Carceri sovraffollate del 129%. Cinque suicidi al mese di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 27 marzo 2019 Tutti i numeri delle carceri italiane nella relazione annuale del Garante per i detenuti illustrata alla Camera. A oggi sono 60.512 le persone incarcerate, 13.608 in più rispetto ai posti disponibili. “Il sovraffollamento nelle carceri italiane non è una fake news”, scrive il Garante nazionale per le persone detenute Mauro Palma. E i numeri contenuti nella sua relazione annuale, illustrata stamani alla Camera alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, lo confermano. Alla data del 26 marzo 2019, su 46.904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena, erano presenti 60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, con un sovraffollamento del 129 per cento. Un dato che conferma una linea di tendenza in crescita rispetto al passato: a fine dicembre 2017 i detenuti presenti erano 57.608, contro i 59.655 alla stessa data del 2018. Dunque una crescita, in un solo anno, di oltre 2.000 persone. In carcere si entra meno, ma si esce ancor meno - A preoccupare il Garante non sono solo “le ovvie conseguenze che tale situazione determina negli Istituti, ma soprattutto le ragioni che ne sono alla base. Tale aumento, infatti, non è dovuto a un maggiore ingresso di persone in carcere (che, anzi, rispetto all’anno precedente sono diminuite di 887 unità), ma a un minor numero di dimissioni dal carcere: 1.160 in meno. In altre parole, in carcere si entra di meno ma si esce anche di meno”. Perché? Molto probabilmente perché si utilizzano di meno le misure alternative al carcere. A ciò si aggiunga che alla data del 20 marzo 2019 risultano detenute 1.839 persone con una pena inflitta inferiore a 1 anno di reclusione e 3.319 con una pena inflitta compresa tra 1 e 2 anni, un fenomeno in crescita (in soli tre mesi, dal 31 dicembre 2018 al 20 marzo dell’anno in corso, di 40). Si tratta cioè di 5.158 persone che potrebbero usufruire di misure alternative alla detenzione in carcere, ma che ciò nonostante rimangono all’interno degli istituti. Appare quindi urgente una riflessione che coinvolga tutti i soggetti coinvolti nell’esecuzione penale - magistratura, amministrazione penitenziaria, operatori del sociale e lo stesso Parlamento - per arrivare al perseguimento, anche sul piano della maturazione culturale, della pena costituzionalmente orientata, e alla predisposizione di tutti gli strumenti necessari per rimuovere gli ostacoli che impediscono la concreta applicazione di misure esecutive della pena alternativa alla detenzione, secondo quanto l’ordinamento prevede. Suicidi - Nel 2018 i casi di suicidio sono stati 64: un numero che ha segnato un picco di crescita rispetto all’anno precedente (50 nel 2017) e che ha raggiunto un livello che non si riscontrava dal 2011. Nei primi tre mesi del 2019, 10 persone si sono tolte la vita in carcere, circa una a settimana. Rimpatri forzati di migranti irregolari - Nel 2018 sono passate nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) 4.092 persone. Un numero ridotto preso di per sé, ma che, se comparato con quello dei rimpatri effettivamente eseguiti diventa molto alto: su 4.092 persone ne sono state rimpatriate 1.768, meno della metà, poco più del 43%. Una cifra davvero bassa se confrontata ai costi economici, ma soprattutto umani delle persone ristrette. Si allunghi o meno il tempo massimo della detenzione amministrativa dei migranti nei Cpr, la media di rimpatriati resta dunque stabile attorno alla metà. Ciò costituisce un problema perché la detenzione di chi non viene rimpatriato finisce per non aver avuto una ragione. La media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute si è sempre attestata attorno al 50%: da un minimo di 44% nel 2016 a un massimo di 59% nel 2017, sceso nell’ultimo anno al 43%, il dato più basso degli ultimi otto anni. Colpisce in particolare, la situazione delle donne: nel 2018 delle 631 transitate nel Cpr di Ponte Galeria, l’unico femminile, ne sono state rimpatriate solo 83, pari al 13% del totale. Il secondo motivo di uscita dai Cpr è stato nel 23% dei casi la mancata convalida del trattenimento da parte dell’Autorità giudiziaria, un dato questo che dovrebbe invitare a una maggiore cautela nell’invio delle persone nei Cpr. La mancata convalida indica infatti che le persone non avrebbero dovuto essere trattenute. Il terzo motivo di uscita, dopo il rimpatrio e la mancata convalida, è la scadenza dei termini del trattenimento, nel 20% dei casi. “C’è da chiedersi - annota il Garante - se la scelta fatta dal Legislatore nel 2017 che punta ad ampliare il numero dei Cpr vada nella direzione giusta, visto il risultato davvero scarso in termini di raggiungimento dell’obiettivo a fronte di una grave difficoltà soggettiva provocata dalla privazione della libertà”. In generale, gli andamenti dei rimpatri forzati appaiono stabili: 6.398 nel 2018, in flessione rispetto all’anno precedente (6.514). I primi cinque Paesi per numero di persone rimpatriate sono Tunisia, Albania, Marocco, Egitto e Nigeria. Circa 870 persone sono state scortate con un volo di linea nei propri Paesi d’origine, mentre 2.116 sono state rimpatriate con uno dei 76 voli charter, di cui 66 diretti in Tunisia, 5 in Nigeria, 3 in Egitto. Gli altri due erano voli congiunti di Frontex, uno organizzato dalla Germania per il Gambia e l’altro dall’Austria per il Pakistan. Nel 2018 il Garante nazionale ha monitorato 29 voli charter di rimpatrio forzato e due voli commerciali. Nei primi due mesi e mezzo di quest’anno, i voli charter sono stati 14, di cui 9 per la Tunisia, due per l’Egitto, due per la Nigeria e uno per il Gambia per un totale di 219 persone allontanate. Il Garante nazionale “non ritiene che i rimpatri forzati siano lo strumento più adeguato per affrontare la gestione dei flussi di immigrazione irregolare, considerati la procedura in quanto tale, il numero limitato di accordi bilaterali in vigore riguardanti i voli charter, il quantitativo di risorse che richiedono”. Occorre “pertanto potenziare i rimpatri volontari”. Il Garante dei detenuti: “Inaccettabili le impunità per gli abusi sugli arrestati” adnkronos.it, 27 marzo 2019 “I primi garanti dei diritti delle persone fermate, arrestate o detenute sono proprio coloro che hanno il compito della loro privazione della libertà”. Lo ha detto, stamattina, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, presentando la Relazione al Parlamento 2019, a Palazzo Montecitorio, a Roma, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il Garante ha proseguito osservando che “nessuno spirito di corpo e nessuna difesa della propria appartenenza può far venir meno tale principio e ogni violazione deve essere tempestivamente accertata e sanzionata, per non inviare un inaccettabile messaggio d’impunità che lederebbe non solo la fiducia nelle istituzioni, ma lo stesso stato di diritto che è cardine della nostra civiltà giuridica”. Il Garante ricorda anche le visite effettuate alle camere di sicurezza e il controllo della loro adeguatezza, rimarcando la loro “insufficiente disponibilità”: infatti, delle complessive 2.295 camere di sicurezza di Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza, “ben 894 - si legge nella relazione - sono dichiarate inagibili dalle stesse Autorità responsabili perché le loro condizioni non consentono di ospitarvi persone anche per brevi tempi. Ciò incide sull’utilizzo degli Istituti penitenziari per brevissime detenzioni, quasi sempre di una notte, in attesa dell’udienza dal magistrato. Questo con effetti negativi di sovraccarico inutile per gli istituti di detenzione”. Il Garante affronta anche il tema dell’uso dei taser: “Si tratta di armi e, quindi, il loro utilizzo deve rispondere ai principi di necessità, proporzionalità e di misura estrema che governano l’utilizzo delle armi”. Percezione insicurezza non può costituire criterio informatore di norme “La tutela dei diritti delle persone private della libertà pone la necessità di misurarsi sia con l’intrinseca complessità dei sistemi regolativi delle relazioni umane, sia con la difficile ricerca del punto di equilibrio - un baricentro - tra esigenze diverse e tutte essenziali: quella del riconoscimento che ogni individuo, qualunque sia la sua contingente situazione, è titolare di diritti inalienabili proprio in quanto persona; quella della tutela dei diritti delle altre persone e, quindi, della loro possibilità di vivere in contesti tranquilli e rassicurati; quella del necessario riconoscimento di quanto sofferto nei confronti delle persone che sono state vittime di violazioni o reati”. Il garante ha invitato a considerare il fattore della percezione di personale insicurezza che viene spesso declinato in termini difensivi rispetto a potenziali aggressori: “Un elemento percettivo, non misurabile, spesso recentemente evocato e forse anche enfatizzato che comunque è resistente alle rilevanze statistiche che contraddicono quanto percepito”, come la “radicale diminuzione negli ultimi anni del numero di reati, quali gli omicidi”. Secondo Palma, “la percezione non può essere semplicemente assunta, da parte di chi ha responsabilità istituzionali, come un dato, fisso, ingiudicabile; non può costituire il criterio informatore di norme né di decisioni amministrative perché queste hanno sempre un valore di costruzione del sentire comune e chi ha il compito di regolare e amministrare la