi”, tra i vincitori del bando Siae destinato alla promozione della creazione culturale, è tutto questo: quattro laboratori in altrettanti istituti di reclusione - a Grosseto, Massa Marittima, Porto Azzurro all’isola d’Elba e Siena - e quattro elaborati selezionati e pubblicati presentat i oggi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze. Secondo la vice presidente e assessore regionale alla cultura la Regione Toscana ormai da oltre venti anni finanzia e promuove attività di spettacolo all’interno dell’intero sistema carcerario del territorio. Il bando presentato dalla Siae è altamente innovativo e di livello elevato che ha il merito di portare in carcere sia la drammaturgia che la scrittura drammaturgica. Inoltre è un progetto che fa rete e che è stato in grado di far emergere la realtà di chi vive in carcere. Il progetto dell’associazione “Sobborghi” si evidenzia per il suo operare in rete e i testi raccontano, con linguaggi e forme di scritture anche molto diverse tra loro, le ‘storie’ che accompagnano le vite di chi si trova in carcere. Dalla casa circondariale di Grosseto a quella di Massa Marittima, dalla casa di reclusione De Santis a Porto Azzurro a Santo Spirito a Siena, dove l’associazione “Sobborghi” opera da anni. La scrittura scenica è servita a contrastare il senso di vuoto dei penitenziari. Il teatro in carcere, spiegano all’assessorato alla cultura, aiuta l’autoformazione e l’autoanalisi, utile a ritrovare un nuovo senso di sé per poi ripartire. Quattro laboratori, ma anche un concorso. I detenuti di Porto Azzurro, seguiti dalla professoressa Manola Scali, hanno partecipato con il copione inedito “Artuà - Riflessioni sul tema dell’espiazione della pena”. Grosseto, dove a seguire gli incontri c’era Claudio Almasio, ha dato vita al testo “Ti racconto la mia storia”. Con la tutor Sarina Massai Siena ha partecipato al concorso Siae con “Questa tazzina di caffè”, che poi lo ha anche vinto, mentre a Grosseto i laboratori condotti da Massimiliano Gracili hanno preso la forma scenica del copione “La memoria, il tempo”. Tutti e quattro i testi sono stati pubblicati. E’ stato realizzato anche un video, con le riprese dei laboratori e dello spettacolo, che saranno inserito nel volume. Il copione vincitore del concorso sarà inoltre messo in scena da una compagnia teatrale esterna con almeno dieci repliche sul territorio regionale. Adesso l’obiettivo è quello di replicare questa iniziativa, rendendola biennale. Bari: riformare col teatro, il “Fornelli” apre le porte agli spettatori di Sara Suriano bariviva.it, 30 marzo 2019 Alex entra in scena. Di spalle. La sua sagoma è piccola in quello spazio teatrale non grande. Assi di legno consumate dai passi di una ricerca a tentoni, pareti scure e costipate che ci escludono dal mondo. O escludono il mondo da noi. Siamo nell’Istituto Penale per i Minorenni “N. Fornelli” di Bari, in cui va in scena “L’altro sguardo”, un incontro esperienziale condotto da Riccardo Lanzarone con la partecipazione di Alex, detenuto-attore della Compagnia della Sala Prove. Da dove vengo? Chi ero? Chi sono? Chi potevo essere? Chi volevo essere? Chi sarò? Questi i quesiti a cui Riccardo Lanzarone e Alex, accomunati da un’esperienza di prigionia differente per luoghi e circostanze ma simile nel sentire, affrontano fianco a fianco, alla ricerca di un sè che non può prescindere dal proprio passato e dalle speranze per il futuro. Poi Alex si volta, finalmente affronta il pubblico, e la sua sagoma sembra crescere mano a mano che conquista lo spazio teatrale. Si benda gli occhi e così apre una prospettiva sul sogno: può immaginare di essere ovunque, può immaginare la libertà. Una libertà che per Alex si trova aldilà dei limiti fisici che gli errori gli hanno imposto ma che, se allarghiamo gli orizzonti, può trovarsi oltre le gabbie che ognuno di noi costruisce intorno a se stesso, oltre quella prigionia auto-inflitta di