“Il sovraffollamento non è una fake news”. Parola di Garante di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2019 La relazione di Mauro Palma al Parlamento. “La percezione della mancanza di sicurezza è tema che viene sempre frapposto a chi - come il Garante - cerca di trovare quel baricentro avendo ben chiaro che ogni persona, nativa o straniera, libera o ristretta, capace o meno di intendere o in qualsiasi altra condizione ha diritto al rispetto della propria dignità personale e alla propria integrità psichica e fisica”. Lo ha detto ieri il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà, Mauro Palma, nella sua relazione al Parlamento. “Un diritto - ha aggiunto il Garante - che comporta altresì l’obbligo di garantirle la maggiore autodeterminazione possibile nei limiti dati dalla sua condizione e nel contesto dei valori e principi che la nostra Costituzione tutela. A essi io aggiungo il diritto alla speranza”. Un intervento illuminato ed illuminante quello del Garante in un periodo in cui populismo giudiziario, razzismo e xenofobia mettono in pericolo il rispetto dei diritti delle persone private della libertà - detenuti, migranti, uomini e donne non autosufficienti -, “indipendentemente dalla ragione che abbia determinato tale privazione, nella consapevolezza che queste persone sono tutte unite da una intrinseca vulnerabilità che richiede protezione”. Palma, coadiuvato nell’esposizione della Relazione dalle due componenti del Collegio del Garante - Daniela de Robert ed Emilia Rossi - ha sottolineato, in contrapposizione ai semplicistici slogan “chiudiamo i porti”, “gettate la chiave e fateli marcire in galera”, che la percezione di personale insicurezza, alla base di specifici provvedimenti atti a ridurre per tutti i margini di libertà e alla quale invece si contrappongono dati e statistiche per cui, ad esempio, si assiste a una radicale diminuzione dei reati, “non può essere semplicemente assunta, da parte di chi ha responsabilità istituzionali, come un dato, fisso e ingiudicabile; non può costituire il criterio informatore di norme né di decisioni amministrative perché queste hanno sempre un valore di costruzione del sentire comune e chi ha il compito di regolare e amministrare la cosa pubblica ha altresì il compito di scelte che possono talvolta andare contro la supposta percezione della collettività, proprio per dare ad essa una prospettiva meno angusta e un orizzonte di evoluzione”. La Relazione - esposta alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, del Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico, del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del Presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, del Presidente del Cnf Andrea Mascherin, raccoglie le osservazioni, le analisi, le criticità emerse nel corso dell’anno a seguito delle visite effettuate negli istituti di pena per adulti o minori, nelle Rems, nelle camere di sicurezza delle diverse Forze di polizia, nei centri di trattenimento per i migranti irregolari, hotspot e anche su una nave. Il sovraffollamento non è una fake news. Lo ha specificato il Garante: alla data del 26 marzo 2019 su 46904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena erano presenti 60.512 persone; 13608 detenuti in più, con un sovraffollamento del 129%. Della stessa idea il presidente Fico che nel suo discorso di apertura aveva detto: “Il sovraffollamento delle carceri diventa una pena aggiuntiva; su questo i miglioramenti sono stati timidi e parziali in questi anni”. Palma ha poi dichiarato: “l’attenzione geometrica alla “ cella” non deve far perdere il principio che la persona detenuta deve vivere la gran parte della giornata al di fuori di essa impegnata in varie attività significative. Il nostro modello di detenzione continua, al contrario, a essere imperniato, culturalmente e sul piano attuativo, sulla permanenza nella “cella”, così vanificando la proiezione verso il dopo e il fuori”. Suicidi - Nel 2018 i casi di suicidio sono stati 64: un numero che ha segnato un picco di crescita rispetto all’anno precedente (50 nel 2017) e che ha raggiunto un livello che non si riscontrava dal 2011. Nei primi tre mesi del 2019, dieci persone si sono tolte la vita in carcere, circa una a settimana. Migranti - Non è possibile “guardare positivamente la riduzione della pressione sul nostro Paese della migrazione” “senza rivolgere lo stesso sguardo al numero di morti in quel mare che un tempo era “nostrum” in quanto condiviso da entrambe le sponde e che ora si è tramutato in un muro”. Così il Garante Palma, che ha aggiunto che deve essere “doveroso e assoluto” il “rispetto del principio di non rinviare le persone verso Paesi in cui possano essere a rischio di trattamenti inumani o degradanti se non di torturà. Il Garante ha effettuato, nel corso del 2018, 42 visite (con l’accesso a 100 luoghi di diversa tipologia e delle diverse aree d’intervento) e monitorato 34 voli di rimpatrio forzato, in particolare verso la Tunisia e la Nigeria e le persone rimpatriate sono state complessivamente 6.398. Hotspot - Gli hotspot attualmente operativi sono quattro: Lampedusa (Agrigento), Messina, Pozzallo (Ragusa) e Taranto. Nei primi due mesi e mezzo del 2019 sono passati per gli hotspot 417 persone, di cui 27 donne, 62 minori di cui 18 non accompagnati (Msna). La permanenza media all’interno di tali Centri varia molto: ben 37 giorni a Messina, 4/ 5 giorni a Lampedusa, 72 ore a Pozzallo (48 ore per i Mnsa), 12 ore di Taranto (2 ore per i Msna). Si tratta di dati che confermano la problematicità degli hotspot nei quali le persone sono trattenute senza un mandato dell’autorità giudiziaria. Ciò pone un problema di legittimità ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e dell’articolo 13 della Costituzione italiana. Rems - La riforma che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e alla nascita delle Rems sta superando la fase di rodaggio, con buoni risultati in linea generale nelle Residenze per misure di sicurezza che ospitano (al 31 dicembre) 629 persone. Tuttavia, 249 di queste sono in misura provvisoria e dei 357 in misura definitiva solo il 46 percento ha un trattamento riabilitativo individuale. Si va da situazioni come la Basilicata, l’Emilia Romagna e il Friuli dove è stato predisposto per tutti i pazienti, a quelle di Calabria, Sardegna, Toscana e Veneto dove non è stato predisposto per alcuno dei pazienti. Va rilevato inoltre il fatto che vi sono 63 che attendono in carcere di entrare in una Rems. Si tratta di persone che hanno finito di scontrare la loro pena e che, pur tuttavia, non trovando posto in una strutture per l’esecuzione della misura di sicurezza rimangono in carcere, una detenzione il cui fondamento legale appare dubbio. Trattamenti sanitari obbligatori - Il Garante nazionale, anche in base ai monitoraggi effettuati, ha espresso perplessità rispetto all’effettiva indipendenza garantita in molte situazioni dai pareri dei due diversi medici previsti dalla legge per potere disporre un Tso. Il Garante nazionale sollecita inoltre la previsione per legge di un registro nazionale dei Tso, nonché la predisposizione di un sistema di reclami. Carcere, il Garante bacchetta le istituzioni: “Cambiare linguaggio” di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 28 marzo 2019 Mauro Palma presenta la Relazione annuale sulle persone private della libertà davanti alle più alte cariche dello Stato. Il sovraffollamento non è una fake news. Come non lo è l’aumento dei suicidi, l’abuso dell’isolamento disciplinare, l’allungamento della detenzione dei migranti. “La sofferenza, sia essa la risultante di proprie azioni anche criminose, del proprio desiderio di una vita diversa e altrove, della propria vulnerabilità soggettiva, merita sempre riconoscimento e rispetto. Merita un linguaggio adeguato, soprattutto da parte di chi ha compiti istituzionali. L’espandersi di un linguaggio aggressivo e a volte di odio, costruisce culture di inimicizia che ledono la connessione sociale e che, una volta affermate è ben difficile rimuovere”. Così Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ha concluso la sua Relazione annuale al cospetto delle più alte cariche dello Stato, tra le quali il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il Presidente della Camera, il presidente della Corte Costituzionale e il ministro della Giustizia. A proposito di linguaggio aggressivo echeggiavano nella testa di tutti i presenti a Montecitorio quelle espressioni truci, anti-costituzionali, oggi ricorrenti nella retorica istituzionale, come “marcire in galera” o “buttare la chiave”. Straordinaria, alla luce dei tempi che stiamo vivendo, è la relazione del Garante, nella sua capacità di tenere insieme un alto piano teorico con una dimensione statistica ed empirica, frutto delle visite effettuate in oltre cento luoghi di privazione della libertà. “Bisogna avere visto”, scriveva uno dei più grandi giuristi del novecento, Piero Calamandrei, nel secondo dopoguerra, a proposito della sua richiesta di un’inchiesta sulle carceri e sulla tortura. Il Garante nazionale è andato dunque a vedere cosa accade nelle carceri per minori e adulti, nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine, nei centri di rimpatrio per migranti, nelle navi trasformate in luoghi improvvisati di privazione informale della libertà, nelle case per disabili e anziani. Un monitoraggio istituzionale e indipendente non neutro, perché non esiste neutralità quando si tratta di promuovere e proteggere la dignità umana. “Oggi e dentro”, secondo Mauro Palma, è la forma semplificata di governo del complesso sistema penitenziario. È ritenuto troppo poco conveniente dal punto di vista politico investire “sul domani e sul fuori”. I reati calano, il numero di detenuti che entra in carcere dallo stato di libertà cala, ma cresce il sovraffollamento. Come può accadere? Accade perché una volta che i detenuti sono entrati in carcere, sempre più si “butta la chiave”, in quanto i giudici non si fidano delle misure alternative alla detenzione. Il sovraffollamento non è una fake news. Al momento ci sono nelle carceri italiane circa 60 mila persone, 10 mila in più rispetto alla capienza regolamentare totale, 3 mila in più rispetto a un anno addietro. Il sovraffollamento carcerario, che il presidente della Camera Roberto Fico, senza troppi giri di parole, ha definito una “pena aggiuntiva” è esito di questa cultura dell’oggi e del dentro. Il sovraffollamento produce sofferenza, riduce l’area dei diritti esigibili, accresce la fatica e la frustrazione degli operatori penitenziari, degrada le persone in numeri. È questa una delle possibili spiegazioni dei sessantaquattro suicidi del 2018, ben ventiquattro in più rispetto al 2016. Ogni suicidio deve interrogarci intorno al modello di pena prescelto. Una diversa, più aperta e articolata vita all’interno delle carceri favorirebbe un allentamento dei pensieri di morte e di violenza. La relazione del Garante ha cancellato un’altra ricorrente fake news, ossia che in quelle carceri dove si sperimenta una maggiore libertà di movimento (la cosiddetta sorveglianza dinamica) sarebbero aumentate le aggressioni al personale. Falso. La maggior parte delle aggressioni avviene nelle sezioni ordinarie e non in quelle aperte. Le parole chiave devono essere in un carcere normalità e responsabilità. Non è invece una falsa notizia l’abuso dell’isolamento disciplinare nei confronti dei detenuti, pratica che dovrebbe essere usata con grandissima parsimonia, visti i rischi sull’integrità psico-fisica di chi vi è sottoposto. Nel solo 2018 sono state inflitte invece ben 8.577 sanzioni di isolamento. Un’enormità, praticamente il doppio rispetto al 2016. È questo segno di una gestione del carcere fondata sul meccanismo punitivo. È infine una fake news affermare che l’allungamento della detenzione amministrativa dei migranti serva a favorire l’identificazione e dunque il rimpatrio. Delle poco più di quattromila persone transitate nei Centri, nel corso del 2018, meno della metà è stata effettivamente rimpatriata. Il numero totale delle persone rimpatriate con la forza nel 2018 è stato pari a 6.398. Non si investe viceversa nei ben più efficaci rimpatri volontari. Ma questi ultimi richiedono pazienza, fatica, complessità che, come abbiamo visto, sono parole estranee alla cultura truce di chi ci vede tutti come followers ed elettori, e non come persone. Carcere, l’allarme non basta più. Dalle statistiche si passi alle soluzioni di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 28 marzo 2019 Ascoltare la relazione del professore Mauro Palma ha confermato che di giorno in giorno vi è un allarmante peggioramento delle condizioni di coloro che sono private della libertà personale, siano essi in carcere, nelle Rems, nelle camere di sicurezza, nei centri di permanenza per il rimpatrio, negli ospedali o su mezzi di trasporto in cui le persone sono trattenute. Sono trascorsi, infatti, solo nove mesi dalla precedente relazione del Garante - ritardata in attesa dell’insediamento del nuovo Parlamento, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 - ed il rapporto è preoccupante, anche perché non s’intravede all’orizzonte una possibilità di miglioramento. Le giuste osservazioni, nell’indirizzo di saluto del Presidente della Camera, infatti, non trovano alcun riscontro nella realtà. Elogiare la Costituzione che garantisce i diritti fondamentali anche a chi è privato della libertà personale, dichiarare che il sovraffollamento è tutto ciò che ne deriva costituisce una pena aggiuntiva che non trova alcuna giustificazione, che la pena deve mirare al reinserimento sociale del condannato e restituire alla società una persona migliore e che le carceri non devono essere più “non luoghi”, ma “cantieri” in cui si lavora per garantire una nuova vita al detenuto, sono affermazioni in linea con il minimo di legalità che si richiede ad un Paese civile. L’analisi del Presidente della Camera è obiettiva e fotografa la drammatica situazione in cui versano le nostre carceri da tanti anni. Dalla terza carica dello Stato e da un importante dirigente del Movimento 5 Stelle, ormai al Governo da più di un anno, ci aspettiamo non affermazioni “di rito”, ma azioni concrete che traducano in fatti il suo pensiero, perché l’unica strada da percorrere è già tracciata, ma ha trovato lo sbarramento proprio dell’attuale maggioranza che ha impedito alla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario di diventare Legge, così come previsto dalla Delega del Parlamento al Governo. Presenti in sala il Presidente del Consiglio Conte e il Ministro della Giustizia Bonafede, che nulla hanno fatto sino ad ora per diminuire il sovraffollamento e garantire un’esecuzione della pena allineata ai principi costituzionali. Il Garante Nazionale ha messo in luce le molteplici ferite che continuano a devastare il corpo delle garanzie dovute alle persone private della libertà personale. È necessario fare tesoro della sua relazione ed intervenire subito per invertire la rotta di una politica che sembra non rendersi conto del baratro in cui sta facendo precipitare il nostro Paese, in materia dei diritti civili minimi. Una mattinata alla Camera, dunque, interessante, ma ad inviti. Una giornata importante e degna di un Paese civile. Ad ascoltare donne e uomini delle istituzioni e addetti ai lavori. Una platea che conosce bene la cronica ed eterna violazione dei diritti delle persone private della libertà personale. Non sono concesse repliche altrove. Peccato! *Avvocato, Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi In carcere ai detenuti viene tolto tutto. Non solo lo spazio di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2019 Finanche nel pensiero scientifico l’umanità ha a lungo creduto che il vuoto coincidesse con il nulla. Che non avesse caratteristiche, che non sapesse contribuire al pensiero. In matematica, la sostituzione dello zero al semplice spazio vuoto è acquisizione tutto sommato recente. Eppure il vuoto ci parla, come scrive il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella sua Relazione annuale al Parlamento, presentata questa mattina alla Camera dei deputati davanti al Capo dello Stato, al capo del governo, al presidente della Camera, al ministro della Giustizia, al presidente della Corte costituzionale e a tante altre autorità che hanno affollato una sala silenziosa e attenta alle parole di Mauro Palma, presidente del collegio del Garante. Il vuoto ci parla dell’assenza, ci parla di ciò che abbiamo scelto di negare e che finisce anch’esso per essere presente. Come racconta la Relazione, le criticità che si sviluppano all’interno di comunità di persone ristrette - nelle carceri, nei centri di detenzione amministrativa per stranieri, nelle residenze sanitarie - vengono troppo spesso affrontare con la logica della sottrazione. Si tenta di avvicinarsi al vuoto. Si sottraggono oggetti alle persone private della libertà, nel migliore dei casi per evitare che si facciano del male. Si sottraggono spazi di vita, di interazione. E inevitabilmente si finisce per sottrarre soggettività, la parola chiave attorno alla quale la Relazione del Garante ruota. L’istituzione, i media, la società tutta conoscono delle persone ristrette solamente i numeri. Sulle persone detenute, e ancor più sui migranti irregolari, si è sviluppato un “confronto computistico” che nega loro ogni soggettività. Va cambiato questo racconto e va cambiato il linguaggio che esso utilizza. “Soprattutto da parte di chi ha compiti istituzionali”, afferma Palma. “Ben sapendo”, continua, “che il linguaggio è il costruttore di culture diffuse e l’espandersi di un linguaggio aggressivo e a volte di odio costruisce culture di inimicizia che ledono la connessione sociale e che, una volta affermate, è ben difficile poi rimuovere”. In ambito penale, il Garante nota come il sovraffollamento penitenziario non sia una fake news - come affermato di recente dal capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, seduto oggi in prima fila ad ascoltare la presentazione - e non sia dovuto a un aumento degli ingressi in carcere, bensì a una diminuzione delle uscite. Ciò può derivare da vari fattori, tra cui la maggiore debolezza sociale di chi è in carcere, che rende difficile persino accedere a un avvocato che chieda una misura alternativa alla detenzione, e l’erosione della cultura capace di vedere nella misura alternativa un processo virtuoso di reintegrazione sociale. Un’erosione che abbiamo toccato con mano nelle scelte legislative di questo governo e nelle grida alla certezza della pena come qualcosa che verrebbe minato dalla possibilità di espiare tale pena in una forma diversa da quella carceraria, ma non per questo più incerta. Alle Asl il Garante chiede un impegno maggiore nell’erogazione dei servizi sanitari all’interno del carcere, dove la tutela del fondamentale diritto alla salute non è ancora sufficientemente assicurata. Contestualmente, chiede al Parlamento che intervenga per equiparare la malattia mentale a quella fisica, nella possibilità che oggi solo quest’ultima comporta di sospendere l’esecuzione penale. Gli altri tre ambiti sui quali stamattina si è soffermato il Garante sono quelli della privazione della libertà legata ai processi migratori, della privazione della libertà nelle stazioni di polizia e nelle caserme dei Carabinieri, della privazione della libertà in ambito sanitario. Non sono qui nelle condizioni di approfondirli. Dirò solo che, per quanto riguarda il primo ambito, il cosiddetto decreto Salvini ha portato il tempo massimo di permanenza nei Centri per il rimpatrio da tre a sei mesi. Delle 4mila e rotte persone transitate nei centri durante il 2018, solo il 43% è stato rimpatriato. Se si guarda all’andamento di tale valore, si vede come la percentuale rimanga sostanzialmente immutata nel corso degli anni, mentre la durata massima di permanenza