cosa pubblica ha altresì il compito di scelte che possono talvolta andare contro la supposta percezione della collettività, proprio per dare a essa una prospettiva meno angusta e un orizzonte di evoluzione”. Il Garante ha anche messo in guardia dal rischio che, “accentuando la sensazione di insicurezza nonostante non sia supportata da numeri”, si finisca poi per “ridurre per tutti i margini di libertà. In particolare, nei confronti di coloro che sono percepiti, appunto, come i potenziali aggressori”. “Rischio evidente - ha insistito - nel sistema penale e che ha avuto anche una precisa letteratura che ha colto lo scivolamento da un diritto penale centrato sul reato a un diritto penale centrato sull’autore, poi sul nemico, soprattutto in alcune impostazioni oltre-oceano, fino a riferirsi a intere categorie di soggetti in virtù del loro status: in particolare, i soggetti socialmente deboli connotati da povertà, da necessità di cercare un altrove non noto ma denso di speranza, pur abbandonando il proprio luogo, noto, familiare, ma invivibile”. Più tecnologie contro l’uso dei cellulari in cella di Valentina Stella Il Dubbio, 27 marzo 2019 Il Dap ha previsto di investire 3,5 milioni di euro per migliorare la sicurezza degli istituti di pena. Sempre più telefonini nelle mani dei detenuti vengono trovati negli istituti penitenziari: secondo i dati fornitici dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nei primi mesi del 2019 sono stati 295 quelli scoperti. Nel 2018 erano stati 642. Adesso il Dap ha deciso di investire in maniera significativa per contrastare questo fenomeno preoccupante: ammonta, infatti, a quasi 3,5 milioni di euro per il 2019 il totale degli acquisti programmati per migliorare la sicurezza degli istituti di pena. L’obiettivo di tale misura è sicuramente quello di impedire ai reclusi di continuare a dare disposizioni e ordini ai gruppi criminali all’esterno, di comunicare eventuali trasferimenti, di inquinare e occultare prove. Alla ribalta della cronaca era arrivati casi in cui i cellulari erano stati addirittura rinvenuti nei pannolini di un neonato, portato da una nonna in carcere per visitare il padre, o nel retto di un detenuto. Una situazione allarmante a cui spesso i sindacati di polizia penitenziaria hanno chiesto di porre rimedio al ministero della Giustizia. Nella scelta degli investimenti e delle spese da effettuare - spiega una nota del Dap - “si è data netta preferenza alla strumentazione e alla tecnologia in grado di inibire ovvero isolare gli apparati telefonici mobili, introdotti abusivamente negli istituti penitenziari”. Nel dettaglio gli acquisti riguardano le seguenti strumentazioni: 80 apparecchi per il controllo radiografico dei pacchi; 74 metal detector a portale; 165 jammer per l’inibizione delle frequenze telefoniche; 200 rilevatori manuali di telefoni cellulari, anche spenti; 2 apparati IMSI per la cattura di frequenze telefoniche; 65 apparati rilevatori di traffico di fonia e dati. Che i carcerati mangino gelati di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2019 Si fa presto a dire “stare al fresco”. Almeno nelle carceri italiane, dove il termometro in estate fa segnare temperature record. Ma se le strutture italiane sono vecchie come il cucco (oltre che sovraffollate), i detenuti con la bella stagione ben potranno ristorarsi comunque. Come? Mangino gelati. Lo ha suggerito il sottosegretario alla Giustizia della Lega, Jacopo Morrone. Che rispondendo al question time alla Camera ha tagliato corto sulla possibilità di installare ventilatori: sempre che le celle fossero dotate di prese di corrente (e non è scontato), gli impianti elettrici non reggerebbero il carico. Niente da fare anche per gli apparecchi autoalimentati perché a quel punto si porrebbe il problema della spesa per la sostituzione delle batterie. Per non parlare della questione delle lame che “quand’anche di plastica, potrebbero essere agevolmente fatte oggetto di uso improprio, e quindi costituire un potenziale pericolo di sicurezza”. E quindi non resta che il gelato. O al limite usare il ventaglio. La carriera penitenziaria è donna. “Tabù sfatati, ma resta molto da fare” di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 27 marzo 2019 In Italia la Pubblica Amministrazione può contare su una rappresentanza femminile, su un totale di tre milioni di dipendenti, pari al 56,6%. Dopo la scuola, il secondo comparto per presenza di donne è quello della carriera penitenziaria: sono 220 su 321 persone, per una percentuale del 69%. Un dato statistico che abbiamo analizzato con Cinzia Calandrino, capo del Provveditorato Dap del Lazio. Anche a lei, dottoressa, risulta questa statistica e quale interpretazione ne dà? “I dati statistici rispecchiano un cambiamento già da tempo avviato nell’ambito della Pubblica Amministrazione, dove nelle carriere un tempo considerate prettamente maschili si stanno sempre più affermando le donne. È indubbiamente cambiato il contesto sociale, stiamo raccogliendo i frutti delle battaglie portate avanti, con tanta determinazione, tra gli anni 60 e 70, da gruppi femministi che con coraggio hanno abbattuto tanti tabù. Tuttavia il cammino per una completa parità è ancora lungo perché nelle posizioni apicali, le donne stentano ad affermarsi. La gestione del potere rimane saldamente nelle mani degli uomini che decidono ancora delle nostre carriere”. Perché, secondo lei, nell’immaginario collettivo la struttura carceraria mal si coniuga con la figura dell’operatrice penitenziaria? “Sono entrata nell’Amministrazione penitenziaria nel 1986 e il lavoro di direttore d’Istituto penitenziario veniva visto come qualcosa di non conciliabile con la femminilità. Ricordo ancora che amici di famiglia si mostrarono perplessi su questa scelta ma per fortuna ho sempre avuto il sostegno dei miei genitori. Penso che l’ingresso nel mondo penitenziario di direttori d’Istituto e comandanti di reparto donne abbia migliorato il contesto lavorativo. Noi donne affrontiamo questo lavoro con maggiore pragmatismo, unito a sensibilità e buon senso”. In occasione dell’8 marzo il nostro sito ha realizzato uno speciale con interviste a donne a vario titolo protagoniste nel settore dell’amministrazione della giustizia tra cui Paola Severino, Ester Soldi, Linda De Maio e Rosella Santoro, oltre a un articolo sul “sorpasso rosa” nella magistratura. La domanda è: condivide le opinioni espresse? Lei ha trovato difficoltà ad affermarsi nella sua attività? “Ho letto le testimonianze pubblicate sul vostro sito web e posso dire che non ho avuto particolari difficoltà ad affermarmi nella carriera ma molto dipende da doti caratteriali. Sono stata educata alla piena parità dei diritti e dei doveri da parte di genitori intelligenti e lungimiranti che mi hanno dato la forza e la serenità per affrontare ogni giorno questo difficile e affascinante lavoro senza complessi d’inferiorità”. Giustizia e valori intoccabili di Angelo Panebianco Cordiere della Sera, 27 marzo 2019 Forse la tempesta giudiziaria sulla giunta Raggi farà capire a tutti il prezzo che si paga quando si rinuncia ad attribuire importanza al garantismo. Quando sulla graticola (avvisi di garanzia, arresti eccetera) ci finiscono gli antigarantisti, coloro che hanno costruito le proprie fortune e calamitato consensi dedicandosi al sistematico linciaggio morale degli avversari, lucrando sulle disgrazie giudiziarie altrui, si possono adottare l’uno o l’altro di due atteggiamenti. Si può scegliere di battere le mani e limitarsi a dire “Ben vi sta. Chi di spada ferisce, eccetera eccetera”. E passare ad altro. Oppure si può cercare di sfruttare la “finestra di opportunità”, ci si può sforzare di parlare a quelli - ora certamente disorientati - che hanno seguito i linciatori morali come se fossero il pifferaio di Hamelin. Allo scopo di far capire loro quanto sbagliato - anzi, barbaro - fosse l’atteggiamento di chi condannava le persone prima che ci fosse una sentenza di tribunale, di chi trattava da accertato “criminale” chiunque fosse soggetto a un qualche procedimento da parte di una procura. Forse la tempesta giudiziaria che si è abbattuta a Roma sulla giunta Raggi farà capire a qualcuno che non lo aveva capito quale sia il prezzo che una collettività paga quando rinuncia ad attribuire valore a certi principi liberali. Complice anche il fatto che qui da noi esiste l’unità delle carriere (fra giudici e procuratori), molti fanno, da sempre, confusione fra l’azione di una procura e la sentenza di un tribunale. Per giunta, soprattutto dai tempi dell’inchiesta giudiziaria dei primi anni Novanta denominata “Mani Pulite”, la presunzione di non colpevolezza, prevista dalla nostra Costituzione, come da tutte le costituzioni liberali, venne cancellata dalla mente dei più. Il circo mediatico-giudiziario - non a freddo, ma assecondando i bassi istinti presenti in una parte del pubblico - trattò, da quel momento in poi, ogni avviso di garanzia o ogni arresto decisi da una procura come se fossero sentenze e ogni persona oggetto di indagine giudiziaria come un colpevole. Bisogna dire che certi procuratori (non tutti) assecondavano questo andazzo. Lo facevano quando anziché presentare al pubblico le proprie tesi come ipotesi di reato le proponevano come verità accertate assecondando così i bassi istinti di cui sopra. Il problema è che la presunzione di non colpevolezza è un fondamento dello Stato liberale e quando viene travolto nella consapevolezza