maschere, paure e compromessi a cui spesso ci si arrende. Alex va alla ricerca della propria rivoluzione privata partendo dal teatro o, meglio, da un testo teatrale di Neiwiller scelto da Riccardo Lanzarone, e si concede il coraggio di sognare e sperare. Dunque lo spazio teatrale smette di essere un tappeto di assi consunte per rivelarsi come zona franca in cui sfuggire al ricatto sociale, mettere in scena l’umanità nuda, uno spazio in cui è l’operazione teatrale a legittimare emozioni e debolezze. Alex prende per mano il pubblico e lo commuove con il suo coraggio. “Io e Alex abbiamo passato insieme sei, intense ore - afferma Lanzarone, che ci racconta i dietro le quinte dello spettacolo -. Siamo partiti dal testo teatrale di Neiwiller, in cui Alex ha cercato frasi che lo rispecchiassero, per poi affrontare un percorso di ricerca personale rispondendo alle domande Chi ero? Chi sono? Chi sarò?. Abbiamo riordinato tutti i pensieri per poi portarli a teatro”. L’”Altro sguardo”, andato in scena il 21 e 22 marzo, è il primo movimento di un progetto triennale diretto da Lello Tedeschi che, con la partecipazione della Compagnia CasaTeatro diretta da Piera Del Giudice, riapre al pubblico le porte della Sala Prove. Si tratta di un progetto che vuole far vita ad una comunità di giovani detenuti per produrre spettacoli professionali da distribuire nei circuiti nazionali e promuovere attività formative-artistiche, organizzative, educative in rete con gli Istituti scolativi della città e l’Università. Il secondo studio, “Ritorno all’origine”, andrà in scena il 3, 4 e 5 aprile presso il “Fornelli”. Al pubblico si propone l’archetipo Pinocchio, non per raccontare le sue avventure ma per restituirne l’anima contemporanea e le vitali contraddizioni. I posti sono limitati ed è possibile prenotarsi inviando una mail a botteghino@teatrokismet.it, scrivendo il proprio nome e cognome e giorno della replica a cui si intende assistere entro venerdì 29 marzo. Palermo e a Torino: cene solidali a favore delle detenute di Anna Maria De Luca La Repubblica, 30 marzo 2019 Una tavola simbolica unisce Palermo-Torino per abbattere le barriere fra dentro e fuori le carceri: piatti pensati dalle detenute e realizzati dagli chef. L’iniziativa nasce dall’esperienza della cooperativa sociale “Officina Creativa” di Luciana Delle Donne, che aiuta le persone disagiate a reinserirsi nella società e sostiene i giovani detenuti che vogliono entrare nel mondo del lavoro, svolgendo attività di gruppo, sviluppando le relazioni e la creatività, dando vita a un collegamento produttivo tra mondi che solitamente stentano a comunicare. Unico diktat per lo chef: realizzare le portate senza l’uso di utensili non previsti all’interno delle carceri. Le date. Il primo appuntamento è a Torino il 29 marzo (a pranzo presso i Dù Cesari, con lo chef Danilo Pelliccia), a cena presso La Limonaia Food as Culture con lo chef Cesare Grandi. Il 30 marzo, a Palermo, all’Enosteria Sicula (alle ore 20.30, in via Torrearsa n. 3) che ha sposato Inside/Out shared food il progetto di Micol Ferrara realizzando un menù inedito realizzato dall’Ambasciatore del Gusto e membro di Euro-Toques: il noto chef Gioacchino Sensale realizzerà per l’evento un menù sorprendente che prende spunto dalle idee delle detenute (ricette che presto saranno raccolte in un libro a cura di Micol Ferrara). “In allegria e armonia”. “Abbiamo subito aderito all’iniziativa come unici ristoratori nel capoluogo - affermano i tre titolari Piero Scelfo, Massimo Rallo e Danilo Ciulla - perché crediamo fortemente nei buoni valori. In allegria e armonia, come si sta attorno alla tavola, si può sostenere chi ha difficoltà. Motivo per il quale vi invitiamo ad aderire e a sedervi accanto a noi”. Parte del ricavato delle serate sarà devoluto in beneficenza a Made in Carcere, il marchio nato nel 2007 dalla fondatrice di “Officina Creativa”, Luciana Delle Donne. Per info