Carceri, dalle facoltà di Scienze Giuridiche un sostegno ai detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 29 marzo 2019 Le conoscenze e le competenze giuridiche di studenti universitari al servizio dei diritti della popolazione detenuta. È quanto prevede il Protocollo d’intesa per la consulenza extragiudiziale a favore dei detenuti e delle detenute, lo sviluppo delle Cliniche legali in materia di esecuzione penale e la ricerca sui diritti delle persone in esecuzione pena, firmato dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, dal Direttore del Centro Interuniversitario di ricerca su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni “L’altro diritto”, Emilio Santoro, e dalla Presidente della Onlus Altro diritto, Sonia Ciuffoletti. L’accordo prevede che studenti delle Scienze giuridiche degli atenei aderenti possano svolgere dei tirocinii formativi all’interno degli istituti penitenziari e, sotto la guida di tutor universitari, assistere i detenuti con informazioni giuridiche sui propri diritti e supportarli nelle pratiche amministrative relative alla stesura di domande, istanze o reclami indirizzati alla magistratura, alla direzione dell’istituto o ai garanti delle persone detenute. L’attività sarà svolta nel rispetto delle norme e dei regolamenti interni agli istituti, sotto la responsabilità della direzione dell’istituto e il coordinamento operativo dell’area pedagogica, con la quale gli interventi dovranno essere progettati, programmati e organizzati. Sarà cura del Dap impegnarsi con la Onlus affinché possa essere promossa la presenza di tutor volontari negli istituti penitenziari dove è attiva una rappresentanza della Onlus stessa, nonché con il Centro per favorire l’accesso degli studenti alle cliniche legali. La Direzione generale Detenuti e Trattamento svolgerà un’attività di verifica e monitoraggio sul servizio di consulenza offerto dalla Onlus. Il Centro Interuniversitario di Ricerca garantirà infine, attraverso i propri tutor, il rispetto degli obblighi di riservatezza e segreto d’ufficio previsti dalla legge da parte degli studenti. Il protocollo d’intesa avrà durata biennale e sarà rinnovabile anche tacitamente. Salute mentale in carcere. Parere del Comitato nazionale di bioetica agensir.it, 29 marzo 2019 “Assicurare modalità umane di detenzione e rafforzare i servizi. Cura malati avvenga in strutture terapeutiche”. “Assicurare, quale forma basilare di tutela della salute mentale in carcere, modalità umane di detenzione, rispettose della dignità delle persone, offrendo un trattamento con opportunità di formazione e di lavoro nella prospettiva risocializzante; provvedere a che la cura delle persone affette da grave disturbo mentale e che abbiano compiuto reati avvenga di regola sul territorio, in strutture terapeutiche e non in istituzioni detentive”. Sono alcune raccomandazioni contenute nel parere “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” pubblicato oggi dal Comitato nazionale di bioetica (Cnb) nella convinzione che la salute mentale in carcere rappresenti un’area particolarmente critica. Di qui la richiesta di “rafforzare i servizi di salute mentale in carcere” in modo che “funzionino come parte integrante di forti Dipartimenti di salute mentale, capaci di individuare le risorse di rete territoriale per la cura delle patologie gravi al di fuori dal carcere e di collaborare a tal fine con la magistratura di cognizione e di sorveglianza”. Il Cnb sollecita anche alcuni innovazioni normative per tutelare sia le persone giudicate imputabili e condannate a pene carcerarie, sia le persone dichiarate non imputabili e prosciolte. In estrema sintesi: il rinvio della pena quando le condizioni di salute psichica risultino incompatibili con lo stato di detenzione; la previsione di specifiche misure alternative per i soggetti che manifestano un’infermità psichica in carcere; l’introduzione di sezioni cliniche in carcere a esclusiva gestione sanitaria. Necessaria inoltre “una più incisiva riforma delle misure di sicurezza, per limitare il ricorso alla misura di sicurezza detentiva”. Infine l’invito a limitare il ricovero nelle Rems ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva e a riconsiderare il concetto di “pericolosità sociale” e la legislazione speciale di “doppio binario” di imputabilità/non imputabilità per le persone affette da disturbo mentale. Alla cena in carcere Salvini promette: “Non dirò mai più marcire in galera” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 29 marzo 2019 Non è per il caso Diciotti, ma alla fine Matteo Salvini “Ingalera” ci è finito davvero. Accolto dagli agenti della polizia penitenziaria plaudenti che gli chiedevano selfie, il ministro dell’Interno ha infatti cenato nel ristorante realizzato nel carcere di Bollate in cui tutti, dai cuochi ai camerieri, sono detenuti. Ma la scommessa di Annalisa Chirico, giornalista del Foglio e presidente dell’associazione “Fino a prova contraria” che ha organizzato la serata, all’inizio sembra vinta soltanto a metà. L’obiettivo era infatti il far promettere al vicepremier di non usare mai più l’espressione “marcire in galera”, perché “una persona non è il reato che ha commesso”. Lui sorride sornione: “Obbedisco”. Ma a stretto giro gli chiedono di Cesare Battisti, e il sorrisetto si riaccende: “Deve rimanere in carcere fino all’ultimo giorno della sua vita...”. In realtà, dopo aver ascoltato la direttrice del carcere di Bollate Cosima Buccoliero, la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa e il “cappellano storico” del minorile Beccaria, don Gino Rigoldi, torna sull’argomento con meno ironia: “A marcire lasciamo che siano le piante che con me durano al massimo una settimana. Però, prometto: sarò più attento, non dico più raffinato perché è mission impossibile, nei confronti di chi sbaglia una volta e può anche non sbagliare più”. E allora, Chirico può sorridere: ce l’ha fatta. Anche se il leader leghista ammette che quando pensa al carcere, “il primo pensiero è per chi ci lavora dentro, perché questo è un lavoro difficilissimo”. Il ministro dell’Interno annuncia anche l’accordo in vista “con alcuni paesi europei ed extraeuropei perché i detenuti sul finire della pena possano scontare il residuo nel loro paese”. E respingere coloro che tentano di stuzzicarlo riguardo alle schermaglie con i 5 Stelle: “Qui c’è il direttore del Giornale Alessandro Sallusti - scherza Salvini - che tutti i giorni mi invita a proseguire con il lavoro del governo questi nove mesi belli, con errori e con qualche merito”. Insomma: “Lungi da me qualsiasi polemica con gli amici dei 5 Stelle con cui governeremo fino all’ultimo. Io vado avanti, non mollo”. Ma il tema della serata è il valore del lavoro per il recupero dei detenuti. Il caso del carcere di Bollate è pressoché unico: soltanto i117% degli ex carcerati è recidivo. Con la presidente Di Rosa che ricorda come “il valore nobilissimo del lavoro non soltanto è sancito dalla Costituzione. Il fatto è che la forza della legalità sta nel consenso che sa generare. È con quella che lo Stato vince”. Con il ministro che annuisce. L’altro protagonista della serata, don Gino Rigoldi, è abituato a fare il controcanto a Salvini da una trentina d’anni: ha conosciuto l’oggi ministro dell’Interno quando quest’ultimo ancora sedeva sui banchi del liceo Manzoni. Ultimo fuoco d’artificio, qualche mese fa, la maglietta regalata dal sacerdote al leader leghista: “Dio esiste ma non sei tu”. Il cappellano parla dei ragazzi, della possibilità che l’età imputabile scenda a 12 anni. Secondo il sacerdote, “è vero che a 15 anni possono sembrare evoluti, saper maneggiare tecnologie e social network. Ma nella sostanza sono ancora dei bambini”. Salvini non è d’accordo: “A me francamente un quindicenne di oggi mi sembra molto diverso da quelli di quando ero ragazzo io”. Il leader leghista protagonista, suo malgrado, anche del tradizionale “Rogo della vecchia” nel quartiere multietnico Carmine di Brescia, dove è stato bruciato un fantoccio con le sembianze di Salvini. “L’idea era di combattere il clima di razzismo” si sono giustificati gli organizzatori. Salvini: “Stop a rito abbreviato e sconti di pena per reati particolarmente gravi” Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2019 Nel giorno in cui la legge sulla legittima difesa è diventata legge dello Stato il ministro dell’Interno è pronto a lanciare sul tavolo un altro argomento caldo: la riforma penale. E lo fa in particolare dicendo che “sarà legge dello Stato anche l’eliminazione del rito abbreviato e dello sconto di pena per alcuni reati particolarmente gravi, e lo sarà entro questa primavera”. Matteo Salvini rilancia il tema rispondendo alle domande dei giornalisti al suo arrivo al carcere di Bollate per un iniziativa dell’associazione “Fino a prova contraria”. Sul tema giustizia il governo gialloverde ha portato a casa la legge spazza-corrotti, mentre la riforma dei termini di prescrizione entrerà in vigore nel 2020. In passato, in assenza di una legge, i giudici che hanno respinto le richieste di rito abbreviato per reati molto gravi si sono visti annullare la decisione dalla Cassazione. Il responsabile del Viminale ha risposto anche al ministro della Salute, Giulia Grillo che ritiene inaccettabile la castrazione chimica per gli autori di violenza sessuale rievocata dopo il caos alla Camera dopo il no a emendamenti su revenge porn. “È sperimentale volontariamente in tanti Paesi occidentali - ha detto al suo arrivo al carcere di Bollate: quindi ci sono persone che chiedono di essere messe in condizione di non avere più gli istinti per commettere violenze bestiali e quindi qualcuno studi quello che viene sperimentalmente applicato in altri Paesi. Se qualcuno mette le mani addosso a una donna o a un bambino non va solo rieducato, va curato perché trattasi di schifosi che vanno aiutati a non ricommettere gli stessi errori anche farmacologicamente se servisse”. Salvini partecipa una serata di confronto sul lavoro per i detenuti e sulle condizioni delle carceri promossa dall’associazione ‘Fino a prova contrarià nel ristorante InGalera, dentro il carcere di Bollate (Milano). Un’occasione di confronto durante la quale Annalisa Chirico, giornalista e presidente dell’associazione chiederà al ministro dell’Interno di non pronunciare mai più quella frase “marcire in galera”, talvolta usata dal vicepremier. “Perché - spiega Chirico - non si deve pensare al reato per cui una persona è in carcere ma come potrà essere questa persona una volta che ne è uscito”. La giornalista spiega che “da qualche tempo mi sto confrontando con Salvini e vedo in lui una svolta su questi temi: è finito il sovranismo folcloristico ed è necessario che cambi anche il suo linguaggio se pensa a Palazzo Chigi”. Al confronto, oltre a Salvini, partecipano anche don Gino Rigoldi, cappellano dell’istituto per minori Beccaria di Milano, e la presidente del Tribunale di Sorveglianza del capoluogo lombardo, Giovanna Di Rosa. Alla cena sono invitati una cinquantina tra magistrati, giuristi, avvocati, imprenditori e manager come Urbano Cairo e Paolo Scaroni. Salvini: “Vedrò di stare più attento. Obbedisco” ha poi promesso Salvini: “Vedrò di essere più attento, non raffinato perché è una mission impossible”. Salvini tra i carcerati. Prove di garantismo, ma avvisa: “Chi si becca trent’anni se li fa” di Amedeo La Mattina La Stampa, 29 marzo 2019 “Benvenuto in carcere”. Lo accoglie così, con un sorriso malizioso, il detenuto cameriere. “Conto di uscirne appena finita la cena”, risponde Matteo Salvini in camicia bianca sotto il solito piumino smanicato. Alle 8 di sera il ministro dell’Interno varca il portone del carcere modello di Bollate dove è recluso anche l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni. Qui si rieduca lavorando nell’orto botanico, con la musica, la biblioteca, la cucina. Non è proprio la prigione tipica italiana che normalmente è sovraffollata e niente affatto rieducativa. In questo carcere, dove sono in