dei più, ciò che si verifica è una regressione collettiva, un ritorno alla barbarie: proprio ciò che le Costituzioni liberali si sforzano di impedire (a che altro mai dovrebbe servire una Costituzione?). È anche tenendo conto di questo che chi scrive non ha mai apprezzato l’uso troppo disinvolto che in Italia si fa delle parole “fascismo” e “fascista”. È ovvio che nell’uso generale, tranne che nei casi in cui ci si riferisca ai gruppi di nostalgici (con saluti romani e il resto del repertorio), non ci sono legami con il fascismo storico. È ovvio che la parola, in Italia, è una specie di sinonimo di “brutto, sporco e cattivo”. Il problema è che fra i “fascisti” (i brutti, sporchi e cattivi) ci sono sempre stati, a parere di chi scrive, anche diversi fra coloro che si autodefiniscono antifascisti. Il loro atteggiamento verso la questione della presunzione di non colpevolezza (quando di mezzo c’erano o ci sono i loro avversari politici) è sempre stata una decisiva cartina di tornasole. Non bisogna essere ingenui, non è che nel momento in cui sulla graticola ci finiscono gli antigarantisti, allora chissà quanti fra quelli che li avevano applauditi cambieranno idea, cadranno folgorati sulla via di Damasco, scopriranno di colpo le virtù di cui grondano le guarentigie liberali. Bisogna davvero farsi troppe illusioni sulla natura umana per crederlo. Lasciamo da parte quelli che sulla negazione del principio di non colpevolezza ci campano e ci lucrano. Quelli hanno un tornaconto personale. Non c’è da convincerli di nulla, bisogna soltanto cercare di isolarli, di fare loro il vuoto intorno. Ma anche fra quelli che li hanno seguiti in buona fede ce ne sono alcuni che non possono essere comunque ricondotti sulla strada della civiltà, che non sono interessati ad apprezzare e a praticare comportamenti più civili. Sono quelli il cui unico interesse è colpire colui che ritengono il proprio nemico politico del momento. A prescindere. Per loro, gli strumenti giudiziari sono soltanto un mezzo, insieme a tanti altri (ma forse più efficace di altri) per abbattere il suddetto nemico. La celebre battuta di Giovanni Giolitti secondo cui “in Italia le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici” non si adatta solo alle deprecabili abitudini di certe frazioni delle élite (politiche, culturali, amministrative, eccetera). Si adatta anche al modo in cui la legge è intesa da una parte del pubblico. “A noi le garanzie liberali, a voi il linciaggio morale”: non è difficile individuare quelli che, in queste faccende, sono scopertamente in malafede. Poi ci sono gli altri, quelli in buona fede. Alcuni, come ho detto, sono irrecuperabili. Altri no. Sono questi ultimi che ci si deve sforzare di persuadere. Basta anche riuscire a convincerne uno soltanto e la convivenza civile ne ricaverà un beneficio. Legittima difesa, in Aula chi sparò di Dino Martirano Corriere della Sera, 27 marzo 2019 Entro domani il via libera alla riforma “targata” Lega. Sugli spalti in Senato i protagonisti dei processi. Rimborsi e colpa, le novità. Oggi, o al massimo domani, il Senato dovrebbe approvare la nuova legge sulla legittima difesa voluta dalla Lega e in qualche modo digerita dal Movimento 5 Stelle. Alla vigilia del voto, Matteo Salvini parla prima da ministro dell’Interno. “Non è una battaglia della Lega. Spero che la nuova legge non venga usata mai. Perché le nostre forze dell’ordine saranno sempre più presenti per evitare rapine e violenze in casa”. Poi, però, il vicepremier torna a vestire i panni di leader della Lega: “Ma se un solo aggredito fosse costretto a difendersi, grazie a quella legge non dovrebbe più passare per anni e anni per tribunali pagando avvocati e magari 100 o 200 mila euro per pagare i parenti del povero rapinatore ferito”. Quello che Salvini non dice chiaramente, però, riguarda l’inevitabile apertura di un’inchiesta giudiziaria a carico di chi si difende in casa propria sparando: anche in futuro, nei casi in cui un rapinatore verrà ferito o ucciso ci sarà sempre e comunque un’indagine della polizia giudiziaria e un giudice che dovrà decidere se archiviare o rinviare giudizio. I fautori della legge, tuttavia, puntano a stringere le maglie interpretative attraverso le quali passa la decisione del giudice. “Agisce sempre in stato di legittima difesa - recita la nuova legge - colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza, o minaccia di suo di armi o di altri mezzi di coazione fisica”. Oggi nella tribuna dell’aula del Senato ci saranno - alcuni dei quali su invito del presidente della commissione Giustizia, Andrea Ostellari (Lega) - i protagonisti di recenti casi di cronaca che fanno capo all’associazione delle vittime guidata dall’avvocato Elisabetta Aldrovandi che è anche Garante per le vittime della Regione Lombardia. Ad accompagnare l’ultimo giro di boa della legge, arriveranno a Roma anche Graziano Stacchio, Franco Birolo, Francesco Sicignano e Maurizio Boni che domenica scorsa si erano dati appuntamento nel Lodigiano nell’osteria di Mario Cattaneo, l’ultimo a finire sotto processo per eccesso colposo di legittima difesa dopo aver ucciso un rapinatore. L’avvocato Elisabetta Aldrovandi forse meglio di altri riesce a spiegare quali potrebbero essere le conseguenze della nuova legge: “C’è chi ha sparato senza avere avuto un contatto fisico con i rapinatori e poi è stato prosciolto; mentre c’è chi è accusato di omicidio colposo perché ha sparato in seguito a una colluttazione. Ecco, forse è arrivato il momento in cui sarà minore la discrezionalità del giudice”. Ma alla vigilia del voto c’è anche l’iniziativa: di don Pietro Sigurani, rettore della Basilica di Sant’Eustachio situata a due passi dal Senato, che regalerà ai fedeli pistole ad acqua: “Per un’ironica polemica contro la legge sui cui stanno lavorando i nostri vicini. Io sono un prete e sono contro tutto ciò che alimenta la paura dell’altro”. Ha ucciso la mia Roberta e s’è ucciso. Lo perdonerò? di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 27 marzo 2019 Non conoscevo questo Artusi, l’uomo che l’altro giorno si è suicidato impiccandosi alle sbarre di una cella nel carcere milanese di San Vittore. Conoscevo invece la vittima della sua violenza omicida, Roberta Priore, la donna che lui qualche giorno prima aveva ammazzato soffocandola con un cuscino. Roberta è stata la mia compagna per tanti anni. Ci sentivamo e ci vedevamo ancora, e ci eravamo incontrati per un aperitivo giusto un paio di settimane fa. Si parlava come al solito delle solite cose, lei dei suoi figli, io dei miei; e ricordavamo le cose fatte insieme, la musica, i viaggi. Ci eravamo salutati e avevamo programmato di vederci questa settimana. Non la vedrò mai più. Ora io capisco che queste sono faccende personali, di cui comprensibilmente non importa nulla a nessuno. Ma ne scrivo a bella posta. Forse per far sapere a chi legge che mi hanno ammazzato un’amica e che sono perciò molto triste? No, non per questo. Ne scrivo per rispondere a una domanda che tante volte mi hanno fatto: “E se succedesse a una persona a te cara?”. Domanda che insorge puntualmente quando manifesto le mie idee sul carcere, sulla pena detentiva, idee che si eccitano ogni qual volta leggo di qualcuno che in prigione si uccide. A me, abolizionista, dicono: “Parli così perché non ti tocca, ma prova a pensare se ammazzassero qualcuno a cui tieni”. Eccoci: mi tocca. Hanno ammazzato Roberta con un cuscino premuto sulla faccia. L’hanno trovata per terra, piena di lividi e con ustioni sul corpo: perché questo Artusi, dopo averla soffocata, ha tentato di darle fuoco. Bene, che cosa avrei scritto del suicidio in carcere di questo Artusi se la sua vittima fosse stata a me estranea? Ne avrei scritto ciò che ora scrivo, e cioè che in carcere non dovrebbe morire nessuno. Leggo che era “seguito e monitorato”, il che è anche peggio perché se uno riesce a impiccarsi pur quando lo tengono d’occhio puoi figurarti quel che può succedere a chi non è sottoposto a una simile vigilanza. Inutile dire che non mi addolora granché il fatto che sia morto, e anzi ben ricordo di quando, giorni fa, ho ricevuto la notizia della morte di Roberta: “Voglio vederlo in faccia, questo bastardo”, avevo detto a me stesso e ai miei amici. Ma se non mi addolora granché il fatto che sia morto, non è perché si tratta dell’assassino di Roberta: non mi addolora, banalmente, perché appunto nemmeno lo conoscevo. Chi l’ha preso e interrogato riferisce che era “molto provato”, che piangeva senza sosta. Non so se l’abbia ucciso il carcere o il rimorso, ed è facile rispondere che se non l’avesse ammazzata non sarebbe finito in carcere. Ma è lì che si è ucciso. Non fuori; non prima. Dice (ecco la solita domanda): “Ma uno che ammazza una donna, e in quel modo, non lo metti in carcere?”