su costi e prenotazioni contattare il numero 339 4531471. Conte: “Lo Ius soli non è nel contratto, ma serve una riflessione” La Stampa, 30 marzo 2019 Il premier: oggi dobbiamo lavorare sull’integrazione. Lo Ius soli “non è nel contratto di governo, ma auspico che si avvii nel Paese, nelle sedi opportune, una riflessione serena” su questo tema. “Si può valutare la nascita sul territorio italiano che sia però collegata ad un percorso di integrazione serio”, che preveda “la conoscenza della nostra cultura” e la condivisione di “valori comuni”. Lo ha detto il premier Giuseppe Conte, durante l’incontro con i giovani ad Assisi. “Lo Ius soli - ha spiegato Conte - apre la prospettiva di concedere la cittadinanza anche in base al fatto di nascere sul territorio italiano. Un criterio che di per sé non vale molto, perché è ovvio che nascere sul territorio può essere anche una mera occasione geografica. Occorre qualcosa di più, occorre quello che è mancato in Italia, perché quella politica degli anni scorsi dove abbiamo avuto degli sbarchi incontrollati ci ha impedito di elaborare una politica di integrazione”. Accoglienza indiscriminata, ha proseguito Conte, “è uguale a non accoglienza, mancata integrazione e questo fa male perché crea paura, diffidenza verso chi arriva. Allora oggi dobbiamo lavorare sull’integrazione”. Conte ha quindi ricordato ai giovani che questo governo è nato con un contratto “molto solenne e meticoloso”, e che lo Ius Soli non ne fa parte. Ma, ha aggiungo, “voglio e auspico che si possa avviare un dialogo nelle sedi opportune, in questo caso parlamentare”, una “riflessione serena dove non ci siano reazioni emotive” e si possa valutare “la nascita sul territorio italiano che sia però collegata ad un percorso di integrazione serio”. L’immigrato zero del decreto sicurezza: “Ora sono un clandestino” di Giuliano Foschini La Repubblica, 30 marzo 2019 “Ero regolarmente in Italia. Mentre ora, grazie alla nuova legge, sono un clandestino”. Questa è la storia di Omar Jallow, 27 anni, l’immigrato zero del decreto Salvini. Il primo a cui sono state applicate le nuove norme volute dal ministro degli Interni che, tra le altre cose, prevedono l’immediato rimpatrio dei richiedenti asilo che commettono un reato nel nostro Paese. La storia di Omar dimostra che nel meccanismo c’è qualcosa che non torna: oggi Jallow è ancora in Italia, come prima del suo arresto. Prima però era un richiedente asilo. Oggi, invece, un clandestino. Con un decreto di espulsione in tasca “e senza i soldi per tornare nel mio Paese” spiega lui, attraverso il suo avvocato, Nicola Totaro. La storia comincia il 5 ottobre scorso. Omar, gambiano, lavora nei campi della Daunia e vive a Borgo Mezzanone, il maxi ghetto alle porte di Foggia. È a bordo di un auto che usa per andare a lavorare. Non si ferma a un posto di blocco della polizia stradale, prova a scappare: non ha l’assicurazione, attende una decisione sul suo permesso di soggiorno, ha paura. Ne segue una fuga breve e una colluttazione con i due agenti che, per fermarlo, lo ammanettano anche alla ruota della volante. Jallow viene arrestato con le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali aggravate. Il 9 ottobre viene processato per direttissima a Foggia: il pm chiede tre anni e 4 mesi di reclusione. Il giudice, anche perché l’uomo è incensurato, lo condanna a un anno. Il 15 ottobre il ministro Salvini scrive trionfale su Facebook: “La giornata comincia bene. Prima applicazione del #DecretoSalvini! Il gambiano Omar Jallow, vari precedenti penali, l’altro giorno a Foggia non si era fermato all’alt ma aveva cercato di investire un poliziotto. Era un “richiedente asilo”, che aveva avuto la protezione umanitaria grazie a un ricorso alla magistratura. Dopo il nostro decreto, è stato subito convocato in Commissione: protezione negata! E adesso, come giusto, si potrà espellere! Fuori dall’Italia questi delinquenti, dalle