Ogni sei mesi un ergastolano torna libero grazie alla “liberazione condizionale” di Luca Bolognini quotidiano.net, 2 marzo 2019 Negli ultimi dieci anni sono state 19 le persone condannate alla massima pena del nostro ordinamento giuridico che sono uscite dal carcere grazie alla liberazione condizionale. Anche l’ergastolo, la decisione più estrema che un tribunale possa prendere, nel nostro Paese non è in realtà sinonimo di carcere a vita. E i numeri lo confermano. Secondo il ministero della Giustizia, negli ultimi dieci anni sono state ben 19 le persone condannate alla massima pena del nostro ordinamento giuridico che sono uscite, con la benedizione dei giudici, fuori dalle loro celle. In pratica nel nostro Paese ogni sei mesi un ergastolano, che si è comunque macchiato di crimini atroci - tra cui omicidio volontario e strage dolosa, solo per citarne due - torna libero, pur dovendo rispettare alcuni obblighi per cinque anni, visto che se non commette altre infrazioni, la pena viene considerata estinta e vengono revocate tutte le misure di sicurezza. E allora che senso ha, soprattutto per le famiglie delle vittime, sentirsi promettere dallo Stato una condanna esemplare per poi vederla lentamente sbiadire? Il percorso che conduce alla liberazione condizionale è indubbiamente complesso: bisogna aver scontato almeno 26 anni di carcere senza mai dare problemi. Ma la buona condotta dietro le sbarre non sempre è uno specchio fedele dell’anima. La storia di Giovanni Sutera, super boss di Cosa Nostra, è un buon esempio. Nel 1982 uccide in una rapina il gioielliere fiorentino Vittorio Grassi e nel 1985 ammazza a sangue freddo la diciassettenne Graziella Campagna. La giovane lavandaia siciliana aveva trovato nella tasca di una camicia un documento che rivelava la vera identità di uno dei capi dell’organizzazione mafiosa. Questa colpa le costa cinque colpi di lupara, di cui uno alla testa, sparati a bruciapelo. Per il secondo e brutale omicidio, Sutera era stato condannato al “fine pena mai”. Almeno fino al 2015, quando il Tribunale di Sorveglianza gli concede la liberazione condizionale, scatenando l’ira dei parenti di Graziella Campagna. “È chiaro che le famiglie delle vittime non vorrebbero mai vedere tornare in libertà chi ha ucciso uno dei loro cari, ma - spiega l’avvocato penalista Felice Cardillo dello studio P&P Legal - secondo gli insegnamenti di Beccaria e della Costituzione, il carcere dovrebbe essere una struttura in grado di reinserire chi sbaglia nella società. Questo non significa che in alcuni casi non si possano commettere errori nel giudizio di recupero della persona”. E il lupo si sa, come nel caso di Sutera, tende a non perdere il vizio. Il boss nel 2018 viene infatti arrestato per un presunto traffico internazionale di stupefacenti. Il Tribunale di Sorveglianza interviene e revoca la libertà condizionale. In Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, i condannati definitivamente al “fine pena mai” sono 1.748. Fino a poco tempo fa tra loro e dietro le sbarre c’era anche Carlo Musumeci. Il suo clan tra gli anni Ottanta e Novanta mette a ferro e fuoco la Toscana. E l’omicidio di Alessio Gozzani, ex portiere della Carrarese, di cui è il mandante, porta in dote al boss della Versilia una condanna all’ergastolo ostativo: il termine della detenzione, nel suo caso, coincide con la durata della vita, essendo negato l’accesso a benefici e misure alternative al carcere. Ma ancora una volta non è così. Il tribunale di Venezia trasforma il suo ergastolo da ostativo a normale e lo scorso agosto Musumeci, entrato in carcere con la licenza elementare e uscito con due lauree, ottiene la liberazione condizionale. “In prigione - ha sempre sostenuto - non è vero che si migliora, lì si peggiora, solo l’affetto della società e il perdono ti fa capire i tuoi sbagli”. Una convinzione e un destino simili a quelli di Annino Mele, l’ex primula rossa dell’Anonimia sequestri. Nella sua fedina penale figurano un ergastolo per un duplice omicidio commesso la notte di Capodanno del 1976 e una condanna a 28 anni per il rapimento di un bambino di otto anni. Pur non avendo mai collaborato, pur non avendo mai fatto i nomi dei suoi complici, ha comunque ottenuto la liberazione condizionale e ora è ospite di una comunità. Anche Renato Vallanzasca, il re della mala milanese condannato a quattro ergastoli e 296 anni di carcere, spera da tempo di poter tornare a dormire fuori dal carcere. L’ultimo tentativo gli è andato male. Armando Lucchesi, figlio di Bruno, agente di polizia che morì il 23 ottobre 1976 in uno scontro a fuoco con il bel René, sul no alla liberazione condizionale è stato lapidario: “Vallanzasca ha messo in croce tante famiglie, anche la nostra. Rispetterò qualsiasi decisione del giudice, ma non riesco, non posso perdonare”. L’uomo non è la sua colpa: la Comunità Educante con i Carcerati di Milena Castigli interris.it, 2 marzo 2019 Parla Giorgio Pieri, responsabile della Comunità educante con i carcerati dell’Apg23. Uomini che picchiano le donne, mogli e madri che non denunciano il compagno violento. Due facce drammaticamente correlate della stessa medaglia. Molte, troppe volte infatti, le vittime non chiedono aiuto; vuoi per paura, vuoi per una concezione errata della vita di coppia, secondo cui “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Eppure l’omertà - non solo della vittima, ma anche dei tanti che sanno ma non parlano - non permette di bloccare l’escalation della rabbia. Amori malati che, come ci ricordano le cronache nere quasi tutti i giorni, possono sfociare in un omicidio. Ma non si parli di raptus inaspettato. Quasi sempre, infatti, si tratta di una tragedia annunciata, dove nessuno è intervenuto in modo efficace. Eppure esistono programmi e percorsi proprio indirizzati agli uomini violenti, con lo scopo di aiutarli a prendere atto del male compiuto e spezzare le catene della sofferenza. Uno di questi è rivolto alle persone che stanno scontando la detenzione in carcere per violenza domestica. In Terris ha intervistato Giorgio Pieri, referente del progetto Comunità Educante con i Carcerati (Cec) della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. In cosa consiste il Cec? “La nostra proposta educativa parte dal fatto che un detenuto per essere educato deve essere inserito all’interno di un percorso comunitario. Educante vuol dire tirare fuori gli elementi positivi che sono presenti in ogni persona. Il percorso Cec non è fatto per i carcerati, ma con i carcerati, quindi loro si devono impegnare in prima persona ad essere protagonisti”. Come siete organizzati? “La comunità è costituita da operatori (come me) da volontari (persone del territorio che gratuitamente vengono ad abitare queste case per 2-3 ore a settimana minimo, i volontari vengono anche formati) e dai recuperandi, i detenuti che hanno scelto questo percorso educativo e che si propongono per essere aiuto per gli altri. Poi le figure professionali sono gli psicologi e / o gli psichiatri che condividono il nostro approccio. Si crea quindi una sinergia tra tutti i soggetti coinvolti. Questo è un elemento molto importante perché andare dallo psicologo individualmente ha un valore, ma andarci all’interno di un percorso comunitario mette in maggior evidenza problemi, paure e così via. Inoltre c’è una collaborazione - pur mantenendo il segreto professionale - tra lo psicologo e l’operatore”. Come è sviluppato il percorso? “C’è una formazione umana fatta di incontri sia di gruppo sia personali, attività professionali dentro e fuori la struttura e una formazione religiosa. All’interno del percorso guardiamo i valori che orientano tali persone e - se si può dire - ribaltare la piramide valoriale con un confronto della parola di Dio. Noi non chiediamo la conversione alla fede cattolica a chi per esempio è musulmano o al cristianesimo per chi è ateo. Ma chiediamo un confronto con gli stimoli che dà la parola di Dio. Devo confidare che questa è la parte più bella e profonda del percorso, perché la parola di Dio è in grado di penetrare nell’intimo dell’essere umano. Si crea in definitiva un ambiente stimolante per fare una revisione approfondita della propria vita”. Ci sono molti casi di recidive? “In questi 10 anni, da quando nel 2008 è iniziato questo tipo di percorso, la recidiva di chi ha fatto il nostro percorso si è attestata sul 15%, contro l’80% di chi non ha fatto nulla oltre il carcere”. Quanto costa al cittadino il Cec? “Nulla. Noi infatti lavoriamo a costo zero per lo Stato. I 250 cinquanta detenuto ed ex detenuti presenti ad oggi, sono tutti a carico della Comunità Papa Giovanni XXIII che offre un servizio completo che impiega anche diverse figure professionali. Se ci fossero le risorse, potremmo fare molto di più. Noi ci mettiamo la vita”. Come funziona il fine-pena? “I ragazzi iniziano a lavorare già nella parte finale della pena: come cameriere, contadino, in agriturismi etc. Prendono uno stipendio regolare a norma di legge e questo serve sia per dare loro fiducia sia per farli reinserire nella comunità sociale in modo proficuo. La Papa Giovanni non vede il fine pena, ma la fine di un percorso; non guarda le carte processuali, ma guarda l’uomo. Ad oggi non c’è stata una persona alla quale non siamo riusciti a dare un aiuto completo, anche lavorativo e abitativo”. Passiamo ai casi specifici. Massimo, 10 anni di carcere per l’omicidio della moglie, ha scontato l’ultimo anno e mezzo nella Papa Giovanni e ora lavorerà per i prossimi tre mesi, fino al fine pena, come cameriere. Il suo percorso Cec ha riguardato anche la rappacificazione con suo figlio, rimasto senza la mamma a 8 anni? “Sì. Uno dei principi cardine del progetto Cec è la pacificazione con le famiglie: non si può pensare a un vero recupero se non c’è questo. Perciò dentro le nostre strutture organizziamo settimanalmente percorsi di perdono. Massimo, per esempio, ha avuto occasione di poter riparlare per la prima volta col figlio dopo 10 anni. Quello che al tempo della tragedia era un bambino, ora ha 18 anni e la prima cosa che ha chiesto al padre è stato: ‘perché babbo lo hai fatto?’ Quello della pacificazione è un percorso che richiede tempo e Massimo deve mettere in conto anche questo: i tempi di un figlio che fa fatica a perdonare il padre. Il fatto però che il ragazzo abbia accettato di parlare col papà, che dice di amarlo e di tenerci a lui, è già un fatto positivo”. Conosci anche casi meno drammatici di quello di Massimo? “Sì. In questo momento seguo 5 persone con un reato legato a violenze domestiche. Per esempio Giovanni era in carcere perché picchiava la moglie. Ma lui, una volta iniziato il cammino, inizialmente sminuiva l’accaduto, dicendo di averle dato solo uno schiaffetto. In realtà, da oltre un anno la picchiava anche davanti ai figli e poi diceva che non era niente. E la moglie lo ‘perdonava” e gli dava l’opportunità di ricominciare. Ma lui sminuiva tanto le sue azioni che poi continuava a ripeterle, perché dal suo punto di vista non erano gravi, nonostante la moglie sia finita al pronto soccorso più di una volta”. E come giustificava ai sanitari le ferite? “Dicendo di essere caduta. Fino a quando, dopo una lite particolarmente violenta, grazie al sostegno di un’amica ha sporto denuncia. Da quel gesto coraggioso, è iniziata la sua rinascita, quella dei figli e anche quella del marito che, dopo un periodo di carcere, è entrato nel progetto Cec”. Lui è cambiato? “Moltissimo. Dopo alcuni mesi, ha capito che lui durante l’infanzia aveva vissuto lo stesso tipo di trauma nella propria famiglia d’origine. Suo padre infatti picchiava la madre, era molto violento con questa donna che ha subito in silenzio per anni le percosse in silenzio tra le mura domestiche. Questa è stata la condizione preparatoria perché Giovanni ripercorresse la stessa strada. Lui stesso diceva di sé, da ragazzo: ‘Io non farò mai queste cose a mia moglie’. Invece poi ha ‘amato’ (si fa per dire) la moglie come il padre sua madre. Un amore malsano”. Pensi che se la mamma avesse denunciato quelle violenza nei confronti del padre di Giovanni, qualcosa sarebbe cambiato? “Sarebbe certamente cambiato in meglio, perché avrebbe spezzato la catena della violenza”. Ne hai la prova? “Sì. Lo stesso Giovanni, a un certo punto del suo percorso, ha detto al proprio figlio: ‘La mamma ha fatto bene a denunciarmi altrimenti questa catena non si sarebbe mai spezzata’. E il figlio il giorno dopo in classe ha scritto su un tema scolastico: ‘La mia mamma ha permesso a mio padre di rompere la catena del male. Altrimenti noi figli avremmo potuto fare gli errori di nostro padre e di nostro e nonno’. Cosa è accaduto in Giovanni di così determinante da farlo cambiare? “Ha avuto una presa di coscienza profonda del proprio problema, anche grazie al percorso Cec. E’ successo un episodio. Lo scorso anni i figli hanno subito molto il padre perché lui ha picchiato la madre con violenza davanti a loro più di una volta. In uno di questi episodi, in preda alla collera, ha anche rotto con un calcio un vetro di una porta. A distanza di un anno, uno dei figli ha litigato con la madre e in un momento di rabbia ha rispaccato quello stesso vetro. Poi è andato a nascondersi in camera e tra le lacrime ha iniziato a dire ‘sono un mostro, sono come mio padre’. La sera stessa, la madre ha raccontato l’episodio al marito. Questo ha permesso loro di prendere coscienza dei danni che stavano infliggendo ai propri figli continuando a sottovalutare gli episodi di violenza domestica. Quel giorno Gustavo ha parlato per più di un’ora con i figli aprendo loro il proprio cuore raccontando la propria storia, ma dicendo: ‘non voglio giustificarmi, voglio solo spiegarmi; non voglio far la vittima, voglio prendermi la responsabilità delle mie colpe. Vi racconto la mia storia per farvi capire affinché a voi non succeda lo stesso’“. In definitiva, affinché il recupero sia completo, è importante non solo che il soggetto violento faccia un percorso personalizzato, ma anche che le vittime (mogli, fidanzate, conviventi, figli, nonni e chiunque subisca questa situazione) prendano il coraggio di denunciare mettendo uno stop alle azioni violenze. Il silenzio, la connivenza o comunque il sopportare o il ‘perdonare’ a oltranza non è di aiuto per nessuno. “Proprio no, anche perché quello non è vero perdono, è spesso paura, vergogna o incapacità di affrontare le situazioni. Il perdono necessita della consapevolezza dell’aver commesso un errore: ‘io ti perdono se davvero hai preso cognizione di tutto il male compiuto e non lo ripeti più’. Per arrivare a questo, ci vuole un cammino serio. Un amore malato infatti può arrivare anche a far commettere un omicidio”. Don Peppe Diana: Grimaldi (ispettore cappellani) “giornata di memoria nelle carceri” agensir.it, 2 marzo 2019 Il 19 marzo “promuovere nelle carceri una giornata in memoria, di riflessione e preghiera”. Si avvicina il 25° anniversario dell’uccisione di don Peppe Diana per mano della camorra, mentre si apprestava a celebrare la messa nella sua parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe: in suo ricordo, l’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiani, don Raffaele Grimaldi, invita i cappellani delle carceri a celebrare, nei loro rispettivi istituti penitenziari di appartenenza, “una giornata in memoria, di riflessione e di preghiera”. La morte di don Peppe era “un ammonimento verso coloro i quali hanno osato sfidare la camorra e che con forza e coraggio denunciavano gli affaristi della morte”, scrive nella lettera ai cappellani don Grimaldi, che è stato “amico di studi nel seminario ad Aversa” del sacerdote ucciso “un giovane schietto, coraggioso, impegnato a fasciare le molte ferite degli uomini, sacerdote impegnato nel recupero dei giovani, ai quali dedicava tutto il suo tempo e tutte le sue energie giovanili per servire la Chiesa”. Di qui l’invito a non far passare inosservato questo anniversario perché “è nostro dovere ringraziare il Signore, che attraverso il sangue dei martiri, la Chiesa stessa si rafforza, cresce e rende testimonianza al Vangelo dell’amore”. Inoltre, osserva l’ispettore generale, “celebrare la memoria di don Peppino è una grande opportunità per aiutare a prendere coscienza del loro passato di morte a chi si trova privato della libertà personale. Riflettere sul martirio di don Peppino Diana vuole essere un messaggio per risvegliare le coscienze e dire con forza che nessuno è padrone della vita dell’altro, nessuno può togliere e calpestare la vita di un altro essere umano. Ma, allo stesso tempo, è anche una giornata di preghiera per chiedere al Signore il dono della nostra conversione e il cambiamento della nostra vita”. Don Grimaldi ricorda, poi, un appuntamento specifico per ricordare don Diana: lunedì 18 marzo, nel carcere di Secondigliano, a Napoli, ci sarà l’incontro “Per testimoniare la verità e la giustizia”. Interverranno il vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo, lo stesso ispettore generale dei cappellani, don Franco Picone, vicario generale della