. Sì che ce lo metti, perché ci sono ottimi motivi per ritenere che uno così sia anche attualmente pericoloso. Ma ci voleva un processo anche per uno così, anche per l’assassino della mia Roberta: uno che io avrei anche potuto uccidere se l’avessi incontrato per strada, mettendo in esecuzione la mia giustizia. In quel caso, tuttavia, e cioè se avessi io fatto a lui ciò che lui ha fatto a se stesso, avrei impedito la possibilità di un risarcimento più importante: l’ipotesi, magari remotissima, che potesse fare qualcosa di buono. Qualcosa che avrebbe potuto fare magari dopo molto tempo, se e quando fosse stato accertato che non era più pericoloso. Non sono credente e dunque penso che Roberta sia semplicemente “morta per sempre”. Devo però immaginare che cosa avrebbe preferito, che cosa avrebbe sperato: sapere che il suo assassino si è impiccato o sapere che c’era la possibilità (se c’era), che in nome suo, in nome di Roberta, fosse dato ad altri il bene che lei non ha ricevuto? Spero che non sia un’usurpazione aver attribuito quest’ultima speranza alla sua anima che non c’è più. Io in nome tuo cercherò di essere più buono, Roberta. Cesare Battisti ha confessato. Io no di Piero Sansonetti Il Dubbio, 27 marzo 2019 Si dovrebbero vergognare - sento dire - personaggi come Gabriel Garcia Marquez e Francois Mitterrand. Cioè il più grande scrittore latino americano del novecento e uno dei più autorevoli leader politici europei del dopoguerra (insieme, forse, a De Gaulle, a Brandt, a Moro). Dovrebbero vergognarsi - se capisco bene - perché Cesare Battisti ha confessato quattro omicidi. Glielo chiede il più importante giornale italiano, cioè il Corriere della Sera. Glielo chiedono quasi tutti gli opinionisti di un certo livello. Quale è il motivo della vergogna? Avere sostenuto i propri dubbi sulla completezza e la regolarità dei processi ai terroristi italiani negli anni Settanta e Ottanta, e in particolare dei processi a Cesare Battisti, celebrati in contumacia. Lo dico in un altro modo: dovrebbero vergognarsi di avere preteso la superiorità dello stato di diritto. Marquez e Mitterrand non sono più tra noi e non possono difendersi. Non credo che avrebbero difficoltà a farlo. Nel mio sedicesimo al quadrato io posso farlo. Sono sommerso da messaggi, da assalti twitter, da intimazioni: “tu lo hai difeso, ora che ha confessato perché non chiedi scusa, perché non ti vergogni?”. Ieri sera mi ha telefonato anche Cruciani, della trasmissione radio “la Zanzara”, e mi ha processato più o meno come se io fossi un fiancheggiatore delle Brigate Rosse o dei Pac. Cruciani però me lo aspettavo. Ha sempre sostenuto la sua certezza sulla colpevolezza di Battisti e ne ha fatto un cavallo di battaglia. Non si è mai impancato a garantista. Mi hanno colpito di più gli anatemi di intellettuali liberali di primissimo ordine, come Pigi Battista e Carlo Nordio. Battista, appunto, è quello che ha preteso la vergogna, Nordio, che è un giurista preparatissimo, ha preteso le scuse. Preparatissimo, sicuramente, ma alle volte, forse, un po’ troppo passionale. Vorrei intanto spiegare quale è stata la mia posizione, e quella di quasi tutta la minuscola minoranza di persone che in questi anni non si è arruolata all’esercito degli accusatori. Non ho mai sostenuto l’innocenza o la colpevolezza di Cesare Battisti, non avrei potuto farlo sulla base delle mie conoscenze: ho solo fatto osservare che per condannare una persona occorrono le prove, e che queste prove devono essere esibite al processo, devono essere al di là di ogni ragionevole dubbio e devono riguardare la responsabilità della singola persona nel singolo crimine. E ho sostenuto la tesi, non particolarmente spericolata, che negli anni Settanta - e soprattutto negli anni Ottanta - i processi ai terroristi erano un po’ grossolani e spesso si basavano esclusivamente sulla testimonianza e sulle accuse dei pentiti. Così andò anche il processo a Battisti, e io penso che questo fu un errore e che le condanne furono assai discutibili. La stessa cosa pensarono - non solo su Battisti, ma su molti fuggiaschi italiani, di sinistra e di destra - le autorità di diversi paesi stranieri, che non si fidavano dei nostri tribunali e dei modi nei quali da noi si svolgevano i processi. E per questa ragione rifiutarono, e in parte ancora rifiutano, l’estradizione. Io credo che tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la politica italiana commise un errore drammatico. Spaventata dal montare del terrorismo (e su un altro versante della mafia) delegò alla magistratura il compito di vincere la guerra. Dicendo alla magistratura proprio così: “Siamo in guerra, radete al suolo”. E consentendole di usare i mezzi giustificati dai fini, ma non dal diritto. Da allora la politica non è più riuscita a riprendersi lo scettro. Ha pagato un prezzo esorbitante in termini di autonomia. Battisti - ho letto - nella sua dichiarazione ha detto che lui era in guerra. Già, lo sapevo. Io però non ero in guerra. Io all’epoca ero giovane, ma ero un militante del Pci, un giornalista dell’Unità e la mia battaglia contro il terrorismo l’ho combattuta fino in fondo, in modo rigorosissimo, anche prendendo i rischi che qualunque giornalista serio, in quegli anni, prendeva (oggi sento intimazioni di resa da molte persone che allora non erano schierati dalla stessa parte); e tuttavia, anche in polemica con molti esponenti del mio partito e del mio schieramento, credevo che la lotta andasse condotta, da noi, solo all’interno dello stato di diritto. Che questo fosse essenziale. Pensavo che si ci fossimo fatti trascinare in guerra dal partito della lotta armata, in quello stesso momento avremmo perso. Lo feci allora, lo faccio ancora oggi. Non capisco l’obiezione che mi fanno: “in questo modo oltraggi le vittime”. Non ci penso nemmeno a oltraggiare le vittime, per le quali ho sempre avuto (e, quando mi è capitato, ho dimostrato) un grande rispetto e anche affetto. Chiedere garanzie per gli imputati - provo a spiegarlo spesso, con scarsa fortuna - non vuol dire offendere le vittime. La gravità o l’odiosità di un reato non prevede la riduzione delle garanzie e dei diritti, casomai ne prevede l’innalzamento. Se ti condanno senza prove per divieto di sosta, poco male, se ti condanno per strage è diverso. Ancora ieri molti mi hanno detto: “Ma ora ha confessato. Non è questa una prova? E non è la prova che il processo era giusto?”. No. E non perché posso avere anche dei dubbi sulla confessione di una persona detenuta, in isolamento, e con la prospettiva di restare in isolamento tutta la vita (posso prendere in considerazione la confessione solo se su questa base si svolgesse un nuovo processo). Ma per un’altra ragione: le prove devono venire prima della condanna, non dopo. Non mi sembra un concetto troppo astruso. Eppure pare di sì. Se oggi, per assurdo, saltassero fuori le prove che il capitano Alfred Dreyfus effettivamente passò i segreti militari ai tedeschi, durante la guerra franco- prussiana, questo non toglierebbe nulla alla follia del processo che subì. Perché quel processo fu assolutamente irregolare. E il j’accuse di Zola resterebbe un monumento al Diritto e un pilastro della modernità. So che è molto difficile spiegare la differenza tra Stato di Diritto e giustizia universale, o tra Stato di Diritto e verità suprema. Però vi assicuro che esiste questa differenza, e ciò che garantisce il crescere della civiltà non è la giustizia universale e unica, né la verità suprema: è lo Stato di Diritto. Spazza-corrotti, la Cassazione dà il “preavviso di bocciatura” di Errico Novi Il Dubbio, 27 marzo 2019 La Suprema Corte: fondati i sospetti di incostituzionalità delle norme sul carcere. In gioco ci sono diversi articoli della Costituzione: secondo la Suprema corte, non è manifestamente infondata la questione di illegittimità della “spazza-corrotti”. Il nodo relativo all’ultima legge anticorruzione pare arrivato al pettine, in particolare rispetto alle violazioni prodotte dalle nuove norme che impediscono ai condannati per reati contro la Pa di chiedere l’accesso alle misure alternative prima di mettere fisicamente piede in cella. La strettoia passa dunque per una sentenza della Cassazione segnalata nei giorni scorsi dal Sole 24 Ore: la numero 12541 del 20 marzo. Riguarda la vicenda di un ex dirigente dell’Asl Roma 1, Maurizio Ferraresi, che presiedeva la Commissione medico-legale per il rilascio dell’idoneità alla guida dei veicoli. Nella fase preliminare del procedimento aveva optato per il patteggiamento, in base a una logica semplice semplice: l’entità della sanzione concordata con i pm (2 anni, 9 mesi e dieci giorni di reclusione) gli avrebbe senz’altro consentito di evitare il cosiddetto “assaggio di pena”, ossia l’ingresso fisico nella cella di un penitenziario. Tutto bene, tranne un ulteriore elemento sanzionatorio inserito dal gip del Tribunale capitolino: una riparazione pecuniaria da 330mila euro. Solo in riferimento a tale specifico aspetto della condanna, Ferraresi aveva proposto ricorso in Cassazione. Ma lo aveva fatto diversi mesi fa: la sentenza del gip è di fine giugno. A pochi giorni dall’udienza sul ricorso, lo scorso 31 gennaio, entra però in vigore la spazza-corrotti. Che travolge letteralmente le aspettative dell’imputato e dei suoi difensori: non si tratta più solo di discutere della riparazione pecuniaria, perché in virtù dell’articolo 6 dell’ultima riforma anticorruzione, Ferraresi non può più avvalersi dell’esecuzione sospesa per presentare, nei 30 giorni, l’istanza di misure alternative al carcere. Aggiunge dunque al ricorso già incardinato davanti alla Suprema corte anche il motivo della “illegittima retroattività” della spazza-corrotti. E seppur formalmente respinta, la sua tesi è idealmente condivisa dalla sesta sezione, nel senso che gli stessi supremi giudici la ritengono non manifestamente infondata, ma da porre in un eventuale successivo incidente di esecuzione. “La prospettazione difensiva secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria”, secondo la Cassazione, può effettivamente presentare “tratti di dubbia conformità con l’art. 