oscillava tra uno e 18 mesi. Segno evidente della mancata correlazione tra le due cose e della misura esclusivamente propagandistica contenuta nel decreto. “Chi ha il compito di regolare e amministrare la cosa pubblica”, ha detto Palma, “ha altresì il compito di scelte che possono talvolta andare contro la supposta percezione della collettività, proprio per dare a essa una prospettiva meno angusta e un orizzonte di evoluzione”. La percezione di insicurezza - e a nulla vale ribattere con i dati sulla netta diminuzione dei reati negli ultimi anni, in quelli della supposta invasione migratoria - è ciò con cui oggi si giustificano politiche miopi, non consone alla cultura dei diritti e anche crudeli. La Relazione al Parlamento del Garante dei diritti dei detenuti getta uno sguardo alto e di respiro su un universo troppo chiuso e stretto. Non solo architettonicamente. *Coordinatrice associazione Antigone Il lungo male delle carceri italiane di Enrico Cicchetti Il Foglio, 28 marzo 2019 I sintomi sono sempre gli stessi: affollamento, poche misure alternative, aumento dei suicidi. E sui migranti trattenuti sulle navi Mauro Palma dice che “la privazione della libertà non può essere un messaggio politico”. Nella sua relazione annuale al Parlamento, il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma torna a fotografare la situazione delle carceri e dei luoghi di privazione della libertà in Italia. Una realtà che presenta ancora gli stessi sintomi di una malattia di lungo corso, diagnosticata e discussa da anni ma che ogni volta sembra incancrenire: l’affollamento carcerario, la mancanza di accesso alle misure alternative, l’aumento dei suicidi. Il Garante ha visitato cento diversi luoghi fra il 2018 e l’inizio del 2019: istituti di pena per minori e per adulti, centri per migranti, Rems (le strutture sanitarie che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari), i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, ha ispezionato anche la nave della Guardia costiera Diciotti e ha monitorato trentaquattro voli di rimpatrio forzato. Erano presenti alla relazione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il guardasigilli Alfonso Bonafede, il premier Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico. Nessun partecipante di ala leghista. È sempre lo stesso paradosso italiano: diminuiscono i reati - anche quelli che dovrebbero creare maggiore allarme (stupri, furti e rapine, omicidi) - ma aumentano i detenuti. E c’è di più. Fino al 26 marzo 2019 su 46.904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena del paese erano presenti 60.512 persone: c’erano insomma nelle galere italiane 9.998 detenuti in più, con un sovraffollamento del 120 per cento. Al 31 dicembre 2017 i detenuti erano 57.608 contro i 59.655 alla stessa data del 2018. Una crescita, in un solo anno, di oltre duemila detenuti. Eppure l’aumento non è dovuto a un maggiore ingresso di persone in carcere - che rispetto all’anno precedente sono diminuite di 887 unità - ma a 1.160 dimissioni dal carcere in meno. In altre parole, in carcere si entra di meno ma si esce anche di meno. Perché? Molto probabilmente perché si utilizzano poco le misure alternative al carcere, secondo il Garante. Ci sono 5.158 persone con pena inferiore a un anno o compresa tra uno e due anni che potrebbero usufruirne, ma che rimangono all’interno degli istituti. Per altro, dalle statistiche di cui il ministero della Giustizia ha tenuto conto nell’elaborazione della riforma dell’ordinamento penitenziario emerge che per chi sconta la pena in carcere il tasso di recidiva è del 60,4 per cento. Invece, per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione, la recidiva scende al 19 per cento, ridotto all’1 per cento per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. “Sono anche le condizioni di precarietà sociale dei detenuti a pesare sul mancato ricorso alle misure alternative”, spiega al Foglio Claudio Paterniti Martello, ricercatore dell’associazione Antigone. “Se non hai una casa né la possibilità di accesso al lavoro, se non padroneggi i codici del sistema né hai un avvocato di fiducia è più difficile che tu sappia che puoi chiedere una misura alternativa. Ed è più probabile che la domanda venga rigettata perché fatta male. In uno stato liberale e garantista devono per l’appunto essere solide le garanzie che consentono il beneficio effettivo dei diritti, come il diritto a una pena rispettosa della dignità e volta al reinserimento nella società, secondo quanto previsto dalla nostra carta costituzionale”. E secondo la relazione del Garante, in Italia queste sono ancora troppo deboli. Nel 2018 i casi di suicidio sono stati 64: un numero che ha segnato un picco di crescita rispetto all’anno precedente (50 nel 2017) e che ha raggiunto un livello che non si riscontrava dal 2011. Nei primi tre mesi del 2019, 10 persone si sono tolte la vita in carcere, circa una a settimana. Trentasette persone, la maggior parte, non avevano ancora una pena definitiva: tra questi 22 erano ancora in attesa del primo giudizio. L’età media era di 37 anni e il più giovane ne aveva solo 18. Ancora di più colpisce il picco di suicidi in prossimità del fine pena: 17 persone sarebbero uscite in meno di 2 anni, 3 entro l’anno. Il caso della Diciotti, sul quale il vicepremier Matteo Salvini ha rischiato il processo. Poi la vicenda della Sea Watch, tenuta per una settimana a un miglio dalla costa di Siracusa con 47 migranti a bordo. E ancora, pochi giorni fa, quello della Mare Jonio, la nave fermata a un miglio da Lampedusa. Il Garante si è occupato anche del tema, attualissimo e fluido, dei migranti trattenuti sulle navi (battenti bandiera italiana o straniera) sia in acque territoriali italiane sia in acque internazionali. “È dovere del Garante nazionale”, si legge nella relazione, “esercitare il proprio controllo non solo sui luoghi in cui la privazione della libertà è formalmente e giuridicamente definita, quali per esempio i Centri per il rimpatrio, ma anche sulle situazioni in cui essa si verifica de facto”. L’azione del Garante non ha solo un profilo umanitario e uno di diritto, ma serve anche per “non esporre lo stato al rischio di doversi successivamente difendere” di fronte alla giustizia internazionale “rispetto agli obblighi convenzionali assunti [...] senza per questo intervenire sulle scelte politiche che ogni governo della Repubblica ha diritto di definire”. Il Garante ricorda del resto, che “ogni nave italiana in qualsiasi acqua si trovi rappresenta un’estensione del territorio nazionale e le persone che essa, seppure temporaneamente, ospita a bordo devono godere di tutte le garanzie che il nostro sistema prevede; lo stesso per le navi straniere quando sono nella acque del nostro paese”. Palma spiega anche come siano previsti luoghi di trattenimento delle persone “non tassativamente definiti, non riconducibili a una mappa che ne permetta l’individuazione e la visita da parte di tutti i soggetti che ne hanno titolo [...] L’uso dell’aggettivo ‘idoneo’ per vagamente definire tali luoghi - così come avvenuto nell’ultimo decreto che ha tenuto in un solo corpo normativo il tema del controllo delle migrazioni e quello della sicurezza - è risultato non soltanto non accettabile per il Garante nazionale, pur autorizzato al loro monitoraggio, ma anche di impossibile attuazione concreta”. In campagna elettorale, Salvini aveva promesso che avrebbe stanziato 42 milioni di euro per i rimpatri ma nel decreto sicurezza ne sono previsti appena tre. Aveva promesso che avrebbe rimandato indietro nel giro di poco tempo 500 mila irregolari, ma al momento il ritmo è di molto inferiore. La media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute si è sempre attestata attorno alla metà: da un minimo del 44 per cento nel 2016 a un massimo del 59 per cento nel 2017, sceso nell’ultimo anno al 43 per cento, il dato più basso degli ultimi otto anni. “Delle 4.092 persone transitate nel 2018 nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), soltanto il 43 per cento è stato effettivamente rimpatriato”, avverte il Garante. “Un valore che è rimasto su scala analoga nel corso degli anni, mentre la durata massima del trattenimento oscillava tra i trenta giorni e i diciotto mesi. Prova della mancata correlazione tra durata della privazione della libertà ed effettività della sua finalità”. In altri termini, anche allungando il tempo massimo della detenzione amministrativa nei Cpr, la media di rimpatriati resta stabile. La detenzione di chi non viene rimpatriato finisce per non aver avuto una ragione: “Occorre chiedersi quale sia il fondamento etico-politico di tale restrizione”, continua Palma “e quanto l’estensione della durata non assuma l’incongrua configurazione del messaggio disincentivante da inviare a potenziali partenti. Sarebbe grave tale configurazione perché la libertà di una persona non può mai divenire simbolo e messaggio di una volontà politica, neppure quando questa possa essere condivisa”. Il secondo motivo di uscita dai Cpr è stato, nel 23 per cento dei casi, la mancata convalida del trattenimento da parte dell’Autorità giudiziaria, un dato questo che dovrebbe invitare a una maggiore cautela nell’invio delle persone nei Cpr. La mancata convalida indica infatti che le persone non avrebbero dovuto essere trattenute. Il terzo motivo di uscita, dopo il rimpatrio e la mancata convalida, è la scadenza dei termini del trattenimento, nel 20 per cento dei casi. Nel limbo dei non luoghi di Silvia Guidi L’Osservatore Romano, 28 marzo 2019 La relazione del Garante dei diritti delle persone detenute. “Non-luoghi”; un termine coniato nel lontano 1992 dall’antropologo francese Marc Augé, ma mai così attuale. Un’espressione che indica spazi anonimi, zone di passaggio e di “parcheggio dell’io” in cui l’identità personale sfuma in un insieme indistinto, profetizzate dallo scrittore austriaco Stefan Zweig già negli anni Quaranta del Novecento: posti dove, paradossalmente, gli individui conquistano l’anonimato solo dopo aver fornito la prova della loro identità. Una parola-simbolo che ben fotografa le “sacche di stallo” del nostro mondo, scelta come chiave di lettura privilegiata dagli autori della Relazione annuale al parlamento del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, presentata alla camera dei deputati nella mattina del 27 marzo. Accanto a un quesito del filosofo, scienziato e teologo russo Pavel Aleksandrovic Florenskij, citato dal presidente dell’autorità di garanzia all’inizio del suo intervento, se sia il mutamento del nostro mondo a mutare la nostra percezione di esso o viceversa. Una domanda molto più concreta e molto meno teorica di quello che può sembrare a un primo sguardo. Nella Sala della regina di palazzo Montecitorio erano presenti, oltre al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente della camera dei deputati che ha ospitato l’evento, la vicepresidente del senato, il presidente del consiglio, il presidente della corte costituzionale, i ministri della giustizia e della salute e il presidente del consiglio di stato. A questa istituzione di garanzia, la più giovane autorità indipendente italiana (istituita nel 2014, operativa dal 2016) è affidato il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, indipendentemente dalla causa. Il capitolo centrale del rapporto - non a caso introdotto da un architetto, Luca Zevi - è dedicato a luoghi come la cella del detenuto, il reparto per le persone sottoposte a Trattamento sanitario obbligatorio, o gli hotspot per migranti, declinati attraverso cinque verbi: detenere, rinviare, arrestare, avere cura, tutelare. Lo staff del garante ha visitato nel corso del 2018 cento luoghi di diversa tipologia, relativi alle sue diverse aree d’intervento: dagli istituti di pena per adulti o minori alle camere di sicurezza delle diverse forze di polizia, dalle strutture residenziali per persone non autosufficienti ai voli di rimpatrio. “Preservare la dignità umana, darle valore - ha detto il presidente della camera Roberto Fico introducendo l’intervento del presidente dell’autorità di garanzia, Mauro Palma - significa anche aver cura degli ambienti in cui si devono realizzare percorsi altamente significativi per persone private di libertà Questi spazi non devono essere indifferenti alla dimensione soggettiva, non devono cadere nell’assoluta spersonalizzazione. Perché recuperare una sana relazione tra sé e il proprio contesto è condizione per costruire e tenere salda una relazione altrettanto sana con la società in cui si vive. A beneficiarne sarà poi la società stessa, saremo tutti noi. Credo sia questa la direzione da seguire per far sì che nelle carceri si attui un vero percorso di crescita e perché da non-luoghi si trasformino in cantieri e laboratori per costruire e darsi una seconda opportunità”. Il sovraffollamento nelle carceri non è una fake news, ha ribadito Palma: “Secondo gli ultimi dati, aggiornati al 26 marzo i posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena italiani sono 46.904 ma ci sono 60.512 persone. Quindi 13.608 detenuti in più, con un sovraffollamento del 129 per cento”. E a preoccupare il garante sono le ragioni alla base di questa crescita, che non è dovuta ai maggiori ingressi ma a un minor numero di dimissioni, seguendo un modello culturale che Palma definisce, con un neologismo, un sistema “claustrofilico”. Sono oltre cinquemila le persone che potrebbero usufruire di misure alternative al carcere, ma rimangono all’interno degli istituti. Inoltre, “l’attenzione geometrica alla cella non deve far perdere il principio che la persona detenuta deve vivere la gran parte della giornata al di fuori di essa impegnata in varie attività significative. Il nostro modello di detenzione - ha detto Palma - continua, al contrario, a essere imperniato, culturalmente e sul piano attuativo, sulla permanenza nella cella, così vanificando la proiezione verso il “dopo” e il “fuori”. Il sovraffollamento, ha detto nel suo intervento introduttivo il presidente della camera, “si configura per i detenuti come una pena aggiuntiva alla quale nessuna sentenza li ha condannati. Oltre al disagio e al degrado che provoca, rende ben difficile svolgere con efficacia tutte quelle attività finalizzate al recupero e al reinserimento sociale del condannato imposte dal dettato della Costituzione”. Preziosa, in questo senso è la presenza di associazioni di volontariato che permettono una comunicazione costante e concreta con il mondo esterno e rendono effettivo lo sguardo a lungo termine volto al “dopo” e al “fuori”, per usare le categorie citate dal garante. Molto resta da fare, ha detto Fico, citando tra l’altro i problemi delle madri detenute e il numero dei suicidi nelle carceri. Nel 2018 ci sono stati 64 casi; 37 di loro non avevano una pena definitiva, e tra questi 22 erano ancora in attesa del primo grado di giudizio. Tre di loro entro l’anno avrebbero finito di scontare la loro pena. Relazione Garante dei detenuti: la drammatica situazione delle carceri italiane di Claudia Diaconale L’Opinione, 28 marzo 2019 Il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, durante la sua relazione annuale al Parlamento sullo stato delle carceri italiane, non ha lasciato adito a dubbi facendo una panoramica impietosa su tutti i fronti. A partire dal sovraffollamento in tutte le 191 strutture del territorio. Se infatti i posti regolamentari sono 46.904, gli istituti di pena italiani ospitano ad oggi 60.512 persone: 13.608 in più rispetto a quanto prescritto dalla stessa legge. Ma il vero paradosso italiano consiste nel fatto che mentre nell’ultimo anno è diminuito il numero di persone finite in carcere (887 in meno), il numero di detenuti, nello stesso periodo, è aumentato di 2.047 unità, con “un andamento progressivo crescente e preoccupante” che “si riverbera sulle condizioni di vita interna e sul sovraffollamento, che non è una fake news”. Perché? Perché sono diminuite le possibilità di uscita e di accesso alle pene alternative. Il garante, nel sottolineare i numeri, ribadisce che “nel luogo di ricostruzione, o a volte di costruzione, del senso di legalità non possono essere fatte vivere situazioni che ledono la legalità stessa”. E aggiunge che “l’attenzione geometrica alla ‘cellà non deve far perdere il principio che la persona detenuta deve vivere la gran parte della giornata al di fuori di essa impegnata in varie attività significative. Il nostro modello di detenzione continua, al contrario, a essere imperniato, culturalmente e sul piano attuativo, sulla permanenza nella cella, così vanificando la proiezione verso il dopo e il fuori”. Palma ricorda anche il diritto alla dignità che dovrebbe valere per tutti “ogni persona, nativa o straniera, libera o ristretta, capace o meno di intendere o in qualsiasi altra condizione”. È proprio a questo diritto che dovrebbe corrispondere l’obbligo di garantire “la maggiore autodeterminazione possibile nei limiti dati dalla sua condizione e nel contesto dei valori e principi che la nostra Costituzione tutela”. Inoltre, la percezione di insicurezza “non può essere semplicemente assunta, da parte di chi ha responsabilità istituzionali, come un dato, fisso, ingiudicabile; non può costituire il criterio informatore di norme né di decisioni amministrative”. La relazione passa poi ad analizzare un’altra urgenza: il tasso di suicidi in carcere. Nel 2018 infatti sono stati 64 contro i 50 del 2017. Di questi, 37 erano in attesa della pena definitiva mentre 22 attendevano il primo grado di giudizio. Questi primi tre mesi del 2019, poi, contano già 10 persone che si sono tolte la vita. Palma affronta anche la questione dei rimpatri legata ai migranti: “Delle poco più di quattromila persone transitate nei Centri di permanenza per il rimpatrio nel corso dell’anno, soltanto il 43 per cento è stato effettivamente rimpatriato: un valore questo che è rimasto su scala analoga nel corso degli anni”. Infatti il 57 per cento delle persone sono uscite dai Cpr per la mancata convalida del trattenimento da parte dell’Autorità giudiziaria, per la scadenza dei termini del trattenimento o perché hanno richiesto protezione internazionale. Lo scorso anno, sottolinea il Garante, con il decreto sicurezza, sono stati nuovamente allungati i tempi del trattenimento nei Centri, ma il fatto che i numeri dei rimpatri siano gli stessi nel corso degli anni prova “la mancata correlazione tra durata della privazione della libertà ed effettività della sua finalità”. Palma esprime anche riserve sulla sperimentazione dei Taser: “Dal punto di vista della utilità dell’introduzione del Taser, solo se il suo impiego farà diminuire il ricorso alle armi da fuoco e al contempo garantirà la sicurezza di tutti gli attori coinvolti, si potrà dire che la sperimentazione avrà avuto esito positivo. Rimangono, infatti, le riserve e le cautele già espresse in passato”. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha concluso la relazione sottolineando l’importanza del linguaggio: “La sofferenza, sia essa la risultante di proprie azioni anche criminose, del proprio desiderio di una vita diversa e altrove, della propria vulnerabilità soggettiva, merita sempre riconoscimento e rispetto. Merita un linguaggio adeguato, soprattutto da parte di chi ha compiti istituzionali. Ben sapendo che il linguaggio è il costruttore di culture diffuse e l’espandersi di un linguaggio aggressivo e a volte di odio, costruisce culture di inimicizia che ledono la connessione sociale e che, una volta affermate è ben difficile poi rimuovere”. “Proprio sul linguaggio - sottolinea Palma - vorrei che concentrassimo tutti noi, da punti diversi di responsabilità, il nostro impegno. Ben sapendo che per il ruolo che ricopriamo il nostro linguaggio ha un valore ancora più pregnante perché da esso traspare la capacità di non perdere la dimensione umana che è al fondo dell’azione di chi ha compiti di regolazione, legislazione, amministrazione, controllo”. Il presidente della Camera Roberto Fico, a fine relazione, ha richiamato il “ruolo di rieducazione sociale affidato alla pena, sancito dalla Costituzione”: “Sul divieto di tortura e di trattamenti degradanti l’Italia purtroppo non ha ottemperato pienamente a obblighi costituzionali e internazionali. Il sovraffollamento delle carceri diventa una pena aggiuntiva, su questo i miglioramenti sono stati timidi e parziali in questi anni”. “Questo dato - sottolinea Fico -impone alle Istituzioni, con urgenza, l’adozione di misure risolutive che restituiscano la dignità alle persone detenute. Misure che contemplino la riduzione della popolazione carceraria attraverso opportuni interventi sul codice penale. Misure che assicurino, anche e soprattutto, che la pena sia uno strumento per agevolare un reinserimento sociale e non una condanna ulteriore alla esclusione e marginalizzazione e quindi alla probabile recidiva. Migliorare le condizioni di chi sconta una pena in prigione non è un atto di indulgenza verso chi ha commesso reati. Restituire alla società una persona migliore rispetto a quella che ha fatto il suo ingresso in carcere, che abbia piena consapevolezza della sua dignità e dei suoi diritti, è il migliore antidoto per prevenire che essa torni a delinquere”. A tutte queste belle ed importanti parole aspettiamo impazienti che inizino a seguire i fatti. 64 detenuti morti suicidi nelle carceri nel 2018 La Stampa, 28 marzo 2019 Delle 64 persone che si sono suicidate nello scorso anno 37, la maggioranza, non avevano ancora una pena definitiva: tra i questi 22 erano ancora in attesa del primo giudizio. L’età media di queste persone era di 37 anni (il più giovane aveva 18 anni). Ancora di più colpisce il picco di suicidi in prossimità del fine pena:17 avrebbero finito la pena in meno di 2 anni, 3 entro l’anno. L’aumento dei casi di suicidio non è rapportabile all’aumento del numero delle persone detenute. Negli anni in cui si sono toccate le punte più alte di affollamento delle strutture penitenziarie si sono verificati pari, se non minori, casi di suicidio rispetto al 2018. La correlazione non va quindi ricercata nei numeri della popolazione e nell’inevitabile disagio che da esso discende ma in un clima generale che nega soggettività alle persone detenute diffondendo un senso di sfiducia nel riconoscimento della propria appartenenza al contesto sociale. Un clima che si esprime anche in un linguaggio che in nulla rispecchia il mandato costituzionale, un linguaggio secondo cui il carcere è il luogo in cui “si marcisce”. Bonafede: “Certezza della pena coincida con rieducazione” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 28 marzo 2019 “Il problema del sovraffollamento evidenziato dal Garante esiste e stiamo lavorando per risolvere non solo una questione di numeri ma anche di qualità della vita negli istituti penitenziari, sia dei detenuti sia di chi vi lavora. Da parte mia ci sono totale disponibilità e grande sensibilità”. Queste le parole del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a margine della presentazione, svoltasi oggi nella sala della Regina della Camera dei Deputati, della Relazione annuale del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Tra le questioni affrontate dal Garante Mauro Palma, oltre al tema dei numeri della popolazione carceraria, anche il reinserimento del detenuto nella società e la difesa della relazione madre-figlio per le detenute madri. Bonafede ha chiarito qual è la direzione che il Ministero intende intraprendere: “Il principio fondamentale della certezza della pena è assolutamente conciliabile con la funzione della rieducazione. Abbiamo ereditato dal passato una situazione gravemente lesiva della dignità dei detenuti. Per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario non abbiamo la bacchetta magica, ma il nostro impegno è massimo, superiore a quello di qualsiasi altro governo precedente, che si metteva la coscienza a posto con provvedimenti svuota-carceri. L’approccio non può essere meramente aritmetico: anche nel caso in cui il numero dei detenuti diminuisse rispetto alle dimensione degli istituti penitenziari avremmo comunque la necessità di assicurare un livello dignitoso di qualità della vita detentiva”. Il Guardasigilli ha, infine, ricordato gli impegni già assunti per affrontare le diverse questioni critiche sollevate dal Garante, dall’approvazione delle norme per la semplificazione sulla manutenzione degli edifici alla realizzazione di nuovi istituti di pena, dall’incremento di 1.300 operatori di Polizia Penitenziaria entro quest’anno ai protocolli siglati per incentivare il lavoro di pubblica utilità. Fico: “Italia non ottempera a obblighi costituzionali su divieto tortura e sovraffollamento” Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2019 Il presidente della Camera è intervenuto alla presentazione delle relazione annuale del Garante dei detenuti: “Migliorare le condizioni di chi sconta una pena in prigione non è un atto di indulgenza verso chi ha commesso reati”. Il “ruolo di rieducazione sociale affidato alla pena, sancito dalla Costituzione” è stato richiamato dal presidente della Camera Roberto Fico alla presentazione delle relazione annuale del Garante dei detenuti. “Sul divieto di tortura e di trattamenti degradanti”, ha detto Fico, “l’Italia purtroppo non ha ottemperato pienamente a obblighi costituzionali e internazionali”. E pure: “Il sovraffollamento delle carceri diventa una pena aggiuntiva, su questo i miglioramenti sono stati timidi e parziali in questi anni”. Proprio sulle condizioni dei detenuti era intervenuto a inizio del suo mandato un anno fa, interpretando una sollecito avvenuto in quel senso dallo stesso presidente della Repubblica. Oggi, a dodici mesi di distanza, è tornato a sollecitare l’Aula. “Questo dato”, ha continuato Fico, “impone alle Istituzioni, con urgenza, l’adozione di misure risolutive che restituiscano la dignità alle persone detenute. Misure che contemplino la riduzione della popolazione carceraria attraverso opportuni interventi sul codice penale. Misure che assicurino, anche e soprattutto, che la pena sia uno strumento per agevolare un reinserimento sociale e non una condanna ulteriore alla esclusione e marginalizzazione e quindi alla probabile recidiva”. Quindi ha precisato: “Migliorare le condizioni di chi sconta una pena in prigione non è un atto di indulgenza verso chi ha commesso reati. Restituire alla società una persona migliore rispetto a quella che ha fatto il suo ingresso in carcere, che abbia piena consapevolezza della sua dignità e dei suoi diritti, è il migliore antidoto per prevenire che essa torni a delinquere”. Per Fico, “dalla Relazione del Garante è che molto resta da fare per migliorare la condizione dei detenuti. Ed il Parlamento è chiamato a fare la sua parte, anche sulla base delle proposte che formulerà oggi. Molto importanti sono le considerazioni puntuali della Relazione relative alla necessità di migliorare la qualità delle celle e di altri luoghi connessi alla privazione o limitazione della libertà personali, come in particolare i cortili e le sale colloqui”. Ramonda (Apg23): “in vero problema è la mancanza di percorsi educativi reali” agensir.it, 28 marzo 2019 “Le carceri devono promuovere la rieducazione del detenuto e non continuare a puntare solo all’aspetto repressivo. Il sovraffollamento non è il vero problema. Il vero problema è la mancanza di percorsi educativi reali all’interno delle carceri. È questa la ragione per cui la tendenza a commettere di nuovo reati è così alta, con la conseguenza che il numero dei detenuti è sempre alto”. Lo dichiara Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23), in merito ai dati della relazione annuale del garante per i detenuti illustrata stamattina alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Il tasso di suicidi così elevato dice della mancanza di speranza che le persone vivono all’interno delle carceri - continua Ramonda. Le comunità per carcerati sono importanti in quanto sono luoghi in cui le persone possono ricominciare una nuova vita dopo aver sbagliato, sono l’alternativa alla costruzione di nuove carceri”. La Comunità Papa Giovanni XXIII gestisce in Italia 6 comunità educanti con i carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena attraverso misure alternative alla detenzione, nelle quali i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 61 detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 565 persone. Nell’ultimo anno le giornate di presenza sono state 12.199. “Porto Matteo Salvini in cella. A veder com’è” di Alessandro Giuli Libero, 28 marzo 2019 Parla Annalisa Chirico di “Fino a prova contraria”. La giornalista a cena con Salvini al ristorante del carcere di Bollate: “Lo farò diventare più garantista”. Soltanto una donna poteva trascinare Matteo Salvini in galera. È Annalisa Chirico, giornalista al Foglio, fondatrice e presidente dell’associazione “Fino a prova contraria”. Insieme con il vicepremier e ministro dell’Interno, stasera a Bollate entreranno don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria, e Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Pochi mesi fa l’hai portato a cena, fra gli altri, con Maria Elena Boschi a parlare di giustizia. Ora te lo porti direttamente al gabbio. Stai diventando il punto debole di Salvini. “Entriamo in carcere con l’augurio di uscirne...”. Ma per fare cosa? “Andiamo a omaggiare il ristorante “InGalera” di Bollate, che è un carcere-comunità modello. Qui gli ergastolani stanno in camere singole, si fa l’ortocoltura e c’è appunto un ristorante affidato a una cooperativa di detenuti aperto al pubblico e con camerieri assunti e pagati. La nostra sarà una cena con dibattito sul tema del lavoro per i detenuti”. E Salvini che c’entra? “Fino a prova contraria chiederà pubblicamente a Salvini di non usare più espressioni come “marcire in galera”: non si addicono a un uomo di Stato”. Se è per questo c’è anche la castrazione chimica per gli stupratori catanesi. “Una persona non è il reato che ha commesso”. Altri commensali? “Hanno annunciato la loro partecipazione il presidente di Rcs Urbano Cairo, quello del Milan Paolo Scaroni, quello di Enel Patrizia Grieco. E poi magistrati, avvocati e accademici”. Una retata. “Leonardo Sciascia suggeriva ai magistrati freschi di concorso di trascorrere almeno tre notti in galera, tra i comuni detenuti, un’esperienza necessaria per comprendere l’onore e l’onere insiti nella loro funzione. Penso che anche ai politici farebbe bene qualche giorno dietro le sbarre”. Capita spesso. “Non da galeotti ma da uomini liberi impegnati a comprendere una realtà negletta. Il carcere in Italia è oggetto di una rimozione collettiva: una discarica sociale, come diceva Marco Pannella, per immigrati e tossicodipendenti. Un terzo dei detenuti è ancora in attesa di giudizio definitivo, si tratta di presunti innocenti”. Ecco la pannelliana. “Ho visitato una dozzina di carceri come militante radicale, e ho capito che non è importante perché uno è entrato in galera ma come ne uscirà una volta scontata la pena”. Salvini è per la certezza della pena: se sei colpevole la galera te la fai tutta. “Continuo a ritenere che la pena debba essere certa e in Italia molto spesso non lo è. Ma serve un contesto compatibile con il percorso riabilitativo previsto dalla Costituzione. Chi sbaglia deve pagare ma ha diritto a una pena che non lo annichilisca”. Facile fare i garantisti a Bollate. “È vero. Nelle carceri italiane ci sono oltre 60mila detenuti, rispetto a una capienza di 45mila. La recidiva, in media, è pari al 70 per cento. A Bollate è al 17 per cento. In Italia soltanto 3 detenuti su 100 hanno un lavoro esterno. Tutto questo avviene a oltre 30 anni dall’entrata in vigore della Gozzini, nel 1986, che ha trasformato in legge la filosofia della Costituzione. Oggi la galera è ancora una stigma sociale che ti rimane addosso, una politica illuminata dovrebbe porre al centro il tema di come incentivare le imprese ad assumere i detenuti”. Vai a dirlo al governo che ha approvato il cosiddetto “spazza-corrotti”... “Questo governo commette gravi errori nel campo della giustizia. L’abolizione della prescrizione dopo il primo grado ci condanna ai processi infiniti in un Paese dove sono già troppo lunghi. La prescrizione serve a tutelare il cittadino dall’inefficienza dello Stato: rinunciarvi è una vittoria per il colpevole che resta a piede libero e una sconfitta per la vittima che attende una sentenza per anni”. Insisto: sicura che Salvini sia la persona migliore con la quale parlarne? “Salvini è il vicepresidente del Consiglio: se presta ascolto alle istanze di “Fino a prova contraria”, per noi è un onore. Io penso che lui abbia compiuto un’evoluzione. Il Salvini 1 che parlava di uscita dall’Unione europea e dall’euro non esiste più. Il sovranismo folcloristico e arruffone è archiviato”. E il Salvini 2? “Mi riconosco nella politica del buon senso. Quando Salvini parla di riformare l’Europa dall’interno, è difficile dargli torto”. È diventato un vincente. “Ciascuno di noi cambia nel tempo, anch’io sono diversa da quella di due anni fa. Le prime volte che incontravo Salvini negli studi televisivi, detestavo il suo tintinnare di manette come mezzo facile di propaganda. Nell’ultimo anno ho osservato un cambiamento che definirei promettente”. Sembra la relazione di un’assistente sociale. “Io assisto a malapena me stessa, figuriamoci un altro. Chi cambia idea mostra umiltà e l’umiltà a Salvini non manca. Da quando abbiamo preso a confrontarci, le nostre posizioni non sono più così distanti. Il garantismo è diventato impopolare fra i cittadini anche perché talvolta ha peccato di eccessiva indulgenza verso il reato”. Si parla spesso dei reati commessi dagli stranieri. “Il tasso di criminalità degli immigrati è sei volte più alto di quello degli italiani. Questo è un fatto, e con i fatti bisogna fare i conti, al riparo dall’ideologia”. Lo schema salviniano è elementare: sei straniero, vieni da noi a chiedere asilo, intanto delinqui e vai in galera ma appena possibile te ne torni al tuo paese d’origine. Sbaglia? “No, ma sappiamo tutti che i rimpatri non sono facili da eseguire. La soluzione, nell’immediato, non è costruire più carceri. È occuparsi di quelle attuali”. Non ce lo vedo Salvini che rinuncia al suo giustizialismo. “Matteo non è giustizialista, il giustizialismo è una specialità grillina”. Il M5S ti fa venire l’orticaria. “Diffido di chi si pretende immacolato e infallibile. Per fortuna questo governo ha una scadenza, come lo yogurt”. E poi? “Salvini diventa premier, e si apre una fase nuova”. Stai diventando la sua intellettuale di riferimento? “Sarebbe la sua fortuna... scherzo”. Le donne che leggono sono pericolose. Tu hai i paparazzi sotto casa a caccia di fidanzati. “Provo a convincerli che la loro è una ricerca inutile. Ma non si rassegnano”. Basta fidanzati. “Sono tecnicamente una zitella. Io perseguo l’autarchia esistenziale, esattamente come Salvini deve raggiungere l’autosufficienza politica”. La legittima difesa al traguardo. I penalisti: “Sarà il Far West” di Francesco Grignetti La Stampa, 28 marzo 2019 Oggi il voto definitivo al Senato. L’allarme dei magistrati: “Sarà normale sparare”. La corsa del ddl sulla “nuova” legittima difesa è al traguardo. Oggi il Senato voterà anche l’ultimo passaggio e la proposta su cui la Lega ha impostato tanta parte della sua campagna elettorale, sarà legge. Perciò Matteo Salvini annuncia che sarà presente in Senato, per godersi il successo. “Il concetto di legittima difesa - diceva ieri anche il presidente della Lombardia, Attilio Fontana - deve essere inteso in maniera ampia. Se una persona entra nel domicilio di un’altra persona, può incorre nel rischio che qualcuno per difendersi spari: è un concetto accettabile”. Che cosa prevede la riforma, è presto detto: si allargano i criteri per cui l’autodifesa sarà da considerarsi legittima, e si restringono anche i casi per cui potrebbe scattare l’eccesso di legittima difesa. Una cosa deve essere chiara. A dispetto della propaganda, chi ferisce o peggio uccide qualcuno, anche in casa propria, finirà sempre sotto processo. E sarà un magistrato a stabilire se la sua reazione è stata legittima oppure no. Sono due le modifiche cruciali nella nuova legge. Primo, la difesa diventa “sempre” legittima perché sussiste il rapporto di proporzione nei casi di violazione di domicilio. “Agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Importante notare che le regole della legittima difesa si potranno invocare anche fuori dalla propria casa, “nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale” Secondo, non si sarà punibili per “eccesso di legittima difesa” quando si sia in “stato di grave turbamento” dovuto dalla situazione di pericolo in atto. Soddisfatta la Lega, non è ancora abbastanza per Forza Italia. Poco felici i grillini, ma leali all’alleato. Contrarissima la sinistra. Considerati i rapporti di forza, però, il voto di oggi è scontato. Anche i magistrati hanno spiegato perché è una riforma-truffa (in quanto ci sarà sempre un vaglio della giustizia, e non sarebbe possibile immaginare il contrario), eppure pericolosa, perché si rischia di veicolare il messaggio che è normale sparare a una persona. Sulle barricate anche gli avvocati penalisti. Si teme il Far West. Con loro c’è il sindacato dei poliziotti Silp-Cgil, che proprio oggi terrà una tavola rotonda sul tema con esponenti di Magistratura democratica e dell’Unione delle Camere penali. “Non si sente l’esigenza di modificare, per la terza volta, - dice Daniele Tissone, segretario generale del Silp - la legge sulla legittima difesa quando nella stragrande maggioranza dei casi gli imputati sono quasi sempre stati assolti grazie ad una norma che, rispetto al resto d’Europa, ha il più basso range di punibilità. Con tale modifica si inducono illusoriamente le persone a ritenere che in caso di ferimento o uccisione non si svolgeranno accertamenti o indagini. Si tratta, però di una falsa promessa elettorale”. Secondo i poliziotti, almeno sarebbe stato indispensabile, in parallelo con questa riforma, restringere le regole sulla detenzione delle armi. È un errore non incrementare i controlli sui possessori di armi e munizioni. Più armi in circolazione, più si alza il rischio di elevati livelli di violenza come accade negli Stati Uniti. Oltre ai maggiori rischi di incidenti domestici a cui saranno potenzialmente esposte le persone che vorranno armarsi. “C’è poi un pericolo dietro l’angolo - conclude Tissone - che è stato sottovalutato: il possibile consistente aumento di omicidi con armi da fuoco in ambito familiare e interpersonale”. Legittima difesa, polemiche sulla riforma “sconosciuta” di Errico Novi Il Dubbio, 28 marzo 2019 Oggi al Senato il sì definitivo sulla legge voluta dalla Lega. il Relatore Ostellari: “nella realtà della discussione la maggioranza è stata compatta”. Se n’è parlato talmente tanto con toni iperbolici che i contenuti reali della legge hanno subito un vero e proprio oscuramento. La legittima difesa è diventata un must dei retroscena, ma in fondo è stata poco scandagliata nelle modifiche effettivamente previste. Oggi arriverà il via libera definitivo. Sarà l’aula di Palazzo Madama a pronunciarlo, in capo a una lettura finale senza scossoni. “È una riforma complessa”, osserva il presidente della commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari, leghista e tra i “padri” del provvedimento, di cui è anche relatore. “È il frutto della sintesi fra diversi disegni di legge e della condivisione all’interno della maggioranza, che ha lavorato compatta sia al Senato che alla Camera”, aggiunge. Dopo che il testo era sembrato oggetto di un virtuale tiro alla fune con i Cinque Stelle, alla prova dei fatti l’esame si chiuderà in modo pacifico. Spese rimborsate a chi è prosciolto - Sullo