diocesi di Aversa e parroco di San Nicola di Bari a Casal di Principe, Giulia Russo e don Giovanni Russo, rispettivamente direttrice e cappellano del centro penitenziario di Secondigliano. Legittima difesa e sicurezza: falsi problemi e veri numeri di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 2 marzo 2019 Si regge su un doppio equivoco la riforma della legittima difesa che sta dissestando i già precari equilibri politici di questo periodo. Totem per la Lega e babau per i Cinque Stelle, il provvedimento è slittato nel calendario parlamentare dentro una cortina fumogena di ambiguità. Non a caso ne è diventata simbolo una vicenda del tutto estranea alla fattispecie giuridica in questione: quella di Angelo Peveri, incarcerato per il tentato omicidio di un romeno entrato nella sua terra a rubargli gasolio. Neppure gli avvocati dell’imprenditore piacentino si sono mai avventurati a invocare per lui la legittima difesa: Peveri ha sparato al ladro quando questi aveva già subìto un pestaggio ed era già sottomesso (addirittura in ginocchio). Ma è appena entrato in galera con una lunga pena definitiva da scontare (quattro anni e mezzo) mentre il ladro ferito è già libero: l’argomento retorico è insomma molto forte e Salvini lo impugna come arma di distrazione di massa da una realtà assai diversa da quella che ci viene rappresentata. Converrà dunque ripartire proprio dalla realtà, dai numeri e dagli equivoci. Il primo equivoco sta nella distanza tra statistiche e vita vissuta. I casi di legittima difesa presso i tribunali (fonte ministero della Giustizia) sono meno di una manciata. Nel 2013 furono cinque i procedimenti iscritti a dibattimento ex articolo 52 del codice penale. Nel 2014, zero. Nel 2015, tre. Nel 2016, due. Per eccesso colposo (articolo 55), meno ancora. Due nel 2013. Zero nel ‘14. Uno nel ‘15 e due nel ‘16. Davanti a queste cifre ci si dovrebbe chiedere perché tanto clamore. Francesco Minisci, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, nel pieno della polemica con Salvini per la visita del ministro a Peveri, ha aggiunto che nella maggioranza dei pochi episodi in questione, “quasi il 100 per cento”, i pm chiedono l’archiviazione e il gip archivia. “In questi casi non c’è alcun processo”. Pare insomma si discuta del nulla. Invece non è così. Perché questi numeri sono distanti dalla realtà. E la realtà non sta nelle due o tre vittime l’anno che (in media) reagiscono sparando, ma sta nei 91 tentativi di furto subiti da Peveri (solo 40 dei quali denunciati) prima di sparare, sta nelle 12 rapine subite dal tabaccaio di Afragola Maurizio Invigorito (che a Salvini, durante la trionfale visita del capo leghista, disse: “Spero non sia soltanto gloria di un attimo”). La realtà sta nelle centinaia di aggressioni neppure più denunciate da piccoli commercianti che non possono pagarsi la sicurezza privata. Taluni reati sono diventati quasi bagatellari, con il risultato di tenere a piede libero delinquenti seriali e di spingere i cittadini verso la voglia di farsi giustizia. Stando alla sentenza, Peveri ha sbagliato: e molto. Ma dà un senso di straniamento vedere il bandito che gli era entrato nelle terre discettare in tv mentre lui sta, pur giustamente, in carcere. Dentro questo iato, si genera il secondo equivoco. La riforma non mantiene (grazie a Dio) ciò che la propaganda prometteva: ovvero l’esenzione tout court da qualsiasi tipo di indagine per chi spara. Come ha ricordato anche Giulia Bongiorno, non di questo si tratta. A una morte violenta corrisponderà sempre un’indagine penale, come del resto non può che essere in uno Stato di diritto. Ma a fronte di decine di micro-reati non puniti, anziché garantire presidî delle forze dell’ordine nelle periferie e interventi nel sociale sulle cause (si pensi in concreto ai campi rom, vera landa di abbandono dove lavorare caso per caso, non col poster della ruspa) si strizza l’occhio al cittadino: difenditi da te e io non ti perseguirò. Questa “devolution securitaria” è un pericoloso malinteso. Persino prescindendo dal valore in sé della vita umana (quella del pur odioso ladro di casa Peveri varrà comunque più del gasolio rubato in casa Peveri), i cittadini saranno sempre perdenti in una simile sfida all’Ok Corral e la maggioranza di essi - anziani, bambini, deboli - non potrà neppure parteciparvi. Cosa immaginare, allora, gruppi privati che si occupino anche della loro difesa? Nel complesso della riforma appare ragionevole l’aumento delle pene per quei reati oggi quasi impuniti e la revisione dell’assurdo diritto al risarcimento per il danno patito dal malvivente quale conseguenza della propria condotta (diritto che pure sarebbe già rimodulato o azzerato da una corretta applicazione del codice civile il quale nega o taglia progressivamente il risarcimento in caso di concorso del danneggiato nel fatto: e accidenti se qui c’è il concorso). Tuttavia la risposta securitaria non può che essere dello Stato, monopolista della forza in un Paese civile. A patto che la risposta sia vera e forte: questione che la sinistra a sua volta ha in passato vissuto in termini così contraddittori da spingerla a introdurre l’idea stralunata delle ore notturne come esimente maggiore (per mano di David Ermini, ora vicepresidente del Csm). O da indurla a fingere (con la lodevole eccezione di Marco Minniti e pochi altri) che il tema securitario quasi non esistesse. Mentre è solare come accogliere la domanda di sicurezza della parte più povera e debole del Paese sia l’unico stop a una dissennata corsa al fai-da-te che offre, quale premio al traguardo, solo più paura reciproca. Il congresso di Magistratura democratica snobbato dalla politica di Liana Milella La Repubblica, 2 marzo 2019 Il feeling del passato è solo un ricordo. Pochissimi gli esponenti dei partiti nella sala in cui si è riunita la corrente più di sinistra delle toghe. E solo a titolo personale. “Renzi ci ha fatto terra bruciata”, dice qualcuno. Ma c’è anche chi ricorda che lo stesso Bonafede al ministero non ha selezionato un solo magistrato di quest’area. La politica snobba Md. Ma Md snobba la politica. È una nuova stagione rispetto al passato quando il dialogo di Magistratura democratica, la corrente più di sinistra delle toghe, con il Pd, e in tempi più antichi con le sue sigle precedenti, era una costante. Bastino, come prova, i tanti magistrati di Md candidati, sostenuti ed eletti alla Camera e al Senato. Gerardo D’Ambrosio, Gianrico Carofiglio, Elvio Fassone, Alberto Maritati, Giovanni Kessler, Donatella Ferranti. Ma adesso, dopo la stagione renziana, il terreno è definitivamente bruciato. I canali di comunicazione sono chiusi. “Renzi è riuscito a fare terra bruciata anche su questo”, dice uno dei più noti esponenti di Md che preferisce tenere riservato il suo nome. “Che dialogo ci può essere con chi candida alla Camera Cosimo Maria Ferri, la figura più rappresentativa della corrente più di destra della magistratura, cioè Magistratura indipendente? Un gruppo filogovernativo che oggi preferisce spaccare l’unità della magistratura per appoggiare il ministro Salvini, le sue sciagurate iniziative come il sostegno al giustiziere Peveri, e la sua legge manifesto, la legittima difesa”. Guardiamoci intorno nella sala congressuale. Spersi tra i magistrati di Md ecco Guido Calvi, l’avvocato amico di D’Alema, che è stato senatore. Per ore e ore c’è solo lui. Poi spunta Giovanni Russo Spena di Rifondazione comunista. Con Laura Boldrini arriva Carlo Leoni, prima Pd, poi Mdp. La presenza della politica si chiude qui. Ma il silenzio sta anche fuori. Cadono nel nulla le dure parole della segretaria di Md Maria Rosaria Guglielmi, detta Maro, pm a Roma, che parla di “una deriva xenofoba e razzista”, di “interventi di portata eversiva” che stanno rimettendo in discussione “i principi e i valori fondanti della democrazia europea”. E quelle di Nello Rossi, ex procura Roma, ex Csm, oggi alla Scuola della magistratura, che critica la consultazione online di M5S sulla Diciotti, la legge sulla legittima difesa, i due diversi populismi della Lega e di M5S, che comunque vogliono imporre il giudizio del popolo su quello delle leggi, ignorando e schiacciando i giudici. Era meno di così quando governava Berlusconi e sfornava le sue leggi ad personam. Ma allora con Md c’era il Pd. Perché non li avete invitati? Risponde Silvia Albano, giudice a Roma: “Alla vigilia delle loro primarie sarebbe sembrata a tutti solo un’interferenza. Ci sono Sassoli e Cuperlo però “. Certo, ci sono. Ma il primo parla di immigrazione in una tavola rotonda di Medel, la rete dei giudici democratici europei, dove parla anche Boldrini. Anche Cuperlo arriva, ma per via dei suoi rapporti personali con alcune toghe di Md. C’è Gianrico Carofiglio, ma in quanto noto romanziere ed ex pm. Si poteva invitare Andrea Orlando, l’ex Guardasigilli? Nessuno ci ha pensato. Il risultato è quello fotografato da Giovanni Salvi, il procuratore generale di Roma: “Non ci sono politici presenti, è la prima volta, e questo è un fatto grave perché significa che la magistratura associata non è più riconosciuta come un interlocutore”. La segretaria Guglielmi risponde serena: “Ci siamo posti il problema quando abbiamo elaborato il programma. Nel quale ci sono politici legati ai temi, come Boldrini. Abbiamo escluso l’idea di invitare i responsabili giustizia dei partiti. Bonafede ci ha detto di no”. È un no che pesa quella dell’esponente grillino. Ufficialmente, tramite il suo capo di gabinetto Fulvio Baldi, ha fatto sapere che aveva altri impegni. Ma in realtà pare che Bonafede non abbia voglia di essere presente ai congressi di tutte le correnti perché, dicono i suoi, “se andiamo da uno dobbiamo andare da tutti”. Quelli di Md interpretano l’assenza come la scelta di non rischiare reazioni imbarazzanti, tipo mugugni o peggio qualche “buuuuhhhh”. Visti soprattutto i toni antipopulisti venuti fuori al congresso di Md, tipo quelli di Rossi contro la consultazione online sull’imputazione per sequestro di persona contestato a Salvini per la nave Diciotti, che “ha mortificato insieme il ruolo del Parlamento e del giudiziario”. Ma c’è chi ricorda che, arrivato in via Arenula, Bonafede ha rivoluzionato la presenza delle toghe, e non ne ha chiamata neppure una della sinistra. Allontanando quelle che già c’erano. Adesso Md sta a guardare. Non mostra alcun feeling con la politica. Anche se questo apre qualche contraddizione rispetto ad Area, il cartello elettorale che raccoglie tutte le toghe di sinistra. “Così rischiamo solo di chiuderci, si isolarci, di essere autoreferenziali, di trasformarci in una sorta di movimento che manifesta con altri movimenti” dice l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Ma in tempi di populismo dilagante, come dice Nello Rossi, “nelle aule di giustizia, dal primo grado sino alla Cassazione, non ci sono né amici né nemici del popolo, ma persone con un comune corredo di garanzie e di diritti uguali di fronte alla legge”. Magistratura democratica: “Legittima difesa, legge inefficace e incostituzionale” di Liana Milella La Repubblica, 2 marzo 2019 Dal 1° al 3 marzo il congresso della corrente. Nella relazione della segretaria Guglielmi un atto d’accusa nei confronti delle politiche del governo, in particolare in materia di immigrazione. Tra gli invitati il ministro della Giustizia Bonafede. La decisione della Giunta del Senato su Salvini e il caso della Diciotti? “Noi di Md riconosciamo il valore della decisione del Parlamento su Salvini, ma ci preoccupa che ci sia un atto politico completamente svincolato da qualsiasi controllo. I magistrati non fanno opposizione politica, fanno il loro dovere. Come i giudici americani sul muro di Trump hanno verificato il rispetto della Costituzione”. La prossima legge sulla legittima difesa? “Sarebbe un vulnus sottrarre alla magistratura la valutazione della proporzionalità tra offesa e difesa. Una legge del Parlamento non può imporre di non indagare un soggetto, sarebbe inefficace e incostituzionale. Il rischio è che ci siano più pericoli per un uso maggiore delle armi, mentre bisogna Investire invece sulle forze di polizia”. Il nuovo progetto di separare le carriere tra pubblici ministeri e giudici? “Il pm deve rimanere nella cultura della giurisdizione. È falsa l’idea che un pm separato sia più forte, perché sarebbe il contrario. Il pm deve restare la prima garanzia per l’imputato e non deve diventare il protagonista di una persecuzione”. Ma la giustizia è a orologeria? “La critica è legittima, ma è meno legittimo accusare un provvedimento di venire da una parte politica, dimenticando che un magistrato risponde solo davanti alla legge”. Una dedica, al giudice turco Murat Arslan condannato a dieci anni di galera nel suo Paese il 18 gennaio perché voleva essere un magistrato libero. E una presentazione che, con la dedica, dicono già chiaramente che strada vuole percorrere Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, un tempo si diceva la più odiata da Berlusconi. Ma di questi tempi i nemici sono cresciuti, sono molti di più. Per averne la dimensione basta leggere la citazione che apre la brochure del congresso: “Nell’età dei populismi il giudice è chiamato a un lavoro difficile, in bilico tra governo della realtà e ideali di giustizia. Rischia di tornare in discussione il processo di costruzione dell’Europa democratica e l’idea stessa dei diritti e delle garanzie come limite al potere”. Scrivono ancora la segretaria di Md Maria Rosaria Guglielmi, pm a Rima, e il presidente De Vito: “Il nostro ventiduesimo congresso è dedicato all’analisi critica di queste dinamiche, affrontate dalla parte dei diritti fondamentali”. Leggete il seguito: “Diritti di tutte le persone e dei tanti sommersi che non hanno risorse per salvarsi da soli”. Difficilmente il ministro dell’Interno Matteo Salvini, nel weekend tra il primo e il 3 marzo, si affaccerà in piazza della Pilotta, al Roma Eventi Fontana di Trevi per ascoltare i lavori di Md. Soprattutto se ha avuto modo di leggere la relazione di Guglielmi, definibile in un solo modo: un pugno nello stomaco alle politiche sull’immigrazione del governo Lega-M5S. E non è certo un caso se il congresso si apre, dopo la relazione di Guglielmi, con uno speech di Nello Rossi sul rapporto tra “giudici, popolo e cittadini”, seguito dalla prima tavola rotonda organizzata la Medel, il gruppo europeo dei magistrati per la democrazia e la libertà, dedicata alle politiche sull’immigrazione “per un Europa dei diritti e della solidarietà”. Indicativo anche il titolo di un dibattito del giorno successivo, “Le regole sotto attacco, stato di diritto e pulsioni demagogiche”. Alfonso Bonafede è tra gli invitati, e di certo non perderà l’occasione di parlare per la prima volta da Guardasigilli di fronte a giudici “rossi” che hanno fatto la storia della magistratura. Altrettanto farà il vice presidente del Csm David Ermini. Certo, il congresso affronterà anche le questioni interne, tra cui domina quella del rapporto tra la storica sigla di Md, e quella di Area democratica, il gruppo presente al Csm che unisce Md e Movimento per la Giustizia, la corrente che ebbe Giovanni Falcone tra i fondatori e oggi conta su una toga come Armando Spataro. Dice la segretaria Guglielmi: “Md ha contribuito alla costituzione di Area che ha una sua dirigenza ed è una realtà pienamente operativa. Come Md vogliamo continuare a dare un contributo culturale in senso lato anche sui temi dell’autogoverno. Come un gruppo che ha una sua storia e una sua voce che ha un orso e conserva un significato per la tutta magistratura”. Ma qui merita parlare di idee, di sfide, di weltanschauung, di visione del mondo. Proprio come fa Guglielmi nella relazione che apre il congresso e che parte da una constatazione tutta politica: “In pochi mesi il volto del nostro Paese è cambiato. E sembra essersi interrotto il percorso che ha condotto sin qui la nostra democrazia”. “La democrazia è in pericolo” scrive la segretaria di Md che vede la Costituzione in balia di “pericolose scorciatoie sulla scia del populismo dilagante” e non si tira indietro dalla politica. Parla di “deriva xenofoba e razzista”. Affronta il caso dell’immigrazione: “Con la chiusura dei nostri porti e la messa al bando delle Ong si è consumata una violazione senza precedenti degli obblighi giuridici e morali di soccorso e accoglienza, che derivano dal diritto interno e internazionale”. Nelle oltre 30 pagine di Guglielmi non c’è mai il nome di Salvini, ma la sua faccia, leggendo, sembra spuntare dietro ogni foglio. Delle navi Aquarius e Diciotti scrive: “Abbiamo scritto una pagina nuova per il nostro Paese imboccando un percorso, sconosciuto e inquietante, distante dalla traccia culturale e simbolica sino a oggi mai abbandonata nella storia dell’Italia repubblicana. In pochi mesi e con pochi gesti abbiamo annientato intere esperienze di integrazione e di inclusione. Abbiamo distrutto intere comunità cresciute intorno al valore dell’accoglienza e alle opportunità che la pacifica convivenza offre a tutta la