stato di detenzione 1240 persone, invece ci provano seriamente a riabilitare, insegnando loro un mestiere che servirà una volta ritornati in libertà. “Abbiamo aperto le porte di questa prigione. I detenuti possono uscire per svolgere un’attività lavorativa vera, per avere una seconda opportunità. Qui il tasso di recidiva è solo del 20 per cento”, dice la direttrice dell’istituto penitenziario Cosima Buccolieri, che ha consentito alla cooperativa Abc “Sapienza in tavola”, fondato da Silvia Polleri, di aprire questo ristorante che ha il nome giusto, InGalera. Alle pareti i manifesti dei film Fuga per la vittoria, Fuga da Alcatraz, L’ultimo miglio. Sembra un ristorante come tanti, pulito, aperto a tutti, con un servizio catering. Chef e maître professionisti arrivano da fuori, mentre in cucina e al servizio ai tavoli veri carcerati. Regolarmente assunti. Salvini sembra divertito di questa esperienza organizzata dalla giornalista Annalisa Chirico e dalla sua associazione “Fino a prova contraria”. Selfie con gli agenti carcerari che lo applaudono e lui promette “spero di portarvi sotto gli Interni”. Sarà contento il ministro grillino della Giustizia Bonafede. Entra in cucina a salutare ai cuochi. Alcuni sono immigrati. Non salta i giornalisti che gli chiedono della giornata romana con l’approvazione della legge sulla legittima difesa. Salvini gongola. Annuncia che vuole annullare il rito abbreviato per i reati gravi. Chirico chiede al cappellano del riformatorio Beccaria, Gino Rigoldi, di aiutarlo a convincere il ministro a non dire più “marcisca in galera”, nemmeno per Cesare Battisti. Lui un po’ sfugge e promette con scarsa convinzione. “Obbedisco, ma Battisti il carcere se lo deve fare tutto fino agli ultimi dei suoi giorni”. “Certo - afferma Salvini - averne di esperienze come Bollate. Meno recidiva c’è meglio è per chi come me fa il ministro dell’Interno. Per i detenuti che apprendono un mestiere è più facile inserirsi nella società. Marcire in galera? Va bene, a marcire lasciamo le piante che nelle mie mani durano una settimana. Sarò più attento alla forma, non dico che diventerò più raffinato perché con me è una missione impossibile. Vediamo di badare anche alla forma. Ma io faccio il ministro dell’Interno devo occuparmi dell’ordine pubblico”. Qualcuno in sala sussurra che Salvini stia invadendo le competenze del ministro della Giustizia. Lui alza le mani in aria. Dice che non ci pensa proprio, ripete che vuole andare avanti come un treno con questo governo, “andiamo d’amore e d’accordo”. L’organizzatrice della serata Chirico vorrebbe che Salvini diventasse più moderato e garantista. E magari più buono? “Io sono sempre clamorosamente buono. Mi dipingono cattivo, come quella dei cartoni animati”. Un ghigno e continua. “Ma chi si becca 30 anni devi farseli tutti perché significa che ha commesso un crimine enorme. Per non parlare di quegli schifosi pedofili e dei violentatori di donne. Vanno messi in carcere e curarli, sì, anche con la castrazione chimica”. Va bene, nemmeno Bollate può cambiare chi facendo il “cattivo” e lo “sceriffo” miete consensi da Aosta a Trapani. Difesa legittima “sempre”, sì definitivo alla legge di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2019 Per il vicepremier Matteo Salvini è un giorno “bellissimo, perché finalmente dopo anni di chiacchiere viene sancito il sacrosanto diritto alla legittima difesa per chi viene aggredito in casa propria o sul luogo di lavoro”. Per Alfredo Bonafede, ministro della Giustizia “non ci sarà alcun far west e così mettiamo la parola fine a calvari giudiziari”. Esulta il Governo per un voto quasi plebiscitario, 201 i sì (oltre a Lega e Movimento 5 Stella hanno votato a favore Forza Italia e Fratelli d’Italia), 38 i no (34 del Pd, 4 del Gruppo Misto e uno di Autonomie), alla legge, dichiaratamente in quota Lega, che riscrive per l’ennesima volta la disciplina della legittima difesa. A stretto giro arrivano però le dichiarazioni dell’Associazione nazionale magistrati. Per il presidente Francesco Minisci la legge presenta numerosi dubbi di incostituzionalità e non tutelerà i cittadini più di quanto erano già tutelati fino ad oggi; al contrario introduce concetti che poco hanno a che fare con il diritto”. E di legge inutile e pericolosa parlano anche i penalisti con il presidente Giandomenico Caiazza per il quale “i casi di legittima difesa in casa sono 2 all’anno e si tratta di assoluzioni”. Nel dettaglio, la legge modifica il Codice penale, limitando la discrezionalità dell’autorità giudiziaria, precisando che nei casi di legittima difesa domiciliare si considera sempre esistente il rapporto di proporzionalità tra la reazione armata e l’offesa. A rafforzare ulteriormente l’intervento si considera poi “sempre in stato di legittima difesa” chi, all’interno del domicilio (ma alla casa sono equiparati i luoghi di lavoro), respinge l’intrusione da parte di una o più persone “posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica”. Quanto all’eccesso colposo di legittima difesa, la legge esclude la punibilità attraverso l’introduzione della categoria del “grave turbamento” di chi per fronteggiare una situazione di pericolo commette il fatto a tutela dell’incolumità propria o altrui. Viene poi estesa la disciplina del gratuito patrocinio a favore di chi è stato prosciolto a vario titolo per fatti commessi in condizione di legittima difesa o eccesso colposo. Nella legge trova posto infine anche un intervento di diritto penale sostanziale elevando le sanzioni per alcuni reati: la violazione di domicilio, il furto in abitazione o con strappo e la rapina. Gonnella (Antigone): il rischio più grande ora è la presunzione di assoluta impunità “Viene da domandarsi tra quanti anni la Lega, alla ricerca del consenso elettorale, modificherà nuovamente la legge per la legittima difesa. Se ne passeranno 13, come dall’ultima volta che lo fece, o stavolta ci metterà meno”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a seguito dell’approvazione della legge che modifica l’art. 52 del codice penale sulla legittima difesa. La norma, risalente al Codice Rocco di epoca fascista era stata infatti già modificata nel 2006, dal governo di centro-destra, sempre su impulso della Lega. “La pretesa di immunità per chi dovesse ferire o uccidere un presunto ladro, che la Lega va vendendo da tempo, non esiste - sostiene Gonnella. Dinanzi all’utilizzo di un’arma da fuoco, ancor più quando questo utilizzo provochi la morte di una persona, partirà sempre un’indagine e un eventuale processo. Sarà poi la magistratura a decidere se quell’episodio rientra in ciò che si può definire legittima difesa o meno. Quando questa assenza di impunità che il partito del ministro Salvini va propagandando sarà un’evidenza, allora forse la Lega dovrà tornare a modificare la legge nell’unico modo possibile, quello di intervenire sull’indipendenza della magistratura. Nel frattempo però questo falso messaggio di presunzione assoluta di impunità, potrebbe essere male interpretato dai cittadini, così stimolati ad un uso indebito delle armi”. “Purtroppo questa legge porta con sé un brutto messaggio per le persone, invitandole a difendersi da sole (anche con le armi) piuttosto che rivolgersi alle forze di polizia, che ne escono così fortemente delegittimate nella loro funzione. Ben diversa è stata la reazione in Nuova Zelanda dove, a seguito di un atto terroristico, il governo ha deciso di ridurre il numero delle armi che girano nel paese. Più armi ci sono in giro, più morti avremo” conclude Patrizio Gonnella. Legittima difesa, il tentativo di trasformare i tribunali in spettatori di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 marzo 2019 Far passare l’idea di automatismi e presunzioni legali espone le toghe ad attacchi dell’opinione pubblica in caso di giudizi diversi da quelli attesi. “Se il ladro, colto nell’atto di fare uno scasso, viene percosso e muore, non vi è delitto di omicidio” (Esodo 22,2). Non che ci volessero mesi di sessioni parlamentari per tornare indietro di 4.000 anni al Pentateuco. Ma l’insignificanza di una legge, nel contenuto t-shirt che esibisce a propaganda di tv, insignificante può non essere per la visione del mondo che propina. La legge a trazione leghista e sudditanza grillina ha una inutilità statistica evidente nelle appena 58 sentenze giunte in Cassazione negli ultimi 12 anni sulla legittima difesa domiciliare; o negli appena 3 procedimenti iscritti nel 2015, 2 nel 2016 e 5 nel 2017 censiti dal ministero della Giustizia. Ma per nulla insignificante - anche una volta che un’interpretazione della legge conforme a Costituzione ne avrà disinnescato nei processi le sgrammaticature giuridiche in tema di proporzionalità, difesa necessitata e attualità del pericolo - si annuncia l’inversione della tavola di valori che essa veicola. Una è visibile subito. Provare a spostare il limite di tollerabilità sociale, e ad abbassare il costo etico della legittimità di condotte difensive letali a tutela di beni materiali, sussurra che si stia sostituendo l’inviolabilità della vita (anche del ladro) con l’inviolabilità della proprietà (del derubato); che si stia rinnegando la concezione personalistica alla base degli articoli 2 della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; e che si stia trasformando la legittima autodifesa, da scelta necessitata a fronte di un pericolo senza alternative, in una forma invece di punizione del reo, erogata in via anticipata dal privato e subappaltatagli dallo Stato che ammette di non saperlo proteggere. Un’altra tossicità è invece iniettata in maniera meno percepibile, pur se altrettanto insidiosa. Il tentativo di ridurre i margini di apprezzamento dei giudici, a colpi di sempre maggiori automatismi e più stringenti presunzioni legali, persegue la tendenza già manifestata sulle pene fisse per la droga, sugli sbarramenti ostativi alle misure alternative al carcere per sempre più numerose categorie di condannati, sugli irrazionali appiattimenti di condotte quali l’omicidio stradale. È cioè il progetto di ridurre il giudice a juke-box di una spiccia istruttoria (presunta) popolare, alle cui rime obbligate le Corti debbano conformarsi in una sorta di obbligazione di risultato: pena apparire magistrati insensibili al grido di sicurezza dei cittadini, schierati dalla parte dei banditi, nemici del popolo in quanto nemici degli autoproclamati paladini della sicurezza del popolo. Dunque tollerati solo alla stregua di gestori di magazzino chiamati a consegnare una merce prefissata, e altrimenti “licenziabili”, in questo caso non da un contratto collettivo ma dalla collettiva legittimazione popolare del loro pronunciare sentenze. Non a caso lo schema vede le toghe qui sotto attacco più dal basso (dell’opinione pubblica) che dall’alto (delle classi dirigenti insofferenti al controllo di legalità); e vede maggiormente esposti non più i pm (di cui è ormai mitridatizzata la ricorrente tensione con il politico indagato di turno), ma i giudici. In una dinamica che, del tutto coerente con l’approccio leghista, è invece curioso veder appoggiata proprio anche da chi, come il mondo dei 5Stelle, della difesa del valore dell’autonomia dei magistrati menava vanto. Intrusi, difesa sempre legittima. Chi respinge i violenti non deve mai risarcire i danni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 29 marzo 2019 Contro gli intrusi violenti è sempre legittima difesa. E chi agisce per legittima difesa non deve mai risarcire i danni all’aggressore. Sono questi i punti salienti della nuova disciplina sulla scriminante. Le novità stanno nel riconoscimento di maggiore spazio d’azione, con minori rischi giuridici, per chi subisce un’aggressione. Con 201 voti favorevoli, 38 contrari e 6 astenuti, il senato ha dato ieri il via libera definitivo al disegno di legge recante modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa. Le nuove disposizioni blindano la posizione dell’aggredito, rendendo automatico il giudizio di proporzionalità