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo là dove si traduce, per il Ferraresi, nel passaggio - “a sorpresa” e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione”. Valutazione importantissima, anche se non è la Cassazione, spiega il giudice estensore, Alessandra Bassi, a poterne far valere l’efficacia: “La questione di incostituzionalità prospettata afferisce non alla sentenza di patteggiamento oggetto del presente ricorso, ma all’esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad uno snodo processuale diverso nonché logicamente e temporalmente successivo”. Vuol dire che Ferraresi finirà per dover mettere fisicamente piede in carcere, ma una volta che ciò sarà avvenuto potrà attivare l’incidente di esecuzione e, in tale fase, porre appunto la questione di illegittimità. “La scelta operata dalla sesta sezione è molto importante”, spiega al Dubbio il professore dell’università di Bologna Vittorio Manes, uno dei primi studiosi a denunciare sul piano scientifico l’incostituzionalità dell’estensione dell’articolo 4 bis ai reati di corruzione. “Nella sentenza depositata lo scorso 20 marzo, la sesta sezione avrebbe potuto limitarsi a dichiarare impregiudicata la fondatezza o meno della questione di costituzionalità posta dall’imputato”, osserva Manes, “e invece ha scelto di esprimersi sulla non manifesta infondatezza di tale questione”. Si finirà alla Consulta, con ogni probabilità e, anche se fra un anno, potrà essere definitivamente sancita l’illegittimità delle norme retroattive introdotte dalla riforma. È probabile anche tenuto conto che, dopo Manes, altri autorevoli studiosi si sono espressi nella medesima direzione e, in alcuni casi, sulla stesa rivista, Diritto penale contemporaneo: da Domenico Pulitanò a Luca Masera e, ultimo in ordine di tempo, Gian Luigi Gatta. Processual-penalisti la cui statura è ben nota anche al presidente della Repubblica Mattarella. Resta il rammarico per un provvedimento chiaramente incostituzionale che continuerà però a produrre i suoi danni per almeno un altro anno. Intercettazioni: non c’è violazione del diritto dei difesa senza divergenze tra file e brogliacci di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 26 marzo 2019 n. 13074. In tema di intercettazioni non c’è violazione del diritto di difesa per la mancata consegna dei file registrati, se anche il Gip ha avuto i soli brogliacci e su quelli ha basato la richiesta di custodia cautelare in carcere. Il vulnus è escluso anche dalla rispondenza tra le registrazioni audio e gli “appunti” della polizia giudiziaria. La Corte di cassazione, con la sentenza 13074, respinge il ricorso contro una decisione presa senza aver ottemperato alla richiesta del difensore di ottenere i files audio sui quali era fondata l’accusa di sfruttamento della prostituzione. Consegna considerata decisiva in sede di riesame. La Cassazione chiarisce che i supporti sonori erano arrivati al difensore il 3 settembre con udienza fissata il 4, mentre prima del deposito il legale aveva avuto accesso ai cosiddetti brogliacci: lo stesso materiale messo a disposizione del Gip. Per i giudici la difesa, pur essendo al corrente del contenuto dell’ordinanza e del rilevo dato alle intercettazioni, non si era attivata per chiedere un breve slittamento dell’udienza: facoltà prevista dall’articolo 309, comma 9 bis del Codice di rito penale, per esigenze difensive. La Suprema corte sottolinea che, in generale, l’omesso deposito del brogliaccio e dei files non fa scattare l’inutilizzabilità o la nullità, se c’è una trasmissione anche sommaria che dia conto del contenuto delle conversazioni. Fatto salvo l’obbligo del tribunale di fornire una motivazione in caso di difformità tra fra i testi delle conversazioni richiamate negli atti e quelli che risultano dall’ascolto privato dei file. Divergenze che, nello specifico, non c’erano. Marijuana in ingente quantità con 4 mila dosi-soglia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 13105/2019. In caso di coltivazione di marijuana l’aggravante dell’ingente quantità scatta se il principio attivo supera di 4 mila volte il valore massimo in milligrammi. Ferma restando la valutazione discrezionale del giudice. La Corte di Cassazione, con la sentenza 13105, torna sul tema e prende le distanze dalla sentenza (36258/12) con la quale le Sezioni unite avevano tentato di superare i contrasti, fornendo un metro di valutazione. Anche in quell’occasione i giudici avevano comunque escluso ogni “automatismo”. La sussistenza dell’aggravante, per il Supremo collegio - come per i giudici della quarta sezione penale che si sono espressi ieri - non può comunque essere decisa solo in base alla “matematica”. La scelta finale spetta al giudice che deve valutare gli elementi processuali giustificando la decisione con un’adeguata motivazione. Nel caso esaminato la Cassazione ha “alzato”, la soglia di “tolleranza” a 4 mila dosi- soglia. Un’asticella che continua ad oscillare, con conseguenze non di poco conto se si considera che l’aggravante dell’ingente quantità, prevista dall’articolo 80 del Testo unico sugli stupefacenti (Dpr 309/1990), comporta un aumento di pena dalla metà ad un terzo, in considerazione del maggior rischio per la salute pubblica. Nello specifico i giudici hanno respinto il ricorso teso a contestare la pena più severa - inflitta con il rito abbreviato - per l’applicazione dell’articolo 80, nel caso di una coltivazione di 1630 piante di marijuana, dalle quali erano ricavabili 475.093 dosi medie singole droganti. La Cassazione sgombra innanzi tutto il campo dall’equivoco che la circostanza aggravante non si applichi in caso di coltivazione, per poi constatare l’ampio superamento dei parametri, anche non tenendo conto del limite più basso fissato dal Supremo collegio. Già nel 2017 la Suprema corte aveva fissato a 4 mila il valore-soglia (sentenza 36209). Sempre nello stesso anno però un’altra sentenza di legittimità (55014/2017) si era invece allineata al criterio, pur “flessibile”, di quota 2 mila indicato dalle Sezioni unite. Una divergenza dovuta anche al peso che le varie sezioni hanno dato allo “spacchettamento” tra droghe leggere e pesanti dopo la sentenza della Consulta del 2014. Nella bancarotta per distrazione niente misure cautelari sulle nuove attività di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2019 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 26 marzo 2019 n. 13189. Niente misure cautelari reali in caso di bancarotta fraudolenta per distrazione su quei beni che sono rimasti in famiglia attraverso una fittizia compravendita di azioni. Le condizioni. Quello che conta - si legge nella sentenza della Cassazione n. 13189/19 - è che la società di comodo non disperda il patrimonio da restituire ai creditori ma sia lo strumento attraverso il quale il fallito continui a svolgere la propria o un nuova attività imprenditoriale. In caso contrario è legittimo il sequestro di un’intera azienda quando ci siano indizi che dei beni aziendali, proprio per la loro collocazione strumentale, vengano in qualche modo utilizzati per la consumazione del reato, a nulla rilevando che l’azienda in questione svolga anche normali attività imprenditoriali. In definitiva - precisa la Cassazione - in materia di reati fallimentari ai fini dell’adozione del sequestro preventivo occorre un collegamento tra il reato e la cosa da sequestrare e non tra la società e il reato. Conclusioni. Da ciò deriva che il “sequestro preventivo potrà avere per oggetto i singoli mezzi strumentali della società di comodo, qualora se ne paventi, in relazione all’addebito di bancarotta fraudolenta pre o post fallimentare, l’avvenuto trapasso dal patrimonio del fallito”. Il ricorso è stato accolto con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Catanzaro. Trapani: muore detenuto di 35 anni, nel carcere proteste e tensioni newsicilia.it, 27 marzo 2019 È morto a 35 anni un detenuto nel carcere di Trapani che ha accusato un malore, probabilmente un infarto. L’arrestato era un giovane del quartiere San Giuliano, considerato “tranquillo” in quanto non creava ulteriori problemi agli operatori della polizia penitenziari. Secondo quanto riportato, l’uomo si sarebbe sentito male, accusando i sintomi di un infarto. Immediato l’intervento degli operatori del carcere, che hanno provato a salvargli la vita, ma non c’è stato nulla da fare. Il decesso dell’uomo ha causato diverse proteste all’interno del carcere di Trapani e per un po’ di ore la tensione è stata alta, con il personale costretto a fermarsi più del dovuto e a intervenire per sedare gli animi e chiarire cosa fosse realmente accaduto. Sono ancora in corso le indagini per scoprire cosa sia avvenuto e come sia morto il detenuto trapanese. Tolmezzo (Ud): 8 internati al 41bis da 16 giorni in sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2019 Continua la protesta per la mancanza di lavoro, che permetterebbe di valutare la cessata “pericolosità sociale”. “Il mio assistito ha perso 11 kg a Tolmezzo, gli internati al 41 bis ancora continuano a fare lo sciopero della fame e nessuno li ascolta”. A denunciarlo è l’avvocata Maria Teresa Pintus che è anche la referente della Sardegna per l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle camere penali. L’avvocata Pintus rileva che, anche se c’è stata l’interrogazione parlamentare da parte della deputata di Liberi e Uguali Giuseppina Occhionero e la denuncia