collettività. Abbiamo privato persone di diritti, non per quello che fanno ma perché diverso dal nostro è il Paese dove sono nate e dal quale sono stati costretti a fuggire”. La critica alle leggi proposte e approvate dal governo Conte c’è tutta: bocciati, nell’ordine, il decreto sicurezza, la legge Pillon, la mancata riforma carceraria, la legittima difesa, una vera e propria legge “manifesto”, la legge “spazza-corrotti”, la stessa prescrizione. Conclude Guglielmi: “Oggi la portata eversiva di alcuni interventi di esponenti delle istituzioni sul merito di decisioni giudiziarie, l’attacco mirato a singoli magistrati per screditarne l’operato e offrirli alla gogna pubblica dei social, i continui tentativi di delegittimare l’intervento giudiziario non lasciano dubbi su quel che ci attende”. È ancora un “resistere, resistere, resistere”. Stavolta dall’altra parte non c’è il Berlusconi dei tempi del procuratore Francesco Saverio Borrelli, ma il governo di Conte, Di Maio, Salvini e Bonafede. Il populismo da cui mettono in guardia le toghe di Magistratura democratica. Magistratura democratica contro il populismo di Lega e Cinque Stelle di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 2 marzo 2019 “Un’alleanza dei diritti fra magistrati e organizzazioni della società civile”. A chiederla è Filippo Miraglia dell’Arci dal congresso di Magistratura democratica (Md) in corso a Roma, e si può dire che qualcosa del genere esista già. Lo mostrano proprio le assise delle toghe progressiste, in cui le loro voci si alternano a quelle di attivisti e intellettuali. Tutte accomunate dalla scelta di stare “dalla parte del torto”, come afferma lo scrittore ed ex pm Gianrico Carofiglio, fra gli ospiti di ieri. La scelta, cioè, “di garantire libertà e diritti fondamentali alle molte minoranze della società” contro “i rischi che tali diritti vengano compressi in nome del popolo-nazione” o di una malintesa “volontà generale”, secondo la formulazione di Nello Rossi, leader storico di Md, ora alla scuola della magistratura. Garantire i diritti delle minoranze va fatto, per Rossi, senza “atteggiamenti elitari” verso l’opinione pubblica preda della propaganda, ma guardando alle cause strutturali dell’avanzata del salvinismo, come le diseguaglianze. Sono “minoranza” da garantire, gli emarginati, contro i quali Lega e M5S hanno introdotto reati come “l’esercizio molesto dell’accattonaggio”, che per Simone Spina (30 anni, il più giovane giudice presente), è l’espressione di “un riflesso classista per cui i poveri sono anche delinquenti”. Di fronte alla propaganda sulla “abolizione della povertà”, la realtà è diversa: sugli ultimi si abbatte la forza bruta del “diritto penale massimo”, della “criminalizzazione come strumento di governo della società”. Logica conseguenza è che il carcere diventi sempre di più luogo di “pena” nel senso di afflizione, denuncia Marco Puglia, giudice di sorveglianza a Napoli. Da brivido, i numeri che ricorda: “Nel 2018 nelle prigioni italiane ci sono stati 148 morti, di cui 76 per suicidio”, e aumenta a dismisura l’utilizzo di psicofarmaci fra i detenuti. Non a caso Patrizio Gonnella di Antigone invita i magistrati a visitare gli istituti di reclusione per essere più consapevoli delle condizioni in cui versano. E la minoranza per definizione è quella dei migranti, a cui Md dedica i lavori del pomeriggio, ospitando una conferenza di Medel, la rete europea delle toghe progressiste. Molti i magistrati stranieri in sala, riuniti nel nome di Murat Arslan, giudice turco incarcerato dal regime di Erdogan. “Finché il nostro collega sarà dietro le sbarre, nessun magistrato europeo può dirsi davvero libero”, sostiene Filipe Marques, portoghese, presidente di Medel. A discutere ci sono gli europarlamentari David Sassoli (Pd) ed Elly Schlein (Possibile), Monica Frassoni dei Verdi europei, Laura Boldrini (LeU) e Riccardo Magi di +Europa. Occhi puntati sul regolamento di Dublino, che il parlamento di Strasburgo aveva migliorato, ma che è rimasto uguale a prima per opposizione di alcuni governi nazionali, fra cui quello italiano. Insieme agli esponenti politici, Nando Sigona dell’Università di Birmingham e Luigi Ferrajoli, giurista e filosofo da sempre punto di riferimento di Md. Per Ferrajoli una standing ovation dopo le sue parole contro “la valenza anticostituzionale del populismo di governo”, “perché la volontà popolare diventa senza limiti e vincoli, e le democrazie si trasformano in autocrazie elettive”. “La mancata autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini - è il giudizio di Ferrajoli - segna un passaggio d’epoca, perché la maggioranza non ha negato l’esistenza di un reato, ma lo ha rivendicato come un titolo di merito. Siamo all’ostentazione istituzionale della disumanità”. L’attacco delle toghe rosse: “Governo eversivo!” Il Dubbio, 2 marzo 2019 Congresso di Magistratura democratica. Il durissimo intervento di Mariarosaria Guglielmi: “C’è un attacco mirato a singoli magistrati per screditarne l’operato”. I recenti interventi di “esponenti delle istituzioni sul merito di decisioni giudiziarie” hanno una “portata eversiva”. Era da tempo che non si ascoltava da un gruppo associativo di magistrati un discorso così duro nei confronti del governo. Nemmeno negli anni ruggenti del berlusconismo e delle leggi “ad personam”. L’intervento del segretario di Magistratura democratica, Mariarosaria Guglielmi, in apertura del XXII congresso della corrente di sinistra delle toghe in corso da ieri a Roma, è stato un attacco frontale alle politiche dell’esecutivo giallo- verde. La premessa è questa: “Con il voto di marzo si sono imposti due radicalismi simmetrici. Il radicalismo del nuovo sovranismo che ha intercettato il risentimento e gli ha offerto un bersaglio rappresentato dallo straniero e il radicalismo egualitario e camaleontico dell’antipolitica che, senza il vincolo di ideologie, senza il peso di un passato e di una storia di riferimento ha assecondato il ribellismo e gli umori del momento”. Da allora un susseguirsi di provvedimenti che mirano ad “un nuovo assetto normativo e culturale fortemente regressivo per i diritti e per le garanzie e verso una manomissione dei principi dello Stato di diritto che priva la giurisdizione del suo ruolo di garanzia e terzietà”. Anzi, “la costruzione di nuove soggettività di tipo identitario è parte rilevante della strategia del populismo e dei neonazionalismi, che, alimentando strumentalmente la percezione dell’invasione da parte degli stranieri, ha innescato anche nel nostro Paese una deriva xenofoba e razzista, e sta rimettendo in discussione i principi e i valori fondanti della democrazia europea”. Il primo responsabile, per le toghe di sinistra, è Matteo Salvini. “Con la chiusura dei nostri porti e la messa al bando delle Ong si è consumata una violazione senza precedenti degli obblighi giuridici e morali di soccorso e di accoglienza, che derivano dal diritto interno ed internazionale”. Con i provvedimenti voluti dal ministro dell’Interno, prosegue Guglielmi, sono stati annientate “intere esperienze di integrazione e di inclusione”, distruggendo intere comunità cresciute intorno al valore dell’accoglienza e alle opportunità che la pacifica convivenza offre a tutta la collettività”, privando “persone di diritti, non per quello che fanno ma perché diverso dal nostro è il Paese dove sono nate e dal quale sono state costrette a fuggire”. Nessuno sconto, poi, per un altro dei cavalli di battaglia di Salvini, la modifica della legittima difesa, “una riforma “manifesto” con gravissime implicazioni sul piano culturale come su quello giuridico: anteporre l’inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con il sistema dei valori della Costituzione”. Gli strali della Guglielmi si sono abbattuti anche sui grillini, sulla carta la componente “filo toghe” del governo del cambiamento. Bocciato il reddito di cittadinanza che “comporta il rischio di incanalare in prospettive di assistenzialismo le battaglie per il lavoro e per una società meno povera”. “Potrebbero rimanere sul tappeto - prosegue la segretaria di Md - i veri problemi: creazione di lavoro vero e non povero; riforma dei centri per l’impiego; piano di investimenti strategico per ridare linfa al lavoro; universalismo dei diritti dei lavoratori”. E bocciata la “contro-riforma” dell’Ordinamento penitenziario fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Sono venute meno - afferma Guglielmi - le norme che favorivano l’accesso alle misure di comunità” e “un passo indietro è stato fatto rispetto a tutte le disposizioni della riforma che ridimensionavano gli automatismi preclusivi, consentendo alla magistratura di sorveglianza di tornare a valutare caso per caso i progressi effettivi di ogni detenuto. Guglielmi ha poi anche ricordato il caso Battisti e la “messa in scena organizzata dalla propaganda di Stato per “celebrare” la sua cattura”. “Al congresso di Md se ne sentono di tutti i colori. Forse avrebbero dovuto consentire al pubblico di entrare a pagamento. Varrebbe la pena in effetti di acquistare un biglietto per vedere un film così vecchio e raro. Sortite contro presunte ondate razziste e xenofobe, strepiti contro le norme sulla legittima difesa, denuncia di strappi alla Costituzione da parte di esponenti delle istituzioni, contestazioni di ogni tipo e genere. Sembra veramente un film del passato, che racconta un’Italia incredibile”, il commento del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. A cui fa eco il collega leghista Simone Pillon: “Spiace prendere atto dell’invasione di campo da parte di Md”. Chi si attendeva un discorso prettamente politico non è, dunque, rimasto deluso. Un discorso certamente identitario che rischia però creare una frattura all’interno di Area, il cartello della magistratura progressista di cui Md fa parte. Sul punto è intervento con una mozione l’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte: “Md non faccia passi indietro né abbia ripensamenti sul progetto di Area. Nessuno vuole sciogliere Md, non è un’opzione in campo, ma vogliamo che non si sfili da Area: in molte occasioni abbiamo assistito a una duplicazione di comunicazione, con, ad esempio sul caso Diciotti, una nota di Area e una di Md. Questo non è un arricchimento, ma crea solo confusione”. Il fuoco pirotecnico di Davigo. Per lui spesso gli assolti l’hanno solo fatta franca di Federico Punzi Italia Oggi, 2 marzo 2019 Nei talk show tv e sui giornali è contro anche la presunzione di innocenza degli imputati. Abbiamo un membro togato del Csm che tra apparizioni in tv e interviste alla stampa sta picconando ciò che resta del nostro già sfilacciato stato di diritto, sdoganando e promuovendo dalla sua postazione, dall’interno dell’organo di autogoverno della magistratura, dal cuore dunque delle nostre istituzioni, una visione della giustizia in netto contrasto con la civiltà giuridica liberale e con i principi costituzionali, che la sua carica gli imporrebbe di tutelare. Ospite quasi fisso della trasmissione Di Martedì, su La7, nella puntata della scorsa settimana Piercamillo Davigo ha definito la separazione delle carriere dei magistrati una “stravaganza”, perché si basa sull’idea “profondamente sbagliata che le parti nel processo siano uguali”, mentre a suo avviso “non possono essere uguali”. “Se il pubblico ministero va in udienza sapendo che l’imputato è innocente e ne chiede la condanna, commette il delitto di calunnia”. Al contrario, “se il difensore colto da crisi di coscienza dice al giudice “mica penserà di assolverlo, è colpevole”, commette infedele patrocinio e rivelazione del segreto professionale”. Dunque, ha sostenuto Davigo, che parità può esserci nel processo tra accusa e difesa, tra “una parte che viene punita se mente e l’altra che viene punita se dice la verità”… Con la sua provocazione Davigo fraintende volutamente il concetto di parità tra le parti: ovvio che non essendo uguali le funzioni di accusa e difesa nel processo, diverse siano le sanzioni nei casi di comportamenti dolosi (che tra l’altro molto raramente vengono contestati ai pm). La parità è davanti al giudice e a tutela dell’imputato, presunto innocente fino a sentenza definitiva, ma non per esempio nell’onere della prova, che spetta (o dovrebbe spettare) all’accusa. Il sotto-testo, la pericolosa idea che si insinua evocando il paradosso di una parte costretta per legge a dire il vero, e l’altra a sostenere il falso, è che l’accusa sia inevitabilmente depositaria della verità, mentre la difesa sia naturalmente portata a mentire, essendo l’imputato un presunto colpevole. Tutto il contrario del principio del giusto processo. Tesi che Davigo ha ribadito in un’intervista di sabato scorso al quotidiano La Stampa: “L’unica parte buona del processo è il pubblico ministero, per definizione legislativa. Le parti private fanno i propri interessi”. E ancora dalla stessa intervista, lascia attoniti la sua risposta sul perché di tanti risarcimenti per ingiusta detenzione: “In buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca. Di norma le prove raccolte nelle indagini non valgono in dibattimento. Ciò allontana il giudice dalla verità. Per non dire dell’appello, dove buona parte delle assoluzioni dipende dalla difficoltà di conoscere a fondo il processo”. Qui abbiamo, in rapida successione: presunzione di colpevolezza persino degli imputati assolti o scagionati; attacco al principio secondo cui la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio tra le parti, mentre nelle indagini preliminari il pm raccoglie “elementi di prova”; e delegittimazione del secondo grado di giudizio (i giudici di appello sarebbero indotti ad assolvere in pratica per ignoranza, non si capisce se imputabile a loro o a cosa). Davigo fa parte della commissione del Csm che decide su nomine e incarichi dei magistrati. “La più ambita”, osserva il giornalista. “La più sgradevole”, si schernisce Davigo. E la sua stessa spiegazione assesta un colpo micidiale alla reputazione del Consiglio superiore della magistratura. “Chi vince non ti è grato perché convinto di meritarlo, gli altri ti ritengono responsabile della loro mancata nomina”. Quella che Davigo fa emergere non è un’immagine esattamente edificante dell’organo di cui è membro. Il senso implicito di quella frase, infatti, è che viene nominato chi non lo meriterebbe e, dunque, per questo chi lo nomina si aspetta almeno della gratitudine. Se ormai, a un quarto di secolo da Mani Pulite, politica e informazione sembrano assuefatti alla cultura giustizialista, quando non suoi complici se occorre colpire l’avversario di turno, c’è ancora qualcuno a cui tutto questo fa venire i brividi. È giunto forse il momento che chi presiede il Csm, il presidente della Repubblica, ricordi ai suoi componenti l’abc della nostra civiltà giuridica. Ne va della credibilità e onorabilità della stessa magistratura e dell’istituzione che la governa. Legge spazza-corrotti, è scontro: stop dai giudici di Napoli di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 2 marzo 2019 Li stanno arrestando uno alla volta, giorno dopo giorno. Colletti bianchi, persone condannate in via definitiva, convinte di poter saldare il conto con lo Stato lontano dal carcere, comunque con pene alternative, che vengono tradotte in cella. Effetto della spazza-corrotti (che ha equiparato i reati di pubblica amministrazione ai reati di mafia), che qui a Napoli ha fatto registrare immancabili colpi di scena. Due le novità: ieri pomeriggio un collegio di giudici (la settima sezione del Tribunale di Napoli) ha bocciato la spazza-corrotti, accogliendo il lavoro di due penalisti partenopei (gli avvocati Simona Lai e Gennaro Pecoraro), rimettendo in libertà una donna condannata per tentata corruzione a due anni e tre mesi e revocando così l’ordine di arresto dei primi di febbraio: per lei il carcere di Pozzuoli si era aperto lo scorso 12 febbraio, ma ieri pomeriggio i giudici hanno accolto l’istanza difensiva, fondata anche sulla incostituzionalità della nuova legge. Stesso ragionamento della Camera penale di Napoli, che bolla come palesemente incostituzionale la spazza-corrotti. Ma andiamo con ordine, a partire dal clima che si respira in questi giorni in piazza Cenni, di fronte all’avvento dell’ormai famigerato articolo 4 bis della legge 354/75 (legge tre del 2019), una norma sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure detentive. Grande lavoro ai piani alti del Palazzo di giustizia, la macchina messa in moto dalla Procura generale è a pieno regime. Sono decine gli ordini di esecuzione di arresti a carico dei cosiddetti colletti bianchi. Professionisti, funzionari pubblici, magari semplici impiegati e uscieri, poi lobbisti, magistrati, avvocati, esponenti delle forze di polizia che sono stati dichiarati colpevoli per storie di tangenti sono destinati a finire in cella. Lo dice la spazza-corrotti, che agisce in modo retroattivo e che non prevede norme transitorie. In sintesi, chi in questi anni ha patteggiato una condanna anche per pochi mesi è destinato a finire in