parole ai fatti”. Omar dunque si può espellere. Viene trasferito da Foggia in un carcere calabrese dove gli viene comunicata la decisione della commissione. “La notificano a lui - spiega l’avvocato - che inspiegabilmente e improvvisamente è stato trasferito. E non a me: non riusciamo, come avremmo potuto, fare ricorso”. Lo fanno invece, per la condanna penale, e il giudice d’Appello la riduce: cinque mesi e pena sospesa. Omar il 27 febbraio è scarcerato. Il suo permesso di soggiorno non esiste più. E così il 6 marzo viene fermato a Foggia e trasferito al Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. Deve essere espulso. Il giudice di pace di Potenza però non è d’accordo: il 6 marzo Jallow è libero perché non gli viene convalidato il trattenimento nel Cpr. Su ordine del questore, dovrà lasciare l’Italia entro sette giorni. “Anche se volessi non potrei: dove vado? Con che soldi?” dice al suo avvocato Omar, il nuovo clandestino. Migranti. Libia paese sicuro? “L’obiettivo è accordo con Malta per i respingimenti” di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 30 marzo 2019 Il Viminale aggiorna la direttiva sul coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime. E fa riferimento a una nota della Commissione Ue secondo cui la Libia è considerata “affidabile”. Ma arriva la smentita. Per Vassallo Paleologo in gioco c’è il patto con La Valletta per evitare un nuovo caso El Hiblu 1. Il ministero dell’Interno ha aggiornato ieri la direttiva del 18 marzo scorso sul coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale. In particolare c’è un’integrazione che riguarda le attività di Search and rescue operate dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Nel documento il Viminale fa esplicito riferimento a una nota della Commissione europea, secondo cui la Libia sarebbe ritenuta “affidabile”. Per questo il ministero esorta a “garantire alle autorità libiche il legittimo esercizio delle proprie responsabilità nella gestione delle procedure di search and rescue. A tal fine - continua la direttiva di Matteo Salvini -. ove si rendesse necessario, potranno essere attivate anche formule di sostegno operativo nell’ambito della cooperazione internazionale, in conformità al quadro giuridico sovranazionale nel rispetto del principio della salvaguardia della vita umana”. Il ministero dell’Interno ricorda il “netto miglioramento delle capacità di soccorso della Guardia costiera libica e il rilevante contributo posto in essere ai fini dell salvataggio delle persone in mare”. E cita i dati forniti da Oim: “Un totale di 15.358 migranti salvati e fatti sbarcare dalla Guardia costiera libica nell’anno 2018”. Inoltre Salvini ricorda “l’impegno profuso dal nostro paese in Libia per sostenere la autorità e il percorso di stabilizzazione, nella gestione integrata delle frontiere (specialmente marittime) e dell’immigrazione ha progressivamente contribuito al pieno rafforzamento delle capacità operative libiche anche con il supporto delle Organizzazioni delle Nazioni Unite”. Alla direttiva viene allegata una lettera firmata da una funzionaria del dipartimento Immigrazione della Commissione europea, Paraskevi Michou, che risponde a una precedente lettera del direttore di Frontex Fabrice Leggeri (di cui non si conosce il contenuto). Secondo il nostro ministero dell’Interno, in questa lettera tra due funzionari ci sarebbe il riconoscimento da parte della Commissione della “piena responsabilità giuridica e operativa nel controllo delle frontiere e nel salvataggio di vite umane” da parte della Libia e un “giudizio (“appropriato”) in merito all’impiego di personale libico addestrato con l’assistenza dell’Ue e l’attestazione delle accresciute capacità e professionalità della Guardia costiera libica”. “Espresso riconoscimento - aggiunge il Viminale - viene attestato dalla Commissione Europea alla consolidata collaborazione operativa con l’Oim nella fase di