stesso supplemento di discussione affrontato dal Parlamento si è ricamato senza motivo, visto che l’ulteriore passaggio a Palazzo Madama è stato provocato solo da una questione contabile: la necessità di stabilire con esattezza lo stanziamento per le spese di giustizia da rimborsare a chi sarà indagato e poi prosciolto per eccesso colposo di legittima difesa. Il ristoro dei costi sostenuti per difendersi in questo genere di procedimenti è stato oggetto di critiche sia da parte dell’Anm che delle istituzioni e associazioni forensi, visto che non è previsto per altre scriminanti e rischia dunque di creare disparità potenzialmente incostituzionali. In ogni caso per il triennio 2019- 2021 sono disponibili 590mila euro da destinare al patrocinio a spese dello Stato per le persone indagate per eccesso colposo e riconosciute appunto innocenti. Il “pericolo” resta requisito chiave - Ma il cuore del provvedimento è nei suoi primi due articoli, che intervengono rispettivamente sugli articoli 52 e 55 del codice penale. Nel primo caso la novità è in un quarto comma aggiunto alle disposizioni integrate con la riforma del 2006. Già oggi è sancito che “il rapporto di proporzione” tra “difesa” e “offesa” sussiste se chi è aggredito in casa, nel proprio negozio o ufficio “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o altrui incolumità” o anche “i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. Si tratta di norme di dettaglio che proprio la Lega aveva voluto nel 2006. Previsioni che precisano il principio cardine della legittima difesa, contenuto nel primo comma, “vecchio” di quasi novant’anni, in cui i requisiti affinché la “difesa” da un’aggressione possa essere “legittima” sono la necessità della reazione e l’attualità del pericolo. Adesso quella particolare definizione di pericolo ridefinita tredici anni fa per chi è aggredito nel proprio domicilio viene ancor più specificata con quel quarto comma aggiunto all’articolo 52: “Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Il punto è che se un’intrusione avviene con “violenza”, è abbastanza scontato che chi subisce quell’intrusione si senta in pericolo, e visto che il “pericolo di un’offesa ingiusta” è, dal 1930, il presupposto della legittima difesa, non si fa altro che inquadrare in una cornice più chiara i casi in cui ci si difende in casa propria. Stesso discorso vale per la norma che sancisce come legittima la difesa di chi è minacciato: la minaccia crea una oggettiva ed evidente situazione di pericolo, dunque anche in questo caso si tratta di precisare più che allagare a dismisura. Non a caso l’obiettivo reale della lega non è quello di impedire che chi ferisce o uccide l’aggressore non venga neppure indagato, ma che la maggiore facilità nel ricondurre alla norma il caso concreto consenta alla difesa dell’indagato di ottenere il proscioglimento in tempi brevi e di evitare con maggiore probabilità il rinvio a giudizio. La “non punibilità” in caso di turbamento - Il secondo articolo della riforma che oggi sarà definitivamente approvata regola i casi in cui la persona aggredita eccede i limiti della legittima difesa previsti dall’articolo 52. Una fattispecie che attualmente è regolata dall’articolo 55, integrato ora con un secondo comma in cui si stabilisce che chi è aggredito nella propria casa o negozio ed eccede nella reazione non è punibile se ha comunque agito “per la salvaguardia della propria o altrui incolumità” e si è trovato o in stato di minorata difesa - per esempio se l’aggressione è avvenuta in condizioni di “tempo tali da ostacolare la difesa” ; oppure si è trovato “in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Anche qui le precisazioni rimandano sempre e comunque a un requisito: che la percezione di trovarsi in pericolo ci sia. Si limitano a escludere la punibilità di chi eccede nel valutarne l’entità, ma sempre quando le circostanze possano generare uno particolare stato emotivo. “Scriminanti” già riconosciute come tali nella giurisprudenza, e che ora diventano norme. Non una rivoluzione ma un affinamento. Che certo non meritava il mare di polemiche da cui è stato accompagnato. Legittima difesa e legge sui femminicidi: oggi il via libera, ma i grillini sono spaccati di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 28 marzo 2019 Due modifiche del codice penale di impronta gialloverde. Da una parte, un primo via libera che potrebbe arrivare con un ampio consenso. Dall’altra, un varo definitivo che ri-compatta ancora una volta il centrodestra e spacca il M5S. La Camera approverà oggi in prima lettura il disegno di legge sul “Codice rosso”, grazie al quale ai reati di violenza sulle donne, molestie e stalking potrà essere attribuito un codice come quello delle emergenze in pronto soccorso, per rendere più rapido l’iter di accertamento delle responsabilità. Un provvedimento che il M5S punta a intestarsi: presentato a novembre in Consiglio dei ministri dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, durante l’esame in commissione si è arricchito passando da 5 a 14 articoli. Ma per oggi è anche atteso il via libera definitivo a un’altra modifica del codice penale, baluardo assoluto della Lega: il Senato darà infatti l’ultimo disco verde al disegno di legge che modifica la legittima difesa, stabilendo che ci sia sempre proporzione in casa o nel luogo di lavoro o che per esercitarla sia sufficiente il “grave turbamento”. Non vuol dire che non si svolgeranno le indagini, ma aumentano per il giudice i paletti per un eventuale rinvio a giudizio. Un voto, quello di palazzo Madama, su cui dovrebbe ripetersi lo “schema Diciotti”, con forfait annunciati dai dissidenti pentastellati e il sostegno di Forza Italia e Fdi che - visti i numeri risicati in quel ramo del Parlamento - rischia di essere determinante. Matteo Salvini sarà presente: quella sulla legittima difesa d’altra parte è una delle leggi bandiera della Lega, che il ministro dell’Interno voleva assolutamente sventolare in vista delle elezioni Europee. Il testo ha sempre lasciato tiepidi i vertici grillini anche se Luigi Di Maio lo ha ufficialmente sostenuto nonostante i malumori dell’area ortodossa vicina a Roberto Fico. Di certo, non è nelle corde grilline nemmeno il nuovo rilancio di Salvini sulla castrazione chimica, storica battaglia del Carroccio, ritirata fuori dopo il caso della turista violentata da tre ragazzi a Catania. “Quella sul blocco androgenico è una proposta che la Lega deposita in Parlamento da almeno 20 anni”. Il ministro dell’Interno ricorda che “non c’è nel contratto di governo” e “non sarà quindi elemento di divisione” ma sottolinea che “è qualcosa che sperimentalmente funziona da anni in una decina di Paesi occidentali”. “Chi mette le mani addosso ad una donna o ad un bambino, oltre che riabilitato, va curato farmacologicamente”. Per il M5S la strada è principalmente quella indicata dal disegno di legge che istituisce il Codice rosso e stabilisce, tra l’altro, pene più severe anche per il reato di violenza sessuale. In generale, il provvedimento punta a colpire i reati di violenza sulle donne, molestie e stalking. Per il Pd, che dovrebbe astenersi, si tratta di una “occasione persa”, perché è stato scelto un approccio totalmente penale, senza riferimenti per esempio alla prevenzione. Salvo ulteriori modifiche che dovessero essere introdotte last minute in aula, il testo prevede l’obbligo per la polizia giudiziaria di comunicare al pl la notizia di reato e di dare priorità allo svolgimento delle relative indagini. Alla vittima viene poi garantito il diritto di essere ascoltata dal magistrato entro 3 giorni. Si stabilisce un inasprimento delle pene per i reati di maltrattamenti contro familiari o conviventi (da tre a sette anni) e per quello di stalking (da uno a sei anni e sei mesi). Altra novità è il carcere per chi causa lesioni dalle quali derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso. Violenza di genere, il governo vuole metterci la firma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 marzo 2019 Sarà approvata oggi dalla Camera, in prima lettura, la legge sul codice rosso blindata dal ministro Bonafede. Secondo i magistrati ascoltati in commissione non è applicabile. Sarà approvata oggi la nuova legge contro le violenze di genere, quella che il governo ha battezzato “codice rosso”. Alla camera la maggioranza aveva annunciato già ieri il voto finale - il provvedimento passerà al senato - ma ha rallentato per dare spazio a qualche correzione dell’ultimo momento, con la riformulazione di alcuni emendamenti (in totale sono una novantina) dell’opposizione. In alcuni casi si tratta di proposte originarie della maggioranza, come ha fatto notare ieri in aula l’ex presidente della camera Laura Boldrini (Leu). Che ha raccontato di aver preso i suoi emendamenti direttamente dal testo della proposta di legge delle relatrice - Stefania Ascari (M5S) - poi messo da parte all’apparire del disegno di legge del governo. Emendamenti bocciati. Il testo firmato a quattro mani dal ministro della giustizia Bonafede (M5S) e dalla ministra della pubblica amministrazione Bongiorno (Lega), avvocata che si muove come guardasigilli ombra, è per il governo un irrinunciabile strumento di propaganda. Dopo averlo blindato, l’esecutivo ci ha aggiunto all’ultimo momento dopo nuovi casi di cronaca un generico innalzamento delle pene. La norma cardine del “codice rosso” prevede che d’ora in poi i pubblici ministeri debbano sentire entro tre giorni le persone che denunciano una violenza in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza. L’idea è quella di tutelare le donne esposte a possibili nuove violenze. Ma come hanno raccontato diverse magistrate audite in commissione, si tratta di una novità difficilmente applicabile visti i carichi di lavoro delle procure e visto che la legge è a costo zero. Senza nessuna aumento degli organici della magistratura. Inoltre secondo alcuni esperti auditi, il termine così ravvicinato potrebbe persino essere controproducente perché la vittima - nella quasi totalità dei casi una donna - potrebbe non essere pronta e compromettere così l’esito del procedimento. Malgrado l’atteggiamento di chiusura del governo e della maggioranza, in commissione sono stati approvati diversi emendamenti presentati anche dalle opposizioni e ripresi anche dalla relatrice. Un aumento delle pene quando le violenze sono compiute da conviventi o su minori da parte dei genitori e tutori (Pd, Forza Italia e Leu), la previsione di un trattamento psicologico per i condannati per reati sessuali, ma ancora a costo zero (Leu), la trasmissione obbligatoria degli atti sui procedimenti per violenza al giudice civile nei casi di separazione (Pd) e il nuovo reato di deformazione dell’aspetto mediante lesioni permanenti al viso, con il voto favorevole di Leu ma non del Pd rappresentato in commissione da Lucia Annibali. La deputata che sei anni fa è stata vittima di un’aggressione al volto con l’acido ha spiegato che “sarebbe stato più opportuno intervenire sulla modifica delle circostanze aggravanti invece che introdurre un nuovo reato” Giulia Bongiorno: “Castrazione chimica se la pena è sospesa” di Simone Canettieri Il Messaggero, 28 marzo 2019 Stupro, oggi l’emendamento al Codice rosso: “Solo per chi vorrà”. Ministro Giulia Bongiorno, è convinta che l’Italia si sveglierà più sicura con il sì alla legge sulla Legittima difesa? “Ci sarà un Paese con meno vittime che dovranno affrontare calvari giudiziari: si eviteranno ingiusti processi a chi si difende, e sì, sarà anche più sicuro. Chi entra nelle case per violentare, uccidere o rubare deve sapere che la vittima potrà respingere le aggressioni. Questa legge servirà anche da deterrente”. C’è polemica per la presenza degli “sparatori” in Senato: era proprio necessario invitarli? “Chi è aggredito lo reputo una vittima. Nello specifico non conosco le storie. Questa legge non permette di uccidere il ladro che fugge, e infatti abbiamo usato il verbo “respingere”. La Commissione ha dato il primo via libera al Codice rosso, la legge sulla violenza di genere. “È una battaglia che mi è cara perché nasce dalla mia precedente vita, da esigenze concrete e dalla mia esperienza con Michelle Hunziker. Finalmente ci sarà un termine perentorio entro il quale la magistratura dovrà sentire la donna che denuncia violenze”. Ma mancano le risorse per gestire questo processo. “Già nella legge di bilancio il governo ha previsto assunzioni straordinarie per magistrati, e comunque si potrà delegare l’atto alla pg. Se poi si tratterà di una donna isterica si metterà da parte la denuncia. Se si tratterà di una donna in pericolo, le avremo salvato la vita”. Il ministro Matteo Salvini torna a chiedere la castrazione chimica per chi commette violenze sessuali: concorda? “Sì, e per questo abbiamo presentato alla Camera un emendamento per inserire la possibilità di subordinare la sospensione della pena ad un trattamento terapeutico o farmacologico inibitorio della libido”. Una norma oscurantista che fa gridare alle barbarie. Crede che il M5S lo farà passare? “È su base volontaria, non è un trattamento incostituzionale. La Lega sostiene questa misura da tempo, anzi è uno dei motivi, con la legittima difesa, che mi ha fatto avvicinare alla Lega”. Ma i grillini si opporranno. “Loro hanno inserito nuove norme sulla violenza sessuale, noi su questo argomento. La norma non è nel contratto. Mi auguro che si trovi un’intesa”. Cosa ne pensa del congresso della famiglia a Verona? La donna viene relegata a un ruolo marginale, non si trova in imbarazzo con la sua storia? “Escludo categoricamente che ci possa essere la possibilità di retrocedere di un millimetro sui diritti e sull’autodeterminazione della donna. Sono curiosa”. Questo evento non sembra essere il massimo dell’illuminismo. “Il ministro Fontana mi ha detto che molte delle polemiche sono pretestuose. Attendo con ansia di ascoltare i relatori, poi commenterò. Salvini ha chiarito che non si torna indietro su divorzio, aborto e parità della donna. Liberi di criticare tutti, liberi di andare tutti. Ma sia chiaro: io non arretro”. È stata invitata? “No, anzi colgo al volo l’occasione per dire che io mi confronto con chiunque, ma è chiaro che se vado vorrei interloquire”. La sua è curiosità scettica? “Curiosità, non vivo di pregiudizi”. Tornando alla violenza sulle donne, il fondo per gli orfani dei femminicidi è bloccato. “Ho sentito questa mattina i Ministeri competenti, entro il mese ci sarà il regolamento dettagliato che permetterà di sbloccare le risorse. Anche Salvini si è impegnato per rimpinguare questo fondo”. Sempre sicura che nel governo si vada d’amore e d’accordo? “Non esiste un governo che abbia spinto sulla pubblica amministrazione come il nostro. Oltre ad avere sbloccato il turnover al 100%, nella legge di bilancio abbiamo inserito per nuove assunzioni 130 milioni per quest’anno, 320 nel 2020, 420 nel 2021. Se ci fosse un governo diviso non ci sarebbero questi risultati. Ci sono diverse sensibilità, ma anche un contratto: andremo avanti”. Il Campidoglio è stato travolto da un’altra inchiesta per corruzione: non è preoccupata? “Certo, ma una premessa. L’ho detto per i genitori di Renzi e lo ripeto per De Vito, senza entrare nel caso specifico, mi piacerebbe però che la riforma del processo penale si focalizzasse sia sulla celerità dei processi, sia sulla necessità di rendere più rigoroso il sistema delle misure cautelari”. Ma lei può aiutare la sindaca Raggi nella correttezza delle procedure? “Il mio Ministero aiuta tutte le amministrazioni. Ho cercato di venirle incontro per le assunzioni e resto a sua disposizione. La situazione di Roma è una situazione di degrado cronico, che non si può imputare solo a chi governa negli ultimi anni, è chiaro che bisogna evitare che diventi irreversibile. Il declino fa tristezza. Serve un colpo d’ali”. Questa inchiesta dimostra che non esistono i partiti degli onesti. “L’etica riguarda ciascuno di noi, e non può essere l’etichetta di un partito”. Castrazione chimica, ritorno al Medioevo di Carlo Nordio Il Messaggero, 28 marzo 2019 Shakespeare ci insegna che una buona ragione deve cedere a una ragione migliore. La nostra reazione ai numerosi, anche recenti, fenomeni di stupro è così sdegnata da farci ipotizzare le pene più aspre per gli autori di questo odioso reato. Ed è quindi comprensibile che, come dopo ogni strage terroristica c’è chi invoca il patibolo, così ad ogni violenza sessuale si prospetti la possibilità di rendere inoffensivi questi criminali neutralizzandoli con gli strumenti chimici di cui oggi disponiamo. Tuttavia non sarebbe una scelta razionale, per almeno tre ragioni. Primo. La castrazione, pare, sarebbe opzionale per il condannato: se l’accetta, evita il carcere, altrimenti deve espiare la pena. Questa alternativa sovvertirebbe completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione, dove la pena ha una funzione preventiva, retributiva e rieducativa. Si può concedere che la castrazione prevenga nuovi crimini; ma se le attribuiamo anche una funzione retributiva ciò significa che torniamo alla vecchia pena corporale. Quanto alla funzione rieducativa, essa è per definizione fondata sul libero convincimento, e non sull’effetto materiale di qualche molecola. Secondo. Se la “castrazione” è un surrogato della pena, dev’essere provvisoria, e di conseguenza è inefficace. Una volta esaurito il tempo di espiazione e “di cura” la pericolosità infatti riemerge, probabilmente potenziata dal noto effetto contrario conseguente all’interruzione della somministrazione del farmaco. Se invece è irreversibile, costituisce una menomazione permanente come l’amputazione di un arto, e quindi, incidendo su un diritto indisponibile, è manifestamente incostituzionale. Terzo. Questi delitti, un tempo appannaggio del genere maschile, sono oggi ipotizzabili anche a carico della donna, come ben dimostra il recentissimo caso dell’insegnante incarcerata per violenza su un infra-quattordicenne. La legge non può certo discriminare le sanzioni in funzione del sesso, e quindi la “castrazione” dovrebbe valere per tutti. Ma qui sorgerebbe un problema, per così dire, di fisiologia. Se infatti per l’uomo questo reato si radica su una libido perversa, per la donna può benissimo poggiare su motivazioni assai differenti; non occorre avere la fantasia di Maupassant per immaginare che una donna abbandonata si vendichi seducendo il figlioletto del suo seduttore. Che farà la legge in questo caso? Il reato non deriverebbe da una sovraeccitazione sessuale da curare e correggere, e quindi la castrazione sarebbe inutile. Ma eliminare la possibilità di usufruirne significherebbe privare la donna dell’alternativa al carcere, e rendere quest’ultimo automatico. Un altro elemento di incostituzionalità. Concludo. Ho cercato di argomentare in termini asettici, evitando ogni considerazione emotiva. In fondo il nostro ordinamento ha introdotto quella figura di isolamento mortuario che è il 41bis, e che per certi aspetti è più incivile anche di questa mutilazione farmacologica. Questo per dire che il nostro sistema non brilla di civiltà. Ma poiché credo che in politica l’errore sia il peggiore dei crimini, credo che questa iniziativa debba esser fermata. Perché, appunto, prima di ogni altra cosa sarebbe un errore forse fatale. Il Caso Landi, la Corte europea e il dramma della giustizia vendicativa o discrezionale di Barbara Alessandrini L’Opinione, 28 marzo 2019 Uno degli indicatori dello stato di difficoltà del sistema giudiziario italiano è ormai rappresentato da qualche tempo dalla facilità e dalla velocità con cui è possibile dedicarsi all’attacco alla giurisdizione e all’indipendenza della magistratura giudicante ogni volta che essa si permette, nel pieno rispetto dei codici, di emettere una sentenza difforme dalle aspettative giustizialiste dell’opinione pubblica. Una scorsa a poche righe estrapolate da pagine di