carcere. Stessa sorte per chi ha chiuso i conti con un rito abbreviato con una condanna sotto i tre anni, potendo contare su misure alternative. Un punto ritenuto incostituzionale dagli addetti ai lavori, come emerge dall’intervento della camera penale di Napoli, guidata dal presidente Ermanno Carnevale. Scrive il direttivo di piazza Cenni: “La Camera Penale esprime forte preoccupazione per l’aggravarsi dell’emergenza carceraria che rischia di tornare ai livelli di insostenibilità degli anni passati anche per l’effetto della entrata in vigore della legge cosiddetta spazza-corrotti. Ciò comporta che, fatte salve le ipotesi residuali connesse alla cosiddetta collaborazione, tutti i condannati definitivi per reati contro la pubblica amministrazione non possono più usufruire dei benefici penitenziari previsti dalla normativa e vedono schiudersi esclusivamente le porte del carcere per scontare la pena. L’inclusione dei reati contro la pubblica amministrazione tra quelli cosiddetti ostativi alla concessione dei benefici penitenziari presenta evidenti profili di incostituzionalità. Tra i tanti, segnaliamo che l’applicazione per fatti commessi prima della entrata in vigore della legge appare in netto contrasto con il principio della irretroattività della legge penale; inoltre, in violazione del principio di eguaglianza, sono equiparate in maniera automatica situazioni tra loro ben diverse; ancora, segnaliamo l’irragionevolezza della presunzione assoluta di pericolosità sociale (recuperando modelli propri dei fenomeni di criminalità organizzata) per questo catalogo di reati”. Aria di mobilitazione, dunque, da Napoli la rivolta contro la spazza-corrotti, anche alla luce del provvedimento adottato ieri dai giudici della settima sezione penale, è solo all’inizio. L’udienza preliminare può diventare lo scudo contro la “pena del processo” di Francesco Antonio Maisano Il Dubbio, 2 marzo 2019 La denuncia del Consigliere del Csm Giuseppe Cascini contro l’eccesso dei rinvii a giudizio è giusta. bisogna trovare delle soluzioni, ripartendo dalla presunzione di innocenza. All’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, trent’anni orsono, molti di noi avevano salutato l’istituto dell’Udienza Preliminare quale “filtro” verso le imputazioni non degne di aprire la porta d’accesso al processo comunemente inteso, al dibattimento. Consci che la nostra “cultura popolare” ha sempre visto - e ancor di più vede oggi, seppure impropriamente- nell’imputato non già un presunto innocente ma un “sospettato da verificare in giudizio” pensavamo che l’intervento di un giudice preliminare potesse costituire un presidio di giurisdizione a fronte di un pubblico ministero che tira le somme, in contraddittorio, del risultato della sua indagine. Purtroppo e progressivamente nel tempo le nostre illusioni sono state spazzate via da interventi abborracciati del legislatore e interpretazioni della giurisprudenza di legittimità che hanno, via via, ridimensionato se non del tutto annullato questa speranza. Partiamo da un concetto difficilmente discutibile: oggi arrivano a processo molte vicende che si concludono con l’assoluzione dell’imputato. Le percentuali di “fallimento” dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero con la richiesta di rinvio a giudizio testimoniano in modo incontrovertibile che così è. Se aggiungiamo che il processo penale è già una pena per l’innocente - la peggiore delle pene perché non giustificata da “colpa” alcuna - diventa evidente che occorre agire sui meccanismi che consentono l’accesso alla fase del dibattimento. Il giudice dell’udienza preliminare è oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, un mero passacarte. Prende atto della richiesta di rinvio a giudizio e spinge automaticamente i dadi della ventura sulla casella successiva del monopoli giudiziario: l’aula del tribunale. Alcuni si interrogano se, stando così le cose, non sia più sensato eliminare del tutto l’udienza preliminare rendendo, di fatto, il dibattimento il “luogo di sfogo” del teorema accusatorio quale che ne sia la consistenza probatoria. Personalmente continuo ad essere contrario, fortemente contrario, a questo automatismo. Proprio perché il processo è pena anticipata (e pena “senza colpa” per l’innocente a giudizio, per i suoi famigliari, per i suoi affetti) non vedo perché rassegnarsi ad un’inevitabilità che possiamo, invece, ricondurre a ragione. Di recente ho avuto modo di apprezzare quanto il Consigliere Cascini, membro dell’attuale consiliatura del Csm, ha ipotizzato: il giudice dell’udienza preliminare deve essere “sganciato” dal polo delle indagini preliminari (dove staziona strutturalmente in contiguità con il pubblico ministero) per essere attratto al “domicilio del giudizio”. Un giudice dell’udienza preliminare che abbia l’esperienza (e l’autonomia) del giudice dibattimentale e che sbarri la strada al processo ingiustificato o non del tutto giustificato. Ovvio che tale passaggio necessiti di ritocchi significativi al codice di procedura penale ma è una percorso che, a mio parere, dobbiamo intraprendere. L’ipotesi concorrente (eppure sostenuta da alcuni) di una eliminazione tout-court dell’udienza preliminare o di un suo ridimensionamento a sede di verifica delle sole formalità ed eccezioni, segnerebbe il passaggio a un sistema dove il dibattimento è giustificato sempre e comunque e con esso la pena di “passarci attraverso” con la conseguenza che l’innocente ha già scontato la sua pena ingiusta lungo tutto il lungo, doloroso, cammino. Campania: il Garante Ciambriello “il carcere non deve essere vendetta dello Stato” agvilvelino.it, 2 marzo 2019 Convegno su misure alternative al carcere, presenti alla iniziativa 16 detenuti. Si è tenuto ieri presso il palazzo del Consiglio Regionale della Campania il Convegno “Magistratura di Sorveglianza: l’alternativa al carcere è possibile” organizzato dal Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale prof. Samuele Ciambriello. L’iniziativa, presieduta e moderata dallo stesso Ciambriello, si è svolta all’interno di una sala gremita ed ha visto gli interventi, suddivisi in due diverse sessioni, di Giuseppe Martone, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Maria Bove, Direttore dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Campania, Adriana Pangia, Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Monica Amirante, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, Carlo Longobardo, Docente di Diritto Penale presso l’Unina, Anastasia Costanzo, avvocato penalista dello staff del Garante, Rosario Petrone, responsabile campano dei cappellani penitenziari, Anna Ziccardi, Presidente dell’associazione “carcere possibile”, Ermanno Carnevale, della Camera penale di Napoli, Luigi Romano, Presidente di “Antigone Campania”, e Milena Capasso, Magistrato di Sorveglianza di Caserta. Durante la manifestazione si è analizzato il ruolo della Magistratura di Sorveglianza, oltre che le questioni relative ai diritti dei detenuti durante l’esecuzione della pena, fino ad arrivare alla concessione ed alla gestione delle pene alternative alla detenzione. “Sono 7.787 i detenuti in Campania, di cui 4.575 definitivi e 203 in regime di semilibertà. Di questi 387 sono donne e 1008 stranieri - ha esordito durante il dibattito Ciambriello snocciolando i dati in suo possesso - 4035 sono gli agenti di polizia penitenziaria in Campania (a fronte di 4071 previsti); 630 di questi a vario titolo non vanno a lavoro, mentre gli agenti che mancano a Poggioreale sono 200. Qui c’è una differenza sostanziale tra il numero di detenuti presenti. Il primo scandalo si verifica tra chi deve assistere ed il numero di detenuti presenti a Poggioreale che dovrebbero essere 1771 ma che invece sono già oltre le 2.000 unità. Per non parlare dei minori che in Campania sono 920 (858 uomini e 62 donne) di cui 135 in comunità”. “L’Italia - ha continuato il professore - è l’unico paese in cui le pene sono state ridotte ad un’unica e sola pena, il carcere. Se commetti un reato nel nostro paese devi essere consapevole che avrai come pena il carcere, a differenza di altri paesi nei quali esistono misure alternative. Dal 1992 sono 16mila le persone che sono state dichiarate innocenti e sono state in carcere, un esercito di innocenti”. “Siamo qui per parlare del carcere nel tempo della crisi, della risocializzazione, di misure alternative al carcere, per porci degli interrogativi, enfatizzare le buone prassi, mettere in campo qualche progetto in merito. Non è possibile stare zitti, se parlare fosse anche solo consolatorio”. “Occorre valorizzare le buone ragioni del sistema costituzionale della pena flessibile. Il modello della rieducazione - risocializzazione si realizza attraverso la via privilegiata delle misure alternative al carcere. Vorrei - ha concluso Ciambriello - essere un po’ io il cavaliere dell’utopia concreta come lo è stato il magistrato Alessandro Margara che ha saputo coniugare la giustizia con il senso di umanità, rileggendo la Costituzione e promuovendo l’esistenza dello Stato sociale e della città solidale opposta alla città ostile”. Presenti 16 detenuti in permesso solo per oggi. Sette sono intervenuti ed hanno dialogato con i giudici presenti. Per il Presidente del Tribunale di sorveglianza Adriana Pangia: “Un dibattito interessante a cui ho partecipato con enorme piacere e che è servito ad approfondire vari aspetti problematici rispetto alla gestione delle carceri ed inerenti alle misure alternative, mettendo a confronto persone con esperienze e professionalità diverse. Bisogna cercare di implementare gli interventi delle strutture pubbliche atti a favorire il reinserimento dei detenuti anche attraverso attività di volontariato, di lavori socialmente utili e di facilitare l’attuazione di corsi professionali atti a dare una prospettiva di vita diversa”. “Fondamentale - ha aggiunto in conclusione il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Salerno Monica Amirante - è parlare e, come diceva Calamandrei, bisogna guardare il carcere ed entrarci dentro ed ogni occasione come questa è utile. Io nella mia esperienza decennale di Magistrato di sorveglianza trovo fondamentale che le persone recluse non percepiscano il blindato, la carcerazione, come una chiusura totale del mondo verso loro stessi. Motivo a cui ascrivo la maggior parte del malessere e degli episodi di violenza tra detenuti che avvengono in carcere. Il dialogo anche con gli operatori penitenziari che, bisogna dirlo, fanno una vita complicata e svolgono un ruolo difficile, porterebbe benefici a tutti. Ovviamente per dialogo non intendo concessioni o che gli operatori penitenziari debbano abdicare al proprio ruolo”. Veneto: il Sottosegretario Morrone visita le carceri di Rovigo e Padova agvilvelino.it, 2 marzo 2019 “Ho avuto modo di conoscere due strutture carcerarie certamente con qualche problema, in particolare di organico, a cui, tuttavia, sopperiscono la preziosa disponibilità e il grande spirito di servizio degli agenti della Polizia penitenziaria che consentono la messa in atto delle tante iniziative che si realizzano negli Istituti”. E’ il commento del sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, dopo aver visitato, insieme al sottosegretario all’Interno Nicola Molteni e al presidente della commissione Giustizia al Senato Andrea Ostellari, tra giovedì 28 febbraio e venerdì 1 marzo, la Casa circondariale di Rovigo e la Casa di reclusione di Padova. Nel nuovo complesso rodigino, dove sono ristretti circa 170 detenuti, a fronte di 94 unità di personale, Morrone è stato accolto dal provveditore Enrico Sbriglia, dal direttore Paolo Malato e dal comandante commissario capo Sandra Milani. All’interno dell’Istituto è stata realizzata una nuova struttura sanitaria funzionale (Servizio multi professionale integrato di assistenza intensiva-S.A.I.), unica nel nord est, per la cura e la riabilitazione dei detenuti con problemi motori, che consentirà importanti risparmi di spesa per le loro cure riabilitative e fisioterapiche, con minori rischi per la sicurezza. La struttura esiste grazie al contributo dell’amministrazione penitenziaria che ha riqualificato gli ambienti detentivi nel rispetto degli standard sanitari, ma anche grazie alla sensibilità del Sistema sanitario regionale del Veneto, che ha provveduto alle dotazioni sanitarie. Oggi è stata la volta della Casa di reclusione di Padova, dove il sottosegretario è stato accolto dallo stesso provveditore Sbriglia, dal direttore Carlo Mazzeo e dal comandante Carlo Torres, presente anche il procuratore aggiunto Valeria Sanzari. L’Istituto, entrato in funzione nel 1991, è’ una delle strutture penitenziarie più grandi del Triveneto. Sono a oggi presenti 589 detenuti, di cui 276 stranieri, mentre il personale raggiunge le 332 unità, oltre a 20 operatori del comparto funzioni centrali. ‘Istituto ha diverse dotazioni, dal campo sportivo a quello da tennis, oltre ad un’area verde attrezzata per colloqui all’aperto. Ci sono, poi, una palestra, l’auditorium, un presidio medico H24 e ambulatori per diagnostiche specifiche. Molte le attività lavorative che si svolgono al suo interno, particolarmente apprezzate da Morrone, gestite da ditte/cooperative esterne, ma ci sono anche spazi per attività di falegnameria, hobbistica e cucito. Sono previste attività sportive e culturali (squadra di calcio con 27 detenuti coinvolti) e diversi corsi per la formazione scolastica. Milano: due anni con “Gli Invisibili”, i 95 disabili detenuti in carcere di Francesco Floris Redattore Sociale, 2 marzo 2019 Sono 95 le persone detenute a Milano con un’invalidità certificata. Ecco il primo dato de “Gli invisibili: la disabilità fra carcere e territorio”. Si tratta di un progetto di inclusione socio-sanitaria e lavorativa realizzato dal Consorzio Sir, con il coordinamento di Simona Silvestro e Claudia Turconi, per intervenire a favore di persone con disabilità sottoposte all’autorità giudiziaria. Nato due anni fa grazie a risorse del Programma Operativo Regionale e del Fondo Sociale Europeo, “Gli Invisibili” si proponeva una serie di obiettivi: realizzare tirocini lavorativi part time di tre mesi presso le cooperative sociali del Consorzio, soprattutto nel settore manutenzione del verde e pulizie; laboratori di agricoltura sociale e artigianato artistico dentro al centro clinico del carcere di Opera destinati ai detenuti disabili; percorsi di accoglienza temporanea in appartamenti protetti, con personale specializzato nell’assistenza a persone con disabilità; e infine il reinserimento nella rete dei Servizi territoriali, come i centri diurni, per la presa in carico totale partendo da una serie di incontri e colloqui individuali con la Disability Manager del progetto, Luisa Vanelli. C’era anche lei, a due anni dalla partenza di “Gli Invisibili”, per tracciare un bilancio: alla Camera del Lavoro di Milano ne hanno parlato 20 fra relatori e operatori provenienti dal mondo delle sei cooperative sociali che hanno aderito, dall’amministrazione pubblica, sanitaria e penitenziaria milanesi, oltre agli stessi detenuti beneficiari del progetto. Le 95 segnalazioni arrivate in due anni di lavoro hanno riguardato sia disabilità fisiche (52 per cento), che psichiche (27 per cento) e miste (21 per cento). È un primo dato che colpisce: non esiste infatti un monitoraggio sistematico del fenomeno delle persone con disabilità in carcere e l’ultima rilevazione del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) nel 2016 individuava 628 casi, sparsi sull’intero territorio nazionale. Un mondo di persone, probabilmente sottostimato, scivolate nell’oblio dell’invisibilità - come recita il titolo del progetto - a causa di uno stato di salute fatto di incompatibilità con la carcerazione, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, carenza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri. Quando hanno i requisiti per accedere alle misure alternative al carcere non sempre possono uscire, perché all’esterno non ci sono strutture in grado di fornire loro la necessaria assistenza e perché le vulnerabilità e le fragilità psichiche o fisiche spesso gli impediscono di accedere autonomamente alle opportunità sul territorio. A Milano le 95 segnalazioni sono arrivate da tutti e tre gli istituti penitenziari per adulti, oltre che dal territorio dell’area metropolitana dove ci sono detenuti che scontano la pena in misura alternativa: il 44 per cento dal carcere di Opera, il 17 per cento dalla Casa di reclusione di Bollate, 9 per cento dalla Casa circondariale di San Vittore, il 25 per cento dall’Ufficio di esecuzione penale esterna, con il restante 5 per cento segnalato invece dagli enti locali coinvolti - i comuni di Milano e Cesano Boscone. Di queste 95 persone, 57 sono state assistite con un percorso di presa in carico, 23 per una consulenza breve mentre le restanti 15 non sono state accolte per mancanza di requisiti. Tra gli esiti più positivi ci sono le storie di chi è stato assunto con contratti stabili, dopo il periodo di tirocinio