de Il Dubbio che ha seguito la vicenda sin dall’inizio citando anche la protesta pacifica dei famigliari degli otto internati, nessuno delle istituzioni sembra essersi interessato. Tranne gli agenti penitenziari che fanno il possibile, né il Garante locale, né il Direttore del carcere, né il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria hanno intrapreso delle iniziative per risolvere il problema della mancanza di lavoro nell’istituto penitenziario, importante per la valutazione degli internati da parte della magistratura di sorveglianza. “Sicuramente - sottolinea l’avvocata Pintus - fino a sabato scorso, nessun interessamento si è avuto alla vicenda”. Dei suoi 4 assistiti internati a Tolmezzo, due le hanno confermato durante il colloquio telefonico che nulla è cambiato, denunciando che uno ha già perso 11 kg. L’avvocata, intenzionata a far valere il diritto di eseguire la misura di sicurezza in una condizione di legittimità, ha riferito che anticiperà la questione anche alla riunione dell’Osservatorio dell’Unione delle camere penali che si terrà a Roma a breve. L’avvocata ha anche spiegato a Il Dubbio che, in occasione di un’istanza proposta al Magistrato di Sorveglianza di Sassari, ha chiesto di sollevare l’illegittimità costituzionale della condizione di detenzione. “Ma mi è stato risposto - spiega l’avvocata Pintus - che la questione potrebbe semmai essere sollevata al magistrato di sorveglianza competente solo in fase di rinnovo della misura di sicurezza”. Ciò significa che, per quanto riguarda i suoi assistiti, dovrà aspettare ancora uno o due anni quando ci sarà la decisione sulla proroga. Il problema è serio. Dall’ 11 marzo che gli otto internati sono in sciopero della fame. Come già riportato su Il Dubbio tramite le parole dell’avvocato e militante dei radicali italiani Michele Capano, la serra che dovrebbe tenere occupati gli internati, in realtà non è in funzione da moltissimi mesi e quindi accade che la misura di sicurezza si svolge quasi interamente al 41 bis come gli altri detenuti. In mancanza di ciò, il magistrato di sorveglianza non ha gli strumenti per valutare la mancata cessazione della pericolosità sociale e quindi la proroga diventa pressoché automatica. Una questione, quella degli internati senza lavoro, che già nel 2016 fu segnalata da Rita Bernardini del Partito Radicale. Andò a visitare il carcere de L’Aquila dove prima erano ospitati gli internati al 41 bis. Ed era lì che c’era il problema della mancanza di lavoro. Grazie a quella segnalazione, l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo li aveva trasferiti a Tolmezzo per farli lavorare nella serra. Ora le stesse identiche problematiche si riscontrano in questo istituto. Da ricordare che la paradossale condizione di internamento a Tolmezzo era stata oggetto già di apposita menzione e segnalazione da parte del Collegio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella relazione al Parlamento del 2018, ed è esplicitata anche nel Rapporto tematico sul 41bis pubblicato il 5 febbraio scorso. Gli internati, che hanno già finito di scontare la loro pena, rimangono ancora gli “ultimi degli ultimi” all’interno delle patrie galere. Ragusa: “dal carcere un aiuto alla città”, progetto per i detenuti che vogliono lavorare di Duccio Gennaro Corriere di Ragusa, 27 marzo 2019 Un protocollo che facilita l’inclusione sociale è stato sottoscritto dalla direttrice del carcere di Ragusa Giovanna Maltese (foto), dal magistrato di sorveglianza Monica Marchionni e dall’assessore Giovanni Iacono. I progetto “Mi riscatto per Ragusa, dal carcere un aiuto alla città” favorisce il lavoro volontario e gratuito che alcuni detenuti hanno accettato volontariamente di svolgere a favore della comunità, impegnandosi a rispettare regole e condizioni e dopo avere seguito un corso di formazione. I primi ad essere coinvolti saranno due detenuti che metteranno a disposizione le loro competenze nel recupero, pulizia e decoro di alcune aree verdi. Il protocollo prevede al massimo 12 detenuti coinvolti nel progetto. I detenuti verranno selezionati dagli operatori del carcere. Dice l’assessore Giovanni Iacono: “Si tratta di un progetto partito dal carcere di Rebibbia di Roma, che ha coinvolto il carcere di Palermo ed adesso quello di Ragusa. Abbiamo pensato alla manutenzione del verde cittadino, una delle emergenze da affrontare nel nostro vasto territorio comunale, per cui queste persone potranno veramente dare una mano d’aiuto e lanciare contemporaneamente un segnale importante all’interno del carcere, ovvero che non tutto è finito nella vita dopo gli errori commessi”. Lucca: le opposizioni fanno fallire l’elezione del garante dei detenuti di Eliseo Biancalana Gazzetta di Lucca, 27 marzo 2019 Colpo di scena ieri sera a Palazzo Santini: l’unica candidata alla carica di garante dei detenuti, Alessandra Severi, non è stata eletta perché non ha raggiunto la maggioranza qualificata dei voti. A far fallire l’elezione sono stati il centrodestra, il Movimento 5 Stelle e CasaPound, che hanno contestato la procedura adottata dal comune per individuare il nuovo garante. Per reazione la maggioranza ha abbandonato la seduta, impedendo il proseguimento del consiglio. La votazione sulla garante è stata preceduta dalla relazione della garante uscente Angela Mia Pisano e da un dibattito tra i consiglieri sulla situazione della casa circondariale San Giorgio. La garante ha elencato le principali problematiche delle persone recluse. Ha menzionato la difficoltà a far partire attività lavorative per i detenuti e a trovare volontari che si impegnino in carcere. Ha poi ricordato che al San Giorgio c’è un padiglione nuovo inutilizzato e che un detenuto è morto alcuni mesi fa per problemi di salute. Nell’intervento della garante c’è stata inoltre una nota polemica che ha influenzato l’esito della votazione. Pisano ha infatti detto di non essersi ricandidata perché non ha visto il bando per presentare la candidatura. Ha quindi avanzato il dubbio di non essere stata avvisata della selezione per via della sua militanza in CasaPound. Dalla maggioranza, l’assessore al sociale Lucia Del Chiaro e il presidente della commissione sociale Pilade Ciardetti (Sinistra con) hanno negato pregiudizi contro la garante uscente e l’hanno ringraziata per il lavoro svolto. Apprezzamenti per la Pisano sono arrivati anche dai consiglieri di minoranza ma sulla pubblicità del bando per la selezione del nuovo garante le opposizioni sono andate all’attacco. Critiche sono infatti arrivate dai consiglieri Remo Santini (SìAmo Lucca), Massimiliano Bindocci (M5S) e Fabio Barsanti (CasaPound) che hanno annunciato che non avrebbero votato a favore della Severi, in polemica con la procedura adottata dal comune per pubblicizzare la selezione. Una posizione giudicata “pretestuosa” da Donatella Buonriposi (Lei Lucca). Renato Bonturi (PD) ha ricordato alle opposizioni che la commissione sociale si era espressa all’unanimità a favore della candidata. “Sono emersi elementi nuovi dopo la relazione del garante” ha replicato Santini. Alla fine a partecipare alla votazione per la nuova garante sono stati solo i consiglieri di PD, Lucca Civica, Sinistra con e Lei Lucca: in tutto 21. Hanno votato tutti a favore, ma per l’elezione serviva una maggioranza qualificata più elevata. SìAmo Lucca, FI, FdI, Lega, M5S e CasaPound non hanno partecipato al voto. L’elezione del garante è stata quindi rimandata a una prossima seduta. “Non è stato un voto contro la persona - ha spiegato a margine della votazione Santini (SìAmo Lucca) - volevamo lanciare un segnale sulla necessità di una maggiore trasparenza da parte dell’amministrazione comunale sulla pubblicizzazione dei bandi”. Il consigliere ha inoltre detto ai giornalisti presenti che il centrodestra è disponibile a votare la Severi nella prossima seduta. Al fallimento dell’elezione del garante il centrosinistra ha reagito prima non votando un ordine del giorno sul carcere con le minoranze; poi i consiglieri di maggioranza hanno abbandonato la seduta, facendo mancare il numero legale e impedendo così il proseguimento del consiglio che aveva altri punti all’ordine del giorno. Bergamo: la direttrice Mazzotta “il detenuto può cambiare, investiamo nel carcere” di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 27 marzo 2019 Teresa Mazzotta, la nuova direttrice del Carcere di Bergamo, ha aperto la seduta del consiglio comunale di martedì 26 marzo. Un inizio di seduta del Consiglio Comunale diverso, quello della serata di martedì 26 marzo, con la presentazione della nuova direttrice del carcere di Bergamo, Teresa Mazzotta. Nominata ufficialmente dal Ministero di Grazia e Giustizia a capo della Casa circondariale di via Gleno, ha preso servizio il 15 febbraio di quest’anno dopo la direzione ad interim sin dal luglio dell’anno scorso, mentre era ancora alla direzione del carcere di San Vittore a Milano. E, “sin da subito ha dimostrato una grande capacità di dialogo e di confronto, contribuendo a rendere, ancora di più, il carcere di Bergamo un carcere di eccellenza, esempio di dialogo, democrazia e di innovativi metodi di inserimento”, ha affermato la presidente Associazione Carcere e territorio Bergamo, Valentina Lanfranchi nella presentazione in seduta di consiglio. La presenza delle due ospiti vuole lanciare un messaggio chiaro: è importante che si continui a lavorare affinché il carcere non venga più considerato una realtà lontana con persone