dell’uso delle armi in caso di violazione di domicilio rispetto ad aggressioni all’incolumità o in caso di pericolo di aggressione. La manovra si completa con l’esclusione di risarcimento di danni a carico di chi si è difeso e dall’altra parte con l’obbligo di risarcire a carico del ladro di appartamento, che voglia fruire di sospensione condizionale. Legittima difesa. La legge modifica l’articolo 52 del codice penale, ed assicura sempre la scriminante della legittima difesa a colui che compie un atto per respingere l’intrusione realizzata con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fi sica, da parte di una o più persone. Inoltre, con altra novità, si stabilisce che l’uso dell’arma sarà sempre ritenuto proporzionale a fronte di aggressioni alla incolumità fi sica e ai beni se non vi è desistenza e pericolo di aggressione. Per entrambe le modifiche, la novità sta nel sottrarre al giudice il compito di valutare i presupposti e la proporzionalità della difesa e quindi la legittimità stessa della stessa, autorizzando la reazione. Se uno entra abusivamente in casa d’altri deve, dunque, aspettarsi la reazione, anche armata, dell’aggredito. Eccesso colposo. Modificato l’articolo 55 del codice penale e, nelle varie ipotesi di legittima difesa domiciliare, si esclude la punibilità di chi, trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità. Il bilanciamento garantisce spazio di manovra a soggetti deboli o anziani (minorata difesa) o di chi è preso da attacchi di terrore a fronte della aggressione che sta subendo. Si toglie spazio alla contestazione di eccesso in legittima difesa. Risarcimento del danno. Nessun risarcimento all’aggressore. Chi ha agito per legittima difesa domiciliare non è mai tenuto a risarcire il danno. Chi ha agito in eccesso colposo non punibile (perché ha agito in stato di minorata difesa o di grave turbamento) dovrà pagare solo un indennizzo, tenuto conto del fatto che comunque c’è un aggressore. Sospensione solo previo risarcimento. Nei casi di condanna per furto in appartamento il beneficio della sospensione condizionale della pena al ladro sarà sempre subordinato al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. Violazione di domicilio. La legge aumenta la sanzione per il reato di violazione di domicilio. La pena detentiva per il reato di violazione di domicilio passa da sei mesi a un anno nel minimo e da tre a quattro anni nel massimo. Stesso inasprimento è previsto per l’ipotesi aggravata dalla violenza sulle cose, o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato: la nuova sanzione va da due a sei anni. Gratuito patrocinio. La legge estende le norme sul gratuito patrocinio a favore della persona nei cui confronti sia stata disposta l’archiviazione o il proscioglimento o il non luogo a procedere per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo. Furto in casa e scippo. Più severa la sanzione per il furto in abitazione e scippo: passa nel minimo dagli attuali tre anni a quattro anni e nel massimo dagli attuali sei anni a sette anni. Sono inasprite anche le pene per le condotte aggravate: la legge prevede un minimo edittale di cinque anni di reclusione (attualmente quattro anni), mentre il massimo resta quello attualmente previsto, pari a dieci anni, e la multa è rideterminata in un importo da un minimo di 1.000 euro (attualmente 927 euro) a un massimo di 2.500 euro (attualmente 2.000 euro). Rapina. La legge modifica la sanzione per la rapina. La pena della reclusione è elevata da 4 a 5 anni nel minimo, mentre resta fermo il massimo fissato a 10 anni. Per le ipotesi aggravate e pluriaggravate (terzo e comma dell’art. 628 codice penale) la legge aumenta anche qui le sanzioni. Uccidere un ladro non è reato. Benvenuti nell’anno bellissimo di Errico Novi Il Dubbio, 29 marzo 2019 Sulla legittima difesa si potrebbe scrivere un manuale di comunicazione politica. E nel d-day consumato ieri al Senato non è stato certo il Movimento Cinque Stelle a offrire un modello di marketing esemplare. La legge tanto cara alla Lega è approvata in via definitiva, con larghissima maggioranza d’aula (201 sì, 38 contrari e 6 astenuti, tra i quali Mario Monti), ma gli uomini di Luigi Di Maio vanno in dissolvenza. Peggio: lasciano il proscenio alla celebrazione dell’alleanza di centro destra, proprio com’è avvenuto con le ultime disastrose prove elettorali. Nel mare di voti favorevoli, infatti, alla Lega si uniscono sia gli azzurri berlusconiani che i senatori di Fratelli d’Italia. Proprio il Cavaliere dice che “il testo è migliorativo” e che però “ci impegniamo a completare questa riforma quando il centrodestra tornerà al governo”. Giorgia Meloni e il suo luogotenente per la giustizia a Palazzo Madama, Alberto Balboni, si lamentano perché “con l’alleato grillino il risultato è sempre deludente”. Dulcis in fundo, i ministri-senatori dei Cinque Stelle scelgono di non esserci: tra i banchi dove si consumano gli abbracci tra il “vincitore” Matteo Salvini e i suoi fedelissimi, dal titolare delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio al relatore della legittima difesa Andrea Ostellari, non c’è traccia né di Danilo Toninelli, né di Barbara Lezzi e neppure del sottosegretario Vito Crimi. Tutti formalmente “in missione”, con l’ulteriore aggravio di 6 senatori grillini assenti ingiustificati, tra i quali Elena Fattori e Paola Nungnes. Risultato: passa il messaggio secondo cui la vecchia alleanza di centrodestra funziona, vive e lotta insieme a Salvini. Di più: grazie alle riflessioni di Fi e Fratelli d’Italia intrise di rammarico per l’occasione parzialmente perduta, si veicola pure l’ulteriore idea per cui se la Lega avesse definito la nuova legittima difesa solo con i vecchi buoni amici anziché con i Cinque Stelle, ne sarebbe venuta fuori una riforma assai più efficace. Come Berlusconi e Meloni, per esempio, anche l’abile Gasparri insinua che “la Lega ha frenato per colpa dell’alleato indeciso”. Con loro auto-dissolvenza involontaria, insomma, i grillini speravano di rovinare la festa dell’alleato di governo: ne favoriscono invece l’ancora migliore riuscita. L’unico a rendersi conto che in certi casi è meglio incassare con eleganza anziché fare gli sdegnosi è proprio il ministro più direttamente interessato dalla faccenda, Alfonso Bonafede: “Non ci sarà alcun far west, evitiamo semplicemente, d’ora in poi, che chi si difende legittimamente debba anche attraversare un calvario giudiziario”, ammette il guardasigilli. “Era un punto del contratto di governo e l’abbiamo realizzato”. Da manuale, in chiave positiva, sembrerebbe invece la lettura che il vincitore di tappa (e “maglia rosa” indiscussa dei sondaggi) Matteo Salvini offre sulle modifiche agli articoli 52 e 55 del codice penale. Prima di tutto dice “grazie” agli “amici dei Cinque Stelle”, oltre che a Forza Italia e FdI, e già in questo si potrebbe leggere un’impietosa doppiezza di significato: la gratitudine per i grillini che “hanno sostenuto questa battaglia di civiltà”, come dice il vicepremier, ma anche per il modo in cui gli hanno lasciato campo libero nel giorno del trionfo. Soprattutto, il leader del Carroccio ben si guarda dall’accreditare effetti non affatto consentiti dalle norme appena approvate: evita per esempio di promettere che chi spara per difendersi da un’aggressione, anche in casa propria, possa sfuggire all’inevitabile indagine del pubblico ministero. Dice casomai che “si eliminano anni e anni di giri per i tribunali e di spese legali”. E questi infatti sono effetti plausibili della “nuova” legittima difesa. All’articolo 52 si stabilisce che la difesa domiciliare (cioè in casa ma anche nel proprio negozio o ufficio) è “sempre” legittima a condizione che l’aggressore si sia introdotto con “violenza” (circostanza che in effetti può legittimamente indurre a temere il peggio, nei pochi istanti in cui l’aggredito deve valutare come reagire) o minacci di usare armi. Elementi che già oggi inducono i magistrati ad assolvere le persone indagate per “eccesso colposo”. Così come già la giurisprudenza aveva sancito il principio della “legittima difesa putativa”: ora il secondo comma aggiunto all’articolo 55 circostanzia puntigliosamente quel principio. Esclude la “punibilità” di chi, nel difendersi in casa o nel negozio (ma non per strada), eccede i limiti previsti al sopra ricordato articolo 52, ma sempre ad alcune precise condizioni: prima di tutto, che il pericolo “sopravvalutato” dall’aggredito riguardi non i beni ma “la propria o altrui incolumità”; e inoltre, che si trovi o in condizioni di minorata difesa, per esempio per le circostanze di tempo in cui ha subito l’intrusione, o nell’ormai famigerato “stato di grave turbamento”, sempre che quest’ultimo derivi da una oggettiva “situazione di pericolo”. Maglie più larghe ma non troppo, insomma. Salvini, ci si muove con abilità, tranne che per una cosa: dice che è “una giornata bellissima”. E dimentica così che si sta pur sempre parlando di casi in cui, spesso, qualcuno muore, e cioè di una tragedia. Sia per chi è morto, sia per chi si è difeso. Il magistrato: legittima difesa senza limiti, incostituzionale di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 marzo 2019 Intervista a Massimo Michelozzi, sostituto procuratore di Venezia: per come è formulato il nuovo comma, anche un passante che assiste all’intrusione nella casa di un altro potrebbe sparare. “Cambia tutto. Non c’è più alcun limite alla reazione contro le intrusioni, la si presume legittima a prescindere da chi la metta in atto e da dove questo accada”. Massimo Michelozzi è sostituto procuratore a Venezia e segretario di Magistratura democratica Veneto. Qual è la novità principale a suo giudizio? La norma più dirompente è il nuovo quarto comma dell’articolo 52 del codice penale che amplia in maniera illimitata il diritto di autodifesa. Si riferisce a “colui che compie un atto per respingere”. Dunque non c’è più un limite soggettivo: può reagire non solo chi si trova nel domicilio, ma può sparare anche un passante che non è aggredito e assiste all’intrusione. E non c’è più un limite di luogo: si può intervenire anche sparando dalla strada o da lontano con un’arma di precisione. L’intrusione però deve avvenire “con violenza o minaccia di uso di armi”. Ma violenza nei confronti di chi o cosa? Non è specificato. Se è contro le cose, l’effrazione è sempre violenta. Nemmeno minaccia è chiaro cosa voglia dire. Bisogna brandire necessariamente l’arma, o basta minacciare appunto di essere armati? In tutti questi casi, chi reagisce sparando non sarà nemmeno indagato? È stato sostenuto, anche in parlamento, ma è pura propaganda. È chiaro che il procedimento andrà aperto comunque per accertare i fatti. Il controllo giudiziario però sarà assai limitato. Se l’unico presupposto per giustificare la reazione armata all’intrusione è l’intrusione stessa, anche davanti a una reazione sproporzionata o non necessaria il giudice dovrà chiedere l’archiviazione. O sollevare la questione di incostituzionalità. Fondata, secondo lei? Sì, e per diversi profili. Il più grave è senz’altro la prevalenza accordata al diritto alla inviolabilità del domicilio rispetto al diritto alla vita. Questa aprioristica scala di valori va contro l’articolo 1 della Costituzione e l’articolo 2 della Cedu che dichiara il diritto alla vita comprimibile solo in caso di aggressione all’incolumità della persona. Non certo per difendere i beni personali o il domicilio. Come giudica il criterio del “grave turbamento” come causa di non punibilità? È una norma chiaramente indeterminata, il grave turbamento è difficile da accertare. Ma c’è un problema più di fondo. Dovrebbe valere per tutti i casi di legittima difesa, pensiamo al caso di un anziano rapinato in strada mentre ritira la pensione, una donna assaltata fuori casa, un autista di autobus aggredito sul mezzo dai balordi. Potrebbero ben essere gravemente turbati. Invece la non punibilità è prevista solo per la legittima difesa domiciliare. Una evidente la