osservativo e orientativo, grazie all’agenzia del lavoro del Consorzio Sir e ad altri enti del terzo settore. Altre persone, dopo il periodo di accoglienza presso gli appartamenti del progetto, sono stati accolti in modo regolare nei circuiti ordinari della disabilità, con le rette sostenute dai comuni di Milano e Brescia. Qualcuno è riuscito a raggiungere un livello di autonomia sufficiente per poter sostenere in proprio un alloggio con canone calmierato. Bolzano: convegno della Caritas per i vent’anni del servizio Odós agensir.it, 2 marzo 2019 “Una pena cattiva, ‘buttare via le chiavi’, restituisce alla società individui con una capacità di delinquenza aumentata. Le persone però non sono i reati commessi, dobbiamo ricordarcelo. Solo attraverso percorsi reali di reinserimento lavorativo e sociale possiamo contribuire, insieme, alla creazione di una società più umana e sicura”. Lo ricorda Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio Odós della Caritas di Bolzano-Bressanone che quest’oggi festeggia i vent’anni di attività. Per l’occasione è stato organizzato il convegno dal titolo “Liberare la pena”. In venti anni sono state oltre 400 le persone ospitate nella struttura della Caritas e più di 2.000 gli interventi tra consulenze, colloqui e visite in carcere. Era il primo marzo del 1999 quando partì in via sperimentale, in un appartamento di viale Druso a Bolzano, il progetto Odós della Caritas. La struttura si trova ora in viale Venezia, ha 15 posti letto e accoglie dalle 20 alle 30 persone all’anno. Il nome “Odós” sta a significare “sentiero” e vuole indicare il viaggio verso e attraverso un cambiamento, non solo dell’uomo detenuto ma anche della società stessa. “Ogni detenuto che resta fino all’ultimo giorno in carcere è una sconfitta per la società - spiega Pedrotti -. Con il convegno di oggi abbiamo voluto celebrare sì i 20 anni del nostro servizio ma anche interrogarci per quale tipo di giustizia vogliamo lavorare nel futuro assieme alle istituzioni”. Tra le varie testimonianze portate nel corso della giornata, una delle più toccanti è stata quella di Manlio Milani, marito di una delle vittime della strage di piazza della Loggia e fondatore della Casa della memoria, centro di documentazione sulla strage bresciana e la violenza terroristica. “Restare chiusi nella dimensione di vittime significa portare dentro di sé quella rancorosità che non permette di vivere e capire il perché degli accadimenti” ha detto Milani che, nell’ottica di un percorso di giustizia riparativa, ha partecipato e promosso con altri familiari di vittime del terrorismo un gruppo di dialogo con ex appartenenti alla lotta armata. “Bisogna saper alzare lo sguardo anche sul colpevole - ha sottolineato -, che è una parte della storia del reato ma non è nella sua interezza il reato”. Odòs, 20 anni a fianco dei detenuti, di Giuseppe Bucca (rainews.it) Il servizio della Caritas di Bolzano è stato fondato nel 1999 per favorire il reinserimento sociale di ex carcerati. Da allora ha accolto nella sua struttura, ora in Viale Venezia, 400 persone. La sfida di Odòs, servizio della Caritas di Bolzano per i detenuti, gli ex carcerati e i loro familiari, è testimoniare che un altro modello di giustizia è possibile. Dalla sua fondazione, Odòs ha dato accoglienza a oltre 400 persone e fornito più di 2 mila consulenze in carcere, con l’obiettivo di sostenere il reinserimento sociale e lavorativo di chi è stato privato della libertà. Per festeggiare i 20 anni, l’associazione ha organizzato un convegno dal titolo “Liberare la pena” che si è svolto venerdì 1 marzo nella sala di rappresentanza del Comune di Bolzano. Tra i relatori, pedagogisti e operatori sociali, il procuratore capo di Bolzano, Giancarlo Bramante, e la direttrice del carcere del capoluogo altoatesino, Anna Rita Nuzzaci. Spazio anche alla testimonianza di Manlio Milani, marito di una delle vittime della strage di Piazza della Loggia, nel ‘74 a Brescia, che ha riferito sul lungo percorso di dialogo avuto con alcuni ex terroristi per ricomporre la ferita lasciata aperta dagli anni di piombo e dello stragismo. “Il 70 per cento di chi sconta tutta la pena in carcere - spiega il responsabile del servizio, Alessandro Pedrotti, torna a commettere reati. Un tasso che cala al 20 tra chi usufruisce di misure alternative. Solo attraverso percorsi reali di reinserimento lavorativo e sociale possiamo contribuire, insieme, alla creazione di una società più umana e sicura”. Viterbo: un agente penitenziario in tv “se ci scappa lo schiaffo, ben venga” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2019 “Popolo sovrano” di Rai Due ha ripercorso le storie dei suicidi e dei pestaggi. La trasmissione si apre con la storia dell’impiccagione di Andrea Di Nino, una vicenda oscura che, come raccontato su Il Dubbio, è sotto la lente di ingrandimento della magistratura. I vicini di cella avrebbero chiesto agli agenti di intervenire dopo che il detenuto, in stato di forte agitazione, aveva urlato che si sarebbe suicidato, ma gli agenti avrebbero sottovalutato il problema e sarebbero ritornati dopo due ore, quando oramai il ragazzo era morto con il cappio ricavato dal lenzuolo. Un ragazzo che non sarebbe dovuto stare nemmeno in isolamento, visto i suoi problemi di incompatibilità. L’altro caso riguarda Giuseppe De Felice, il 31 enne ristretto nel carcere di Viterbo, il quale sarebbe stato picchiato selvaggiamente dagli agenti penitenziari. La vicenda se ne occupata nell’immediato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Popolo Sovrano ha intervistato la moglie, che ha denunciato l’accaduto come già riportato in esclusiva su Il Dubbio. Il ragazzo non ha potuto riconoscere i suoi presunti aguzzini, perché l’avrebbero picchiato da dietro. Durante il servizio sono state sentite le testimonianze di alcuni ex detenuti che avrebbero subito pestaggi nel carcere viterbese. “Un inferno in terra - dice l’uomo a volto coperto, perché lì i detenuti vengono trattati in modo abominevole fisicamente e psicologicamente”. Poi segue la storia di Hassan Sharaf, un egiziano di 21 anni che avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, ma è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Come già riportato su Il Dubbio, il ragazzo, durante la visita di una delegazione del Garante regionale dei detenuti, mostrò all’avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasia - come ha ribadito nell’intervista tv - ha presentato un esposto sulla vicenda di Hassan, che aveva riferito al garante di avere “molta paura di morire”. Purtroppo, come denunciò Antigone, il ragazzo nemmeno sarebbe dovuto stare nel carcere ordinario, ma in quello minorile. A Popolo Sovrano è intervenuto anche Alessandro Capriccioli, il capogruppo di + Europa Radicali al consiglio regionale del Lazio. Come sappiamo, dopo aver appreso della denuncia da parte della moglie di De Felice riportata da Il Dubbio, è giunto a far visita al ragazzo per verificare le sue condizioni. In trasmissione ha ricordato come molto spesso ha raccolto varie testimonianze dai detenuti rinchiusi nel carcere di Viterbo dove si evince come questo istituto sembrerebbe “punitivo”, anziché riabilitativo come prevede la Costituzione. La trasmissione si conclude con l’intervista di un poliziotto sindacalista in servizio a Viterbo. La giornalista gli chiede qual è il limite tra il consentito e l’abuso. L’agente risponde: “Il limite non lo stabilisce nessuno. Se ci scappa lo schiaffo di correzione, ben venga”. Alla domanda che cosa intende per schiaffo, risponde: “Per fargli capire che cos’è la vita, perché magari sono quegli schiaffi che non hanno preso dai genitori”. Il Sappe, dopo queste dichiarazioni, ha preso subito le distanze. “Rappresentiamo il Corpo di polizia Penitenziaria - sottolinea il sindacato -, un corpo sano, ligio al proprio fine istituzionale e rispettoso della legalità. Chiunque dichiari o parli di pratiche non consentite o addirittura illecite non è in linea con il nostro mandato e tantomeno può essere da noi rappresentato. Ci dissociamo in maniera netta, chiara e decisa da quanto dichiarato a mezzo stampa dal rappresentante sindacale di Viterbo durante l’intervista andata in onda nel programma di Rai 2 Popolo Sovrano di giovedì 28 febbraio. Un rappresentante della Polizia Penitenziaria non può ammettere l’uso di mezzi o modalità non previste dall’ordinamento penitenziario o dalla legge in generale. Anzi - dichiara il Sappe - deve denunciare, se a conoscenza, tali procedure alle autorità di riferimento in primis all’autorità dirigente dell’istituto. Non si può pensare - conclude- che chi dovrebbe tutelare il personale con il solo modo a disposizione, la legge, sia consapevolmente coinvolto in pratiche illegali”. Venezia: “Nessuno tocchi il carcere della Giudecca” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2019 Comunicato dell’Osservatorio carceri dell’Unione della Camere Penali. Dopo la morte dell’agente Sissy Trovato circola una bozza che prevedrebbe un giro di vite sul trattamento penitenziario delle detenute. “Nessuno tocchi la Giudecca!”, scrivono in un comunicato l’osservatorio carceri dell’Unione della camere penali in merito alla presunta esistenza di una bozza scaturita dopo l’ ispezione disposta dal Dap, all’interno dell’istituto femminile veneziano della Giudecca, dall’11 al 14 febbraio, per acquisire notizie utili a chiarire il tragico epilogo dell’agente di polizia penitenziaria Maria Teresa Trovato, detta “Sissy”, ferita a morte da un colpo di pistola esploso all’interno dell’ascensore dell’Ospedale Civile di Venezia, l’1 novembre del 2016 e deceduta, dopo oltre due anni di coma, il 12 gennaio di quest’anno. “Abbiamo preparato questo comunicato - spiega a Il Dubbio l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’osservatorio carcere delle Camere penali - dopo che il Gazzettino ha pubblicato la bozza”. L’avvocato delle Camere penali spiega che tale provvedimento sarebbe scaturito da una vicenda singolare. “Un parlamentare di Forza Italia - racconta Catanzariti - fa un’interpellanza urgente sulle indagini sul presunto suicidio della giovane agente penitenziaria Sissy Trovato Mazza”. Una interpellanza che chiedeva però l’opportunità di verificare “se vi siano stati profili di incompatibilità - si legge nell’interpellanza a firma dei parlamentari Francesco Cannizzaro e Roberto Occhiuto - nella conduzione delle indagini da parte della procura di Venezia”. Quindi, nessuna richiesta di agire nei confronti del trattamento penitenziario per le detenute, le quali non hanno nessuna colpa rispetto all’evento tragico che ha colpito la giovane. “Due giorni dopo l’interpellanza - spiega l’avvocato Catanzariti - risponde il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, dicendo che l’ispezione non sarà in procura per verificare la presunta incompatibilità, ma nel carcere”. In effetti si legge nella risposta del sottosegretario che il Dap aveva disposto una ispezione e “l’equipe ispettiva delegata - ha enunciato Ferraresi - ha ricevuto l’incarico di espletare tutti gli accertamenti necessari, diretti, in particolare alla ricostruzione delle relazioni intercorrenti tra l’agente Trovato e il contesto organizzativo e gestionale del penitenziario, nonché di verificare i presupposti e gli esiti dei procedimenti disciplinari cui risultava sottoposta la Trovato ed ogni altra circostanza utile riconducibile all’agente penitenziario in relazione all’ambiente di lavoro”. Quindi, anche dalla risposta, emerge comunque che la visita non sarebbe mirata a colpire le detenute in generale, ma nel ricercare un fatto circoscritto all’ambiente di lavoro. Ma poi è spuntata questa presunta bozza che il Gazzettino ha reso pubblica. Sarebbero quattro i maxi- punti che attraverso “consigli o prescrizioni” per la futura gestione del penitenziario della Giudecca, riassumono l’esito della visita della Commissione ministeriale. Tra i punti salienti, per i commissari, ci sarebbe la cancellazione della “sorveglianza dinamica”, cioè del fatto che le agenti possano camminare in mezzo alle detenute negli spazi di socialità. Il provvedimento prescritto dalla Commissione, si sarebbe spinto a regolamentare anche le differenze tra quante lavorano all’esterno e nelle vicinanze delle mura di cinta del carcere, da chi non esce mai o presta servizio in cucina: chi è impiegata nella lavanderia e nell’orto del carcere - che potrebbe venire in contatto con il mondo esterno - dovrà dormire in un reparto creato ad hoc. Trattamento identico a chi lavora all’esterno del carcere e già dorme nella zona cosiddetta dei semiliberi, secondo quanto previsto dal regolamento carcerario per il lavoro esterno. L’obiettivo? Azzerare il più possibile i contatti tra l’esterno e l’interno della Giudecca. Anche per questo sarebbe stata tolta alle detenute la possibilità di rivolgersi alla cooperativa Granello di Senape per gli acquisti all’esterno. Semaforo rosso, poi, anche per la tintura dei capelli. “Tutto ciò, oltre che paradossale, ci appare inaccettabile!”, scrivono nel comunicato gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro dell’osservatorio carceri delle camere penali. “L’istituto femminile di Venezia - sottolineano i penalisti - si è sempre distinto come esempio paradigmatico sulla via della attuazione di quel finalismo rieducativo della pena evidenziato dall’art. 27 della Carta costituzionale e per questo - concludono - ci sembra del tutto illogico che si possa pensare di sostituire i ponti creati, negli anni, tra la civiltà e la detenzione con dei muri insormontabili come quelli proposti dalla commissione d’inchiesta”. Campobasso: Di Giacomo (Spp) denuncia “detenuti psichici tenuti senza cure” altomolise.net, 2 marzo 2019 “È vergognoso trovare nel carcere di Campobasso un detenuto psichiatrico, costretto all’uso del pannolone e in condizioni di assoluto e costante bisogno di assistenza specialistica, in condizioni igieniche con confortanti, in una cella che non dovrebbe vederlo lì. Purtroppo è solo uno dei tanti reclusi psichiatrici che si trovano nelle carceri italiane dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari con la legge 81/2014 che invece dovrebbero essere ricoverati nelle Rems, le strutture alternative agli istituti di pena”. La denuncia è del segretario generale del S.PP. Aldo Di Giacomo che oggi ha tenuto un sopralluogo nel carcere del capoluogo molisano.” Come se non bastassero i troppi problemi del sistema carcerario si è aggiunta - continua - una vera e propria emergenza psichiatrica da fronteggiare adeguatamente e non certo attraverso il personale penitenziario che non è in grado di fornire la dovuta assistenza. È una questione di dignità per detenuti e personale che impone la rimozione del Capo del Dap come dei dirigenti delle strutture regionali penitenziarie del Ministero di Grazia e Giustizia. Si sottovaluta che per la ben nota carenza di psichiatri e psicologi i poliziotti sono costretti a svolgere mansioni non proprie rispetto ad una realtà, quella della salute mentale dei detenuti, che troppo spesso viene dimenticata da report e statistiche. Eppure il tema è tutt’altro che secondario. “Rispetto a chi è nel sistema penitenziario - si legge nell’ultimo rapporto del Ministero - si calcola che oltre il 50 per cento dei detenuti assume terapie farmacologiche per problemi psichiatrici”. Secondo quanto prevede la legge, in ogni regione devono essere garantiti appositi servizi di assistenza, attraverso l’attivazione di reparti di “Osservazione psichiatrica” per la cura dei detenuti affetti da specifiche patologie e “stabilire la loro compatibilità con il regime carcerario”. Ma questo non accade. Di Giacomo rivolge un appello al Ministro alla Giustizia Alfonso Bonafede affinché ponga fine a questa vergogna; il carcere non può continuare ad essere un immondezzaio dove si butta dentro di tutto. Vi è bisogno di rivedere la vigilanza dinamica con un sistema che consenta di porre al centro la rieducazione dei pochi detenuti che vogliono farlo e non come ora che si dà mandato di delinquere ai criminali che gestiscono i loro traffici illeciti da dentro le carceri o peggio ancora alla criminalità organizzata di scegliere come ricovero da possibili acquati sapendo che dà dentro comunque riescono a gestire senza preoccupazione le loro strutture esterne. Noi - aggiunge - siamo disponibili ad aiutare il ministro Bonafede ad identificare le maggiori e più gravi emergenze in modo da guadagnare tempo per ripristinare le legittime condizioni di detenzione e al tempo stesso di lavoro per il personale penitenziario che non può certamente occuparsi di tutto anche perché le piante organiche a Campobasso come negli altri istituti sono fortemente deficitarie di personale”. Brindisi: carcere, di notte non ci sono gli infermieri di Lucia Pezzuto senzacolonnenews.it, 2 marzo 2019 Un medico per duecento detenuti e nessun infermiere durante la notte, il carcere di Brindisi rischia l’emergenza. Dal primo marzo quattro infermieri in meno nei turni e la notte solo il medico per una struttura