sbarco ai fini della registrazione e dello screening dei migranti, evidenziando come, nel corso del 2018 la maggior parte delle persone soccorse in mare siano sbarcate presso la base navale di Tripoli (62%), seguita da Homs (19%) e Zawiya (11%), tutti punti dove è assicurata l’assistenza di personale specializzato Oim”. In realtà nella lettera citata sono ricostruiti alcuni passaggi formali, come la ratifica da parte della Libia della Convenzione Sar e il riconoscimento da parte dell’Imo. Si fa riferimento al supporto dato dall’Italia alla Guardia costiera libica ma non si parla di “porto sicuro” A stretto giro è anche arrivata una smentita dalla portavoce della Commissione europea Natasha Bertaud: “La Commissione europea non considera i porti libici come porti sicuri ed è la ragione per la quale nessuna nave battente bandiera europea può sbarcare dei migranti nei porti libici” ha detto ai giornalisti. Anche il giurista e professore di diritto all’Università di Palermo, Fulvio Vassallo Paleologo, sottolinea come “la Commissione europea abbia sempre escluso che la Libia potesse essere considerata un paese sicuro. Per questo bisogna capire bene da dove proviene quella lettera. Va detto che il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, invece, da tempo ritiene la Libia un paese terzo sicuro tanto che Frontex interviene ormai solo con l’attività di monitoraggio anziché di soccorso- sottolinea -. Nei fatti quello che emerge è la legittimazione della zona Sar libica che è una zona Sar inventata a tavolino, perché la Libia non ha una centrale unica operativa di soccorso né ha i mezzi per coprire questa vasta area. Questo spiega anche il ricorso più recente a navi commerciali, come nell’ultimo caso della nave El HIblu 1, che poi è andata a Malta”. Secondo il giurista, però, il vero obiettivo a cui punta il ministero dell’Interno italiano è un accordo con Malta per i respingimenti: l’idea sarebbe quella di bloccare le navi, compresi i mercantili, dopo il salvataggio e riportare le persone in Libia. In considerazione della diminuzione delle navi da soccorso delle ong e della nuova missione Sophia (solamente con mezzi aerei), le navi mercantili potrebbero infatti essere chiamate sempre più spesso a intervenire in caso di navi in situazione di distress. Fonti del Viminale confermano che si siano stati nei giorni scorsi contatti con il governo maltese per creare un “asse anti-clandestini” e “aprire una fase di collaborazione tra i due paesi”. “Si pensa a operare dei respingimenti collettivi in collaborazione con la Guardia costiera libica - spiega -. Malta ha già un accordo con la Libia di questo genere, che per ora non viene attivato, ed è stato firmato ai tempi di Gheddafi. Il rischio è che si voglia fare un accordo più ampio tra Italia e Malta per bloccare i migranti”. Per Vassallo, inoltre, “la zona Sar libica, così come viene comunicata è un falso: nel dicembre scorso l’Imo aveva sospeso la sar libica ma poi è stata reinventata il 28 giugno del 2018 proprio dopo il Consiglio europeo di giugno. L’Unione europea pur non trovandosi d’accordo su nulla ha pensato a fare in modo che fosse la Guardia costiera libica a riportare indietro i migranti in un paese in cui i diritti umani non sono garantiti. Questo è indicativo e preoccupante per lo standard di rispetto dei diritti umani da parte dell’Unione eurooea, anche in vista delle prossime elezioni, che saranno sicuramente molto giocate sulla paura dell’immigrazione e sul rapporto con la Libia a cui verrà sempre più affidato il ruolo di guardiano del castello”. Migranti. “La Libia è un porto sicuro”, ma Bruxelles smentisce Salvini di Adriana Pollice Il Manifesto, 30 marzo 2019 Il ministro cita come prove la Commissione europea e l’Oim, ma entrambi lo sbugiardano: non si rispettano i diritti umani. Ci aveva già provato lo scorso luglio, ieri il ministro dell’Interno Matteo Salvini è tornato con una nota dal