motivazioni, nessuna conoscenza della legge né la più pallida idea delle modalità e dei passaggi attraverso cui si giunge ad un verdetto e a stabilire, ad esempio, che non tutti gli omicidi sono uguali tanto da prevedere graduazioni di pena differenti da caso a caso, sono sufficienti per giudicare una pena inappropriata e troppo benevola. È nuovamente accaduto a causa delle attenuanti concesse agli imputati nelle recenti sentenze emesse dai giudici Silvia Carpanini a Genova e Orazio Pescatore a Bologna che hanno ridotto a 16 anni la condanna di entrambi i due condannati per femminicidio, l’ecuadoregno Javier Napoleon Pareja Gamboa e di Michele Castaldo. L’aver sottratto gli imputati alla giustizia vendicativa dell’opinione pubblica ha scatenato esponenti di governo, media e cittadini contro la “reintroduzione del delitto d’onore”. Sentenze, ricordiamolo, per arrivare alle quali i giudici hanno semplicemente applicato la legge e, come ha spiegato il giudice Carpanini, “le regole del diritto che sono altro dalle emozioni dell’opinione pubblica”. Agitar le manette e una giustizia meramente vendicativa è una scorciatoia che consente di capitalizzare consensi ma è un modo per non affrontare le spine reali del sistema giustizia. Tanto più che di fronte ad alcuni casi paradigmatici diventa ancor più chiaro che alla politica, a certi ministri ed ai media anziché montare sempre in sella alla deriva populista e fomentare la spinta giustizialista andrebbe chiesto di spostare l’attenzione sulle effettive e molteplici criticità che segnano la degenerazione del sistema giudiziario italiano e che rischiano di costare molto allo stato italiano in termini di risarcimenti a chi delle aberrazioni del potere giudiziario rimane vittima. È emblematico il caso della signora Annalisa Landi a cui, prima di vedersi assicurare un provvedimento giudiziario a sua tutela, nonostante le ripetute denunce e avvisi dei carabinieri alle autorità giudiziarie competenti, il 14 settembre 2018, il compagno Niccolò Patriarchi, nella loro abitazione di Scarperia (Firenze), ha ucciso con un coltello il figlio di un anno, tentato di lanciare la figlia dal terrazzo dopo aver ferito con lei stessa. Motivi per cui il difensore della donna, Massimiliano Annetta, ha adito la Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo sostenendo nel ricorso la violazione degli articoli 2 e 14 della Cedu da parte delle autorità italiane che, a causa della negligenza professionale dimostrata, sono ritenute responsabili della tragedia familiare annunciata e subita dalla donna. Esito annunciato, dopo anni di episodi sempre più frequenti di violenza domestica da parte dell’uomo, affetto da un grave disturbo bipolare certificato da una precedente perizia psichiatrica disposta in una inchiesta precedente all’omicidio che vedeva l’uomo indagato per maltrattamenti in famiglia e stabiliva una capacità di intendere e volere grandemente scemata nel momento in cui aveva colpito la compagna. Il punto è che le autorità italiane erano state puntualmente avvisate dal 2015, attraverso ripetute denunce da parte della signora, avvisi di aggressione inviati dai carabinieri alla Procura della Repubblica di Firenze e loro raccomandazioni al Pm di chiedere al giudice misure precauzionali, ma risulta che non siano mai state adottate misure necessarie ed appropriate per proteggere la vita delle vittime. Tutti i procedimenti aperti a seguito delle querele sono stati infatti archiviati dalle autorità competenti. Ora la parola passa ai giudici europei e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo è molto chiara sulla materia e stabilisce che “qualora le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere l’esistenza di un rischio reale ed immediato della vita di un individuo determinato e non hanno fatto quello che potevano fare e quello che si può ragionevolmente aspettarsi da loro per eliminare tale rischio devono essere ritenute responsabili”. La Corte in questo caso stabilisce che lo Stato di appartenenza deve essere condannato per non aver assicurato protezione alle persone sottoposte alla sua giurisdizione. È molto probabile, dunque, che la Corte europea dia ragione all’avvocato Massimiliano Annetta il cui ricorso si incardina sulla difesa del diritto fondamentale alla vita, tutelato dall’articolo 2 della Cedu che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria ed irregolare, ma ad adottare le misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione, sia sull’ipotesi di una palese violazione del diritto di non discriminazione tutelato dall’art.14 sempre della Cedu. “L’aver trascurato la reiterata prospettazione della situazione di pericolo da parte della donna ha - secondo quanto si legge nel ricorso presentato - costituito una discriminazione a suo danno poiché la sua vulnerabilità era insita alla sua condizione di compagna e madre esposta alla violenza del convivente, in ragione della sensazione di impunibilità che questi avvertiva a motivo dell’inerzia delle forze dell’ordine”. La donna, infatti, probabilmente demoralizzata, ha ritirato la prima denuncia dopo 4 mesi dalla segnalazione ai carabinieri. Il caso, emblematico delle disfunzioni gravi del nostro sistema giudiziario, è uno dei tanti che coinvolge direttamente la responsabilità dello stato italiano per mancata protezione di un suo cittadino pur avendo ricevuto ripetute segnalazioni sui rischi reali che esso stava da tempo correndo. Ma la vicenda, ora approdata davanti ai giudici europei, è anche indicativa di come l’obbligatorietà dell’azione penale troppo spesso si traduca nella totale discrezionalità dell’azione penale da parte della magistratura incaricata di avviare le indagini. Poiché la possibilità delle procure di scegliere chi indagare e la dipendenza dalle possibili ricadute in termini di visibilità mediatica ricavabili dai singoli casi è un elemento che seguita ad avere notevole peso nella scelta dei casi su cui si sceglie e decide di aprire un procedimento. Alla luce delle polemiche e degli inferociti commenti sulle recenti sentenze ritenute troppo benevole, e sul cui fuoco hanno soffiato esponenti di governo, tuttologi del web e giornalisti che quelle sentenze non le hanno lette, vicende come questa pongono l’interrogativo se sia da considerare più colpevole l’individuo affetto da squilibrio psichico colpevole di omicidio e sul quale si abbattono la spietata gogna mediatica e le elettoralmente redditizie polemiche quando i giudici, applicando il codice penale, concedono le attenuanti per seminfermità mentale, oppure lo stato che non ha protetto la vittima da chi precedentemente e ripetutamente ha dato prova di squilibrio adottando comportamenti violenti, e a fronte di varie denunce da parte della vittima e di segnalazioni dei carabinieri, ha archiviato le inchieste? Non è certo questo femminicidio annunciato il caso, ma il problema resta: quante volte l’obbligatorietà dell’azione penale diventa un po’ più obbligatoria su vicende che magari investono il politico o l’amministratore o il grande industriale, e che consentono di scatenare la grancassa mediatica e ai Pm di essere illuminati dai riflettori? Ingiusta detenzione. Petrilli: “mia petizione ritenuta ricevibile dall’Ue” abruzzoweb.it, 28 marzo 2019 “La presidente della Commissione europea sulle petizioni, l’europarlamentare svedese Cecilia Wikstrom, mi ha comunicato con una lettera che la petizione presentata da me il 7 dicembre scorso, sulla modifica della norma dell’ordinamento giudiziario italiano inerente il risarcimento per ingiusta detenzione è stata ritenuta ricevibile”. Lo rende noto Giulio Petrilli, aquilano assolto dopo aver trascorso sei anni in carcere, che da anni si batte per essere risarcito dallo Stato italiano. “Questo significa un primo importante riconoscimento alla battaglia sul diritto al risarcimento per tutti gli assolti - dice. Nella petizione ho raccontato tutta la mia storia, un’assoluzione dopo sei anni di carcere e poi non aver avuto il risarcimento per ingiusta detenzione”. “I giudici hanno motivato questo per le presunte cattive frequentazioni da me avute - ricorda Petrilli. La ricevibilità della petizione ha già il significato di aver posto un tema che la Commissione europea ritiene importante e logico. Molte petizioni vengono considerate irricevibili”. “Ora confido nel prosieguo con la presa di posizione del Parlamento europeo che riconosca la giustezza della mia battaglia”. “Ma già la risposta di oggi mi riempie di gioia in quanto da soddisfazione ai tanti anni di iniziative e impegni per far emergere la necessità di garantire il diritto al risarcimento a tutti coloro sono stati assolti”, conclude Petrilli. Caso Cucchi, il pm: “Processo condizionato da depistaggi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 marzo 2019 L’accusa: “L’atteggiamento reticente e non collaborativo di alcuni testi è visibile”. Con una memoria dettagliata, il pm Giovanni Musarò è tornato ieri a chiedere alla III Corte d’Assise di Roma di acquisire agli atti del processo bis per la morte di Stefano Cucchi la consistente mole di prove documentali raccolte dalla procura sull’attività di depistaggio condotta a più riprese da alcuni esponenti dell’Arma, e rigettate dalla giuria nella scorsa udienza perché ritenute “superflue”. “L’obiettivo - ha spiegato il magistrato che di recente ha chiuso l’inchiesta integrativa sull’insabbiamento notificando l’atto ad otto militari tra i quali il generale Alessandro Casarsa - non è fare qui un processo sui depistaggi, quello è un altro procedimento. Ma ci sono circostanze rilevanti per questo processo perché la prova davanti a questa Corte è stata condizionata da quei depistaggi”. Trenta documenti, quelli presentati da Musarò, la cui cronologia, soprattutto, è “estremamente significativa”. Come ad esempio nel caso portato in dibattimento: il documento diramato il 1° novembre 2009 dal generale Vittorio Tomasone su indicazioni, a suo dire, dell’allora colonnello Casarsa, nel quale si descriveva a quali conclusioni avrebbe dovuto arrivare e su cosa avrebbe dovuto lavorare il collegio peritale nominato solo successivamente per eseguire l’autopsia sul corpo di Cucchi. La Corte invece ha valutato “superflui” quei documenti, considerando che le stesse prove si sarebbero potute produrre in dibattimento. Peccato che, come hanno fatto notare pubblica accusa e parti civili, l’occasione non potrà presentarsi durante questo processo perché alcuni testi fondamentali - come Casarsa o il maggiore Soligo - si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in quanto indagati per il depistaggio. E “l’atteggiamento reticente e non collaborativo di alcuni testi è visibile”, ha aggiunto Musarò. Sul punto, la Corte deciderà nella prossima udienza dell’8 aprile, giorno in cui è prevista l’analisi del carabiniere Francesco Tedesco, uno dei cinque imputati e test chiave da quando ha ammesso davanti ai pm che a picchiare violentemente Stefano furono i suoi due colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, denunciando l’insabbiamento delle prove. Un occultamento del quale si è avuta conferma anche ieri quando il capitano Carmelo Beringhelli ha ricostruito come nel 2015, durante un controllo disposto ad hoc, il capitano Tiziano Testarmata decise, malgrado le sue obiezioni, di non acquisire l’originale del registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove Cucchi venne pestato e il suo nome sbianchettato. Beringhelli, comandante del nucleo operativo della compagnia Casilina, ha assicurato - contrariamente a quanto sostenne il generale Tomasone - che il fotosegnalamento va sempre fatto, e se l’arrestato si rifiuta va avvisato il magistrato di turno. Per intanto, invece, ieri la giuria ha acquisito, su richiesta degli avvocati difensori dei carabinieri, la perizia medico-legale depositata il 7 marzo scorso nel primo processo ancora in corso ai cinque medici dell’ospedale Pertini, dove morì Stefano Cucchi. Secondo i periti, nominati dalla II Corte d’Assise d’Appello con il compito di analizzare la precedente perizia esperita nel corso del primo grado di giudizio, avendo a disposizione i soli atti del fascicolo processuale, la causa del decesso di Cucchi è “una morte cardiaca su base aritmica”. Dunque se non altro si ammette che non è morto perché epilettico, come sostenuto durante il processo. Ma, secondo la prof. Anna Aprile e il dott. Alois Saller che firmano la perizia, già prima del ricovero al Pertini, il giovane geometra romano “era in condizione proaritmica per la malnutrizione e per molteplici altri fattori di rischio aritmogeno”. Nel documento si danno per scontate le “lesioni traumatiche” e il forte dolore che Cucchi ha provato senza il supporto di adeguati antidolorifici. E si ammette che “non è possibile fornire valutazioni precise sull’entità delle probabilità di salvezza legate ad una diversa cura messa in atto durante il ricovero”. C’è però una domanda che non è stata posta e alla quale nessuno ha risposto: se non fosse stato pestato fino a spezzargli la schiena, Stefano Cucchi sarebbe morto? “Evidentemente no”, sostiene Musarò che considera la richiesta di acquisizione “un clamoroso autogol per la difesa perché la perizia in questione è incentrata su quella disposta nel primo procedimento e che abbiamo dimostrato essere una perizia farlocca, costellata da errori incredibili”. Inoltre se la difesa “avesse letto tutta la perizia scoprirebbe che il trauma subito, e ascrivibile ai carabinieri, è considerato una concausa della morte di Cucchi”. Il film sui casalesi sfida lo Stato: la produzione ignora il divieto di proiezione di Andrea Palladino La Stampa, 28 marzo 2019 Prefettura e Commissione Antimafia si sono mosse per lo stop. Ma l’evento è stato spostato in un club poco distante e s’è fatto lo stesso. Una sfida allo Stato, un voler marcare ancora una volta un territorio, mostrando di non temere nessuno. Il film “Operazione Spartacus. La casalese” - prodotto da Angelo Bardellino, nipote dell’ex capo clan ucciso in una guerra di Camorra negli anni 80 e diretto dall’ex moglie di Renato Vallanzasca Antonella D’Agostino - sta diventando un caso che mostra la delicatezza di quell’area a cavallo tra il Lazio e la Campania. Prima è arrivato il divieto di proiezione per l’evento organizzato inizialmente in un resort a Spigno Saturnia, comune dell’estremo sud pontino, a ridosso del confine con la Campania. Poi, martedì sera, la sfida: attori, regista, organizzatori e supporter si sono dati appuntamento, riservatamente, alla Yacht Club di Gaeta, a pochi chilometri dal locale inizialmente scelto per l’evento che poi è stato vietato. La copertina del libro sul tavolo, interventi stizziti contro i giornalisti che hanno scritto del caso, chiamati “psicopatici” e “borderline”, i mazzi di fiori, i vestiti delle grandi occasioni. Interviste, le foto di gruppo, i migliori sorrisi da sfoderare su un immaginario red carpet. E poi, quando è calata la luce sul lungo mare, la proiezione del trailer. Il divieto del Viminale? Ignorato, cambiando sala ed evitando ogni forma di pubblicità. Tutto organizzato con il passaparola, messaggi inviati poche ore prima sui cellulari del cast e tanta discrezione. “Né con lo Stato, né con la Camorra” è l’atroce slogan di lancio del film pubblicato sulla pagina Facebook ufficiale. “Solo una storia d’amore”, si difende l’autrice Antonella D’Agostino. Una trama dove la protagonista si oppone al marito collaboratore di giustizia, racconta la presentazione pubblicata sui social. È il filo narrativo sottile che aveva preoccupato la Prefettura di Latina e la Commissione antimafia, intervenute la settimana scorsa ottenendo il divieto di proiettare il film. L’anteprima era stata organizzata dalla società di produzione Roxyl Music riconducibile ad Angelo Bardellino. Imprenditore nel settore musicale nato nel casertano e cresciuto a Formia, è il rappresentante più conosciuto della famiglia protagonista dei primi anni di ascesa del clan dei Casalesi. Ha subito una condanna in secondo grado per estorsione ed oggi è in attesa del pronunciamento della Cassazione. Ma i Bardellino sono un nome che continua a contare in quel territorio. Proprio a Spigno Saturnia, dove era previsto inizialmente l’evento, avevano alcuni terreni, poi confiscati. Le forze di Polizia sono arrivate nei locali dove si è tenuta la proiezione del film solo ad evento concluso, secondo alcune fonti interpellate da La Stampa. Hanno proceduto all’identificazione dei partecipanti, ma ormai tutto era finito. La sfida è stata lanciata. Truffa e bancarotta coesistono di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 13399. Le contestazioni per il reato di truffa e bancarotta per distrazione possono coesistere. Diversamente da quanto avviene per la bancarotta e l’appropriazione indebita. Non scatta dunque il divieto di “ne bis in idem” nel giudicare l’imputato per il delitto distrattivo, contestato nello stesso procedimento nel quale viene “eccepita” la truffa. La Corte di cassazione, con la sentenza 13399, accoglie il ricorso del Pubblico ministero, contro la decisione del Tribunale del riesame di considerare il reato di bancarotta fraudolenta assorbito dalla truffa. Nel mirino dei giudici era finito l’amministratore di fatto di una Srl, dichiarata fallita, indagato per truffa e bancarotta per distrazione. Alla base delle incolpazioni provvisorie, l’erogazione di finanziamenti bancari, per quanto riguarda la truffa, ottenuti falsificando i bilanci e i documenti della società, per “camuffare” la reale situazione economica della Srl, e la successiva sottrazione di somme con azioni dolose collegate anche al fallimento, per quanto atteneva la bancarotta. Ad avviso del Pm ricorrente, il Tribunale, non aveva considerato che i fatti illeciti erano diversi. Con le numerose condotte illecite, differenti per natura e cronologicamente successive, non erano stati lesi gli stessi beni giuridici. I giudici del riesame hanno male interpretato la giurisprudenza della Cassazione (sentenza 25651/2018), che, muovendosi sulla scia delle indicazioni della Consulta (sentenza 200/2016) sul divieto del ne bis in idem, ha escluso il concorso tra i reati di appropriazione indebita, oggetto di una sentenza irrevocabile, e di bancarotta fraudolenta per distrazione, relative allo stesso bene materiale. Il Tribunale ha fatto impropriamente confluire nel solo “disvalore” della truffa, le forme più gravi del reato di bancarotta. Messe in atto abusando intenzionalmente dello strumento societario, per drenare risorse per scopi personali e a danno dei creditori. Che non possono, allo stato degli atti, essere considerati coincidenti con i danneggiati dalla truffa. Il furto dell’acqua dal fiume non integra automaticamente il danno ambientale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 27 marzo 2019 n. 8468. Il ministero dell’Ambiente non può pretendere il risarcimento del danno ambientale senza allegare la prova specifica di una compromissione dell’elemento naturale. Nel caso in questione si trattava dell’attingimento da parte di un consorzio di Comuni di maggiori risorse idriche di quanto stabilito in concessione. Di fatto venivano favoriti maggiormente i Comuni consorziati, ma soprattutto l’acqua attinta dal corso d’acqua era di tale dimensione da avere avuto un impatto, almeno momentaneo, sulla flora e la fauna a esso correlata. Di fatto un comportamento che ha determinato la condanna per furto del consorzio e di alcuni dei Comuni partecipanti. Ma ciò non è sufficiente a fornire la prova di quanto e quale nocumento si sia verificato in danno dell’ambiente. Infatti, la prova va fornita al di là della sentenza penale di condanna. Così, la Corte di cassazione con la decisione n. 8468 di ieriha escluso che dalla sentenza di condanna per furto a carico del Consorzio derivasse automaticamente, come già fatto e completato, l’accertamento di uno specifico danno ambientale e che il ministero e il Comune ricorrente avrebbero dovuto fondare la propria domanda in base a specifica consulenza. La condanna e il risarcimento - Da qui l’impossibilità di ottenere con l’azione civile - fondata solo sulla condanna penale - il risarcimento o la riparazione del danno che si suppone accertato. Cioè senza adempiere ad alcun onere della prova. Nel susseguirsi delle norme sulla tutela dell’ambiente - anche e ormai soprattutto di matrice comunitaria - la Cassazione chiarisce che sull’accertamento delle condotte vale la disciplina vigente al momento dei fatti, ma per la liquidazione delle somme risarcitorie o attualmente dovute a titolo di riparazione si applica la disciplina vigente al momento dell’azione civile. Per la vicenda quindi che risale agli anni novanta si applica la formulazione di danno ambientale che sottintende l’impoverimento della risorsa ambientale e non consente l’equazione tra il furto della risorsa stessa e la produzione di un danno concreto all’ambiente. Teramo: acqua fredda e niente attività ricreative, protestano i detenuti di Castrogno di Matteo Bianchini Il Messaggero, 28 marzo 2019 In carcere senza acqua calda né attività ricreative, i detenuti del carcere di Castrogno (Teramo) scrivono al magistrato di sorveglianza di Pescara. O meglio, rendono pubblica una missiva datata 3 settembre 2018 e indirizzata per conoscenza anche al comandante del casa circondariale teramana, al provveditorato Lazio Abruzzo, al Dipartimento Centrale di Polizia penitenziaria, al Tribunale di sorveglianza de L’Aquila e al Garante nazionale dei detenuti. “La situazione descritta dai carcerati è a dir poco drammatica, a partire dalle dimensioni invivibili delle celle, con sicura violazione dell’art. 3 Cedu” le parole dell’avvocato Vincenzo Di Nanna di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzo, il quale ha diffuso una lettera-denuncia di diversi mesi fa rimasta priva di concreto riscontro. La missiva era stata firmata da tutti i detenuti della sezione “Alta sicurezza” del carcere di Teramo e, fra gli elementi di maggior sofferenza i carcerati denunciano, oltre alla mancanza di acqua calda, i vari disagi prodotti da allagamenti con rischio di cadute e infezioni. I detenuti lamentano, inoltre, l’assenza di attività rieducative e ricreative, oltre all’illuminazione insufficiente. “Se si considera infine la mancanza della possibilità di svolgere un lavoro dignitoso, è facile comprendere cosa li spinga ad affermare di essere stati totalmente abbandonati - conclude l’avvocato. Una situazione grave e inaccettabile, che pone ancora una volta in luce l’urgenza e necessità d’eleggere in Abruzzo il Garante dei detenuti: è incredibile dover sottolineare come la legge istitutiva, entrata in vigore quasi otto anni fa, non abbia ancora ricevuto applicazione. Il nuovo Consiglio Regionale intende finalmente provvedere o preferisce stare a guardare mentre le condizioni delle carceri degenerano ulteriormente?”