che accoglie circa 200 detenuti. Una proporzione che non regge se si pensa che la capienza regolamentare è quella di 114 ospiti, quindi aumentano gli ospiti e i servizi vanno in affanno. I contratti a tempo determinato degli infermieri, che normalmente sono dieci, scadranno giovedì 28 febbraio e ancora nessuno dalla direzione sanitaria della Asl di Brindisi ha fatto sapere se e quando saranno rinnovati. A conti fatti la struttura carceraria resterà con sei infermieri, uno dei quali è già assente per malattia. Cinque infermieri in tutto che dividono i turni escluso quello della notte che resta scoperto. Il rischio che questa situazione diventi un’emergenza è concreto ed è legato al ruolo che svolge il personale sanitario all’interno della struttura carceraria, un ruolo di assistenza che molto spesso può fare la differenza. Lo dice anche il Ministero della Giustizia che nelle ultime disposizioni sul sistema carcerario è stato molto chiaro spiegando ruoli, competenze e finalità. Il Ministero della Giustizia prevede sin dall’ingresso in carcere un’assistenza diretta del detenuto tanto da parte del medico che da parte dell’infermiere di turno. I primi momenti della detenzione, tanto nella fase cautelare quanto in quella della esecuzione della pena, sebbene con caratterizzazioni diverse, sono delicati ed importanti per molteplici scopi: segnalare immediatamente ai detenuti, appena giunti in un ambiente estraneo e difficile, la possibilità di avere operatori con cui instaurare un dialogo; informare correttamente i ristretti sulle regole che scandiscono la vita detentiva; accertare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico, di malattia psichiatrica, di malattia fisica. Questi tre ordini di attività mirano a: prevenire il rischio suicidario, particolarmente presente nei primi periodi di detenzione; conoscere la persona ai fini del successivo programma di trattamento individualizzato; ridurre la conflittualità intersoggettiva che, anche a causa dalla mancata o scarsa conoscenza delle regole della vita penitenziaria, può dar luogo a conseguenze disciplinari e penali, soprattutto nella prima fase della detenzione; prevenire le malattie e garantire la continuità delle terapie eventualmente già in corso al momento dell’ingresso in Istituto. “Pertanto, la riorganizzazione del servizio nuovi giunti- dice il Ministero- risulta oggi avere carattere prioritario proprio allo scopo di ridimensionare tutti i rischi connessi alla fase iniziale della detenzione”. Ovviamente non si tratta solo della fase iniziale della detenzione ma vi sono anche i rischi legati a quella successiva, soprattutto quando si parla di detenzioni a lungo termine. Il sostengo tecnico-clinico per i detenuti, nel caso specifico con comportamenti a rischio di suicidio, è il compito proprio di infermieri, medici e psicologi che operano quotidianamente nei servizi di assistenza e che possono cogliere sintomi e richieste di attenzione e di cura nel corso di visite, colloqui, distribuzione di terapie. Sono loro che possono, in questi casi, dare corso ad un primo sostegno e alla segnalazione del caso. Il taglio al personale infermieristico crea quindi un grande scompenso nella gestione dei servizi. Il rischio che si verifichi un’emergenza sanitaria aumenta la notte, quando aumentano anche le possibilità che una persona possa decidere di fare un gesto inconsulto aumenta. All’interno della struttura detentiva, tra l’altro, non ci sono solo i casi di potenziali suicidi ma anche detenuti con problematiche legate alla tossicodipendenza, all’alcool o patologie croniche. L’assistenza sanitaria oltre che necessaria e dovuta. Ma nel momento in cui un medico si trova solo con uno o più pazienti, che necessitano di assistenza, svolgere il suo compito diventa molto più complicato e si rischia di mettere in pericolo la vita stessa del detenuto. “In caso di emergenza sarebbe difficile per un medico - dicono - prendere da solo un defibrillatore, assistere chi ha bisogno e chiamare il 118”. La direttrice del carcere, Annamaria Dello Preite, conosce bene le problematiche legate alla struttura e in questo momento è al corrente anche delle difficoltà nelle quali si trova il personale infermieristico e quello medico. “La situazione è stata segnalata sia al direttore sanitario che al direttore generale della Asl - spiega la direttrice del carcere di Brindisi, Annamaria Dello Preite - l’ha segnalata il responsabile di aria sanitaria del carcere che ha indirizzato anche a me la comunicazione. Io ho chiesto la convocazione di una cabina di regia perché mensilmente ci sono questi incontri alla Asl. Ho chiesto la convocazione di questa regia per la soluzione di questa criticità. Quindi mi attendo ora che il direttore generale e il direttore sanitario intervengano quanto prima”. Del resto l’assistenza sanitaria è un diritto ed è impensabile che la struttura rimanga scoperta da questo servizio. “Per la casa circondariale di Brindisi è prevista un’assistenza infermieristica h.24- spiega ancora la direttrice- e un’assistenza medica durante il girono e non nel servizio notturno. Per la verità da tempo la Asl mette a disposizione il servizio della guardia medica nelle ore notturne a fronte della difficoltà di spostare il servizio infermieristico durante la notte all’interno della struttura. Fondamentalmente è preferibile che ci sia un medico la notte. Sono certa che così come è intervenuta altre volte la Asl interverrà anche questa volta. Per altro ora c’è un nuovo direttore sanitario e presumo che ora voglia rendersi conto dell’istituto e delle sue esigenze. Tra l’altro è come se fosse una sezione distaccata della struttura sanitaria esterna. Poche volte i vertici della Asl sono venuti a visitare l’infermeria dell’istituto che per altro è di loro esclusiva pertinenza”. A margine di questo vi è un altro problema legato all’assistenza sanitaria: l’ascensore del carcere di Brindisi non è omologato a trasportare le barelle. In pratica la struttura che sorge su due piani non è dotata di un ascensore in grado di accogliere una barelle se il caso lo dovesse richiedere. Tutte la volte che è intervenuto il 118 gli operatori hanno dovuto percorrere a piedi le distanza e salire e scendere le barelle utilizzando le scale. Nonostante questa difficoltà pare che nessuno si sia posto il problema sino ad oggi, anche se il carcere è stato ristrutturato di recente. “Il carcere è stato collaudato, nel momento in cui è stato ristrutturato c’è stato un collaudo e se poi questo ha avuto un esito positivo vuol dire che il problema non è stato sollevato. Ma è evidente che se questa difficoltà esiste va risolta. Tutto quello che si può migliorare va fatto”. Salerno: Bernardini “nel carcere senza supporto psicologico si creano aggressioni” di Erika Noschese Cronache di Salerno, 2 marzo 2019 “La situazione al carcere di Salerno è veramente forte sia per quanto riguarda il sovraffollamento sia perché la struttura è fatiscente”. A lanciare il grido d’allarme ancora una volta è Rita Bernardini, membro coordinatore della Presidenza del Partito Radicale ed ex deputata. Rita dopo la sua visita al carcere di Salerno com’è attualmente la situazione e cosa si potrebbe fare per superare le criticità? “La situazione al carcere di Salerno è veramente forte sia per quanto riguarda il sovraffollamento sia per la struttura che è fatiscente. La cosa che fa soffrire di più i detenuti è quella che hanno poche possibilità per spendersi in positivo e fare qualcosa come studiare o lavorare. Tutto questo nelle carceri c’è solo in minima misura per cui è l’ozio la cifra del carcere. Ad esempio, su 500 detenuti “lavoravano” solo 113 di loro, cioè il 23% ma lo fanno per poche ore al giorno o per pochi mesi perché poi iniziava il turno di un’altra persona. A questo si aggiunge il fatto che in carcere ci sono molte patologie di tipo psichiatrico e molti tossicodipendenti e c’è l’impazzimento. Fare quel tipo di vita è chiaro che determina aggressioni perché non hanno alcun supporto dal punto di vista psicologico e non hanno contatti costanti con i consulenti, cosa che dovrebbe accadere regolarmente”. Il prossimo 17 marzo a Salerno ci sarà un incontro importante proprio sul tema delle carceri… “Sì, è un incontro importante perché sarà incentrato anche sul ruolo della magistratura di sorveglianza. In Italia, la magistratura di sorveglianza che dovrebbe essere garante della legalità e della detenzione, oltre a dover accompagnare i detenuti al reinserimento sociale. Ruolo che, di fatto, non viene svolto come prevede la legge, un po’ perché sommersa dalle istanze dei detenuti e un po’ perché gli organici sono molto ridotti, non solo per la magistratura di sorveglianza ma anche per il personale amministrativo. In questi giorni, avendo letto la relazione del tribunale di sorveglianza di Milano, mi sono resa conto che ogni anno, ciascun magistrato di sorveglianza fa 3.700 pronunce. E’ una mole di lavoro immensa, nel senso che dubito abbia la possibilità materiale di conoscere i detenuti eppure il percorso dovrebbe presumere una conoscenza seria della persona della quale ci si occupa”. Cosa sta accadendo al carcere di Parma? “Al carcere di Parma dove c’è il 41bis e l’alta sicurezza - che noi non possiamo visitare più - c’è tutto il problema dell’alta sicurezza e direi che il problema più serio di Parma riguarda la sanità penitenziaria. Ci sono persone anche di una certa età e non si assicurano quei livelli normali di assistenza che sono dovuti per legge ed è quello che quando ogni mese andiamo lì ci fanno presente”. Cutolo è ormai in fin di vita. I Radicali vorrebbero per lui una fine dignitosa fuori dal carcere…. “Come per tutti. Noi ci siamo occupati persino di Provenzano. Ci occupiamo di tutti perché la fine di una persona soprattutto in quelle condizioni non richiede certo la vendetta. Sono persone che si sono fatti decenni di carcere ed è chiaro che - soprattutto se hanno malattie gravi invalidanti - non possono essere curate e in quel modo la detenzione è un tipo di tortura, cosa da noi vietata anche se si fa così come si fa per chi si trova al 41bis”. Quindi i radicali vorrebbero anche per Cutolo una morte dignitosa… “No, non solo per Cutolo ma per tutti, altrimenti sarebbe più serio legalizzare la tortura. In questo caso, infatti, si fa la tortura in forma ipocrita. Queste misure tipo il 41bis vengono giustificate con il fatto che questo carcere duro è dovuto al fatto che occorre impedire i legami con la criminalità organizzata perché questi che sono stati capi non diano più ordini. Questa è la giustificazione ma oggi ci sono mezzi tecnologici che potrebbero impedire questi collegamenti ma si usa come mezzo altre forme come il colloquio una volta al mese o l’isolamento. E proprio l’isolamento ad essere una vera e propria forma di tortura che non si giustifica, secondo noi, con la finalità che si vuole raggiungere: troncare i legami con la criminalità organizzata”. Ergastolo ostativo, cosa ne pensa? “Abbiamo promosso una proposta di legge per modificare il 41bis sia per abolire l’ergastolo ed in particolare quello ostativo che non da alcuna speranza di poter uscire. Se non ti sei “pentito” e non fai i nomi degli altri continui a rimanere in questa forma di ergastolo”. Taranto: detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità laringhiera.net, 2 marzo 2019 I detenuti della casa circondariale di Taranto saranno impegnati in lavori di pubblica utilità in città. Questa la finalità del protocollo d’intesa che sarà siglato lunedì prossimo, 4 marzo, tra la direttrice del carcere, Stefania Baldassari e l’associazione Retake Taranto. Si tratta di un’iniziativa inedita nel sistema penitenziario italiano che “potrebbe diventare - sottolinea la direttrice - un modello di buone prassi da proporre anche in altre sedi”. Il protocollo d’intesa intende favorire l’impiego volontario dei detenuti del carcere “Carmelo Magli” in attività di decoro urbano al fine di sensibilizzare i cittadini su temi come il sostegno e il reinserimento sociale della popolazione carceraria. Numerose le attività ipotizzate: cura delle aiuole cittadine, ripristino della funzionalità dell’arredo urbano, rimozione scritte vandaliche che imbrattano edifici e monumenti, rimozione dei rifiuti abbandonati ai margini delle strade, pulizia delle spiagge, raccolta plastica. Il protocollo d’intesa sarà sottoscritto lunedì alle 11, nella sala Zaccheo della Casa circondariale di Taranto. E’ prevista la partecipazione della direttrice Stefania Baldassari e di Alessandra Laghezza in rappresentanza dell’associazione Retake Taranto. Torino: “Adotta uno scrittore”, il progetto arriva nelle scuole delle carceri di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 2 marzo 2019 Torna “Adotta uno Scrittore”, progetto del Salone del Libro di Torino che porta 30 autori del panorama letterario contemporaneo nelle scuole piemontesi e, da quest’anno, nelle scuole carcerarie italiane. Tra i trenta scrittori, giornalisti, intellettuali, che hanno già aderito Ezio Mauro, Lidia Ravera, Cristiano Cavina, Mario Calabresi, Andrea Pomella, Marina Mander e Ascanio Celestini. Adotta uno Scrittore coinvolge diversi gradi di istruzione e indirizzi, dai licei agli istituti professionali, e quest’anno si rivolge anche alle scuole carcerarie e ospedaliere. Sarà favorita anche la collaborazione tra gli studenti degli istituti penitenziari e gli esterni, che, quando possibile, condivideranno l’adozione dello scrittore con i colleghi ristretti, recandosi per gli incontri, nelle case di reclusione. Secondo Nicola Lagioia, direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino, “Adotta uno scrittore è una delle iniziative di promozione della lettura in cui negli anni abbiamo investito con più tenacia, certi del fatto che la scuola sia il contesto in cui si formino non solo le nuove generazioni ma anche i futuri cittadini. Negli ultimi anni c’è stata un’apertura a livello nazionale del progetto, quest’anno ancora più strutturata grazie alla collaborazione con il Cesp. Portare le scrittrici e gli scrittori a contatto con gli studenti, portarli nelle scuole - nonché in luoghi di recupero sociale come le carceri - significa assolvere a un importante dovere civico, significa provare a trovare delle risposte sensate alle urgenze del nostro tempo assieme ai ragazzi che sono il futuro del Paese”. Grazie alla collaborazione con il Centro studi scuola pubblica - Rete nazionale delle scuole ristrette, entrano in gioco - oltre all’Istituto Penale Minorile Ferrante Aporti di Torino, alla Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo e alla Casa Circondariale Lorusso Cotugno di Torino - si aggiungono per il Piemonte e l’Umbria la Casa di Reclusione di Asti, la Casa di reclusione di Alessandria San Michele e la Casa di Reclusione di Spoleto che ha deciso di “adottare” Ascanio Celestini. Quest’anno prende parte al progetto Adotta uno scrittore anche la Fondazione con il Sud che arricchisce il programma 2019 sostenendo altre quattro adozioni in altrettante scuole carcerarie: la Casa Circondariale Secondigliano (Napoli), la Casa Circondariale Ettore Scalas di Cagliari, la Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo e l’Istituto Penale Minorile E. Gianturco di Potenza. Il 32° Salone Internazionale del Libro di Torino si svolgerà dal 9 al 13 maggio. Matera: “Humana vergogna”, spettacolo nel teatro del carcere sassilive.it, 2 marzo 2019 Standing ovation da parte del pubblico che ha seguito nel teatro del carcere di Matera la prima performance “Humana vergogna” l’ultima tappa del progetto di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 “La poetica della vergogna”, co-prodotto da Fondazione Matera-Basilicata 2019 e Rete teatro 41, network di quattro compagnie teatrali lucane (Compagnia teatrale Petra, Gommalacca Teatro, IAC e Compagnia teatrale l’Albero). In scena il cast internazionale composto dai performers Mattia Giordano, Antonella Iallorenzi, Mariagrazia Nacci, Simona Spirovska ed Ema Tashiro. L’invenzione e la drammaturgia della performance sono di Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti con la consulenza drammaturgica di Jeton Neziraj e coreografica di Sharon Fridman, le musiche di Renato Rinaldi e la direzione tecnica e delle luci di Angelo Piccinni. “Humana vergogna” è una riflessione sulla parola “vergogna” che comincia da un’analisi intima per essere poi condivisa, attraverso le parole e i corpi, in un atto di antagonismo e simbiosi allo stesso tempo. E’ una performance che nasce all’interno di un ampio progetto di ricerca e creazione, “La poetica della vergogna”, che ha coinvolto i detenuti della Casa Circondariale di Matera, le comunità artistiche, scientifiche e gruppi di cittadini tra Italia, Macedonia, Kosovo e Giappone attraverso laboratori, seminari, incontri e residenze artistiche. Lo spettacolo si sviluppa attraverso una serie di “quadri” di musica, teatro e danza. “Posso piangere”, “Scoreggiare”, La dimostrazione di cosa si è disposti a fare per far aumentare i like sul proprio profilo