Viminale: “La Libia è da considerare un paese affidabile” perché “può soccorrere gli immigrati in mare” e quindi i suoi sono porti sicuri. A certificarlo ci sarebbe la Commissione europea, come spiega ancora il Viminale: “La Libia ha ratificato la Convenzione di Amburgo del 1979 e quindi rientra a pieno titolo nel piano globale Sar gestito dall’Organizzazione marittima internazionale, l’Imo”. Nessun problema anche dopo lo sbarco: “Gli immigrati a terra sono tutelati dal personale Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni”. Una teoria contestata dalla Commissione europea prima di pranzo (“La Libia non è un porto sicuro” ha precisato la portavoce Natasha Bertaud), ma intanto Salvini giovedì aveva già aggiornato la Direttiva sulla sorveglianza delle frontiere marittime, quella sfornata la notte del 18 marzo per cercare di impedire lo sbarco a Lampedusa della nave Mare Jonio, della piattaforma italiana Mediterranea, con 49 naufraghi a bordo. Nel testo, invitato ai comandanti delle forze dell’ordine, Difesa e Marina, si legge: “Garantire alle autorità libiche il legittimo esercizio delle proprie responsabilità durante le procedure di Ricerca e soccorso nelle proprie acque Sar. Potranno essere attivate formule di sostegno operativo”. Nell’aggiornamento si ricorda “l’impegno profuso in Libia per sostenere le autorità locali nel percorso di stabilizzazione e nella gestione delle frontiere”. Alla direttiva viene allegata una lettera firmata da una funzionaria del dipartimento Immigrazione della Commissione europea, Paraskevi Michou, che risponde a una lettera del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri. Secondo il Viminale, nella lettera di Michou ci sarebbe il riconoscimento della “piena responsabilità giuridica e operativa nel controllo delle frontiere e nel salvataggio di vite umane” della Libia e un giudizio positivo sul personale locale. Il gran finale è dedicato al “miglioramento delle capacità di soccorso della Guardia costiera libica e il rilevante contributo al salvataggio delle persone in mare: 15.358 migranti salvati nel 2018”, sbarcati a Tripoli (62%), Homs (19%) e Al-Zawiya (11%). Una netta smentita è arrivata dalla Commissione europea: “La Libia non può essere considerata un porto sicuro, per questo nessuna nave battente bandiera europea può sbarcare dei migranti nei porti libici”, spiega la portavoce Bertaud. “I punti di sbarco - prosegue - sono definiti dalla Convenzione Onu della legge del mare. Un porto sicuro è dove la vita di una persona non è più minacciata e le sue necessità di base possono essere soddisfatte. La Commissione ha sempre detto che non ritiene queste condizioni soddisfatte in Libia”. Per concludere: “Le navi che battono bandiera dell’Ue sono soggette al diritto internazionale, qualsiasi sbarco che avvenga in un paese terzo è soggetto al rispetto del principio di non respingimento e alle norme europee, in particolare quelle che riguardano i diritti umani”. In serata rincara la dose: “L’affermazione secondo cui le operazioni della Guardia di frontiera europea sarebbero poste sotto l’autorità della Guardia costiera libica è completamente falsa”. Salvini non si è arreso e ha replicato sui social: “La Libia è un porto sicuro e lo dice la Commissione europea. Ribadisco la piena legittimità degli interventi di soccorso della Libia che, grazie alla presenza dell’Oim, garantiscono il rispetto dei diritti degli immigrati, alla faccia di chi vuole porti aperti”. Ma l’Oim ribatte: “La Libia non può essere considerata un porto sicuro. Dopo lo sbarco, i migranti sono trasferiti in centri di detenzione gestiti dal governo, sui quali l’Oim non ha nessuna autorità, nei quali la reclusione di uomini, donne e bambini è da considerarsi arbitraria. Le condizioni inaccettabili e inumane di questi centri sono ampiamente documentate. In generale la situazione nel paese rimane molto pericolosa”. Se Salvini finge di non