. Lecco: presentata “Extrema Ratio”, le Apac come alternativa alle carceri di Matteo Bonacina leccotoday.it, 28 marzo 2019 “Rimettiamo la persona al centro”: presentate la mostra Apac e l’installazione “Extrema Ratio”. In comune la possibilità di conoscere la realtà carceraria brasiliana e di poter provare l’esperienza di una cella italiana grazie al modello realizzato dai detenuti di Bollate. Il Comune di Lecco, insieme a un’ampia rete di soggetti della società civile, istituzioni, enti, associazioni e realtà sociali, ha aderito all’iniziativa della Caritas Decanale di Lecco e della Caritas Ambrosiana per allestire in città, dal 27 marzo fino al 6 aprile, all’interno del palazzo comunale, la mostra Apac e l’installazione Extrema Ratio, all’interno del progetto “Diamoci un’altra chance: quale giustizia?”. “Conoscevo indirettamente l’esperienza delle Apac brasiliane - rammenta Don Marco Tenderini, responsabile Caritas decanale di Lecco e dal 2002 al 2004 cappellano presso il carcere Monza. Dopo il meeting di Rimini mi sono incuriosito. Sono stato a Salvador de Bahia conobbi una suora pastorale carceraria, sono stato spesso impegnato nelle favelas con lei. Ha realizzato un asilo in cui accoglieva i figli delle detenute. Ricordo quella visita al carcere come qualcosa di terribile. Dentro c’erano cani, panni stesi e sporcizia ovunque; era praticato l’elettroshock come misura repressiva normale. A Lecco, per dieci giorni, mettiamo la giustizia al centro della nostra attenzione, rendendola meno “fai-da-te” e più riparativa. L’evento è stato costruito piano piano”. I temi promossi dall’iniziativa riguardano la giustizia: i reati e i crimini rompono il patto sociale di convivenza, generano allarme, paura e senso di insicurezza nella comunità e richiedono risposte efficaci. Le risposte che conosciamo spesso lasciano soli i rei, alle prese con l’espiazione di una pena che non serve a prevenire la recidiva, ma lasciano sole soprattutto le vittime, dirette e indirette, con le loro sofferenze e i danni prodotti dal crimine che hanno subito. Inoltre lasciano soli i cittadini alle prese con le loro paure, insicurezze e un desiderio di giustizia che a volte si trasforma in desiderio di vendetta e in odio. “Da circa un anno stavamo lavoravamo a questo progetto, vogliamo riportare la centralità della persona in città, che stiamo perdendo di vista - spiega l’assessore comunale alla cultura Simona Piazza. Abbiamo già esperienze di Apac brasiliane o provenienti da altri territori, lo stesso carcere di Pescarenico ha progetti di questo tipo al suo interno. Il lavoro delle istituzioni è fondamentale. Grazie a Marco Bellotto, garante dei detenuti appena nominato, e al nostro ufficio comunicazione per la realizzazione dell’importante evento”. L’attesa e a volte la pretesa di una risposta di giustizia forte, certa e risolutiva che ristabilisca l’ordine sociale sono quasi sempre identificate con la reclusione: al male del crimine si risponde con il male della pena in carcere, convinti che questo raddoppio del male possa generare il bene, per chi ha commesso il reato, con la chiusura in carcere, per chi ha subito il reato, con il sentirsi ripagato del male ricevuto e per la società con il sentirsi anch’essa ripagata e rassicurata per il futuro. Ma la pena detentiva non riesce quasi mai a rieducare il reo e a prevenire la recidiva. Le persone detenute si deresponsabilizzano rispetto alle conseguenze del reato e coltivano un senso di rancore sociale che favorisce un ulteriore coinvolgimento nel mondo criminale. Da questa riflessione prende le mosse il progetto, la possibilità di immaginare una giustizia che si prenda cura di tutte le parti, vittime, rei e comunità, attraverso progetti in grado di promuovere la responsabilizzazione e la riparazione da parte dei rei verso le vittime e la comunità, che li mantenga inclusi nella compagine sociale a garanzia della sua tenuta e dell’ordine sociale. La mostra racconta la trentennale esperienza brasiliana basata sul modello di carcerazione “alternativo” gestito dall’Apac (Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati), esperienza che, a partire dalle consapevolezza delle condizioni di violenza estrema e recidiva altissima delle carceri brasiliane, si è misurata con il tentativo di recupero, riabilitazione e reinserimento sociale di molti condannati attraverso strutture gestite, in convenzione con le istituzioni regionali e locali, da volontari, personale amministrativo e dagli stessi detenuti. Una scommessa che propone prima di tutto uno sguardo nuovo su chi è in carcere: uno sguardo che crede alla possibilità del cambiamento personale, condannando il crimine, ma salvando la persona. All’interno di questa esperienza i tassi di recidiva sono stati abbattuti dell’85%. Toccante il ricordo di Marina Lorusso: “Ho fotografato le Apac brasiliano nel 2013, sono andata lì perché ho colto volentieri e con curiosità questa richiesta. Le Apac nascono negli anni settanta per volere dell’avvocato Ottoboni. Non è sufficiente fare compagnia ai detenuti, motivo per cui sono state fondate queste realtà. Le condizioni delle carceri di stato sono tremende; le persone, di età tra 18 e 25 anni, sono trattate come animali, quando escono sono solo dei laureati nel crimine. Negli anni il metodo si è evoluto: colui che mi ha aperto era un detenuto, però non è scappato dopo avermi spalancato il portone. Ho visto il video di un recuperando condannato a 150 anni di condanne, scappato 30 volte dalle carceri di stato; arrivato lì non ha più trovato senso nella fuga, perché aveva incontrato la dignità tanto cercata. Non sono minimamente trattenuti lì, ci sono anche omicìdi e pluriomicìdi, ma l’esperienza che vivono, anche grazie ai volontari, è totalizzante. La recidiva dei carcerati brasiliani è dell’80%, quella dei recuperandi del 10%”. L’installazione “Extrema Ratio” è un progetto di Caritas Ambrosiana che si propone come un percorso esperienziale che permette alla cittadinanza di fermarsi a riflettere sulle gravi condizioni in cui versa la gran parte delle carceri italiane. Intorno e dentro una cella di otto metri quadri, realizzata dai detenuti nella falegnameria del Casa di Reclusione di Bollate, si attiverà un “gioco di ruoli” in cui alcuni “esperti” interpreteranno gli agenti penitenziari mentre i visitatori, in gruppi di sei, si faranno volontariamente arrestare e rinchiudere nella cella, non per mesi o anni, ma per soli cinque minuti. Pochi minuti per capire che, nonostante l’articolo 27 della Costituzione, la cella rappresenta la negazione dello spazio e del tempo, dell’intimità personale, della possibilità di scelta e infine della dignità stessa delle persone. Al termine dell’esperienza di “reclusione” i cittadini e i giovani potranno così condividere con operatori e volontari le riflessioni, i dubbi e gli interrogativi sorti durante l’esperienza. “Senza le persone non saremmo riusciti ad arrivare qui - spiega Bruna Dighera, psicologa giuridica -. La giustizia è un tema fondante la convezione civile. Anche le domande sono importanti: vi racconteremo quelle che ci siamo fatti, riassunte in quattro passaggi. Parleremo di reati e crimini, che vìolano le persone creando sofferenza e danni. Il carcere è il rattoppo del male e raramente trattiene la recidiva, perché deresponsabilizza le persone che ci stanno dentro. Le vittime solo le vere grandi dimenticate, sono valide solo come testimoni e poi abbandonate a loro stesse”. Promuovere l’accoglienza, l’ascolto, i bisogni delle vittime, offrendo loro le opportunità per andare oltre l’esperienza di solitudine. L’iniziativa si sviluppa attraverso l’allestimento di una mostra e di una installazione aperte al pubblico nel cortile del municipio, visite guidate, e tre appuntamenti di riflessione e approfondimento rivolti ai cittadini, ai giovani, alle scuole e agli operatori e volontari del settore sui temi della giustizia e della pena, che si terranno presso l’Auditorium Casa dell’Economia e in sala Don Ticozzi a Lecco. Pesaro: il carcere per un giorno diventa capitale mondiale del teatro di Luca Gasperoni ilducato.it, 28 marzo 2019 Prima rappresentazione di giugno 2017 dello spettacolo “ConfinaMenti” ispirato ai testi “Martin Bresler” e “Molino Roho”. Il teatro come evasione: dall’emarginazione e dalla solitudine. Per cambiare identità, riconquistarsi la libertà e magari un futuro. Come riabilitazione: per riprendere contatto, un po’ per volta, con la vita di tutti i giorni e far sì di non perderla di nuovo, quella libertà. Il 27 marzo è il giorno scelto dall’International Theatre Institute (ITI) per festeggiare il World Theatre Day che taglia nel 2019 il traguardo della 57° edizione. Un appuntamento che quest’anno, come premio per gli anni di lavoro educativo svolto del collettivo teatrale Aenigma di Urbino, ha avuto il suo cuore in Italia, per la precisione a Villa Fastiggi, la casa circondariale della provincia. Un riconoscimento unico per il teatro Aenigma di Urbino, che da 17 anni organizza e coordina laboratori e produzioni teatrali per i detenuti di carceri, case circondariali, case di reclusione e strutture psichiatrico-giudiziarie. Un’attività di forte impatto educativo, perché il teatro “fa acquisire senso di responsabilità, migliora la comprensione, permette di acquisire una migliore gestione delle emozioni, promuove la costruzione dell’identità personale e facilita l’integrazione. Aiuta a stabilire relazioni, necessarie per acquisire le competenze per muoversi nella realtà.” spiega la professoressa Rosella Persi, docente di pedagogia all’Università di Urbino. I risultati trovano conferma anche nel reinserimento sociale al termine della pena: “Secondo gli studi più recenti a livello nazionale - spiega il ricercatore teatrale e pedagogista Vito Minoia, fondatore e direttore artistico del teatro Aenigma - la recidività dei reati passa dal 67% al 7% per chi fa esperienze di teatro qualificate e continuative in carcere”. Minoia racconta anche come avviene il contatto con i detenuti: “Quando si propone teatro in carcere si va incontro a un lavoro che prevede per il detenuto un clima di riflessione su se stesso ma anche in relazione con un gruppo. Vengono valorizzate le differenze, le diversità culturali e le esperienze di vita personali. È molto importante il rapporto di fiducia che si deve creare all’interno del gruppo. All’inizio c’è diffidenza. La chiave è il segreto del teatro che aiuta i partecipanti a vivere subito un clima collaborativo e trasformativo. Al crescere della fiducia si ottengono dei risultati che prima non si poteva immaginare”. Il progetto nel corso degli anni si è diffuso a macchia di olio in tutta la penisola e ha fatto diventare Aenigma - fondato nel 1989 e arrivato a 30 anni di attività - capofila del Coordinamento nazionale teatro in carcere, con 59 progetti in 15 regioni differenti. Ogni anno per la giornata mondiale del teatro una personalità della cultura scrive un messaggio di riflessione sul tema del teatro e della cultura della pace. Quest’anno è stato il turno del cubano Carlos Celdràn, regista teatrale e drammaturgo di fama internazionale. “Il mio paese teatrale, mio e dei miei attori, è un paese intessuto di momenti, in cui mettiamo da parte le maschere, la retorica, la paura di essere ciò che siamo, e uniamo le nostre mani nel buio. La radice del nostro lavoro è creare momenti di verità, di ambiguità, di forza, di libertà nel mezzo della grande precarietà”. Il messaggio - tradotto in 50 lingue in tutto il mondo - è stato letto dall’artista de L’Avana sul palco della casa circondariale di Pesaro. L’Iti infatti all’ultimo minuto ha scelto Villa Fastiggi di Pesaro per la cerimonia ufficiale della giornata mondiale del teatro, abbandonando l’ufficialità della grande cerimonia UNESCO a Parigi per unirsi ai detenuti e agli operatori teatrali che svolgono azioni riabilitative in prigione. L’evento avviene in concomitanza della Sesta Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, curata dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere insieme al Ministero della Giustizia. Durante la celebrazione del 26 marzo nella casa circondariale di Pesaro, presentata da Vito Minoia in qualità di presidente del coordinamento nazionale teatro in carcere, sono intervenuti Tobias Biancone (direttore generale dell’Iti) Fabio Tolledi (presidente Iti Italia) ma anche magistrati, pedagogisti, maestri teatrali e attori. Una giornata per confrontarsi, parlare dei passi avanti compiuti e festeggiare le soddisfazioni ottenute con i progetti teatrali. “Una delle più belle esperienze vissute è stato quando abbiamo lavorato con adolescenti e detenuti insieme sul tema del sogno, chiedendo a tutti di scrivere quello che si ricordavano. Non si parlava dei sogni come terapia ma di racconto e rielaborazione in chiave drammaturgica per poi creare uno spettacolo. È stata una esperienza unica, in grado di far maturare consapevolezza in tutti, con un racconto che si propagava anche fuori dal carcere.” ha raccontato Minoia, rievocando alcuni dei momenti più intensi del lavoro a Pesaro. Perché non c’è vittoria più grande di regalare a detenuti - che avranno difficoltà a integrarsi nella società - un futuro e nuove possibilità. Come avvenuto nel 2012 a Roma, con il carcere di Rebibbia divenuto cast del film dei fratelli Taviani “Cesare devi morire”, vincitore dell’Orso d’oro di Berlino nel 2012. Alcuni carcerati sono poi diventati anche attori professionisti, come Salvatore Striano. “L’università, la casa circondariale, le istituzioni scolastiche erano tutti presenti per affermare la valenza e l’importanza del teatro come strumento di formazione, di crescita e di rieducazione. Tre cose distinte ma complementari. Il teatro è il tratto unificante” ha detto la professoressa Persi, presente alla celebrazione per portare i saluti del rettore dell’università. Non è un caso che l’ultimo progetto in cantiere per il teatro Aenigma punti proprio sull’apertura del rapporto con i detenuti, coinvolgendo anche gli studenti universitari. L’idea è quella di unire teatro e rugby mettendo in atto una doppia valorizzazione. Lo spettacolo vedrà coinvolti gli studenti dell’università di scienze motorie sportive e della salute del primo anno che seguono gli studi di pedagogia generale. Gradualmente infatti gli studenti verranno preparati in previsione di condividere l’esperienza di salire sul palco con i detenuti per uno spettacolo. Trani (Bat): triathlon, i detenuti si allenano, obiettivo la gara di maggio a Cala Ponte Gazzetta del Mezzogiorno, 28 marzo 2019 Lo sport abbraccia il sociale. E il triathlon scende in campo per dare una opportunità diversa a quanti si trovano nella Casa circondariale di Trani. TriChance, infatti, è il progetto sociale che porterà un gruppo di detenuti alla partecipazione della gara di triathlon di Cala Ponte Triweek del in programma il 19 maggio. Così un gruppo di tecnici federali allenerà i ragazzi settimanalmente, affinché da zero possano essere preparati per affrontarla. Una bella sfida. Attualmente il gruppo è composto da 10 ragazzi e da una ragazza, determinati a raggiungere l’obiettivo; sentono la giusta responsabilità di riuscire nell’impresa utile a dare visibilità e raccogliere fondi necessari alla realizzazione di una palestra attrezzata nella casa circondariale di Trani. I programmi di allenamento saranno forniti da ToDoTri - Triathlon App, seguiti da tecnici della Federazione italiana, costantemente monitorati dal team All Tri Sportdi Barletta. La frazione bici sarà allenata utilizzando un super tecnologico rullo bici per allenamento indor Magnetic Days, “L’idea, elaborata di concerto con l’Associazione dilettantistica sportiva O3 - spiega il direttore della casa circondariale di Trani Giuseppe Altomare - su iniziativa di Domenico Lippolis e Linda Cavallo, e accolta con entusiasmo sia dai funzionari di Polizia penitenziaria che dell’Area pedagogica, risponde ad una duplice esigenza. Da un lato, essa prevede la realizzazione di un’area, appositamente attrezzata, per le attività sportive delle persone detenute, dall’altro, a seguito di allenamenti guidati da tecnici specializzati, ci sarà la possibilità per alcuni detenuti (che saranno in condizione giuridiche tali da fruire di permessi premio concessi dal magistrato di sorveglianza), di misurarsi con l’esterno, partecipando alla gara di Triathlon del 19 maggio a Polignano a Mare. La condizione di detenzione, per definizione, corrisponde alla deprivazione della libertà del corpo e può evidentemente sortire notevoli effetti sulla mente, e quindi sulla psiche, di chi la subisce. L’aver commesso dei reati, o l’essere accusati di averne commessi, non può comportare l’annullamento fisico e quasi inevitabilmente psichico. Ogni attività sportiva quindi, specie se adeguatamente sopportata e guidata, non può che essere benvenuta in un istituto penitenziario”. La divulgazione di questo progetto e la sua visibilità mediatica sono fondamentali per raccogliere