irragionevolezza. Un altro profilo di incostituzionalità. L’avvocato: illegittima propaganda, valuterà comunque il giudice di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 marzo 2019 Intervista a Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali: pericoloso che si diffonda l’idea che all’interno del proprio domicilio si possa reagire impunemente. “Cambierà molto poco. La pretesa è chiara, sottrarre alla discrezionalità del giudice la valutazione di un fatto anche molto grave, come può essere un fatto omicidiario. Ma non andrà così, non può andare così. Si sta diffondendo una fake news”. L’avvocato Gian Domenico Caiazza è il presidente dell’Unione camere penali. Dunque è una piccola riforma, secondo lei? Ho letto che anche i protagonisti di vecchie vicende, persone processate per casi di autodifesa armata, persone che proprio i sostenitori della riforma porteranno in parlamento, raccontano di essere state alla fine assolte. Oppure hanno l’onestà di dichiarare che anche con le nuove norme sarebbero state comunque condannate. Com’è normale che sia per chi spara alle spalle a un ladro che fugge e per tutti quei casi talmente eclatanti che non possono evidentemente rientrare nella difesa legittima. Dunque anche i testimonial di questa legge dimostrano che non è una legge necessaria. E allora l’allarme è esagerato? Un momento, un aspetto negativo c’è senz’altro. Si sta diffondendo l’idea che all’interno del proprio domicilio o del proprio luogo di lavoro si possa reagire comunque e impunemente. Per ragioni di pura propaganda si sta presentando questa legge come un evento epocale, quando la modifica vera è stata quella del 2006 che ha introdotto la legittima difesa domiciliare. Andare oltre quella non si può, se non appunto con gli slogan. Potremmo non preoccuparcene, dal momento che nemmeno questa riforma potrà sottrarre la valutazione del caso alla discrezionalità del giudice. Ma purtroppo dobbiamo preoccuparcene, perché può diffondersi una convinzione di impunità, un invito a farsi giustizia da soli che avrà effetti molto pericolosi. Opposti alla tanto invocata sicurezza dei cittadini. Come giudica il criterio del “grave turbamento” come causa di non punibilità? L’intenzione è quella di ridurre l’alea nella valutazione dello stato d’animo di chi spara all’interno del suo domicilio. Ma non ne viene fuori un criterio oggettivo. Come si fa a distinguere il turbamento semplice dal turbamento grave? Siamo davanti all’illusione, per altro non nuova, che con un aggettivo si possa modificare o persino escludere il libero convincimento del giudice. Dal quale invece non si scappa. Anche questa è una falsificazione. Assieme alla creazione artefatta di un allarme che non c’è, come dimostrano i numeri. I casi di legittima difesa sono pochissimi, quattro o cinque l’anno. “Rendere più facile possedere un’arma”: dopo la legittima difesa nuova proposta della Lega Corriere della Sera, 29 marzo 2019 Proposta di legge sottoscritta da 70 deputati: si vuole raddoppiare la potenza delle pistole che possono essere acquistate se il porto d’armi. A poche ore dall’approvazione definitiva della nuova legge sulla legittima difesa, la Lega compie un ulteriore passo per rendere facile l’uso delle armi: Circa 70 deputati hanno sottoscritto un progetto di legge per raddoppiare la potenza dell’arma che può essere detenuta senza licenza. La prima firmataria è la parlamentare Vanessa Cattoi intenzionata a “rendere più agevole l’iter per acquistare un’arma destinata alla difesa personale”. Come? “Aumentando da 7,5 a 15 joule (l’unità che serve anche a misurare l’energia cinetica sviluppata dal proiettile al momento dell’impatto, ndr.) il discrimine tra le armi comuni da sparo e quelle per le quali non è necessario il porto d’armi”. In Italia infatti è possibile detenere un’arma anche senza avere il porto d’armi ma per essere a libera vendita deve avere una potenza inferiore ai 7,5 joule. Al di sopra di quel limite (in Francia è di 40, in Spagna è di 21) si considera arma da fuoco e serve una autorizzazione e denuncia di possesso. Attualmente si può detenere un’arma per uso venatorio, per finalità sportive o per difesa personale. Tuttavia spesso - sottolineano i promotori della proposta - “la richiesta del porto d’armi per uso venatorio è solo un pretesto per avere un’arma in casa per difendersi dai malviventi”. Più difficile e lungo invece - questa la denuncia - l’iter “per ottenere il permesso per difesa personale”. Il placet per portare con sé un’arma viene concesso - soprattutto a benzinai e gioiellieri in virtù dei rischi che corrono - a chi sa maneggiarla, a chi è “in uno stato psico-fisico pressoché perfetto”. L’obiettivo della proposta è velocizzare l’iter dell’acquisto di un’arma per la difesa personale e aumentare la potenza di fuoco dell’arma a libera vendita. Incrementando - da 7,5 a 15 joule “la potenza delle comuni armi da sparo al di sopra della quale è necessario avere il porto d’armi”. L’arma della giustizia fai da te Michele Serra La Repubblica, 29 marzo 2019 In Italia le armi da fuoco in mano ai privati sono, nella quasi totalità, per uso sportivo: circa 700 mila per la caccia, quasi 600 mila per le gare di tiro. Soltanto 18 mila (nemmeno il due per cento del totale, briciole) sono per la difesa personale. Questa modesta percentuale è destinata ad aumentare di molto, e forse di moltissimo, in conseguenza della legge votata ieri dal Senato a larga maggioranza. Una sostanziale liberalizzazione del concetto di legittima difesa. Una legge che sancisce - detto senza retorica, per pura registrazione dei fatti - una storica e forse irrimediabile svolta a destra della società italiana. Vale ricordare, come riferimento esemplare al clima politico e psicologico che ha portato a questo voto parlamentare, che poche settimane fa il ministro dell’Interno ha fatto visita nel carcere di Piacenza, per manifestargli piena solidarietà, a un imprenditore condannato per avere sparato a un ladro di gasolio fatto inginocchiare sul greto di un fiume per ricevere sul posto, e “a caldo”, una punizione non comminata da un tribunale, ma dalla parte lesa. Rito abbreviatissimo. E vale ricordare, sempre per avere ben chiaro il clima, che molte migliaia di persone, brave e oneste persone, non certo esaltati pistoleros, hanno raccolto firme in favore dello sparatore, “uno di noi che si è difeso”, punto e basta. La legge, questo si sa, arriva abbastanza lentamente, e spesso abbastanza blandamente, a porre rimedio al torto (gravissimo) che brucia l’animo del derubato. Chiunque abbia subito una rapina o anche un semplice furto in casa conosce il sentimento di violazione profonda, di spavento, di umiliazione e di infinita rabbia. È una vittima, e specie quando la sua ferita morale è ancora fresca, ogni adempimento di legge, ogni lungaggine procedurale, ogni garanzia dell’imputato, insomma ogni mediazione giuridica gli pare una diluizione inaccettabile del suo diritto di essere vendicato. Dico “vendicato” perché questo è l’istinto di base che governa i sentimenti di ogni vittima; e ne governerebbe anche i gesti se un paio di millenni di civilizzazione non avessero stabilito che è meglio non lasciare la questione della giustizia nelle mani del singolo, o del clan, o della tribù. Per questo esiste lo Stato e per questo esistono le leggi e i tribunali, i giudici e gli avvocati, i poliziotti e i carabinieri: per non abbandonare il ladro e il derubato, l’assassino e i parenti della vittima, in balia della propria rabbia gli uni, della propria colpa gli altri. È lecito credere, ovviamente, che l’uso della forza da parte dello Stato sia troppo blando, le leggi troppo lasche, le forze dell’ordine sottodimensionate. È lecito, dunque, essere d’accordo sull’aumento delle pene che le nuove norme prevedono per il furto in casa e per la violazione di domicilio. Ma questa legge si spinge ben oltre, direi infinitamente oltre, perché assegna allo “spavento” del singolo, alla sua emozione del momento, un vero e proprio potere di vita e di morte. Se ammazzi il ladro, sia entrato in casa tua per rubare una mela o per farti del male, hai comunque messo in pratica il brutale ma inequivocabile slogan che la Lega ha varato per l’occasione: la difesa è sempre legittima. E “sempre” vuol dire proprio sempre. Il dettaglio tecnico delle nuove norme è a disposizione di chi voglia approfondirle. Ma sul loro nocciolo politico, e più ancora culturale, non è che ci sia da farla troppo lunga. Non per caso le associazioni dei magistrati e degli avvocati penalisti, spesso non molto in sintonia tra loro (fanno mestieri diversi), bocciano questa legge per l’evidente “slittamento” dell’esercizio della giustizia dalle mani dello Stato a quelle dei privati. Poche cose da aggiungere. La prima è che, per paradosso, è per mano di un governo nazionalista che un tratto culturale così poco italiano - la familiarità con le armi da fuoco - farà il suo ingresso nella vita quotidiana e nella vita sociale. Per le generazioni di italiani cresciuti nella Repubblica, l’arma da fuoco era per definizione aggregata a una divisa, oppure era un attrezzo sportivo (la caccia, il tiro a segno) senza alcuna parentela con il concetto di difesa personale. Perfino i mitici mitra nascosti dai partigiani nei fienili (non si sa quanti, non si sa se per davvero) avevano il segno inconfondibile della pace e del “deponete le armi”. Sola eccezione di armi private operative erano quelle in dotazione al crimine, da quelle di mafia a Portella della Ginestra alle raffiche di mitra della banda Cavallero contro la folla fino alle P38 orribilmente ricomparse in mano a ragazzi negli anni del terrorismo nero e rosso. Non sarà più così, non facciamoci troppe illusioni. Le armi escono, da questa svolta politica, rigenerate e benedette. Ma alla comprensibile soddisfazione dei produttori, ai quali lo stato maggiore leghista ha da tempo manifestato la più gioviale prossimità, si oppone la comprensibile insoddisfazione, e preoccupazione, di milioni di italiani disarmati, che non amano le armi da fuoco e sanno leggere le statistiche, spietate nello stabilire uno stretto rapporto di causa ed effetto tra la diffusione delle armi e il numero delle sparatorie e dei morti ammazzati. Che di questi morti ammazzati i delinquenti siano solo una parte, e centinaia di innocenti (molte migliaia negli Usa) muoiano nel nome del diritto di portare armi (per legittima difesa, ovviamente), è una triste realtà. Ma triste, sia ben chiaro, è per le persone civili anche il pensiero che il ladro sia ucciso o ferito gravemente piuttosto che arrestato e processato. Non è questo, purtroppo lo sappiamo, il pensiero-guida del ministro dell’Interno: lo fosse, non avrebbe puntato così tante energie ed entusiasmo per questa legge, che definire ammazza-ladri è appena appena forzato. La sua esultanza è comunque coerente e giustificata: si tratta del capo della destra che esulta per l’approvazione di una legge di destra. Rimane stupefacente (non trovo altra parola) l’ignavia o peggio la complicità con la quale gli alleati di governo, in teoria “né di destra né di sinistra”, hanno dato il via libera a questa legge. Hanno il doppio dei voti in Parlamento rispetto a Salvini, meno della metà della sua determinazione e dei suoi princìpi. Ma in Italia uccide più la caccia della rapina di Maurizio Fiasco Avvenire, 29 marzo 2019 Quando sulla sicurezza ci si esonera dall’argomentare con dati e fatti, il risultato è di modificare le leggi penali: “sporcandone” le parole e le intenzioni, e poi lasciando nella sostanza immutato il dispositivo. Con la “riforma” della legittima difesa approvata ieri risulterà un pessimo “spirito della legge”. Sortirà un messaggio che procurerà equivoci nei cittadini, ma non muterà granché il dispositivo della norma. È così in Europa dal Codice di Giustiniano (anno 534) e in Italia dal Codice Rocco (1930) alle successive modifiche negli anni della Repubblica. Solo in tempo di guerra, infatti, può venire meno l’esimente della