social, il “Manuale per uccidere i cani randagi”, Cosa si può provare stringendo la mano, guardando gli occhi, abbracciando o baciando uno sconosciuto, “La mia memoria” relativa alle proprie vergogne del passato, “80 kg” che ironizza su chi si vergogna di un corpo “pesante”, il sogno di un mondo libero da pregiudizi. Lo spettacolo coinvolge anche il pubblico, che è stato omaggiato di una corona con la scritta “Happy new shame”, ispirata a quei gadget per festeggiare il Capodanno. Gli spettatori sono invitati a confessare che “non si vergognano di dire che… e dagli spalti arrivano due risposte apprezzabili. “Non mi vergogno di dire che siete stati coraggiosi, non mi vergogno di dire che vorrei che fossero qui con noi i detenuti”. Lo spettacolo si conclude con “La bellezza” e “Nazione”, perché la vergogna può coinvolgere tutti gli aspetti della nostra vita. Il finale è davvero emozionante, con cinque detenuti che salutano gli spettatori attraverso filmati già registrati. I detenuti hanno già avuto modo di apprezzare questo spettacolo nei giorni precedenti e adesso sono loro a diventare i testimonial speciali. Applausi e standing ovation meritati per tutti i protagonisti. “Humana vergogna” è l’ultima fase di un progetto che, con la direzione artistica di Antonella Iallorenzi e il coordinamento di Franco Ungaro, si è arricchito di contributi artistici e umani attraverso le tante azioni svolte nel corso del 2018 insieme ai partner Artopia (Fyrom), Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce (Ama), Qendra Multimedia (Kosovo), Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, Digital Wolf e Compagnia teatrale Petra, con il sostegno di EU Japan Fest e la collaborazione con Zebra Associazione Culturale. Superata la fase di produzione, durante una residenza artistica a Satriano di Lucania a gennaio e febbraio, lo spettacolo sarà replicato fino al 9 marzo prossimo nella casa circondariale ogni sera, con accesso dalle ore 19 per un numero massimo di 60 persone a replica. E’ possibile prenotare sul sito del calendario ufficiale di Matera 2019 www.materaevents.it o presso l’Infopoint di Matera 2019 in via Lucana 125/127 a Matera fino al 10 febbraio indicando nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo email e numero di telefono. E’ indispensabile essere in possesso del Passaporto per Matera 2019, acquistabile attraverso il circuito TicketOne o presso l’Infopoint di Matera 2019, per aver accesso a questo e a tutti gli eventi del programma ufficiale. Torino: progetto Cus-carcere, quattro detenute “libere” di correre di Lucia Caretti La Stampa, 2 marzo 2019 Quattro carcerate in mezzo a ventimila persone. Se fosse un film, sarebbe il momento perfetto per scappare. E invece il direttore delle Vallette Domenico Minervini non vede nessun pericolo, solo una grande occasione. “Abbiamo 1.400 detenuti, 100 escono per lavorare tutti i giorni e nessuno, mai, con la scorta. E’ un patto di responsabilità”. Ci sono 9 donne con questo permesso, su 130. A loro è stato proposto di partecipare domani. “Hanno aderito in quattro: sarà un’esperienza unica, utile per il reinserimento”. Ieri il magistrato di sorveglianza ha approvato la richiesta. “Chi ha i parenti vicini, probabilmente li incontrerà in piazza” spiega Minervini. L’autorizzazione lo prevede. Le podiste raggiungeranno la “Just” in autonomia, saluteranno il presidente del Cus e il loro direttore. Poi potranno correre insieme a tutti gli altri. “Si godranno la bellezza di stare in libertà. Come il lavoro fuori, queste giornate sono il frutto di un percorso che viene fatto all’interno con gli educatori: l’obiettivo è seguire i detenuti in modo che possano evitare di commettere altri reati”. Il progetto nasce dalla collaborazione che il Lorusso e Cutugno ha avviato con i cussini, per consentire ai reclusi di allenarsi con dei professionisti. Negli scorsi mesi i tecnici della polisportiva hanno insegnato pallavolo nella sezione femminile del penitenziario e pesistica in quella maschile. Prosegue il dirigente: “Lo sport è uno degli strumenti che usiamo, insieme a quelli culturali e professionali, per orientare i detenuti a un rientro virtuoso nella società. Tutto serve per migliorare la persona: il teatro, la pittura, il lavoro. Anche questa manifestazione che ha finalità benefica”. Migranti. L’Onu: “L’Italia viola i diritti umani e obblighi internazionali” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 2 marzo 2019 Gli “special rapporteurs” delle Nazioni unite esprimono preoccupazione per i ripetuti episodi di xenofobia e per gli attacchi del governo alle Ong e ai difensori dei diritti degli immigrati. “Riconosciamo il ruolo importante ed esemplare che l’Italia ha giocato salvando i migranti in mare negli ultimi anni e riconosciamo le sfide del paese in assenza di una politica globale dell’Unione europea di solidarietà con gli Stati membri alle frontiere esterne dell’Unione europea. Tuttavia, crediamo che queste circostanze non possono essere usate come una giustificazione per violare i diritti umani dei migranti e mancare di rispetto agli obblighi internazionali”. Per gli Special rapporteurs dell’Onu, dunque, l’Italia viola i diritti umani dei migranti e le norme internazionali. Conclusioni dell’ultima relazione che adesso pone l’Italia sotto la cosiddetta “revisione universale periodica” dell’Alto commissariato per i diritti umani. Una posizione particolarmente imbarazzante alla luce del fatto che da pochi mesi il nostro Paese è entrato a far parte del Consiglio Onu sui diritti umani per i prossimi tre anni. Gli esperti delle Nazioni unite esprimono grande preoccupazione per la situazione italiana sui temi della criminalizzazione dei migranti, sul razzismo dilagante e sugli attacchi che arrivano dal governo ai difensori dei diritti umani, dalla campagna contro le Ong ai giornalisti e agli opinionisti impegnati in questo settore e citano esplicitamente il caso di Roberto Saviano. “Diversi difensori dei diritti umani che difendono i diritti dei migranti - si legge nella relazione - sono stati anche sottoposti ad attacchi verbali e minacce, in particolare sui social media. Roberto Saviano, scrittore e difensore dei diritti umani, che è sotto la protezione della polizia da più di dieci anni per il suo giornalismo investigativo e per aver pubblicamente denunciato la criminalità organizzata in Italia, ha ricevuto minacce verbali da parte del ministro dell’Interno relativo alla possibile perdita della protezione subito dopo aver espresso le sue critiche sulla politica anti-immigrazione del governo”. Gli Special rapporteurs esprimono parere negativo sul “rifiuto di consentire lo sbarco alle navi Ong, come così come le navi appartenenti alla Guardia costiera italiana, nei porti italiani. Inoltre, abbiamo anche ricevuto informazioni riferite alle implicazioni negative del applicazione del nuovo decreto sull’immigrazione e la sicurezza sui diritti di migranti, comprese le vittime o potenziali vittime della tratta di persone”. E sottolineano altrettanto negativamente le parole di Luigi Di Maio che ha etichettato le Ong come “taxi del mare” e quelle di Matteo Salvini che ha descritto gli operatori umanitari come “vice-contrabbandieri. “Questo racconto - aggiungono - è stato amplificato dai media ostili diffondendo rapporti falsi e accusando le Ong di aiutare e favorire i contrabbandieri e i trafficanti”. “Come conseguenza della campagna diffamatoria contro le Ong - si legge ancora nella relazione - le organizzazioni hanno assistito a una drastica riduzione delle donazioni pubbliche e private, che sta presumibilmente influenzando la loro operabilità sia in mare (ricerca e salvataggio operazioni) ea terra (fornendo protezione e assistenza salva-vita a migranti), aumentando le vulnerabilità dei migranti alla tratta e ad altre forme di sfruttamento”. Lo scorso anno l’Italia è stata destinataria di altre cinque comunicazioni su casi relativi a discriminazioni, razzismo e xenofobia ma non ha mai risposto. Davanti a queste nuove contestazioni gli ispettori concludono: “In attesa di una risposta, invitiamo a prendere tutte le misure provvisorie necessarie ad interrompere le presunte violazioni e impedire la loro ripetizione”. Migranti. La non accoglienza costa e l’Onu accusa il governo di Stefano Pasta Avvenire, 2 marzo 2019 Valeria Cattaneo, 35 anni di Brescia, è preoccupata. Tra poche settimane sarà licenziata. Alcuni suoi colleghi sono già a casa. “Ho paura - spiega Valeria - per le spese mensili che faticherò a sostenere, ma c’è anche amarezza nel vedere svilito il lavoro su cui in tanti abbiamo investito”. Dopo una laurea in Lingua, la futura disoccupata ha conseguito un master in didattica, frequentato corsi di aggiornamento e addirittura scritto dei testi sul tema. Da tre anni insegna italiano ai profughi accolti nel Bresciano. Oggi la sua cooperativa è scesa da 180 ospiti in diversi sedi a una quarantina (“Non sono né scomparsi, né rimpatriati”, precisa). A breve è prevista una nuova riduzione, per questo ha perso il posto. La nuova sicurezza in salsa gialloverde, quella prevista dalla legge 132 voluta da Salvini, passa anche da qui: il licenziamento di tanti operatori. Sono 50mila quelli a rischio in tutta Italia, secondo la Funzione Pubblica- Cgil; a questi vanno aggiunti i lavoratori assunti in altro modo, come i 75 lasciati a casa dopo la chiusura del centro di via Corelli a Milano, che erano impiegati con il contratto del commercio. Una forza lavoro a maggioranza femminile e prevalentemente giovane. Spiega Maurizio Bove, responsabile Immigrazione della Cisl: “La nuova legge colpisce migliaia di giovani professionisti: insegnanti, psicologi, mediatori culturali, tutti con lauree e master specifici. Con le loro competenze e la loro passione, queste persone stavano provando ad andare oltre l’approccio emergenziale che finora ha caratterizzato l’accoglienza, ma oggi si trovano all’improvviso espulsi dal mercato: non si tratta di mettere fine alla “mangiatoia”, ma di tagliare fondi ad un nuovo settore che poteva caratterizzarsi come un’eccellenza”. Un altro esempio viene proprio dal secondo impiego di Valeria: oltre all’insegnamento dell’italiano nei centri, ha lavorato a Labour Int, un progetto pilota che vedeva insieme aziende, il Comune di Milano e la Cisl per l’inserimento lavorativo dei profughi. “Di 40 che hanno fatto il tirocinio, 25 sono stati assunti con contratti fino a tre anni”. Ora quel modello non sarà più replicabile, una collega di Valeria, Maddalena Camera, che ha 32 anni, è rimasta a casa. Gli stessi richiedenti asilo, con le nuove norme volute da Salvini, rischiano di rimanere senza permesso di soggiorno, perdendo il contratto che hanno già firmato. Non scompariranno, finiranno nell’irregolarità e quindi nel lavoro nero. Eppure, tagliare le ore di italiano e i progetti di inserimento lavorativo, ridurre il numero di psicologi che aiutano gruppi di adolescenti che hanno visto morire un compagno di viaggio, è coerente con la filosofia della legge “sicurezza”. Basta leggere i bandi che le Prefetture stanno emanando per la gestione dei centri nel 2019: a Milano è stato pubblicato a inizio febbraio, a Monza più di recente, in tutta Italia la linea è quella dettata da Roma. Secondo Valerio Pedroni, dei Padri Somaschi, “la linea del governo produce due danni: l’abbandono delle persone nei centri, sempre più parcheggiate e spinte a buttare via il tempo senza fare niente, neanche imparare l’italiano, e il taglio di posti di lavoro”. Pedroni è responsabile per l’area migranti del Cnca Lombardia, il coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza guidato da don Armando Zappolini. “In Lombardia gestiamo circa 2mila posti letto, ma a queste condizioni metà rischiano di non venire rinnovati”. Almeno altri cento lavoratori resteranno a casa. Valeria e i suoi colleghi, la Cisl e gli altri sindacati, il Cnca e tante realtà dell’accoglienza di qualità saranno in piazza oggi a Milano per “People-Prima le persone”, la grande manifestazione in difesa dei diritti di tutte le persone. Dai disabili colpiti dai tagli ai bambini a cui si toglie il piatto a mensa, fino ai profughi a cui si impedisce di costruire il futuro nelle nostre città. “Siamo stati travolti - dice Daniela Pistillo del Comitato Insieme senza Muri - da un’ondata di partecipazione che è andata ben al di là delle nostre aspettative. Sarà una bella giornata”. Migranti. Perché i trafficanti di esseri umani non sono sconfitti di Nello Scavo Avvenire, 2 marzo 2019 Nuove rotte che sfuggono ai controlli e che perciò possono costituire una minaccia per la sicurezza in Europa. Tutta colpa degli “sbarchi occulti”. Gli 007 sono preoccupati per scelte politiche che non hanno fermato, ma anzi hanno moltiplicato le rotte migratorie senza intaccare, nel complesso, il business dei trafficanti né la complessiva portata dei flussi. Nuove rotte che sfuggono ai controlli e che perciò possono costituire una minaccia per la sicurezza in Europa. Tutta colpa degli ‘sbarchi occulti’, le traversate con mezzi piccoli e veloci per evitare di essere intercettati in mare e poi a terra, dove per scelta politica la presenza di Guardia Costiera e Marina militare è stata diradata permettendo a centinaia di persone di mettere piede in Italia senza che le autorità ne sappiano nulla. Sbaglia chi crede che i Servizi, che pure parlano di riduzione ‘senza precedenti’ dei migranti in arrivo dalla Libia, ritengano questo come un successo. Al contrario, “le misure interdittive sulla rotta libica hanno verosimilmente contribuito a ridefinire - scrivono gli 007 - il ‘peso’ delle diverse direttrici mediterranee”. L’invito dell’intelligence è a guardare le cose “in un’ottica grandangolare”. Non a caso si parla di ‘dinamismo delle correnti migratorie’ che ha riguardato “specialmente la rotta del Mediterraneo occidentale che, canalizzando in Europa, attraverso il Marocco, quasi 57.000 clandestini (dati Frontex), ha consolidato il trend di crescita del 2017, superando per la prima volta la rotta del Mediterraneo centrale (circa 23.000). Quest’ultima, proprio in ragione del richiamato decremento delle partenze dalle coste libiche, è stata sopravanzata anche dagli arrivi lungo la rotta del Mediterraneo orientale (quasi 56.000)”. In totale sono circa 136mila persone arrivate nel 2018 nell’Ue. Illudersi di aver ‘sconfitto’ i trafficanti libici è da ingenui o da pifferai. Lungo le 124 pagine di dossier si rinvengono non poche perplessità. Gli 007 attribuiscono il calo della partenze dalla Libia “soprattutto alla rafforzata capacità della Guardia costiera libica nella vigilanza delle acque territoriali, e alla drastica riduzione delle navi delle Ong” che avrebbe privato i trafficanti “della possibilità di sfruttare le attività umanitarie ricorrendo a naviglio fatiscente e a basso costo”. Pur omettendo che la gran parte dei salvataggi in mare nel passato avveniva per merito di Guardia costiera e Marina italiana, i Servizi non nascondono tuttavia che al momento ai trafficanti libici si è fatto il solletico. “L’azione informativa - si legge ancora - ha posto in luce la persistente operatività di strutturati sodalizi delinquenziali capaci di adattarsi agli sviluppi sul terreno, rimodulando basi di partenza e itinerari”. Lo stesso dicasi riguardo ai controlli posti a Sud, sulla frontiera con Niger e Ciad. Anche qui l’effetto è stato solo quello di ridurre gli ingressi in Libia, ma senza fermare il traffico e semmai peggiorando le condizioni di vita dei migranti. “Potenti gruppi criminali operano nella fascia sub-sahariana, e segnatamente a ridosso del confine tra Libia e Ciad, ove la presenza di siti minerari auriferi, peraltro, agisce da ulteriore fattore catalizzante per i trafficanti di esseri umani, che - spiegano i Servizi segreti - lucrano anche sulla vendita di migranti quale manovalanza a bassissimo costo”. In un altro passaggio viene smontato l’allarme sui migranti dalla Nigeria, segnalando che ne erano arrivati 37.561 nel 2016 e solo 1.250 nel 2018. Ma forse l’allarme più forte lanciato dall’intelligence riguarda, senza mai citarlo, il rigurgito identitario e sovranista di molte cancellerie. “Anche i rapporti fra Paesi abituati a considerarsi alleati”, sono segnati da ‘plurime linee di faglia’ oltre che da una ‘pronunciata spinta verso l’unilateralismo’, che rende fragile la tenuta degli assetti multilaterali tradizionali. E il contrasto ai trafficanti di uomini non fa eccezione. Dalla marijuana alle malattie rare: a Firenze la fabbrica militare dei farmaci di Giuliana Ferraino Corriere della Sera, 2 marzo 2019 Con il know-how produttivo dello stabilimento si potrebbe creare un’industria farmaceutica di Stato. E se ripartissimo dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare per rilanciare l’industria pubblica del farmaco? Fondato con regio decreto nel 1853 a Torino, per preparare i medicinali per i soldati, fu trasferito a Firenze nel 1931: una cittadella in città di 55 mila metri quadrati, di cui 30 mila coperti. Un po’ museo, con i grandi corridoi