capire, anche l’Europa ha le su ambiguità. Ieri il Consiglio Ue ha prorogato fino al prossimo 30 settembre l’operazione Sophia: niente forze navali in campo, si procederà “aumentando la sorveglianza aerea e rafforzando il sostegno alla Guardia costiera e alla marina libiche nei compiti di contrasto in mare attraverso un monitoraggio potenziato, anche a terra, e continuando la formazione”. Il mandato principale dell’operazione “è contribuire agli sforzi dell’Ue per smantellare il traffico di migranti nel Mediterraneo”. Così si supportano i libici per effettuare quei respingimenti che sono illegali per le navi europee. Il giurista Fulvio Vassallo Paleologo spiega: “La zona Sar libica è inventata a tavolino, perché la Libia non ha i mezzi né una centrale unica operativa di soccorso”. Cina. Migliaia di uiguri detenuti nei gulag: ma non importa a nessuno di Lorenzo Zuppini ilprimatonazionale.it, 30 marzo 2019 La Cina è al sicuro da eventuali attacchi terroristici perpetrati da falangi estremiste delle comunità islamiche. Mentre il presidente Xi Jinping fa affari con noi e coi francesi, giungono particolari sui musulmani uiguri arrestati e detenuti nei 1.200 campi di concentramento presenti nello Xinjiang, la regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese. Secondo il responsabile americano per i diritti civili del Dipartimento di Stato, Michael Kozak, il numero di musulmani imprigionati in quei campi va da 900mila a due milioni di persone. A confronto con la Corea del Nord, qui siamo passi avanti per quanto riguarda l’estensione dei campi di prigionia (misurano complessivamente un milione di metri quadrati) e per quanto riguarda la stretta sorveglianza cui è sottoposto quel territorio. Pochi giornalisti sono riusciti a penetrare in quei luoghi, e tutti hanno riferito che si tratta di una vera e propria operazione di pulizia culturale. Fa particolare impressione la modalità con cui il governo cinese opera lo smascheramento di musulmani passibili di detenzione. Dal 2014, oltre un milione di civili iscritti al partito sono stati inviato nello Xijiang per insediarsi nelle case delle famiglie musulmane col fine di controllarli e denunciarli. Si insinuano nelle abitazioni e nelle famiglie spacciandosi per parenti e una volta compiuto questo passo, inizia l’operazione di spionaggio. Il fine è quello di “trasformare gli individui e la società”, prendendo iniziative come obbligare tutti quanti a cantare durante l’alzabandiera davanti alla sede del partito o imporre agli uighuri di conversare in mandarino e guardare solo la tivù ufficiale. Le barbe scompaiono e con esse anche le palandrane tipiche delle donne musulmane. I pellegrinaggi alla Mecca, che ogni buon figlio di Allah deve effettuare almeno una volta nella vita, vengono banditi e per valutare il grado di attaccamento alla Repubblica Popolare Cinese viene offerto da mangiare e da bere maiale e alcolici. Le domande incrociate tra le varie famiglie rappresentano un ottimo metodo per smascherare qualche musulmano resistente, e alla fine di un rapporto redatto da questi fantomatici parenti viene deciso dalle autorità chi debba essere trasferito nei campi di rieducazione. Negli ultimi mesi la propaganda ha parlato di “salvataggio di queste minoranze dall’ignoranza”, peccato che siano stati internati con la gran massa anche 159 intellettuali di spicco della comunità musulmana. All’interno dei campi vigono regole durissime, come quella secondo cui i pasti vengono concessi soltanto a chi sappia cantare a memoria e in mandarino i testi propagandistici di partito. Nelle zone riservate alle donne, gli spazi sono così angusti da dover fare a turno per poter dormire. E i figli degli internati vengono inseriti nei nuovi orfanotrofi appositamente costruiti. Il regime di Xi Jinping ha paragonato questi campi alle strutture di riabilitazione per i tossicodipendenti. Grandi sussulti internazionali non ve ne sono