difesa legittima perché proporzionata all’offesa. E nonostante gli 11 anni di crisi economica, non pare proprio che occorra (e si possa) ribaltare l’ordine civile della Repubblica italiana... Vale la pena, però, di soffermarsi su alcuni dati, tristi e bizzarri a un tempo. Nei pochi mesi della stagione venatoria 2017-2018 le armi da fuoco hanno ucciso 31 persone (e ferito altre 96) che battevano il territorio o semplicemente passeggiavano nei boschi. Ogni quattro giorni, dunque, c’è una vita persa nel rito ispirato a Diana Cacciatrice. Gli dei dell’Olimpo non esistono eppure, a quanto pare, hanno il potere di inibire le polemiche, e quindi di non far suscitare richieste contro i grilletti facili, talvolta persino di cacciatori ebbri di grappa già all’alba, ingerita per contrastare il freddo delle nebbie silvane. I dati sono stati pazientemente raccolti dall’Associazioni vittime della caccia. Sul fronte del crimine “ comune”, le fonti ufficiali (Ministero dell’Interno) documentano invece che nei 365 giorni dell’anno 2016 si sono consumati 19 omicidi “a scopo di furto o di rapina”: il 4,7 per cento del totale dei casi di morti per violenza deliberata. Nel periodo successivo (2017 e 2018) l’incidenza - stando ai dati provvisori - è ancora minore, poiché l’aggressività assassina in totale è ulteriormente scesa di 12 punti. Riflettiamo su questi numeri: diciannove vittime delle violenze strumentali di ladri e rapinatori (anche se non si può dimenticare che nelle 28mila rapine complessive del 2018, in netto calo rispetto al 2017, ci sono stati anche feriti e forti traumi psicologici); 31 caduti perché finiti nel mirino degli appassionati della caccia al cinghiale o ad altre specie animali. Nessun ministro dell’Interno ha battuto ciglio, davanti al ripetersi del secondo tipo di evento. Quando i fatti si eclissano, la politica replica le parole delle piazze di figuranti convocati per fare il tifo per gli ospiti dei talk show. E il cittadino imputato per aver ucciso l’intruso assurge a notorietà e transita in un pomeriggio in tre o quattro “programmi verità” sul “Paese reale in diretta”. E mentre succede questo accade ovviamente anche che le persone competenti scompaiano. Mentre negli studi tv a fungere da opinion leader e da “esperti” siano caratteristi (per non dire macchiette) e onorevoli più o meno arruffapopolo. Così la classe dirigente del cosiddetto “Paese legale” si dimette dalla responsabilità di decidere con coerenza etica davanti agli umori di parte del “Paese reale”. Lasciando all’autonomia dell’ordine giudiziario un nuovo compito “di supplenza”: ripristinare con le pronunce in giudizio il discrimine tra difesa “legittima” e omicidio volontario. Castrazione e “revenge porn”. Il Codice rosso è già nel caos di Viviana Daloiso Avvenire, 29 marzo 2019 Che sia stata un’occasione persa, il dibattito sulle nuove norme contro la violenza di genere contenute nel cosiddetto ddl Codice rosso, è stato evidente quasi da subito ieri alla Camera. Quando su un emendamento discutibile e decisamente poco “incisivo” come quello della “castrazione chimica su richiesta del condannato” (pare un non senso, ma a tanto la Lega s’è spinta per portare avanti un altro dei suoi storici cavalli di battaglia) a dividersi è stata nuovamente la maggioranza, con grillini e leghisti contro e un primo, sensibile rallentamento dei lavori. Il peggio, però, doveva ancora venire. E così è stato dopo che argomento di discussione è diventato il cosiddetto revenge porn, vale a dire la diffusione per vendetta di immagini private (soprattutto tramite i social network) che è stata al centro negli ultimi mesi di almeno due casi di cronaca scottanti: primo, quello della giovane napoletana Tiziana Cantone, suicida nel 2016 proprio per la vergogna d’essere finita nel mirino del popolo del web dopo che il suo ex fidanzato aveva diffuso alcuni suoi video intimi; secondo, più fresco, quello dell’ affaire Giulia Sarti, la giovane deputata del M5s finita nei guai per la mancata restituzione degli stipendi e poi denigrata attraverso la diffusione di chat e video, anche in questo caso, “rubati”. L’occasione del voto sul Codice rosso sembra buona per entrare subito nel merito di questa forma di violenza - sempre più diffusa - e Laura Boldrini (Leu) presenta un emendamento che mirano ad inserire la nuova tipologia di reato all’interno del provvedimento sulle nuove norme contro la violenza di genere. Le opposizioni sono d’accordo e votano compatte a favore, da Forza Italia al Pd fino a Fratelli d’Italia. La maggioranza invece si ricompatta e fa muro: per la relatrice, la pentastellata Stefania Ascari, il revenge porn è oggetto di un provvedimento ad hoc (che proprio ieri è stato illustrato al Senato dal M5s alla presenza della mamma di Tiziana Cantone, Maria Teresa Giglio) e sul tema “c’è massima attenzione e sensibilità”, ma la questione, proprio per la sua delicatezza, “va trattata con serietà ed in modo strutturale e non sventolato in maniera strumentale come una bandiera politica”. Una proposta di legge è già incardinata in Senato ed un mero emendamento non può risolvere la questione, è la linea M5s che boccia così la proposta delle opposizioni. Apriti cielo. Le donne di Forza Italia e Pd si uniscono in un coro di polemiche e attacchi. Il primo, durissimo intervento è quello dell’azzurra Stefania Prestigiacomo: “Oggi stiamo scrivendo una bruttissima pagina di storia parlamentare, abbiamo vissuto in passato momenti esaltanti in quest’Aula quando, grazie all’operosità e all’intelligenza innanzitutto delle donne di tutti gli schieramenti ma anche con il supporto dei colleghi, abbiamo saputo rinunciare a primo geniture in nome dell’approvazione di valori che sono oggi pilastri nel nostro ordinamento giuridico. Oggi invece - continua - in nome dell’egoismo e in nome di una ostinazione incomprensibile noi stiamo rinunciando alla possibilità di dare seguito ad atti votati da quest’Aula perché ricordo che nel mese di novembre abbiamo approvato una mozione a prima firma Carfagna che invocava un intervento della maggioranza e del governo su un tema come questo”. “Vergognatevi, tacete!” le fa eco proprio la collega di partito Mara Carfagna. A questo punto un nutrito gruppo di deputate di Forza Italia, seguite a ruota da Fdi, Pd (con Lucia Annibali in testa) e Leu, occupa i banchi del governo all’urlo di “Onestà, onestà!”. Mentre - nel triste spettacolo dell’Aula nel caos e dei commessi che si fanno largo tra le deputate - la maggioranza intona il controcanto “Nazareno, Nazareno”. I lavori vengono sospesi, il presidente della Camera Roberto Fico convoca i capigruppo e decide di rinviare tutto a martedì prossimo. Tardivamente, dagli Usa Luigi Di Maio smentisce la linea del suo gruppo: “Martedì - assicura - quell’emendamento si vota”. Il primo “manuale” sul whistleblowing, rivoluzione lasciata a metà dalla legge di Daniela Caprino Il Dubbio, 29 marzo 2019 Ad oggi, le tutele per chi rivela illeciti aziendali valgono solo per le imprese dotate del “modello organizzativo gestionale”, notano Parrotta e Razzante, autori del saggio “segnalazione interna”. Un saggio sul whistleblowing “nell’assetto anticorruzione, antiriciclaggio e nella prevenzione da responsabilità degli Enti”. Lo firmano i giuristi Alessandro Parrotta e Ranieri Razzante, che sono così tra i primi a riservare un focus organico a pochi mesi dall’entrata in vigore della prima disciplina italiana sulle “segnalazioni interne” dei casi di malaffare. Il volume, intitolato appunto Segnalazione interna e pubblicato da Pacini Giuridica Editore, affronta la questione in ogni settore giuridico in cui essa è disciplinata. Non si tratta di una pubblicazione destinata esclusivamente agli operatori del settore, ma potenzialmente utile a chiunque voglia approfondire la materia, che per sua stessa natura può riguardare non solo casi particolari ed estremi, ma ampie categorie di soggetti. Gli autori hanno corredato il loro lavoro con esempi pratici e modelli da utilizzare in concreto in ambito aziendale grazie all’esame dell’applicazione del whistleblowing nella prevenzione della corruzione, nei sistemi antiriciclaggio, privacy e sicurezza globale. La prefazione è di Virginio Carnevali, presidente di Transparency International Italia, che tra tutte è l’organizzazione che maggiormente ha approfondito - sin da subito - il tema del whistleblowing. L’etimologia del termine è suggestiva, richiamando l’attività di “soffiare nel fischietto” tipica di un direttore di gara che segnali un’irregolarità di gioco o, meglio, di un agente di polizia (il tipico bobby di matrice anglosassone) nel tentativo di segnalare e bloccare un’azione illecita: non si tratta, tuttavia, di una definizione univoca, ma di una semplice catch word, con cui si accomunano prassi che condividono gli elementi di fondo, ma sottoposte ad interpretazioni ed applicazioni anche molto differenti. Il “lanciatore d’allerta” è un ingranaggio - come rappresentato nella copertina del volume - che può denunciare non solo una condotta penalmente tipizzata: in tutti gli ordinamenti che prevedono forme di tutela per i whistleblowers, infatti, le attività illecite segnalabili, unite efficacemente sotto la locuzione questionable practices, possono corrispondere a violazioni o omissioni di norme di legge, regolamenti, codici di condotta aziendali, procedure di lavoro o, financo, principi etici o morali, cui si possono aggiungere, in alcuni ordinamenti, anche presunti o - sic! - “attesi” illeciti. Un ingranaggio essenziale per l’emersione di fatti da sterilizzare. Ma la legge è al passo? Attualmente tra i vari provvedimenti di adeguamento a tale sistema mutuato dal settore pubblico, sono giunte anche le prime osservazioni e critiche alla legge 179 del 2017 quale novità introdotta per il settore privato. Un provvedimento che, come detto, ha introdotto nuove stringenti norme per le società che abbiano adottato un modello organizzativo così come disciplinato nel decreto legislativo 231/01. In questo modo, tuttavia, la nuova normativa sembra escludere dal novero delle imprese sottoposte a tal nuovo regime tutte quelle società che non si siano dotate di un simile modello organizzativo. Si tratta di una mancanza importante poiché i nuovi obblighi hanno, dunque, una portata circoscritta a chi abbia già scelto di applicare al proprio interno le procedure previste da quel decreto. Come ricordato dagli autori di Segnalazione interna, occorre a monte l’obbligatorietà dell’adozione dei Modelli Organizzativi Gestionali che, ad ogni buon conto, se privi di un’adeguata procedura di segnalazione, potrebbero essere tacciati di inefficacia ai sensi e per gli effetti delle più recenti interpretazioni in materia. “E così uno tira avanti… a meno che uno non torni a mettere l’uniforme e ricominci a soffiare nel fischietto” : è il 1973 quando, nella pellicola Serpico, Ted Beniades, nei panni di Sarno, interloquisce col collega Frank Serpico (interpretato dal mitico Al Pacino), esponendogli le enormi difficoltà, professionali e personali, affrontate nel tentativo di incrinare il muro di omertà eretto dai colleghi del New York Police Department nei confronti delle prime accuse di corruzione. Nello stesso periodo lo scandalo Watergate, da cui sarebbero scaturite la richiesta di impeachment, prima, e le successive dimissioni, poi, dell’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Dall’esame dei primi e più famosi whistleblower - capaci di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, portando alla luce sacche di illegalità radicate in settori ritenuti fino ad allora impenetrabili - il volume viviseziona il fenomeno, quale rivelazione spontanea, effettuata da parte di un appartenente ad un’organizzazione pubblica o privata, di un illecito o di un’irregolarità commessa all’interno dell’ente, del quale lo stesso sia stato testimone nell’esercizio delle proprie funzioni. Padova: ieri inaugurazione dell’anno accademico del Bo al carcere Due Palazzi Il Gazzettino, 29 marzo 