i fondi necessari all’acquisto delle attrezzature. L’Ance Giovani della Bat, sostiene il progetto finanziando la copertura di un’area destinata a poi essere la palestra. Come salvare la democrazia dalla paura di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 28 marzo 2019 La paura è il filo conduttore della nostra storia, dal tempo dei grandi conflitti in Europa, della “guerra civile di religione”, dei conflitti di classe e della cosiddetta guerra civile europea del secolo scorso fino a noi e alla rinascita del nazionalismo, del cosiddetto sovranismo e del razzismo, che si denomina “suprematismo bianco”. Le istituzioni che abbiamo creato, a incominciare dallo Stato, sono figlie della paura, non certo della fiducia. Nello Stato c’è qualcosa di paradossale e contraddittorio: ha le sue radici nella paura e si propone di combatterla. La sicurezza è la sua ragion d’essere. E come fa? Attraverso la concentrazione, potremmo dire, della “amministrazione della paura” nelle sue mani. Se, per ipotesi utopistica, vincesse definitivamente la sua battaglia contro la paura, non avrebbe più ragione d’esistere. Al contrario, la diffusione della paura non fa altro che rafforzare quella tale amministrazione. Il circolo vizioso delle società dei paurosi sta in questo: la soluzione si ricerca in altra paura, in paura maggiore che prevalga sulle minori. Questo è il paradosso delle istituzioni umane: per contrastare la paura se ne crea una maggiore. Più cresce la paura, più cresce la domanda di maggiore paura e, per questo, si è disposti a molte rinunce che riguardano diritti e libertà. Proteggimi, ed io in cambio ti dò sottomissione. Più ho paura, più sono disposto a sottomettermi. Conformemente alle aspirazioni democratiche, alla paura abbiamo associato il consenso. Ma è un’aggiunta. La radice non s’è spenta. Il consenso c’entra, ma come componente penultima; l’ultima è la paura. Se oggi il tema della paura domina le discussioni sulla crisi della democrazia, si tratta soltanto dell’emersione d’un elemento primordiale in tutte le società. È perfino superfluo ricordare che la più celebre rappresentazione dell’essenza dello Stato moderno, elaborata in un tempo di feroci lotte intestine su territori in cui si trovavano a coesistere fedi religiose e politiche implacabilmente nemiche, ebbe al centro il problema della liberazione dalla paura. Il Leviatano fu una filiazione della paura. Oggi le paure si sono moltiplicate, per esempio per la disponibilità di beni naturali essenziali che scarseggiano e per le cosiddette identità culturali minacciate dal cosiddetto multiculturalismo. Un tempo la paura riguardava il presente, oggi il presente e il futuro. Dunque, tra tutte le componenti dell’umana convivenza, la paura è la più determinante. Se si distingue la paura diffusa come veleno sociale dalla paura concentrata come strumento di dominio politico, si può dire che senza la prima, la seconda avrebbe vita stentata, perché si mostrerebbe nella sua totale arbitrarietà, sarebbe priva di legittimità, si reggerebbe sulla nuda forza senza giustificazione. I “regimi forti” non si basano, in ultima istanza, sulla forza, ma sulla paura perché la paura invoca la forza e la rende non solo tollerabile ma anche desiderabile. Tempo di paure, tempo di autoritarismi. La storia è testimone generosa di esempi, ma lo è anche l’attualità. Avanzano l’internalizzazione e la globalizzazione della paura. E la paura ci rende tutti più cattivi. Si salvi chi può. Prima noi, gli altri a mare. La paura è intollerante perché induce alla barbarie del capro espiatorio e alla teoria del complotto. Una volta si trattava dei cristiani, poi degli ebrei, poi degli eretici e dei satanisti, poi dei massoni, poi delle cricche affaristiche, poi dei socialisti; infine dei migranti invasori, manovrati da oscure potenze. La costruzione del capro e dei complottisti è una formidabile arma politica perché divide la società coalizzando gli amici contro i nemici. Così nascono i “partiti della nazione” che chiamano a raccolta contro gli anti-nazionali, cioè gli internazionalisti e i cosmopolitici, e contro gli invasori. Nascono i populisti che pretendono di parlare in nome del popolo tutto intero, da noi in nome di “gli italiani”, e proclamano ch’essi vengono prima d’ogni altro. Fanno della paura altrui la loro forza. La divisione amico-nemico è la massima e più cruenta raffigurazione e, al tempo stesso, legittimazione e costituzionalizzazione della violenza come materia e strumento d’azione politica. È pieno di significato che quella dottrina, che è tenuta viva nelle diatribe dei dotti come nelle banalità e nei luoghi comuni, e talora nelle azioni di tante persone, sia stata elaborata tra le due grandi guerre, al tempo della cosiddetta “guerra civile europea”. Essa giustificava l’idea della politica come “integrazione”, parola di per sé piuttosto innocente, anzi pacifica, se indica semplicemente l’ideale della con-vivenza dei distinti, ma che diventa parola terribile se sottintende l’esistenza di “non integrabili”. I non integrabili, infatti, devono essere tenuti ai margini, privati di diritti, respinti e perseguitati, e all’occorrenza eliminati. Stabilire chi siano i nemici, i non integrabili, è “operazione sovrana” che si avvale di argomenti o fantasmi tratti da differenze e pregiudizi etnici e razziali, religiosi, politici, nazionali, ecc. Che il mondo non sia uniforme, alla stregua dei criteri ora detti, è un dato di fatto e, per qualcuno (tra cui chi scrive) anche una qualità positiva da preservare. La democrazia non conosce quel genere di sovranità perché è per l’appunto una forma di convivenza per affrontare le diversità rispettandole. Quando, invece, le differenze da dato di fatto si trasformano in paure e ossessioni, diventano terreno di coltura di violenza. Si comprende facilmente che i nemici della democrazia soffino su questo fuoco. La paura, inoltre, è un ingrediente essenzialmente antipolitico, almeno per come la politica s’intende nella democrazia moderna. A differenza delle concezioni antiche secondo le quali la politica era l’arte del “buon governo” della polis, nelle concezioni democratiche odierne per politica s’intende scelta dei fini e la competizione per perseguirli. Orbene, quando domina la paura queste cose diventano un lusso che non ci si può permettere. Di fronte al pericolo incombente, taccia la politica, tacciano i politici, anzi i “politicanti”, e si archivino vecchie categorie come quelle di “destra” e di “sinistra”. Esistono solo più nudi fatti che, come si dice, non sono né di destra né di sinistra, di fronte ai quali è vietato dividersi. L’antidoto alla paura è la fiducia. È difficile dire se sia più “naturale” la paura o la fiducia. Sappiamo tuttavia per certo che ci sono fasi storiche in cui prevalgono la paura e i discorsi d’odio. Questa è una di quelle. Il “buonismo” è un’accusa alla quale pochi sanno ribattere. Del valore della fiducia si è poco consapevoli forse perché essa è implicita nella democrazia, un regime politico che si basa sulla tacita promessa di fidarsi gli uni degli altri, cioè di non ingannarsi e di non cercare di sopraffarsi gli uni gli altri. Delle cose ovvie, non c’è bisogno di dire. Nel linguaggio politico e giuridico la fiducia, tuttavia, compare con parole eticamente impegnative come fraternità e solidarietà. Poiché queste passioni o esistono o non esistono ma, evidentemente, non possono essere imposte per legge, le relative parole sono relegate nel linguaggio dolciastro, consolatorio, per l’appunto buonista di chi fa prediche costituzionali. Tuttavia, se le guardiamo dal punto di vista sociale, sono piene di contenuto. Come ogni coltivatore deve preoccuparsi non solo della salute delle piante ma anche e prima di tutto della buona qualità del terreno, così la democrazia ha sì bisogno di buone istituzioni, ma ancor prima di buona qualità del suo humus sociale. Qui, in quanto si desideri vivere in pace, siamo chiamati in causa. Tutti noi, nessuno escluso. La passività, l’indifferenza, l’estraneità, il “non mi tocca” sono la tentazione alla quale si cede facilmente per quieto vivere. “Non mi tocca ancora”: ricordiamo le parole pronunciate da un pastore protestante, Emil Martin Niemöller, in un periodo buio e terribile della storia che ci sta appena appena alle nostre spalle. “Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me e non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”. Troppe promesse tradite: il disagio delle periferie Corriere della Sera, 28 marzo 2019 La maggioranza non fa tesoro della lezione subita dal Pd: le scelte di Di Maio e Salvini paiono tese soprattutto a nascondere la polvere sotto il tappeto. Gli anglosassoni la chiamano constituency, da noi è la base elettorale, la “tua” gente. Ma la sostanza non cambia: un politico sa che tradirla è una pessima idea, a meno che la constituency non lo gravi di problemi così insolubili da indurlo, una volta al governo, ad allontanarsene di soppiatto, spostando altrove il focus della propaganda. Spesso però neppure questo tradimento soft porta bene. Così è andata per la sinistra, che per anni ha rimosso l’assai ingarbugliato tema del disagio delle periferie, un tempo suo Dna. Troppo a lungo neglette a vantaggio della sorridente narrazione renziana su un’Italia vincente e risolta, le periferie si sono vendicate il 4 marzo 2018, voltando in massa le spalle al Pd, e hanno consegnato il Nord alla Lega e il Sud ai Cinque Stelle. Ora tuttavia la maggioranza legastellata non sembra fare tesoro della dura lezione subita dagli eredi del Partito comunista. Dall’approccio con gli abitanti più disagiati di metropoli e hinterland (15 milioni di italiani) fino alle nuove normative sull’accoglienza dei migranti (600 mila gli invisibili, in aumento costante, vedremo), le scelte di Luigi Di Maio e Matteo Salvini paiono tese soprattutto a nascondere la polvere sotto il tappeto. Sembra andare in questa direzione lo stop inflitto dalla maggioranza all’istituzione di una nuova commissione parlamentare di inchiesta sulle periferie, con la sconcertante motivazione secondo cui “non serve il moltiplicarsi delle commissioni” (parola del grillino Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali nella quale l’emendamento che proponeva il nuovo organismo era stato già bloccato). Il de profundis è stato intonato l’altro ieri nell’aula della Camera con 255 voti: addio a nuove indagini sugli ultimi. Ora bisogna ricordare che nella scorsa legislatura, la XVII, la commissione periferie ha svolto un lavoro enorme (600 pagine di relazione e migliaia di allegati) e imprescindibile per chi voglia avere un quadro realistico su borgate ormai simili a bombe sociali. Sostenere che non occorra proseguirne l’opera, di fronte a un contesto socioeconomico certo tendente al peggio, è un nonsense. A meno che non sia un’astuzia: la commissione d’inchiesta va, per definizione, ad accendere i riflettori sulla sofferenza dei cittadini e, inevitabilmente, sulle carenze d’azione di un governo. Stavolta, però, al governo c’è chi, dopo avere soffiato tanto sul malcontento popolare, può rivelarsi incapace di trovarvi rimedi e due delle città più esposte, Roma e Torino, sono amministrate da sindache cinque stelle in grande difficoltà (Raggi destabilizzata ora anche dal caso De Vito). Pure il balletto sui fondi del vecchio bando periferie (voluto dai governi a guida Pd), che ha di fatto frantumato tra cavilli e rinvii un programma di rigenerazione da un miliardo e 600 milioni, non sembra deporre nel senso di un impegno della maggioranza commisurato al cimento. Gli “effetti collaterali” della legge Salvini su sicurezza e accoglienza rischiano infine di tradursi nell’ultimo strappo. Perché le cifre diffuse da un istituto autorevole come l’Ispi contraddicono la propaganda che il vicepremier leghista, forse sentendo l’aria pesante, ha scatenato sui social “vantando” una protezione umanitaria scesa al 2%, dinieghi saliti al 77% e sbarchi quasi azzerati. L’Ispi ci ricorda che da giugno 2018 a oggi le commissioni territoriali hanno emesso 48.406 dinieghi di protezione, ma i rimpatri sono appena 4.806: dunque in nove mesi il sistema Italia ha scaricato la bellezza di altri 43.600 irregolari nelle nostre strade. Bisognerebbe allora battersi per incrementare accordi bilaterali e soprattutto per cambiare le regole di Dublino: nell’ottica dell’interesse nazionale, insomma, appaiono inspiegabili le defezioni leghiste ai tavoli europei dove di questo si è discusso. La Cassazione ha inoltre stabilito la non retroattività delle norme salviniane sulla protezione umanitaria, rimettendo di fatto in gioco 100 mila richiedenti: caos su caos che andrà a scaricarsi nelle borgate dei centri d’accoglienza, non certo ai Parioli o in Montenapoleone. Persino il sindaco di Lampedusa si è ribellato alla narrazione “zero sbarchi”, spiegando che sulla sua isola gli sbarchi continuano senza che il Viminale neppure ne annoti il numero. Le tensioni enfatizzate con le navi Ong (ultima la Mare Jonio) sembrano utili ogni volta a spostare il centro del dibattito. Il pericoloso episodio di ieri, con il dirottamento di un mercantile turco a opera di un gruppo di migranti decisi a non farsi ricondurre nei lager libici, terrà banco per altri giorni. Ma le distrazioni di massa, pur gravi, non durano per sempre. E i nostri problemi reali non sono in mare (la crisi degli sbarchi è superata dai tempi di Minniti). Sono sulla terraferma e attengono alla difficoltà del governo di venire a capo di quegli invisibili sparpagliati nelle nostre città, dei quali Salvini prometteva il rimpatrio veloce. Il loro numero, come dice l’Ispi, aumenta anziché diminuire: in misura inversamente proporzionale alla nostra sicurezza. Tornare al voto prima che la constituency delle periferie s’accorga della vacuità di troppe promesse potrebbe essere una mossa non così lontana, obbligata per i nuovi politici egemoni e assai costosa per gli italiani: primi, sì, ma a pagarne il conto. Ius soli, i renziani tornano alla carica: raccolta di firme perché diventi legge La Repubblica, 28 marzo 2019 In campo i comitati civici legati all’ex segretario. “Quella di Gentiloni fu un’occasione mancata”. La falange dei renziani duri e puri, quei quasi 4mila “ascari” che a cadenza pressoché settimanale si riuniscono nei 600 comitati civici lanciati alla Leopolda, è pronta a sostenere l’ultima battaglia del capo. “L’occasione mancata del governo Gentiloni” per dirla col senatore di Firenze, ovvero la legge sullo ius culturae (versione attenuata dello ius soli) approvata alla Camera con Renzi premier e poi arenatasi al Senato dopo il cambio della guardia a palazzo Chigi. Un fallimento che l’ex presidente del consiglio addebita al suo successore, ma che l’attuale presidente del Pd contesta in toto: “La verità la sanno tutti, rinvangarla non serve a nessuno”. Eppure “se si fosse votato, il provvedimento sarebbe passato” è la tesi sostenuta ancora l’altro ieri dall’ex segretario dem. Deciso ora a riprovarci attraverso i suoi gruppi di Ritorno al Futuro: ossatura del partito personale che verrà, forse. I quali, domenica scorsa, hanno lanciato sui social una campagna di raccolta firme “per avere finalmente una legge che rende l’Italia più forte e più giusta”. Ne serviranno almeno 50mila per far approdare in Parlamento la proposta di iniziativa popolare che ricalca alla lettera quella presentata dal Pd nel 2015. Più precisamente in Senato, che per regolamento ha l’obbligo di esaminarla entro 90 giorni. La procedura non è semplice, ma per Ettore Rosato, neo-coordinatore in tandem con Ivan Scalfarotto, è pane quotidiano. Nessuno pensi a una rivalsa, però. “Pur sapendo che il problema più immediato è la recessione innescata da questo governo”, avverte l’esponente dem, “siamo convinti che in un Paese civile come l’Italia ci sia anche un sentire che parla di valori e che va raccolto”. E infatti: “È il momento di riprendere il percorso iniziato con il governo Renzi per riconoscere la cittadinanza a tanti bambini e ragazzi, compagni di scuola e di gioco dei nostri figli e nipoti”, si legge sul sito dei comitati. Che lanciano un appello “a tutte le realtà politiche, associative, sindacali” per “rimettere subito in campo una nuova grande mobilitazione”. Con i banchetti per raccogliere le firme che si apriranno dalla prossima settimana. È una questione di giustizia. “La sconfitta sullo ius culturae è stato tra i sintomi più evidenti di un cambio di sentimento nel nostro Paese”, spiega Scalfarotto. “Quel Paese più chiuso, più impaurito dal diverso e quindi più razzista che vediamo oggi si è manifestato in primo luogo con il cambio di opinione di tanti italiani sulla cittadinanza ai ragazzi nati e cresciuti qui. Si è ceduto a un grande inganno: che ius culturae e fenomeno migratorio fossero collegati”. Non di vendetta si tratta, dunque: solo il rimedio a un errore. In Trentino i soldi dello Stato alla Chiesa per l’accoglienza dei migranti di Marco Imarisio Corriere della Sera, 28 marzo 2019 Il caso (unico) della diaria di 21 euro per garantire tutti i servizi (erano 35). Le donne africane ospiti della Magnifica Comunità dei Monti Cimbri sono state destinate ad altra sede per via dei tagli del decreto sicurezza voluti da Matteo Salvini. Lo striscione con la scritta “Welcome” ha perso colore per via della pioggia e del tempo. Era stato appeso il 21 novembre del 2016, quando erano arrivate “le ragazze”. Venivano dall’Africa, richiedenti asilo, e dal campo della Protezione civile di Rovereto. In questi due anni gli abitanti della zona avevano imparato a conoscerle. Le incontravano nei ristoranti e nei bar di Lavarone, Folgaria, Luserna, dove lavoravano. Le incrociavano mentre risalivano a piedi i tornanti per rientrare nella sobria palazzina dalla facciata bianca con imposte scure, uguale alle altre intorno, non fosse per quel benvenuto arcobaleno alla finestra del primo piano. Adesso dalla Magnifica Comunità dei Monti Cimbri, la struttura gestita dalle suore Elisabettine, non entra e non esce più nessuno. Le africane - Le donne africane sono state destinate ad altra sede, perché è cambiato tutto. I tagli all’accoglienza contenuti nel decreto sicurezza e voluti da Matteo Salvini rendono troppo onerosa quella sistemazione per le tasche della provincia autonoma, dallo scorso ottobre governata dal leghista Maurizio Fugatti. Prima venivano stanziati circa 35 euro giornalieri per l’ospitalità di ogni richiedente asilo. Oggi, sono 21,5. Il nuovo presidente ha tagliato, in apparenza nel nome del buon risparmio. “Noi ci limitiamo ad applicare il decreto Salvini” dice il presidente. “Se vogliono, le associazioni fanno accoglienza a 21 euro. Noi non ci mettiamo un soldo in più”. L’anno zero - Trentino, anno zero. Nel senso che in questa terra, culla del cattolicesimo sociale, l’avvento al potere della Lega non è stato solo una primizia storica. Nella campagna elettorale di una vittoria annunciata, Maurizio Fugatti era sembrato un leghista piuttosto democristiano. Il suo continuo rifarsi a Bruno Kessler, storico padre del secondo statuto autonomo e della facoltà di Sociologia a Trento, era anche un modo per tranquillizzare quell’ampio pezzo di società civile che non l’avrebbe votato. Non è andata proprio così. Nel giro di pochi mesi, sotto il vessillo del risparmio indotto dal decreto sicurezza, Fugatti ha fatto tabula rasa del sistema di accoglienza trentino, che nel suo piccolo era finito sul New York Times come esempio di integrazione virtuosa. Taglio dei fondi al Cinformi, la struttura della Provincia che si occupa di immigrati, abolizione dei finanziamenti per i corsi d’italiano, via i bus gratis per i richiedenti asilo, disdetta degli appartamenti in affitto dove venivano costruiti i percorsi di accoglienza diffusa nei paesi delle valli. L’epicentro del dissenso - “Non c’è più nulla”. Il sagrato della chiesa della Santissima Trinità è diventato l’epicentro del dissenso cattolico. “Meglio il cristianesimo dei presepi o quello dello spezzare il pane insieme?”