che conservano gli alambicchi e le vecchie boccette dei medicinali nelle vetrine di legno. Ma anche fabbrica, visto lo Scfm produce 5 farmaci orfani, cioè molecole per le malattie rare, costose e (finora) poco redditizie. Ma tra i suoi compiti figura anche il mantenimento della scorta nazionale di antidoti in caso di avvelenamento, terrorismo e calamità nucleare, gestita dal ministero della Salute attraverso una rete di depositi in ogni Regione. Nel 1986, dopo il disastro di Chernobyl, lo Stabilimento fu l’unico in Europa pronto a produrre in tempo record un milione di pillole di ioduro di potassio. “Dipendiamo dall’Agenzia Industria e Difesa. Non dobbiamo fare profitti, ma garantire il pareggio di bilancio, che è in equilibrio dal 2008, perciò reinvestiamo tutti gli utili”, afferma il colonnello Antonio Medica, 54 anni, direttore dal 2015 dello Scfm, dove è arrivato come soldato semplice per il servizio di leva, e ha trascorso l’intera carriera dopo il concorso per ufficiale chimico-farmacista. La svolta risale all’autunno 2014, dopo l’accordo tra i ministeri della Difesa e della Salute, che ha affidato allo Stabilimento chimico farmaceutico militare il monopolio della produzione di cannabis per uso medico. Un investimento di un milione ha permesso l’allestimento delle serre, in coltura idroponica. “Nel 2018 abbiamo prodotto 110 chili, ma già nel 2019 la produzione salirà a 150 chili e nel 2020, con altri 2,5 milioni di investimenti per le serre, avremo saliremo a 300 chili”, afferma il colonnello Antonio Medica. Tra i risultati, la “concorrenza” pubblica ha costretto gli altri produttori, Olanda in testa, ad alzare gli standard e abbassare i prezzi, visto che lo Scfm ha fissato a 6,88 euro il costo per un grammo (più Iva e trasporto). E si guarda avanti: “Stiamo preparando gli impianti per l’estrazione, per fornire ai farmacisti i distillati dei principi attivi, invece delle infiorescenze essiccate delle piante femmine non fecondate (le uniche utili), come oggi”, anticipa Modica. I progetti sono ambiziosi. “Cerchiamo una partnership pubblico-privato con una fondazione, un fondo d’investimento o un’azienda, per arrivare a produrre 3 o 4 tonnellate di cannabis all’anno”, dice il colonnello, immaginando “un investimento di almeno 5/6 milioni” e l’assunzione di altre 20-30 persone (“Oggi siamo solo 84, nel 1990 quando sono entrato eravamo in 270”). È una mossa per far fronte a un mercato in fortissima crescita anche in Italia, dove nel 2018 il consumo complessivo di cannabis, usata soprattutto per trattare il dolore cronico muscolare e articolare è salito a 700 chili dai 380 chili del 2017, e nel 2019 si stima che supererà la tonnellata. Ma questa è soltanto una parte strategia. L’altra è ancora più ambiziosa. “Con l’esperienza della cannabis, partendo dal know-how produttivo dello Stabilimento chimico farmaceutico militare, potremmo creare un’industria farmaceutica di Stato altamente qualificata per produrre farmaci biosimilari, cioè molecole biologiche che escono di brevetto, grazie alla collaborazione con il mondo accademico”, sostiene Maria Luisa Brandi, 65 anni, docente di endocrinologia all’Università di Firenze, responsabile del Centro regionale di riferimento tumori endocrini ereditari, presidente della fondazione Firmo, e autrice di oltre 800 pubblicazioni e di un centinaio di libri. Brandi è già entrata allo Stabilimento con FirmoLab, il laboratorio nato dalla collaborazione tra l’Agenzia Industria e Difesa, l’Università (e i suoi ricercatori) e la Fondazione Firmo. Per “non entrare in concorrenza con l’industria farmaceutica” lo Scfm continua a puntare sulle malattie rare, definite tali in Europa quando colpiscono una persona su duemila “È un campo in crescita esponenziale”, afferma Brandi, e può diventare anche “molto redditizio”, perché “se il prodotto è di alta qualità e a prezzo competitivo, potrebbe essere venduto in tutto il mondo, dove si stima (per difetto) che le persone colpite da malattie rare siano oltre 400 milioni”. Per sviluppare il primo farmaco biotecnologico (“potrebbe essere un peptide per le calcinosi”, immagina Brandi) basterebbe “un investimento di 15 milioni”. Sarebbe un inizio. Di certo investire sulla salute dei cittadini diventerà una sfida centrale a causa dell’invecchiamento della popolazione e di budget sempre più ristretti. Il rilancio dello Stabilimento chimico farmaceutico militare potrebbe essere una risposta. Nuove droghe “invisibili” in Italia. “Fare rete fra ospedali, polizia e ambulanze” di Francesco Floris Redattore Sociale, 2 marzo 2019 I Nas sequestrano per la prima volta fentanili, oppioidi sintetici potenti. Negli Usa il mix con i farmaci fa migliaia di casi di overdose l’anno. In Italia non si sa. L’analisi di Riccardo Gatti: “Se in una notte ci sono 10 arresti cardiaci per sostanze in 10 pronto soccorso, non lo sappiamo. Serve unire i dati”. Negli Stati Uniti ci sono stati 11.537 morti nel 2017 per overdose da psicofarmaci derivati dalle benzodiazepine. Da soli o mischiati con altre sostanze (dati dell’Istituto nazionale per l’abuso di droghe americano). Il 75 per cento di queste morti sono state provocate dal mix di benzodiazepine con oppioidi. Altri 10.333 morti per overdose in nord America, sui 70.237 totali, se la sono provocata abusando di farmaci psicostimolanti da soli o combinati con metanfetamine o oppiodi. Qual è la situazione in Italia? “Non ne abbiamo mai sentito parlare”, risponde Riccardo Gatti, Direttore dei servizi per le dipendenze dell’area penale e penitenziaria di Milano, a cui afferiscono la metà dei Sert della città, inclusi quelli delle tre carceri (San Vittore, Bollate e Opera) e quello del Tribunale. “Perché non ci sono? Perché non lo sappiamo? - si domanda Gatti: La nostra emergenza nasce quando muore una ragazzina minorenne dentro a un parco, ma è possibile che ci siano già decessi di persone non conosciute come tossicodipendenti e che non hanno segni sul corpo perché non si iniettano le droghe”. Aggiunge: “È chiaro che se una persona viene trovata con la siringa nel braccio, si vede che sostanza c’è ed entro certi limiti ci allertiamo. Ma se nello stessa nottata, in dieci pronto soccorso differenti poniamo del nord est d’Italia, dieci persone hanno un problema identico, noi non ce ne accorgiamo”. Lo stesso accade se “in una certa zona del Paese o in una regione aumentassero a dismisura e in tempi rapidi le crisi collegate alla funzionalità cardiaca, in fasce d’età fra dove normalmente non dovrebbe capitare, potremmo pensare anche che stanno circolando degli stimolanti di un certo tipo e che queste persone li usano”. Ma non accade, perché “o per un motivo casuale finiscono nelle mani dello stesso operatore medico, dello stesso magistrato, che se ne accorgono, oppure ognuno pensa di avere di fronte sé un arresto cardiaco raro ma che può verificarsi”. Serve fare rete, dice Riccardo Gatti, per migliorare sistemi di monitoraggio e di allerta. Perché “il nostro sistema di intervento considera l’uso di sostanze un’anomalia, per lo più vietata, perché pensa solo alle droghe considerate illegali. Questo fa sì che non siano stati costruiti sistemi di osservazione e di allerta che lo considerano un fenomeno normalmente possibile. Se si diffondessero sostanze psicoattive come i fentanili e provocassero eventi nocivi, dai malori fino alla morte, potremmo accorgercene solo quando l’emergenza diventa evidente e troppo consistente, mentre prima rischiamo di sotto dimensionare il problema”. Un esempio che non viene fatto a caso: Il 21 febbraio 2019, il Sistema Nazionale di Allerta Precoce dell’Istituto Superiore di Sanità ha ricevuto una segnalazione da parte del Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri di Roma: i Nas hanno sequestrato un plico postale e una bustina trasparente contente 12,27 grammi di polvere bianca. Le analisi hanno portato all’individuazione per la prima volta in Italia di due molecole appartenenti al gruppo dei fentanili, una famiglia di oppioidi sintetici potenti che negli ultimi due anni si sono diffusi anche in Europa. Vengono venduti come sostituti “legali” agli oppiacei illegali, al posto di o insieme a eroina e cocaina. Oppure utilizzati per produrre farmaci contraffatti. Non sempre i consumatori sono consapevoli di cosa stanno comprando. Le due molecole non sono a oggi inserite nelle tabelle del Dpr 309/90, il Testo unico sugli stupefacenti. L’intera operazione dei Carabinieri è nata proprio dall’osservazione di persone che non rispondevano all’antidoto, il naloxone, alle dosi usuali. “I sistemi di monitoraggio dei fenomeni vanno arricchiti - afferma Gatti -. Noi oggi abbiamo il sistema di allerta, i dati ordinari di chi si rivolge ai servizi per le dipendenze e alcuni sondaggi che ci permettono di conoscere gli atteggiamenti di consumo da parte della popolazione. Invece servono meccanismi più evoluti anche a livello locale”. Perché? “I modi di utilizzo delle sostanze, e le sostanze psicoattive stesse, variano nel tempo anche molto velocemente in base a ‘mode’, a cosa è effettivamente disponibile sul territorio, alle agende delle organizzazioni criminali”. Per il direttore milanese del SerD Area Penale “il normale sistema di osservazione dello stato di salute della popolazione sottovaluta queste situazioni che ci sono in un periodo, poi spariscono, per diventare altre in tempi rapidi”, perché è abituato a confrontarsi con “i dati statistici sulle condizioni di salute generale dei cittadini che però ha a che fare con fenomeni sanitari statici: non accade che gli infarti del miocardio di per sé aumentino o diminuiscono di anno in anno di grandi valori, perché la popolazione è quella, le patologie sono quelle, hanno una relazione con l’età e si possono osservare gli andamenti che nel tempo si spostano”. Proprio per colmare questo gap di conoscenza, “noi abbiamo a disposizione in teoria tutta una serie di dati possibili: i controlli stradali, che cosa accade con gli interventi di pronto soccorso, le chiamate delle ambulanze o della forza pubblica per problemi che possono essere connessi all’uso di sostanze, il monitoraggio e la variazione dei decessi classificati come morte naturale. Quello che ci manca è la capacità di leggere queste fonti aperte e farne una sintesi che ci dica sta succedendo o no qualcosa di grave”. Arriviamo tardi, dice Gatti, a cose fatte. Anche perché “i sistemi di rilevazione e di analisi delle sostanze nei pronto soccorsi, come quelli per i controlli stradali, vanno a rilevare solo un numero ristretto di queste, mentre ne circolano molte di più” ma “di recente sono uscite macchine che permettono una determinazione qualitativa sulla presenza di un numero molto ampio di sostanze nei liquidi biologici. Sono aggiornabili nel tempo e non costano molto”. E chiude: “Le stesse schede di dimissione ospedaliera non è detto che siano classificate in modo tale da dirci che l’evento per cui la persona è stata ricoverata o è entrata in ospedale sia collegato all’uso di sostanze stupefacenti: magari viene descritto nel testo della cartella l’utilizzo di sostanze, ma i nostri strumenti vedono solo la dimissione”. Per questa ragione “occorre una rete di osservazione costruita in modo diverso da quello che abbiamo”. Turchia. Una lettera appello per la liberazione di Osman Kavala di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 2 marzo 2019 Un appello in difesa di Osman Kavala e altri 15 rappresentanti della società civile è stato lanciato in Turchia dalle maggiori organizzazioni dei diritti umani tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e altre otto Ong. “In reazione alle assurde accuse rivolte contro Osman Kavala e Yigit Aksakoglu, entrambi detenuti in attesa di processo, e contro altri 14 esponenti della società civile tutti accusati di “aver tentato di rovesciare il governo”, noi, le organizzazioni dei diritti umani di seguito elencate, chiediamo di porre fine alla crescente repressione e criminalizzazione della società civile” è l’inizio della lettera aperta. Le Ong ricordano che “le accuse si concentrano sulle proteste del 2013 di Gezi Park, un movimento estremamente pacifico che venne represso dal governo con diffuse violazioni commesse dalla polizia”. Lo scorso novembre il filantropo turco Osman Kavala era stato accusato pubblicamente dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan di essere il rappresentante in Turchia del miliardario americano di origine ungherese George Soros e di minare l’integrità delle istituzioni. Accuse che, il 19 febbraio, si sono tradotte in una richiesta di ergastolo aggravato, una sorta di 41 bis, per Kavala e per altri 16 tra giornalisti e attivisti, che sono accusati di “tentativo di rovesciare il governo della Repubblica di Turchia” in occasione della rivolta di Gezi Park nel 2013 quando centinaia di migliaia di persone si mobilitarono per difendere gli alberi di piazza Taksim e diedero vita a un movimento di protesta spontaneo. Nella richiesta di rinvio a giudizio, di ben 657 pagine, compaiono anche i nomi dell’ex direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, che dal 2016 si è trasferito in Germania, e dell’attore Mehmet Ali Alabora. Ora il tribunale dovrà decidere se accettare l’atto d’accusa. “La corte dovrebbe respingere qualsiasi atto di accusa basato su cospirazioni assurde e non supportate da alcuna prova significativa e Osman Kavala e Yigit Aksakoglu, che sono stati imprigionati per 16 e 3 mesi, dovrebbero essere rilasciati immediatamente” è la richiesta delle Ong ai giudici. Nato a Parigi nel 1957, Kavala è il co-fondatore di Iletisim Yayinlari, una delle più grandi case editrici turche, ed è presidente dell’istituto Anadolu Kültür, da lui fondato e divenuto un punto di riferimento prezioso per comprendere la società civile turca. Algeria. L’eroina Jamila Bouhired guida le proteste di Francesco Battistini Corriere della Sera, 2 marzo 2019 Secondo venerdì di collera contro la candidatura del presidente: in piazza l’anziana rivoluzionaria. Dopo mezzogiorno e dopo tanto sopportare, a 83 anni suonati spunta in piazza anche Jamila. A sfidare i lacrimogeni dei Gosp, gli elicotteri nel cielo e il suo quasi coetaneo Abdelaziz Bouteflika, l’eterno presidente: “Sono felice d’esserci - sorride gentile. Lui invece deve preoccuparsi…”. È quando scende Jamila che si capisce come Algeri faccia sul serio. E come questo secondo venerdì della collera, decine di migliaia a protestare contro la quinta candidatura di Bouteflika alle presidenziali del 18 aprile, sia ormai un punto di non ritorno. “Viva Jamila!”, le gridano appena la vedono in una nuvola di bandiere. Perché Jamila Bouhired è l’eroina della guerra d’indipendenza. Cantata nelle canzoni, recitata nelle poesie. Quella che a scuola si rifiutava d’intonare la Marsigliese e gridava “l’Algeria è la nostra madre!”. Torturata per 17 giorni dai francesi e condannata alla ghigliottina. Ricordate La Battaglia di Algeri di Pontecorvo, le tre ragazze che mettevano le bombe nei bar? Una era Jamila. E se si muove lei, vuol dire che stavolta è davvero rivolta. Quattordicesimo giorno, è battaglia. Arrivano da Orano, da Setif, da Bouira per il grande corteo della capitale. Finita la preghiera, i manifestanti sfilano a due metri dai cordoni di polizia, alla Grande Poste e in piazza dei Martiri: “I corrotti nella pattumiera della Storia!”, “Questa non è una monarchia!”, “No all’umiliazione!”. Laici e islamici, donne e lavoratori, giornalisti e affaristi, gli universitari di Tizi Ouzu e Jijel, i leader dell’opposizione Mouwatana (cittadinanza) Louisa Hannoune e Rashid Nekkaz, il possibile candidato Ali Benflis: tutti contro Bouteflika reso semincapace d’intendere da un ictus e in sedia a rotelle, muto in pubblico dal 2013, ricoverato a Ginevra, eppure intenzionato a perpetuare un potere che dura da vent’anni. “Silmiya”, pace, è la parola d’ordine: la stessa che scandivano in Egitto, prima che cadesse Mubarak. Restare tranquilli, offrire rose ai militari (“Non vedete che fate la guardia a un morto?”), cantare l’inno resiliente che la domenica si sente in molti stadi, “Fbladi Dalmouni”, nel mio Paese soffro l’ingiustizia. I tafferugli sono inevitabili, però, e la polizia carica duecento manifestanti: sassaiole, diversi arresti, una decina di feriti. La rabbia sale. Nel 2011, con un’iniezione di 180 miliardi d’euro e assunzioni a pioggia, Bouteflika aveva scansato le Primavere arabe. E poi s’era fatto rieleggere con l’85% dei voti. Ma ora è diverso: a contestarlo, sono le periferie impoverite dal calo del prezzo petrolio, assieme a una generazione giovane e disoccupata che non ha mai visto i 200mila morti della guerra civile anni ‘90 e non s’impressiona per il premier Ouhaya, quando paventa un “rischio Siria” o un “complotto di forze straniere”. Con l’Italia, che dall’Algeria importa un terzo del gas, è la Francia la più preoccupata: Macron avrebbe confidato di temere questa rivolta più dei gilet gialli. A Parigi, s’è sempre pensato che Bouteflika fosse l’alternativa al caos: adesso, il caos rischia d’essere lui.