2019 Inaugurazione dell’anno accademico del Bo al Due Palazzi. Diciannove matricole sono pronte per iniziare un nuovo percorso di studi, assieme ad altri 44 detenuti già iscritti all’università. C’è chi inizia e c’è anche chi finisce. Ieri è stata anche proclamata la laurea del friulano Nicola Garbino, che ha concluso il suo percorso di studi in Ingegneria meccanica a quattro anni di distanza dalla sentenza di condanna a 18 anni di reclusione per l’omicidio di Silvia Gobbato. Al tavolo tra gli altri il rettore del Bo Rosario Rizzuto, il provveditore delle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia e il direttore della casa di reclusione, Claudio Mazzeo. L’ateneo patavino dentro al Due Palazzi segue, con tutor e docenti che entrano a tenere gli esami, studenti iscritti a giurisprudenza, scienze umane, psicologia, ingegneria, veterinaria, economia e scienze politiche. Dall’anno prossimo verrà introdotta anche la facoltà di scienze motorie. “Mi sono fatto portare i libri e ho studiato la sera, da solo, in cella ha detto Garbino Ora voglio iniziare la magistrale e studiare altri due anni”. Quarantadue anni, originario di Zugliano (Udine) si trova in carcere per i reati di tentato sequestro di persona, omicidio e porto di coltello. Silvia Gobbato, la praticante avvocato di 28 anni, di San Michele al Tagliamento (Venezia) è stata uccisa a coltellate il 17 settembre 2013 mentre faceva jogging lungo l’ippovia del Cormor, alle porte di Udine. Garbino si è laureato con 103/110. “Avevo iniziato a frequentare il corso di Ingegneria meccanica prima di entrare in carcere ha spiegato Garbino per finire mi mancavano quattro esami. Ho sempre desiderato proseguire i miei studi, ma inizialmente non ne ho avuto la possibilità. Nell’ultimo anno e mezzo ho superato l’esame di elettrotecnica, quello di inglese e due prove di misurazioni meccaniche. È stato faticoso, ho dovuto studiare la sera, perché lavoro otto ore al giorno al call center”. Garbino ieri ha ricevuto le congratulazioni delle autorità e i compagni gli hanno dedicato un lungo applauso. “Dedico questo traguardo ai miei genitori ha aggiunto Sabato scorso gli ho fatto una sorpresa, durante il colloquio gli ho detto che mi sarei laureato”. “Vado in pensione tra un anno ha detto il provveditore Sbriglia Questo è uno dei rari momenti in cui, da operatore penitenziario, dico che il tempo non è passato invano. Barlumi di dignità professionale continuano a esistere anche in un mondo così strano come quello del carcere”. Il direttore Mazzeo ha annunciato che alcuni detenuti del laboratorio di musica e coro, prossimamente realizzeranno uno spettacolo serale in occasione del Festival carrarese. Pesaro: come riparare gli elettrodomestici? Lo spiegano le detenute di Monica Cerioni Redattore Sociale, 29 marzo 2019 L’idea di un’associazione di Pesaro, che ha coinvolto otto donne recluse in corsi su come risolvere piccoli problemi con gli apparecchi elettrici e raccontarlo in alcuni video tutorial. La partnership della Onlus con una ditta di assistenza aveva vinto il premio “Volontariato e imprese” del Csv Marche. Corsi di riparazione e video-tutorial per risolvere le più diffuse problematiche degli elettrodomestici. Ormai ce ne sono tanti e non sarebbe un progetto così innovativo, se non fosse che a realizzarli è un’associazione di volontariato con la partecipazione delle detenute all’interno del carcere. L’iniziativa infatti è di Bracciaperte, Onlus di Pesaro impegnata per migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri, attraverso corsi formativi professionalizzanti, laboratori didattici e donazioni di attrezzature e materiali. Quest’anno l’associazione, in collaborazione con la ditta Emmedipi Service che si occupa di assistenza tecnica per elettrodomestici - nel 2014 le due realtà insieme hanno vinto il premio “Volontariato e Imprese” istituito dal Csv Marche, si è impegnata con i suoi volontari nella sezione femminile della Casa circondariale di Pesaro, coinvolgendo alcune detenute prima in un corso e poi nell’ideazione di video-tutorial per dare risposte semplici a domande comuni - ad es. cosa fare se la lavatrice perde acqua? e se non scarica? - evitando così di buttare un elettrodomestico, che magari può esser riparato. Al corso di formazione hanno partecipato otto detenute, apprendendo concetti fondamentali di materie tecniche, come primo passo del progetto. In seguito, con la collaborazione del regista Massimiliano De Simone e di Mario Di Palma, presidente di Bracciaperte, alcune detenute hanno allestito e partecipato attivamente a un vero e proprio set, per la registrazione di una decina di video tutorial, ancora in fase di lavorazione. “É la prima volta che viene realizzato un progetto simile con le detenute del carcere di Pesaro - spiega il presidente di Bracciaperte Mario Di Palma, - e le ricadute positive sono molteplici: per loro è l’occasione di apprendere competenze spendibili fuori per il reinserimento socio-lavorativo, una volta scontata la pena; vengono mostrate soluzioni ai problemi più comuni degli elettrodomestici e, con la prospettiva della riparazione, si riduce la produzione di rifiuti; si offre la possibilità alla cittadinanza ed alle istituzioni di capire che anche “da dentro” possono venir “fuori” progetti utili alla collettività”. Tra gli altri partner dell’iniziativa anche Banca Intesa e Regione Marche, con la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Pesaro e del personale di Polizia Penitenziaria. Napoli: al centro sociale Gridas apre uno sportello a tutela diritti dei detenuti di Serena Costantino crudiezine.it, 29 marzo 2019 Sabato 23 marzo alle ore 17:00, al centro sociale Gridas di Scampia è nato lo sportello di aiuto, ascolto, assistenza legale e psicologica per tutte le problematiche riguardanti la violenza domestica, l’assistenza per cause di ingiusta detenzione, condizioni inumane nelle carceri, sovraffollamento e assistenza problematiche rapporti di lavoro. Lo sportello sarà aperto tutti i giovedì dalle ore 16:30 alle 18:00. Le associazioni che vi operano, da sempre presenti a Scampia, non hanno fini di lucro e agiscono per solidarietà nei confronti di coloro che vivono in condizioni di disagio sociale ed economico. La decisione di far nascere questo sportello è data anche dalla volontà di coprire e assicurare uno spazio a coloro che non hanno a chi rivolgersi. I professionisti che collaborano allo sportello già prestano la loro opera nelle strutture carcerarie, e supportano i detenuti e i loro familiari. Inoltre, qualora ci siano i presupposti, è possibile godere del gratuito patrocinio, quindi non pagare le spese degli avvocati. L’associazione Gridas è detta anche “gruppo del risveglio dal sonno “, e proprio nei mesi scorsi è stata approvata una delibera che definisce l’associazione come facente parte del patrimonio comunale di Napoli. L’opera sociale del suo fondatore, Felice Pignataro, costituisce bene immateriale della città. Lo sportello di ascolto ne rappresenta quindi solo l’ultimo di una lunga serie di passi per venire incontro a chi ha bisogno. Al riguardo abbiamo raccolto la testimonianza di Pietro Loia, attivista dei diritti dei detenuti: “Lo sportello è composto da avvocati volontari che entrano nelle carceri e attivisti per i diritti umani, io ne faccio parte visto che sono un punto di riferimento per i familiari dei detenuti, molti di loro non hanno possibilità economiche per pagarsi un avvocato e gli avvocati del Gridas difenderanno i detenuti meno abbienti con il gratuito patrocinio. Si può considerare un primo risultato del processo “Cella zero”, saranno anche loro presenti a manifestare con noi fuori al Tribunale di Napoli giovedì 18 aprile, data prevista per la prossima udienza del processo suddetto” Catanzaro: “Orizzonti di giustizia sociale”, Giornata in ricordo delle vittime delle mafie Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2019 “Orizzonti di giustizia sociale” è il nome che quest’anno Libera Associazioni e Numeri contro le Mafie ha dato alla Giornata Nazionale in ricordo delle vittime delle mafie che si è svolta nella giornata del 21 marzo. Il Centro per la Giustizia Minorile per la Calabria ha promosso in collaborazione con il Coordinamento Provinciale di Libera di Catanzaro, richiamando il Protocollo di Intesa siglato tra il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e Libera “Associazioni e numeri contro le mafie” siglato nell’anno 2016, una serie di iniziative e di incontri diretti ai minori ed operatori dei Servizi Minorili della Giustizia di Catanzaro e delle Comunità del privato sociale del territorio provinciale, culminata con la partecipazione alla manifestazione regionale che si è tenuta nella Città di Catanzaro in data 21 Marzo 2019. In particolare sono stati realizzati una serie di incontri, sia presso la Comunità Ministeriale di Catanzaro che presso l’Istituto Penale per i Minorenni. Lo stesso dicasi, per il coinvolgimento a livello territoriale dei minori in carico ai Servizi Minorili della città di Reggio Calabria, che sono stati coinvolti in incontri preparatori realizzati dalla sede territoriale di Libera. Quest’anno tra l’altro, in Calabria l’elenco delle vittime comprenderà anche il nome dei giovani stranieri morti nella tendopoli di San Ferdinando anch’essi vittime delle mafie. Gli incontri hanno approfondito sia il tema dato alla giornata, sulla necessità di garantire a tutti pari diritti ed opportunità perché solo in questo modo si può parlare di Giustizia Sociale che, il significato della stessa e l’importanza della partecipazione della società civile nell’offrire vicinanza ai familiari delle vittime delle mafie. È stata altresì colta l’occasione di presentare le altre iniziative svolte da Libera a livello territoriale, per motivare i giovani dell’area penale interna ed esterna ad una partecipazione attiva e diretta in iniziative dall’elevato valore etico e civile e caratterizzate in questi territori da un forte elemento simbolico di educazione all’antimafia. Salerno: una pizzeria all’interno del carcere di Fuorni di Pina Ferro ottopagine.it, 29 marzo 2019 Obiettivo è quello di formare i detenuti con un percorso formativo di qualifica professionale. Aperto il cantiere all’interno del carcere di Fuorni per la realizzazione di una pizzeria sociale che prevede il reinserimento dei detenuti della Casa circondariale “Antonio Caputo”. La posa simbolica della prima pietra è avvenuta lo scorso 25 marzo, alla presenza del direttore della struttura detentiva Rita Romano e del Presidente della Fondazione Casamica, Carmen Guarino. Con l’avvio dei lavori l’iniziativa “La pizza buona dentro e fuori” ha raggiunto così un’altra tappa importante, mentre proseguono le serate in calendario per la campagna di raccolta fondi. Il progetto ad oggi ha visto coinvolti ben 10 operatori della ristorazione, tra pizzerie e ristoranti del territorio, che hanno dato la propria disponibilità ad “ospitare” serate finalizzate a sostenere il progetto sociale per l’inserimento lavorativo dei giovani detenuti. Le cene di solidarietà sono volute da Fondazione Casamica insieme ai partner Fondazione Comunità Salernitana, Assessorato alle Politiche sociali del Comune di Salerno e la Casa Circondariale), L’appello al sostegno per questa importante iniziativa ha dato già i suoi primi frutti. Raggiunta per il momento, grazie alle donazioni, la cifra di 22.742,00 euro. Ma serve ancora un altro piccolo sforzo per raggiungere i € 25.000,00 che occorrono per riuscire a ristrutturare il locale e acquistare le attrezzature necessarie. Il Progetto, ha l’obiettivo di attrezzare un locale, all’interno dell’Istituto di pena di Salerno, con un forno e con tutto ciò che occorre per poter realizzare una Pizzeria e formare i detenuti con un Percorso formativo di Qualifica professionale. Lecco: “Extrema ratio”, la cella diventa un’esperienza multisensoriale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2019 La mostra, dal 27 marzo fino al 6 aprile, nel palazzo comunale di Lecco. Mentre il populismo giudiziario comincia a penetrare pian piano una diversa idea di giustizia e sconto della pena. Così come sta accadendo in questi giorni a Lecco. Il comune, insieme a un’ampia rete di soggetti della società civile, istituzioni, enti, associazioni e realtà sociali, ha aderito all’iniziativa della Caritas Decanale di Lecco e della Caritas Ambrosiana per allestire in città, dal 27 marzo fino al 6 aprile, all’interno del palazzo comunale, la mostra Apac (Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati) e l’installazione Extrema Ratio, all’interno del progetto “Diamoci un’altra chance: quale giustizia?”