stati. Buffo, fra gli altri, il silenzio del signor Erdogan, colui che per la umma ha sempre pronte parole di incoraggiamento per quanto riguarda l’espansione e la divulgazione della fede. Egli non ha proferito nessuna parola, e al contrario non si è fatto sfuggire l’occasione per fare la voce grossa all’indomani della strage di Christchurch in Nuova Zelanda. Il bellimbusto di Macron fa invece la morale a noi per il memorandum sottoscritto con la Cina, ma si dimentica dei trenta miliardi di euro di aerei civili venduti al regime rosso di Xi Jinping. Perché nell’esclusivo club dell’Unione europea non possono accedervi sconosciuti se non autorizzati dai soloni francesi o tedeschi. E in questo caso, tutto è concesso. Ecco, basterebbe ammettere che business is business. Kenya. I detenuti fanno causa: “basta paghe da un centesimo a settimana” di Vincenzo Giardina dire.it, 30 marzo 2019 Direttore sistema penitenziario: stipendi equi non previsti. Un centesimo di dollaro a settimana non può bastare, neanche se il lavoro è svolto in carcere. Accade così che in Kenya alcuni detenuti, selezionati per attività lavorative in virtù della condotta esemplare, abbiano fatto causa allo Stato chiedendo una paga dignitosa. La sentenza era attesa per oggi ma, in mattinata, è stata rinviata a data da destinarsi. I detenuti, attraverso i loro avvocati, chiedono la revisione di tabelle retributive risalenti al 1979. Nelle carceri keniane si intagliano mobili e producono manufatti, che sono poi venduti sul mercato anche a copertura di costi dell’amministrazione penitenziaria. I centesimi accumulati dai detenuti, settimana dopo settimana, sono poi consegnati loro a liberazione avvenuta. Il commissario generale delle carceri del Kenya, Isaiah Osugo, ha respinto le accuse di favorire il lavoro forzato sottolineando che la legge non prevede che le paghe dei prigionieri siano “eque”. Filippine. La giornalista Maria Ressa nuovamente in carcere La Repubblica, 30 marzo 2019 La direttrice del sito Rappler nominata da Time “Persona dell’anno 2018” nuovamente in carcere. L’accusa è aver emesso certificati di deposito ad una società indonesiana: in violazione della legge che vieta la proprietà o il controllo da parte di entità straniere di media filippini. Nuovamente in carcere la giornalista filippina Maria Ressa: che era stata scelta da Time Magazine come Persona dell’anno 2018 per il suo impegno in un paese come le Filippine dove la libertà di stampa è sempre più a rischio. Ad un mese dal fermo che le era costato una notte in detenzione con l’accusa di diffamazione a mezzo Internet l il nuovo arresto è avvenuto stamattina all’aeroporto di Manila, dopo che Ressa era appena arrivata, rientrata da un viaggio negli Stati Uniti. La direttrice del sito Rappler ha trovato ad aspettarla agenti di polizia ache l’hanno portata in tribunale. L’accusa questa volta è quella di aver emesso certificati di deposito ad una società indonesiana: in violazione della legge che vieta la proprietà o il controllo da parte di entità straniere su società, proprietà, entità riservate ai filippini, compresi i media. E’ stata poi liberata dopo il pagamento di una cauzione. “Questa è una parodia della giustizia. Non ho fatto nulla, non sono una criminale, vengo trattata come una criminale”, ha dichiarato la giornalista all’emittente ANC, ricordando che per lei si tratta del settimo mandato di arresto sotto l’amministrazione del presidente Rodrigo Duterte. “Non pensavo che il governo delle Filippine avrebbe preso sul serio la mia battuta sul collezionare mandati di arresto” ha sottolineato la giornalista. Ressa ed altri membri del sito sarebbero accusati di aver emesso certificati di deposito ad una società indonesiana che ha investito nel sito web, in violazione della legge che vieta la proprietà o il controllo da parte di entità straniere su società, proprietà, entità riservate ai filippini, tra questi i media.