senza futuro. “?Certo, chi ha sbagliato deve avere una sanzione certa e determinata però deve avere anche una possibilità di reinserimento - ha affermato Teresa Mazzotta. E il percorso che porta a cambiare il proprio percorso dalla devianza al reinserimento non può esserci se il carcere non viene visto come parte integrante del territorio. Se continua ad essere visto come qualcosa di distante, non è possibile aiutare fino in fondo il carcerato a creare percorsi differenti.” È necessario, quindi, investire nel carcere e continuare a lavorare al suo interno su tutti i fronti, formativi, culturali e professionali: “La casa circondariale di Bergamo ospita oltre 500 detenuti e non possiamo smettere di continuare a dare vita ai numerosi progetti dedicati al reinserimento, rendendo, così, il percorso di riabilitazione dei condannati, anche un’occasione per la città. Se c’è una rete, un team, possiamo accompagnare il soggetto verso un futuro di possibilità: il detenuto può cambiare e si può portarlo a capire che ci sono scelte diverse a quella che l’hanno portato all’interno del carcere”. Pozzuoli (Na): gravidanza a rischio, va in carcere per furto ma perde il bambino di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 27 marzo 2019 Era entrata in carcere a Pozzuoli a metà febbraio, incinta di due mesi. Una gravidanza difficile, caratterizzata da una serie di malesseri e problemi. Il bambino sarebbe dovuto nascere a settembre, ma la scorsa settimana il feto è morto nel grembo della mamma detenuta. Vicenda amara quella di Ana Lavinia F, rumena di 30 anni con una lunga serie di reati alle spalle. L’ultimo lo commette a febbraio. È sorpresa dai carabinieri nel suo appartamento di Castel Volturno con gioielli ed altri oggetti preziosi sottratti in una casa di Napoli al Parco Margherita. I militari che la fermano scoprono che la donna, già madre di sette figli, fruisce in quel momento di un differimento di pena - deve scontare 17 anni per un cumulo di reati, una sfilza di furti in appartamento - perché il più piccolo dei bambini, all’epoca della concessione del beneficio, aveva meno di un anno di età. Il differimento della pena, in relazione ai 17 anni di reclusione, sarà poi reiterato il 6 marzo dal Tribunale di Sorveglianza di Napoli in ragione della circostanza che, nel frattempo, la trentenne rumena attende un altro figlio, l’ottavo. Proprio lo stato interessante di Ana Lavinia induce l’8 febbraio il gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Ivana Salvatore, a risparmiare alla donna la custodia cautelare in carcere per l’ennesimo furto del quale è accusata, quello che ha confessato di aver commesso al Parco Margherita. Per la donna rumena il gip sammaritano ritiene che possano bastare gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. A questo punto, però, gli atti passano a Napoli per una questione di competenza territoriale ed il pubblico ministero Prisco chiede la custodia cautelare in carcere. Il gip Campoli il 19 febbraio emette l’ordinanza che apre le porte del penitenziario di Pozzuoli ad Ana Lavinia. Il tribunale del Riesame conferma. In carcere proseguono i problemi sanitari della donna, che effettua anche alcuni controlli all’ospedale La Schiana di Pozzuoli, autorizzati dal gip. Alla fine della scorsa settimana la situazione precipita. La ginecologa che la visita nel penitenziario venerdì non percepisce più il battito del feto nel grembo materno. Sabato in tarda mattinata la detenuta è ricoverata in ospedale - sempre a Pozzuoli - dove è sottoposta a raschiamento. Poche ore più tardi, nel primo pomeriggio, ritorna in carcere. Su questa vicenda l’avvocato Domenico Ferraro, che difende Ana Lavinia, ha inoltrato una nota a Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti. “A parere della mia assistita - scrive - le problematiche della sua gravidanza a rischio non sono state adeguatamente considerate e gestite concedendole almeno gli arresti domiciliari. Sembrerebbe inoltre che il feto fosse deceduto da circa due giorni prima che fosse effettuato il raschiamento ed appare incredibile che la signora sia stata dimessa poche ore dopo l’intervento”. Ciambriello commenta: “Non è in discussione la legittimità della custodia cautelare in carcere, perché la legge la prevede. Neppure possiamo dire con certezza che la detenzione abbia determinato la morte del feto. Certo è che un penitenziario non è il posto migliore per condurre una gravidanza a rischio”. L’associazione Antigone si spinge oltre e parla di una vicenda “allucinante”. Quattro dei sette figli della donna, intanto - gli altri sono in Belgio - sono stati affidati ad una casa famiglia. Lucca: minacciarono il prof, ora i bulli dovranno assistere gli anziani di Paolo Pacini La Nazione, 27 marzo 2019 Sei mesi di servizi sociali, poi il tribunale valuterà. “Abbiamo sbagliato. Abbiamo capito di aver commesso delle grosse stupidaggini, siamo pentiti e ci scusiamo per quello che abbiamo fatto, perché non volevamo umiliare così il nostro professore. E ora siamo pronti a proseguire nel percorso di recupero”. Sguardo a terra, aria contrita e l’aria di chi vuole voltare pagina. Lo speriamo davvero. Processo sospeso e via libera alla “messa alla prova” ieri per 5 dei 6 studenti lucchesi dell’istituto superiore “Carrara” imputati di atti di bullismo nei confronti di un loro professore, esplosi alla ribalta nazionale nell’aprile di un anno fa. Il caso del sesto minorenne, ora residente con la famiglia all’estero, dovrà essere invece valutato a parte, perché il ragazzo non può essere seguito dai servizi sociali italiani. Questo l’esito dell’udienza preliminare a porte chiuse tenutasi ieri al tribunale dei minori di Firenze, che ha visto sfilare davanti al giudice Angela Pizzi i sei ragazzi e i rispettivi genitori, accompagnati dagli avvocati di fiducia. Tutto rinviato al 14 novembre prossimo per valutare l’esito della “messa alla prova” prevista dal codice penale e che dovrà essere appunto completata in questo arco temporale di circa sette mesi. A quel punto, se la prova sarà stata superata, il reato verrà dichiarato estinto. L’udienza davanti al giudice e ai due psicologi incaricati dal tribunale si è protratta per oltre 3 ore. Sono stati ascoltati con attenzione tutti i ragazzi e anche alcuni genitori, per verificare il rispettivo grado di consapevolezza in questa brutta e sconcertante vicenda. Un anno dopo quegli sconcertanti episodi, quei video choc finiti nel tritacarne dei social, la fotografia scattata dal tribunale dei minori è oggi ben diversa. Se allora gli studenti del “Carrara” avevano agito in branco, sbeffeggiando in classe il 64enne docente di italiano e storia e diffondendo video in cui lo minacciavano, oggi la situazione è molto diversa. Calmatesi le acque, i sei studenti (solo uno è rimasto nella stessa scuola) hanno intrapreso un percorso psicologico e acquisito una certa consapevolezza del loro assurdo comportamento. “Adesso - spiega uno degli avvocati difensori - sarà messo a punto per ciascun ragazzo un piano personalizzato che prevede un percorso psicologico con vari incontri periodici e alcuni servizi sociali da effettuare per circa sei mesi nel settore del volontariato. Andranno a prestare servizio in associazioni come la Misericordia, i centri anziani o strutture di enti locali, secondo quanto stabilirà l’ufficio del tribunale dei minori”. Napoli: la laurea rilasciata ai detenuti “non è un titolo di serie B” ateneapoli.it, 27 marzo 2019 Polo Penitenziario Universitario: è realtà il progetto della Federico II. Intervista alla prof.ssa Marella Santangelo, referente di Ateneo Settantasette immatricolati per il primo anno dell’Università Federico II in carcere. Le lezioni sono iniziate il 19 febbraio nel penitenziario di Secondigliano e si stanno svolgendo in due sezioni ricavate all’interno di due padiglioni - Ionio e Mediterraneo - a media ed alta sicurezza. Le frequentano 54 persone. Le altre 23 persone iscritte al primo anno - quattro donne che sono detenute nel penitenziario di Pozzuoli, reclusi a Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere, Benevento - non potendo seguire i corsi direttamente o tramite skype, studiano sulle dispense ed attendono, appena sarà possibile, di incontrare personalmente i propri docenti ed i tutor. “Il calendario delle lezioni - racconta la professoressa Marella Santangelo, che insegna ad Architettura ed è la referente di Ateneo per il Polo penitenziario universitario - è piuttosto fitto. Si svolgono il lunedì, il martedì, il venerdì e qualche volta il mercoledì. Abbiamo prestato attenzione, come era naturale che fosse, a non incrociare i giorni dei corsi con quelli dedicati ai colloqui con i familiari”. Gli studenti reclusi devono “impegnarsi, frequentare, appassionarsi” - Il primo semestre si concluderà a giugno, poi anche per gli studenti detenuti, proprio come per i loro colleghi che frequentano nelle aule universitarie, comincerà il periodo degli esami. “Le commissioni che valuteranno gli studenti del Polo penitenziario - prosegue la docente - saranno le stesse che terranno al di fuori del carcere le prove della sessione estiva. È un aspetto importante e ci tengo a sottolinearlo perché la laurea che noi rilasciamo ai detenuti deve avere lo stesso valore di quella che si consegue all’esterno. Non è un titolo di serie B o qualcosa che abbiamo organizzato per spirito umanitario. I nostri studenti di Secondigliano, Poggioreale e delle altre