. “Abbiamo aderito e ospitiamo con piacere in municipio questo progetto perché riteniamo importante accendere un riflettore su temi complessi, e che necessitano di particolare attenzione e approfondimento, come la giustizia, le condizioni di detenzione, la rieducazione dei carcerati -- sottolinea l’assessore alla Cultura del Comune di Lecco Simona Piazza -. I visitatori, attraverso la mostra Apac e l’installazione Extrema Ratio, allestite nel cortile del palazzo comunale, potranno sperimentare l’esperienza della detenzione in una cella carceraria, una breve esperienza multisensoriale, ma di grande impatto che sicuramente sarà fonte di riflessione e spunto di dibattito”. I temi promossi dall’iniziativa riguardano la giustizia: i reati e i crimini rompono il patto sociale di convivenza, generano allarme, paura e senso di insicurezza nella comunità e richiedono risposte efficaci. Le risposte che conosciamo spesso lasciano soli i rei, alle prese con l’espiazione di una pena che non serve a prevenire la recidiva, ma lasciano sole soprattutto le vittime, dirette e indirette, con le loro sofferenze e i danni prodotti dal crimine che hanno subito. Inoltre lasciano soli i cittadini alle prese con le loro paure, insicurezze e un desiderio di giustizia che a volte si trasforma in desiderio di vendetta e in odio. L’attesa e a volte la pretesa di una risposta di giustizia forte, certa e risolutiva che ristabilisca l’ordine sociale sono quasi sempre identificate con la reclusione: al male del crimine si risponde con il male della pena in carcere, convinti che questo raddoppio del male possa generare il bene, per chi ha commesso il reato, con la chiusura in carcere, per chi ha subito il reato, con il sentirsi ripagato del male ricevuto e per la società con il sentirsi anch’essa ripagata e rassicurata per il futuro. Ma la pena detentiva non riesce quasi mai a rieducare il reo e a prevenire la recidiva. Le persone detenute si deresponsabilizzano rispetto alle conseguenze del reato e coltivano un senso di rancore sociale che favorisce un ulteriore coinvolgimento nel mondo criminale. Da questa riflessione prende le mosse il progetto, la possibilità di immaginare una giustizia che si prenda cura di tutte le parti, vittime, rei e comunità, attraverso progetti in grado di promuovere la responsabilizzazione e la riparazione da parte dei rei verso le vittime e la comunità, che li mantenga inclusi nella compagine sociale a garanzia della sua tenuta e dell’ordine sociale. Promuovere l’accoglienza, l’ascolto, i bisogni delle vittime, offrendo loro le opportunità per andare oltre l’esperienza di solitudine. L’iniziativa si sviluppa attraverso l’allestimento di una mostra e di una installazione aperte al pubblico nel cortile del municipio, visite guidate, e tre appuntamenti di riflessione e approfondimento rivolti ai cittadini, ai giovani, alle scuole e agli operatori e volontari del settore sui temi della giustizia e della pena, che si terranno presso l’Auditorium Casa dell’Economia e in sala don Ticozzi a Lecco. La mostra racconta la trentennale esperienza brasiliana basata sul modello di carcerazione “alternativo” gestito dall’Apac, esperienza che, a partire dalle consapevolezza delle condizioni di violenza estrema e recidiva altissima delle carceri brasiliane, si è misurata con il tentativo di recupero, riabilitazione e reinserimento sociale di molti condannati attraverso strutture gestite, in convenzione con le istituzioni regionali e locali, da volontari, personale amministrativo e dagli stessi detenuti. Una scommessa che propone prima di tutto uno sguardo nuovo su chi è in carcere: uno sguardo che crede alla possibilità del cambiamento personale, condannando il crimine, ma salvando la persona. All’interno di questa esperienza i tassi di recidiva sono stati abbattuti dell’ 85%. La mostra sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 13.30 alle 17.30, il sabato dalle 9.30 alle 12. Sono previste inoltre delle visite guidate curate dagli operatori insieme agli studenti dell’IIS Bertacchi di Lecco, all’interno del progetto di alternanza scuola- lavoro su giustizia riparativa e legalità, che insieme illustreranno in modo approfondito i temi della mostra dopo l’esperienza di visita della cella. Stasera, alle 21, ci sarà il primo incontro all’Auditorium Casa dell’Economia di Lecco. Interverranno Luciano Violante (ex- magistrato, docente ed ex- presidente della Commissione Antimafia e della Camera dei Deputati), Francesco Maisto (Presidente emerito del Tribunale di Sorveglianza di Bologna) e Adolfo Ceretti (docente presso l’Università Bicocca di Milano, criminologo ed esperto in materia di giustizia riparativa). Carceri senza sbarre né polizia, con la sicurezza garantita dai volontari e dai detenuti stessi. Utopia? No, è una realtà che da parecchi anni è ben radicata in Brasile. Parliamo del metodo innovativo portato avanti appunto dalle Associazioni di protezione e assistenza ai condannati. L’Apac è un’associazione cattolica della società civile senza scopo di lucro che ha come obiettivo l’umanizzazione della pena privativa della libertà, che rappresenta una alternativa al carcere. In Brasile esistono 147 Apac. La media mondiale della recidiva dei condannati nel mondo è del 70% e in Brasile arriva fino all’ 80%, mentre con i “recuperandi” delle Apac la recidiva scende fino al 20%. Inoltre il costo di costruzione di un posto/ persona è un terzo del costo del carcere comune, e il costo di mantenimento è dimezzato. La metodologia utilizzata nelle Apac nasce 40 anni fa per opera di Mario Ottoboni, un avvocato visionario della Pastorale Carceraria a San Paolo. Oggi è riconosciuta dalla legge Brasiliana e praticata dai Tribunali di 17 Stati Brasiliani. Tale metodologia è basata sul riconoscimento di aver commesso un errore e sulla decisione di cambiare vita all’interno delle carceri Apac. Esse sono strutturate con l’obiettivo della risocializzazione reale dei condannati o “recuperandi”, evitando che, dopo aver espiato la pena, ritornino a commettere crimini. Le Apac non sono solo un modello di recupero dei detenuti, ma anche un’alternativa reale di espiazione della pena, non ci sono né guardie né agenti penitenziari, i “recuperandi” hanno le chiavi della prigione e spesso sui muri si legge “l’uomo non è il suo errore”. Tutto si basa sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto. Le condizioni indispensabili per aprirne uno sono il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Per entrarvi il detenuto deve essere condannato in via definitiva, deve aver fatto un periodo di detenzione nel carcere tradizionale (sempre più affollato in Brasile come in tanti altri Paesi), deve aver fatto richiesta di entrare in un Apac. La vita in queste carceri senza carcerieri né armi, dove i colori predominanti sono il bianco e l’azzurro che richiama il cielo, è scandita da ferree regole: sveglia, preghiera, lavoro. Porto Azzurro (Li): testo dei detenuti di Porto Azzurro al Premio Siae quinewselba.it, 29 marzo 2019 È stato pubblicato anche il testo teatrale scritto dai detenuti del carcere di Porto Azzurro collegato alle attività del laboratorio teatrale. È noto che la letteratura può essere terapeutica: per chi legge ma anche per chi scrive, in quanto raccontando la propria storia se ne distacca e la guarda alla fine in un altro modo. Il teatro e scrivere di teatro (in carcere) diventa così un potente strumento di risocializzazione: un modo per “uscire” dal carcere (o attrezzarsi a farlo) prima che ciò realmente avvenga. Il progetto dell’associazione “Sobborghi”, tra i vincitori del bando Siae destinato alla promozione della creazione culturale, è tutto questo: quattro laboratori in altrettanti istituti di reclusione - a Grosseto, Massa Marittima, Porto Azzurro all’isola d’Elba e Siena - e quattro elaborati selezionati e pubblicati presentati oggi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze. Secondo la vicepresidente e assessore regionale alla cultura, Monica Barni, la Regione Toscana ormai da oltre venti anni finanzia e promuove attività di spettacolo all’interno dell’intero sistema carcerario del territorio. Il bando presentato dalla Siae è altamente innovativo e di livello elevato che ha il merito di portare in carcere sia la drammaturgia che la scrittura drammaturgica. Inoltre è un progetto che fa rete e che è stato in grado di far emergere la realtà di chi vive in carcere. Il progetto dell’associazione “Sobborghi” si evidenzia per il suo operare in rete e i testi raccontano, con linguaggi e forme di scritture anche molto diverse tra loro, le ‘storiè che accompagnano le vite di chi si trova in carcere. Dalla Casa circondariale di Grosseto a quella di Massa Marittima, dalla casa di reclusione De Santis a Porto Azzurro a Santo Spirito a Siena, dove l’associazione “Sobborghi” opera da anni. La scrittura scenica è servi ta a contrastare il senso di vuoto dei penitenziari. Il teatro in carcere, spiegano all’assessorato alla cultura, aiuta l’autoformazione e l’autoanalisi, utile a ritrovare un nuovo senso di sé per poi ripartire. Quattro laboratori, ma anche un concorso. I detenuti di Porto Azzurro, seguiti dalla professoressa Manola Scali, hanno partecipato con il copione inedito “Artuà - Riflessioni sul tema dell’espiazione della pena”. Grosseto, dove a seguire gli incontri c’era Claudio Almasio, ha dato vita al testo “Ti racconto la mia storia”. Con la tutor Sarina Massai Siena ha partecipato al concorso Siae con “Questa tazzina di caffè”, che poi lo ha anche vinto, mentre a Grosseto i laboratori condotti da Massimiliano Gracili hanno preso la forma scenica del copione “La memoria, il tempo”. Tutti e quattro i testi sono stati pubblicati. È stato realizzato anche un video, con le riprese dei laboratori e dello spettacolo, che saranno inserito nel volume. Il copione vincitore del concorso sarà inoltre messo in scena da una compagnia teatrale esterna con almeno dieci repliche sul territorio regionale. Adesso l’obiettivo è quello di replicare questa iniziativa, rendendola biennale. Milano: Vivicittà 2019, le carceri aprono le porte alla sport milanotoday.it, 29 marzo 2019 Al Beccaria a Bollate e a Opera gare da 12 km. Sono più di 600 gli sportivi rinchiusi delle Case circondariali milanesi che la Uisp - Unione italiana sport per tutti - coinvolge in occasione di Vivicittà 2019. Sono previste tre gare podistiche di 12 chilometri l’una, in tre differenti case circondariali. Si parte a Bollate domenica 31 marzo, quindi al Beccaria venerdì 2 aprile e si termina a Opera domenica 7 aprile. Le gare sono parte del progetto Uisp “Vivicittà”, iniziativa che coinvolge più di 60 città in tutta Italia e quasi 20 nel mondo, oltre a più di 24 istituti penitenziari. Migliaia di persone unite per correre insieme, perché lo sport è di tutti. “L’attività sportiva negli istituti penitenziari è un momento di distensione per chi vi partecipa - spiega Antonio Iannetta, dirigente Uisp. Specialmente negli istituti minorili, lo sport può essere un’ottima occasione per acquisire una prima “alfabetizzazione motoria”, oltre ad essere un percorso di crescita e di riscatto sociale”. “Sono 29 anni che con la Uisp facciamo sport nelle carceri - spiega Renata Ferraroni, responsabile del progetto carceri della Uisp - gli istituti penitenziari coinvolti nell’iniziativa più di 20 sparsi in tutta