. Due settimane fa, contro il trasferimento delle richiedenti asilo da Lavarone, don Marcello Farina aveva proposto di sospendere le messe in tutta la provincia, e solo l’intervento netto del vescovo Lauro Tisi, aveva impedito una protesta clamorosa. “La comunità cristiana ha il dovere di reagire” ripete don Farina “quando la politica mette in crisi la condivisione, simbolizzata dall’eucaristia”. Alex Zanotelli, il missionario trentino divenuto famoso ai tempi dei no global, incita i suoi concittadini alla ribellione. “Dobbiamo aprire le chiese ai clandestini, serve la disobbedienza civile”. La curia - La curia non ha opinioni molto diverse da quelle dei suoi esponenti più bellicosi. Ma monsignor Tisi ha scelto una strada diversa, all’insegna del salvare il salvabile, che proprio ieri ha prodotto una intesa in vigore dal prossimo primo aprile, così inedita per l’Italia da attirare ancora prima di essere firmata l’interesse delle diocesi di altre regioni divenute leghiste. La Chiesa trentina, attraverso il Centro Astalli, che è una sua emanazione, ha ottenuto di gestire l’accoglienza sul territorio, garantendo con le sue strutture, compresi oratori, canoniche e conventi, tutti i servizi, dai pasti al pernottamento fino ai corsi di italiano. In cambio, la Provincia verserà alla diocesi i 21 euro di diaria giornaliera previsti dal decreto sicurezza. La Chiesa farà con i soldi dello Stato quel che lo Stato non vuole o non può più fare. Fugatti - Fugatti ha inserito nell’accordo la fine dell’accoglienza diffusa. Addio Lavarone, addio valli, i richiedenti asilo finiranno nei centri di Trento e Rovereto. Ma non ci sta a passare per l’uomo nero. “Anche io sono fortemente legato ai valori del cristianesimo, come tutti i trentini. Questo non esclude l’apprezzamento generale per quel che sto facendo, a parte qualche sacerdote che sta sempre sui giornali. Con la curia e il vescovo c’è collaborazione e rispetto. Questo progetto ne è la prova. Se ci sono costi maggiori, se li assuma chi vuole. Noi non lo facciamo più”. Il nuovo corso leghista in trentino non è gratis, almeno dal punto di vista sociale. Le spaccature ci sono e si vedono, non solo all’interno della chiesa. Sabato, per la prima volta, ottanta associazioni, cattoliche e di sinistra, manifesteranno unite “contro discriminazione e xenofobia”. Dal pulpito del Duomo, il vescovo Tisi cita ogni domenica il passo del Vangelo dove si parla della necessità di costruire sulle macerie. Migranti. Sea Watch, dai pm di Roma gli atti a Catania: “fu sequestro di persona” di Nello Scavo Avvenire, 28 marzo 2019 Sequestro di persona”, è questo il reato che secondo la procura di Roma è stato commesso ai danni dei 47 migranti, tra i quali 15 minori non accompagnati, che nel gennaio scorso hanno dovuto attendere per 12 giorni l’ok allo sbarco. A rischiare una nuova incriminazione non è solo Matteo Salvini, ma stavolta anche il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. La competenza dell’inchiesta, però, passa alla procura di Catania, che su questo episodio stava già indagando dopo che erano state depositate alcune denunce e successivamente all’inchiesta di Avvenire sul “segreto” apposto dal Viminale e dal ministero delle Infrastrutture su quanto accaduto in quei giorni. Trattandosi di “reati ministeriali”, dovrà essere il Tribunale dei ministri di Catania a monitorare il caso. La Guardia costiera ha consegnato un circostanziato rapporto nel quale emergono anomalie che vanno chiarite e che riguardano anche la gestione dei minori non accompagnati, che per legge vanno fatti sbarcare subito. All’ipotesi di sequestro di persona, se venisse condivisa anche dal procuratore etneo Carmelo Zuccaro (che oggi riceverà gli atti da Roma attraverso la procura di Siracusa, originariamente competente poiché la Sea Watch era stata trattenuta alla fonda davanti alla città) potrebbe aggiungersi l’aggravante del pregiudizio ai minorenni. Secondo la procura capitolina, che aveva ricevuto un esposto e che aveva annotato l’inchiesta di Avvenire sul segreto opposto dalle autorità sul caso Sea Watch e le anomalie nella gestione dei minori, ci sono gli estremi per contestare il reato di sequestro di persona a carico di chi ha dato l’ordine di tenere la nave alla fonda e poi trasferirla a Catania. Come rivelato dal nostro giornale, nonostante le reiterate richieste del Tribunale dei minorenni di Catania, i minori non furono fatti sbarcare. Peraltro compiendo “violazioni certe”, come ha dichiarato nei giorni scorsi a Report il procuratore dei minori di Catania, Caterina Ajello. “Violazioni” finite poi sul tavolo del procuratore Carmelo Zuccaro che stava già indagando e che adesso otterrà nuovi elementi. L’indagine, coordinata a Roma dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, era stata aperta in seguito a un esposto presentato lo scorso 1 febbraio, in cui veniva ipotizzato il reato di omissioni di atti di ufficio. La Sea Watch era arrivata nelle acque di Siracusa il 25 gennaio, dopo essere stata allontanata da Lampedusa proprio mentre la procura di Agrigento voleva interrogare i migranti su un naufragio e una strage in mare avvenuta nei giorni precedenti. L’autorizzazione a sbarcare venne poi concessa il 31 gennaio ma a Catania, costringendo la Sea Watch a lasciare Siracusa dove il procuratore Scavone non aveva ravvisato alcuna irregolarità da parte dell’equipaggio. Parere poi confermato anche da Zuccaro che aveva avviato analoga inchiesta a Catania. Mai fronti giudiziari potrebbero moltiplicarsi. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, ha ribadito nella relazione annuale presentata ieri alla Camera, “l’intenzione di monitorare situazioni di privazione di fatto delle libertà personale effettuata sia su navi in acque territoriali italiane (sia battenti bandiera italiana, come la nave “Ubaldo Diciotti”, che straniera, come la “Alexander Maersk” o la “Sea Watch”) sia su navi italiane in acque internazionali (come ad esempio la nave “Asso 28”)”. Tutti episodi per i quali sono stati presentati ricorso anche alla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Turchia. Detenuti del Pkk e Pajk: i suicidi per protesta devono finire retekurdistan.it, 28 marzo 2019 A nome delle prigioniere e dei prigionieri dei processi Pkk e Pajk in Turchia, Deniz Kaya ha rilasciato una dichiarazione sui suicidi per protesta: „Reazioni individualiste, emotive, non organizzate portano a un approccio non all’altezza della propria realtà.”A nome delle prigioniere e dei prigionieri dei processi Pkk e Pajk in sciopero della fame in Turchia, il loro portavoce Deniz Kaya ha rilasciato una dichiarazione sui suicidi per protesta in contro l’isolamento del rappresentante curdo Abdullah Öcalan in aumento. Kaya chiede che finiscano i suicidi come forma di azione e ha dichiarato: “Reazioni individualiste, emotive, non organizzate portano a un approccio non all’altezza della propria realtà”. Al momento migliaia di prigioniere e prigionieri sono in sciopero della fame a tempo indeterminato con la richiesta della fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan, guidati da Leyla Güven. Nella sua dichiarazione Kaya ha prima ricordato il prigioniero politico e le prigioniere politiche Zülküf Gezen, Ayten Beçet, Zehra Saglam, Medya Çinar e l’attivista Ugur Sakar, che hanno messo fine alla propria vita per protesta. Alla fine ha dichiarato: “Non bisogna avere un approccio individualista ed emotivo rispetto alla vita e alle azioni contro la mentalità fascista. Sentimenti e reazioni non organizzato portano a un approccio non adeguato alla propria realtà. Un approccio del genere rappresenta un fattore di ostacolo rispetto all’agire secondo la linea della realtà del Presidente. Se ci facciamo carico della questione con un pensiero e un sentire organizzato e agiamo di conseguenza, possiamo rompere l’isolamento dei popoli e della nostra direzione, infliggere una sconfitta al fascismo e coronare di successo la resistenza. Comprendere la realtà del Presidente, formularla in concetti e farsi carico della filosofia della libertà, sono cose che si possono realizzare attraverso la resistenza comune e la realizzazione nella vita. Abdullah Öcalan attribuisce ad azioni nelle quali persone sacrificano se stesse un valore elevato, ma devono avere un carattere unico. Tutte le compagne e i compagni nelle carceri dovrebbero comportarsi in modo adeguato a questo approccio.” Deniz Kaya ha espresso il suo cordoglio ai famigliari di Zülküf Gezen, Ayten Beçet, Zehra Saglam, Ugur Sakar e Medya Çinar. Inoltre ha dichiarato: “Le parole del padre della nostra amica Ayten Beçet - Se oggi incendiano la mia casa, allora domani incendieranno la tua - sono significative. Per questo resistiamo tutte e tutti insieme contro questa mentalità fascista e assassina, abbattiamo l’isolamento e liberiamoci”. Kaya ha annunciato che la resistenza nelle carceri verrà continuata fino a quando non saranno esaudite le richieste e si rivolto all’opinione pubblica con il seguente appello: “Ancora una volta invitiamo il nostro popolo, l’opinione pubblica turca e internazionale, le istituzioni democratiche e tutte le persone che dicono di sé di avere una coscienza, a diventare la voce di coloro che sono in sciopero della fame prima che sia troppo tardi e si arrivi ad altri casi di morte”. Carceri e sorveglianza. La tecno-parata di Hong Kong di Rosa Brostra Libération, 28 marzo 2019 Prigione di Pik Uk. Hong Kong, ore 10.07: in un dormitorio, un detenuto si precipita verso una stretta finestra, ha una corda legata in vita. Ore 10, 7 minuti, 5 secondi: il suo corpo penzola dalle sbarre. Un allarme interrompe il silenzio. Ore 10, 7 minuti, 10 secondi: due guardie carcerarie fanno irruzione. Ci sono voluti dieci secondi per prevenire il suicidio grazie alle nuove tecnologie. Fine della simulazione. L’amministrazione penitenziaria di Hong Kong ha aperto alla stampa le porte del centro di detenzione di Sai Kung, nelle colline lussureggianti del settore chiamato Nuovi Territori, il tempio di una impressionante dimostrazione in loco dei dispositivi tecnologici da ultimo grido. La loro nuova “prigione intelligente” la si vuole “più sicura e senza pericoli”. In questa mattinata, l’edificio è clamorosamente silenzioso, solo pochi palloni attaccati in cima alle pareti del filo spinato testimoniano la recente presenza di veri detenuti. Ci si sente osservati. Negli stretti corridoi con griglie, lungo le pareti di anice verde o le massicce porte blindate, le telecamere sono ovunque. Esse sono ormai le più sofisticate. Oltre alle pattuglie di cani e alle telecamere a circuito chiuso, i prigionieri sono per dieci ore al giorno sotto l’occhio vigile di macchine fotografiche “intelligenti”: dieci per dormitorio con 22 letti a castello e persino due nella toilette adiacente. Quando un corpo oscilla, cade a terra, si scuote per più di qualche secondo o quando una testa colpisce ripetutamente un muro, appare un rettangolo rosso sugli schermi di controllo, un bip tipo videogame suona se il movimento sospetto continua. “Se i detenuti sono seduti o sdraiati, non suonerà, ma se c’è un comportamento anomalo, sì”, dice un supervisore, durante la dimostrazione di fronte a queste pareti nude e questi letti che sembrano ingessati, svuotati dei loro occupanti per l’occasione. Nessun tentativo di fuga ha avuto successo per undici anni nelle carceri di Hong Kong, il cui tasso di occupazione è del 74%. Gli attuali 8.300 detenuti sono mantenuti lindi come piastrelle, secondo le statistiche. Ma “alla luce delle rivolte su larga scala in altri Paesi”, Hong Kong ha “preso l’iniziativa di rafforzare le misure di prevenzione, con piani di risposta alle emergenze e attrezzature” per “limitare attività proattive e illecite”, afferma Woo Ying-ming, Chief of Corrections. Hong Kong ha investito 3,5 milioni di dollari di Hong Kong (394.000 euro) negli strumenti di alta tecnologia in forma sperimentale e presentati in un video. Come sottofondo una musica da film d’azione, dove si vede un detenuto che fugge in un corridoio. Il braccialetto al suo polso permette di capire che non fa la strada che dovrebbe fare, e dà automaticamente l’allarme. Altra innovazione: un braccialetto connesso che controlla continuamente gli impulsi e gli altri dati dei detenuti che hanno bisogno di assistenza medica, cosa che dovrebbe rendere meno oneroso il lavoro dello specifico personale addetto al reparto medico. Inoltre, dei sistemi di chiusura delle porte con riconoscimento facciale ed un robot che controlla le celle delle nuove matricole per trovare le droghe nascoste o ingerite. Così da impedire ai carcerieri di sporcarsi le mani. È questo uno degli obiettivi di questo supporto tecnologico: alleggerire il lavoro dei sorveglianti e fidelizzare le nuove reclute in un momento in cui vi è una carenza gigantesca di personale e molti pensionamenti. L’automatizzazione della sorveglianza solleva tuttavia più di una questione relativa alla vita privata dei detenuti. Un ufficiale ha chiarito che i dati medici saranno distrutti nel giro di quaranta giorni. Le registrazioni delle videocamere “in generale” dopo trentuno giorni, assicurano i servizi di sorveglianza che “amministrano” i dati. Il ritardo dovrebbe essere al massimo di sette giorni, salvo incidenti che hanno bisogno di una inchiesta, dice Richard Tsoi della Ong di Hong Kong Society for Community (SoCo), secondo cui, “il livello già molto alto di sicurezza” dei prigionieri di Hong Kong “non giustifica le installazioni urgenti” di questi gadget tecnologici. Ma Tsoi riconosce di “non controllare il 100%” del funzionamento di questo dispositivo “intelligente”. Ennesimo campanello d’allarme di un’altra organizzazione dei diritti umani. Tranne rari casi nel Regno Unito, in Usa e a Singapore, l’intelligenza artificale a livello carcerario è ai supi primi passi. Ma progredisce. Una équipe dell’Università di Swinburne di Melbourne ha analizzato una sorta di prigione fuori dalle mura, dove il detenuto sconterebbe la pena da casa, controllato da rilevatori, algoritmi e altri oggetti connessi, come soluzione per promuovere il reinserimento e liberare le carceri sovrappopolate e molto costose. Ma l’impatto di un uso massiccio della tecnologia “interferisce potenzialmente nella vita privata dei detenuti”, mette in guardia la SoCo. Uno studio del 2011 condotto dall’istituto di criminologia di Cambridge suggeriva che la sensazione di essere sorvegliati di continuo contribuiva a creare una “atmosfera di sospetto continuo e di paranoia”, portando ad una “perdita di identità”: “La minaccia di una “condanna senza fine” era presente ogni giorno, sempre, perché i prigionieri non sapevano esattamente quale informazione poteva essere utilizzata contro di loro, e ogni informazione avrebbe potuto esserla”. È l’incarnazione moderna del concetto panottico di Bentham, ripreso da Foucault: un sistema carcerario nel quale il detenuto si crede osservato giorno e notte, e che, secondo il filosofo, induce “ad uno stato cosciente e permanente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere”. Algeria, la rivolta pacifica dei giovani spiazza il potere di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 28 marzo 2019 La protesta e il regime. Le dimissioni di Bouteflika attraverso l’articolo 102 era stata una richiesta dell’opposizione, mai ascoltata dal potere, che sperava che l’idea del quinto mandato potesse funzionare. Invocare ora l’articolo 102 in rispetto della Costituzione e per andare incontro alla protesta ed evitare ingerenze interne o straniere è per lo meno velleitario. La proposta, o meglio richiesta, del capo di stato maggiore Ahmed Gaid Salah di applicare l’articolo 102 della costituzione per estromettere il presidente Bouteflika per motivi di salute ha trovato d’accordo i più fedeli sostenitori del presidente, di cui ora chiedono le dimissioni. Sembra che non aspettassero altro, ma perché allora il Consiglio costituzionale al quale spetta il compito di avviare la procedura di impedimento non ha agito prima? Forse perché si aspettava che fosse la voce del capo dell’esercito a dare il via al dopo-Bouteflika. E Gaid Salah l’ha fatto con un discorso pronunciato a Ouargla e trasmesso come prima notizia dal tg della televisione pubblica. In questa situazione l’esercito doveva rimarcare il proprio ruolo: l’Algeria non ha mai sciolto il nodo della supremazia del civile sul militare che si porta dietro dalla liberazione e che da allora ne ha condizionato la storia. Le dimissioni di Bouteflika attraverso l’articolo 102 era stata una richiesta dell’opposizione, mai ascoltata dal potere, che sperava che l’idea del quinto mandato potesse funzionare. Invocare ora l’articolo 102 in rispetto della Costituzione e per andare incontro alla protesta ed evitare ingerenze interne o straniere è per lo meno velleitario. Perché interviene in una situazione che ha già violato la costituzione con l’annullamento delle elezioni del 18 aprile. Il tentativo è evidentemente quello di mantenere il sistema di potere senza Bouteflika, anche con i suoi uomini, a partire dal capo di stato maggiore che non è mai stato estraneo alla cerchia ristretta del clan pur non avendo, si dice, buoni rapporti con Said il fratello del presidente. E in questa lotta per non essere estromessi si creano divisioni, “tradimenti”. A un giorno dall’annuncio di Gaid Salah, il Fronte di liberazione nazionale (Fln) non ha ancora espresso una chiara posizione, avendo peraltro subito molte defezioni a favore della protesta. L’imbarazzo dell’esercito e delle forze dell’ordine, che non hanno reagito come in passato con una pesante e sanguinosa repressione, è dovuto forse proprio all’atteggiamento assolutamente non violento (anche negli slogan: “silmiya”, pacifica) dei manifestanti che si sono rivolti ai poliziotti come fratelli offrendo loro i fiori, senza temere le minacce di precipitare in una situazione “siriana”. È stata una vera sorpresa, i giovani algerini hanno smentito quella profezia che li voleva condannati alla violenza come retaggio della lotta al colonialismo. Si può recuperare la guerra di liberazione con altri valori, l’Algeria è anche il paese in cui i giovani si sono ribellati per il diritto alla cultura (primavera berbera). Ed è stata proprio una combattente, Djamila Bouhired, che ha sfilato con i giovani e meno giovani, che ha detto di aver recuperato la speranza e i valori della liberazione. La liberazione è stata anche frutto di una grande resistenza. Un sistema corrotto e clientelare è difficile da smantellare: chi detiene gli interessi garantiti dal potere non abbandonerà facilmente i propri privilegi. E userà tutti i mezzi per inquinare la protesta. Il tentativo di spaventare i giovani con gli slogan islamisti, paventando il ritorno agli anni Novanta, si è scontrato con una realtà nuova: i manifestanti hanno vinto la paura perché sono nati dopo, e quei massacri spaventosi li hanno solo sentiti raccontare. E così hanno convinto chi invece quegli anni sanguinosi li aveva vissuti sulla propria pelle a vincere la paura proprio per esorcizzare il pericolo islamista. I partiti islamisti esistono ma non sembrano in grado di imporre la loro visione oscurantista. I partiti della sinistra che hanno definito la proposta di Gaid Salah, in modo più o meno pesante, come un “golpe contro la volontà popolare”, elaborano, ognuno per proprio conto, una road map per uscire dalla situazione che si è creata rispondendo alle richieste della piazza. Ma non sarà facile passare dalla protesta contro il regime alla costruzione di un percorso che possa avviare un processo di democratizzazione. Questi processi non sono mai lineari, l’insurrezione - come viene definita da molti in Algeria - ha messo in evidenza la debolezza del sistema ma il compito più arduo resta quello di non farsi scippare la “rivoluzione”.