Italia, ma il nostro lavoro non si ferma certo all’iniziativa di Vivicittà, siamo attivi tutto l’anno per quanto ci è possibile, perché lo sport è un diritto di tutti, nessuno escluso. Sos per Radio Radicale: con i tagli all’archivio politica senza memoria di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 29 marzo 2019 Il governo ha deciso di eliminare anche i 4 milioni di aiuti all’editoria impiegati dalla radio per l’archivio. Dal 2020, basta finanziamenti per aggiornarlo, per metterne in rete i contenuti e renderli consultabili dal pubblico anche in futuro. Mentre si fa uso e abuso dell’aggettivo “identitario” il nostro Paese rischia di perdere un pezzo della propria memoria - e dunque anche della propria identità - politica, istituzionale e culturale: l’archivio di Radio Radicale. Senza ragione valida, il governo 5Stelle-Lega non si è limitato a dimezzare i fondi della convenzione che affida a questa emittente il compito di registrare e trasmettere le sedute di Camera e Senato, scesi da 8 a 4 milioni di euro netti l’anno. Ha deciso di eliminare inoltre i 4 milioni di aiuti all’editoria impiegati dalla radio per l’archivio. Dal 2020, basta finanziamenti per aggiornarlo, per metterne in rete i contenuti e renderli consultabili dal pubblico anche in futuro. Oggi la banca dati che Marco Pannella cominciò a far costituire dal 1976 conserva più di 540 mila registrazioni. Tra l’altro di 3.300 congressi di partiti e associazioni, 6.900 fra comizi e manifestazioni, 23.500 udienze di processi. È una miniera che via Internet consente non solo agli storici di ricostruire, con materiale di fonte certa, pagine di storia. L’archivio è disposizione di chiunque. Di chiunque voglia conoscere, anche per criticarle, scelte e personalità politiche di decenni scorsi o di una settimana fa. Uno Stato estraneo a scempi talebani contro il passato non può far disperdere un patrimonio del genere. Sarebbe una ferita alla conoscenza (e coscienza) nazionale e allo Stato stesso che pagò parte del lavoro. In assenza di ripensamenti del governo, da augurarsi, siano altre istituzioni ad agire per salvaguardare l’archivio di Radio Radicale. Qualsiasi utente può servirsene come il direttore della radio. Se ciò è profondamente democratico, negare questa possibilità che cosa sarebbe? “Nella Russia di Putin il giustizialismo è sovrano” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 29 marzo 2019 Zoja Svetova, giornalista, scrittrice e dissidente politica autrice del romanzo “gli innocenti saranno colpevoli”. “La Giustizia come istituzione non esiste più”. Lapidaria e senza appello, la giornalista e scrittrice dissidente russa Zoja Svetova - figlia di dissidenti e prigionieri politici al tempo dell’Unione Sovietica e nipote del primo preside della facoltà di Storia dell’Università di Mosca, fucilato nel 1937 su ordine di Stalin - ci consegna, nella prefazione del suo nuovo romanzo, “Gli innocenti saranno colpevoli” (Castelvecchi) - in cui il racconto, ispirato a fatti realmente accaduti, dell’ingiusta condanna e detenzione del ricercatore Ígor Sutjágin e della studentessa universitaria cecena Zára Murtazalíeva assume uno specifico valore paradigmatico - uno spaccato inclemente della condizione della Giustizia e dei diritti civili nella Russia di Putin. Svetova, le manchevolezze dell’amministrazione della Giustizia in Russia così sono evidenti? Non sempre, ma nella maggioranza dei casi, i giudici emettono sentenze non in base alla legge ma su commissione di taluni gruppi d’interesse. Nel caso di procedimenti politici, quando in Tribunale vengono processati nemici dichiarati del Potere i giudici ricevono indicazioni su quale verdetto emettere direttamente dall’Amministrazione presidenziale. Se, invece, questi dibattimenti hanno come oggetto espressioni concorrenti di attività imprenditoriali si registrano preoccupanti quanto frequenti episodi di corruzione. Altre volte, pur non ricevendo indicazioni di alcun genere, i giudici sanno già quale sentenze emettere per non scontentare l’autorità: in Russia esiste la cosiddetta tendenza all’accusa e, in una situazione siffatta, le sentenze di assoluzione sono inferiori all’un percento. Se si considera invece l’attività dei giudici della Giuria Popolare, le sentenze di assoluzione emesse sono in numero maggiore e si aggirano intorno al dieci- quindici percento. In questo suo romanzo si mette anche nei panni di una giudice. Cosa ha provato? Ho cercato di comprendere come una giudice professionista possa emettere una sentenza di colpevolezza nei confronti di una persona innocente. Sono consapevole del fatto che il giudice tema conseguenze negative qualora dovesse emettere una sentenza invisa al Potere e che quindi, per mettere a freno la coscienza, possa mentire a sé stesso dicendosi che la persona è comunque colpevole in ogni caso, semplicemente alla conclusione dell’investigazione non sono state rinvenute prove che lo dimostrassero. Ha registrato negli ultimi tempi un inasprimento della stretta sulle libertà e sui diritti civili? Nel corso di questi ultimi anni il governo russo si sta trasformando in un regime totalitario. Non solo la libertà di parola, ma la stessa libertà individuale viene sempre più minacciata: basti pensare alle vere e proprie persecuzioni nei confronti degli omosessuali e dei blogger che, attraverso i re-tweet sui social, diffondono informazioni considerate deleterie dal potere. Vengono perpetrate vessazioni anche verso chi ha partecipano a manifestazioni pubbliche. Ultimo esempio: pochi giorni fa, a Mosca, ha avuto luogo un meeting in favore della libertà della Rete: i partecipanti avevano un gran numero di palloncini di cui i poliziotti hanno vietato l’uso per poi requisirli con la scusa che potessero rappresentare un pericolo. A conclusione della manifestazione, le forze di polizia hanno permesso ai partecipanti di guadagnare liberamente la stazione della metro, per poi raggiungerli, percuoterli e arrestarli. Non c’era alcun motivo in quanto si trattava di un evento autorizzato. Quanto è labile in Russia, in questo momento, il confine tra censura e auto- censura? Esiste una precisa linea di demarcazione tra censura e auto-censura. L’auto-censura consiste nel fatto che i giornalisti preferiscano non nominare il Presidente con nome e cognome - criticando quindi apertamente l’operato di Putin - oppure cercano di non attaccare deputati, giudici o semplici funzionari statali in quanto essi potrebbero infliggere delle penali capaci di condurre alla rovina economica i media e le case editrici verso cui sarebbero dirette. Armeni che vanno, armeni che restano...vecchia storia di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2019 Felice conclusione (o quasi, viste le difficoltà, ma di questi tempi bisogna accontentarsi) per la vicenda della “messa continua” in una chiesa a L’Aia. Lo scopo, impedire alla polizia di entrare in chiesa per arrestare e deportare la famiglia Tamrayzan, armena e composta da cinque persone (Sasun e Anousche Tamrazyan e i loro tre figli, Hayarpi, Warduhi e Seyran). Da otto anni in Olanda e ben inseriti nella comunità - con un figlio che frequenta l’Università e gli altri due le scuole dell’obbligo - rischiavano di essere rispediti nel loro paese di origine in quanto l’Armenia non è più considerata “a rischio” (anche se il padre è un dissidente politico ripetutamente minacciato di morte). Il culto, a cui partecipava la famiglia, è durato circa tre mesi (95 giorni), ininterrotto. Contando sul fatto che la legge olandese proibisce alle forze dell’ordine di interrompere una funzione religiosa, dal 25 ottobre 2018 al gennaio 2019 centinaia di pastori (circa 650!) si son dati il cambio. A ideare lo stratagemma il pastore Theo Hettema, presidente del consiglio generale della Chiesa protestante olandese. Oggetto dello scontro tra chiesa riformata olandese e istituzioni anche la legge denominata children’s pardon. Ideata come un’amnistia (!?!) per i minori presenti in Olanda da cinque anni, ma applicata con estrema prudenza, per usare un eufemismo, dal governo. Ora dovrebbe venir rivista anche la situazione di altri 700 bambini (e relative famiglie) ed è probabile che le maglie dell’accoglienza vengano allargate. Completamente differente invece l’esito del contenzioso (chiamiamolo così) tra l’ultimo armeno rimasto in Afrin (Rojava) dopo l’occupazione dell’esercito turco e delle bande integraliste. In particolare con la milizia filo-turca Sultan Murad, al momento insediata sulla strada di Jandaris, vicino al centro di Afrin (dove ha aperto una moschea). Dopo essere stato sottoposto a ogni genere di angherie, il commerciante Harut Kifork ha deciso di abbandonare la sua casa e il suo negozio di chincaglierie - ereditati dal padre - e di andarsene ad Aleppo. Da sfollato o da profugo interno, fate voi. Così va il mondo, o almeno questo. Frustate, lapidazioni e amputazioni: in Brunei entra in vigore il nuovo codice penale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 marzo 2019 Dice Hassanial Bolkiah, il sultano del Brunei, che “è Dio ad aver ha creato le leggi e quindi noi possiamo usarle per ottenere giustizia, anzi questo è il nostro dovere”. Così mercoledì 3 aprile, nel piccolo ex protettorato britannico, un’enclave di meno di mezzo milione di abitanti nel Borneo (Malaysia), rischia di entrare in vigore la terza e ultima parte del nuovo codice penale ispirato alla shari’a, il corpus di norme di derivazione islamica. Il Brunei è il primo paese asiatico ad aver adottato la shari’a come fonte della legislazione nazionale applicabile alla popolazione musulmana, due terzi del totale. D’ora in poi i “reati” di adulterio e relazione omosessuale potranno essere puniti con le frustate e la lapidazione, l’apostasia verrà sanzionata con la pena di morte e ai ladri verranno amputati gli arti. L’annuncio dell’imminente entrata in vigore delle nuove norme voleva passare sotto silenzio. Le autorità di Brunei hanno cercato di non finire sotto i riflettori, limitandosi a un comunicato sul sito della procura generale che non è stato ripreso dalla stampa locale. Ma le organizzazioni per i diritti umani hanno diffuso la notizia, di cui per fortuna sta parlando il mondo intero. C’è la possibilità che il sultano faccia marcia indietro. Arabia Saudita. Liberate tre delle attiviste per la guida arrestate a maggio di Francesca Caferri La Repubblica, 29 marzo 2019 Torturate e molestate in carcere, erano state fermate per la loro attività in difesa dei diritti femminili. Le autorità saudite hanno liberato tre delle attiviste per il diritto alla guida arrestate nel maggio scorso. Aziza Yousef, Eman al Nafjan e Ruqayya Almuhareb hanno potuto lasciare il carcere di Riad dove erano detenute e tornare nelle loro case in attesa della conclusione del loro processo, prevista per le prossime settimane. Domenica dovrebbero essere rilasciate le altre attiviste incarcerate, fra cui Loujain al Hatloul, Hatoon al Fassi e Samar Badawi. La liberazione è soltanto temporanea e non significa la fine dell’iter giudiziario: la condanna o l’assoluzione per i crimini di cui sono accusate - aver collaborato con associazioni straniere, aver tentato di creare un’ong senza autorizzazione, aver aiutato Paesi stranieri contro gli interessi dell’Arabia Saudita - sarà decisa nelle prossime udienze del processo, previste per l’inizio di aprile. Ma il fatto che alle donne sia stato concesso per la prima volta di tornare a casa è il segno che la fortissima pressione internazionale sul governo saudita, già nel mirino per l’omicidio di Jamal Khashoggi, ucciso a ottobre nel consolato saudita di Istanbul, ha funzionato. Ieri le undici donne erano apparse davanti ai giudici per la seconda volta dall’arresto: chi le ha potute vedere, le ha descritte come “l’ombra di se stesse”. In lacrime e consolandosi l’una con l’altra, hanno dettagliato gli abusi sessuali e le torture subite dal momento dell’arresto: scariche elettriche, frustate, privazione del sonno, minacce di morte e di stupro.