carceri coinvolte nella iniziativa devono impegnarsi, frequentare, appassionarsi proprio come quelli al di là delle sbarre. Per metterli in condizione di farlo, sono stati ricavati spazi appositi per la lettura e l’approfondimento sui libri all’interno delle sezioni e sono state previste opportunità di incontrare i tutor”. Non sono pochi i Corsi di Laurea che la Federico II ha proposto agli studenti detenuti nel primo anno di attività del Polo penitenziario: Giurisprudenza, Scienze Politiche, Sociologia, Economia, Lettere, Scienze nutraceutiche, Scienze erboristiche, Urbanistica. Venticinque i docenti i quali si sono impegnati ad entrare in carcere per tenere lezione. Non percepiscono compensi o gettoni per la loro attività extra. Collabora alla iniziativa anche il Centro Linguistico di Ateneo e ci si avvale di Federica, la piattaforma di e-learning dell’università. “Giurisprudenza con undici immatricolati - quantifica la prof.ssa Santangelo - Scienze nutraceutiche e Scienze erboristiche, che complessivamente hanno raccolto venti iscrizioni, sono i Corsi di Laurea più gettonati tra i detenuti. Milano: la “casetta rossa” di Bollate, un progetto simbolico di Lorenzo Consalez abitare.it, 27 marzo 2019 Nel carcere di Bollate (Milano), Alessandro Bucchi, Nadia Buelli, Stefania Rasile, Marta Riccò, studenti della Scuola Auic, Politecnico di Milano, Laboratorio di Progettazione Architettonica e i detenuti del “Gruppo della Trasgressione” hanno realizzato un piccolo progetto fortemente simbolico. Un padiglione per gli incontri delle persone recluse con i loro bambini, realizzato nel giardino e chiamato, in modo spontaneo, la Casetta Rossa. È un’iniziativa sociale e un progetto volontario, realizzato in forza di una convenzione tra il Politecnico di Milano e il Provveditorato regionale (Prap) che ha dato forma dal 2015 a numerosi progetti didattici e di ricerca dipartimentale, ed è interamente autofinanziato grazie all’intervento di Federico Sassoli de Bianchi, dell’associazione Onlus Civicum. Contemporaneamente è un progetto che non rinuncia in nome di un’urgenza a un’attenta ricerca estetica. Vincitore della selezione tra gli studenti del laboratorio del professor Andrea di Franco, è stato elaborato, adattato e modificato per esigenze tecniche e in seguito a un processo di confronto con la direzione del carcere. Sviluppare un progetto sperimentale all’interno delle regole del mondo penitenziario rende straordinariamente evidente la tensione tra le istanze del progetto e le esigenze della committenza. La normativa del carcere non si occupa infatti solo di aspetti tecnici e igienici, ma anche di comportamenti. L’apertura di una porta, l’occlusione di una vista, la definizione dei flussi di accesso a un determinato ambiente sono operazioni che richiedono un confronto molto analitico con le regole della sorveglianza. Le operazioni elementari diventano di conseguenza frutto di una contrattazione approfondita ed esprimono significati simbolici molto precisi. La casetta rossa di Bollate è un volume semplice, un archetipo che ha mantenuto, durante lo sviluppo del progetto, il suo significato. Ma le singole parti sono state tutte modificate. Lo spessore della struttura a telaio di legno ha suggerito di allargare i parapetti della parte aperta per ricavarne sedute e contemporaneamente ha permesso di ricavare nicchie all’interno che offrono ai bambini, figli delle persone detenute, inaspettati spazi di gioco. La tessitura del rivestimento, determinata dalle misure commerciali dei pannelli di legno, è diventata la matrice espressiva del paesaggio interno. La stessa forma generale del volume è stata modificata inclinando leggermente i due timpani verso l’interno, in modo rendere più unitario il volume. Le ingiustizie della giustizia di Antonio Salvati notizieitalianews.com, 27 marzo 2019 Il libro di Raffaele Cantone e Vincenzo Paglia, “La coscienza e la legge” tratta diffusamente la “centralità” della questione carceraria, relativamente alla consapevolezza dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana, sostiene Paglia. Siamo sufficientemente informati quanto il sovraffollamento continui a provocare situazioni di profondo degrado della vita e della dignità dei detenuti. Malgrado diversi provvedimenti per fronteggiare le gravissime disfunzioni, siamo ben lontani da una soluzione. Eppure i padri costituenti tracciarono con estrema chiarezza che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.)”, definendo, inoltre, la proporzionalità della pena con il crimine compiuto. E, infine, che la pena del carcere deve esaurirsi nella privazione della libertà personale del detenuto, senza l’imposizione, come spesso accade, di misure aggiuntive, come l’assenza di qualsiasi privacy, le gravi condizioni sanitarie, la mancanza di lavoro, la privazione dell’affettività, etc. Occorre rispettare tali indicazioni per restituire al carcere quel “senso di umanità” di cui, appunto, parla esplicitamente la Costituzione e che permette - osserva giustamente Paglia - “di salvare sia la dignità per i detenuti sia la speranza di una loro futura redenzione”. Non a caso non pochi giuristi da anni predicano unanimemente il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso. Infatti, prende sempre più piede una mentalità vendicatrice verso i colpevoli, contribuendo a rendere le carceri una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attestano i dati relativi al numero decisamente alto di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). E, inoltre, perde sempre più vigore il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà ed anche la liberazione anticipata, quando ci sono ovviamente le condizioni previste. Eppure, da anni, le statistiche sono a favore di tale prospettiva. Sono circa il 30 per cento i casi di recidiva di chi ha scontato la pena attraverso forme alternative e invece nel 70 per cento di chi l’ha scontata in carcere. Tanti detenuti - ricorda Paglia - sono per lo più dimenticati durante la loro detenzione e soprattutto sono abbandonati a loro stessi una volta usciti dal carcere. È illusorio pensare che l’inasprimento delle pene, oppure la costruzione di nuove carceri, favoriscano l’affermarsi della giustizia. Oltre che illusorio è anche dannoso. Papa Francesco, nel discorso ai penalisti tenuto il 23 ottobre 2014, consapevole della situazione, sosteneva che “stando così le cose il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società”. Queste parole del Papa, precise e dettagliate, per Vincenzo Paglia, andrebbero considerate e comprese nella loro forza sia giuridica sia umanistica, talmente tante sono numerose le contraddizioni che afferiscono alle carceri. C’è da essere preoccupati per la crescita di mentalità vendicatrice senza né perdono né misericordia, avvertono gli autori del volume. “Non possiamo retrocedere sulla concezione redentiva del carcere e della pena. È una questione di civiltà. La distrazione da tale questione diviene complicità con una cultura giustizialista e, alla fine, crudele”. Paglia si sofferma sulla presenza in carcere dei bambini piccoli, seppur si tratta certamente di una presenza numericamente esigua. I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 agosto 2018, contavano nelle carceri italiane 52 madri con 62 bambini, quasi equamente distribuite tra italiane (27 con 33 figli al seguito) e straniere (25 con 29 figli). È un numero in calo rispetto alla precedente rilevazione del marzo 2018, quando erano presenti nei penitenziari italiani 58 madri con 70 bambini, nelle aree del carcere denominate “sezioni nido”. Questi bimbi possono restare con le madri fino all’età di 3 anni. Nei cinque Icam, dove si può restare fino ai 6 anni, ce n’erano - sempre al 31 marzo 2018 - altri 18 (con 15 mamme). Un sistema che non riesce a liberare 62 bambini non solo è contro i dettami costituzionali che vedono nel carcere uno strumento rieducativo, ma è profondamente in contraddizione con il minimo senso della humana pietas. È senza dubbio una delle frontiere dove la società può mostrare il rapporto virtuoso e indissociabile tra giustizia, misericordia e perdono. Cantone fa proprie le parole di Paglia quando afferma “il torto subìto o non ricucito, sia nelle vicende personali sia nello scacchiere internazionale, crea abissi di rancore”. È quanto in parte accaduto - rileva il magistrato napoletano - anche nel nostro paese o, meglio ancora, quella che è stata la sensazione di una parte dei cittadini, poi strumentalmente alimentata da una parte non sempre corretta dell’informazione e dai fautori delle politiche securitarie. È vero che in Italia non c’è un aumento della criminalità e i dati statistici lo dimostrano in modo inequivocabile, “ma il senso di insicurezza dei cittadini è certamente cresciuto nell’ultimo periodo e ciò è stato anche dovuto spesso a risposte sul piano dell’ordine pubblico e giudiziario che non sono apparse a molti italiani sufficienti a risarcire quelli che apparivano i torti commessi”. Per il magistrato pretendere un po’ di rigore e una maggiore afflittività delle pene non significa affatto voler contestare il principio di rieducazione delle pene o peggio ancora strizzare gli occhi ai forcaioli dell’ultima ora; “significa, al contrario, provare a togliere argomenti a chi soffia su certe preoccupazioni più o meno fondate che avvertono i cittadini! Non credo, ad esempio, in questa prospettiva, che sarebbe scandaloso augurarsi una riforma del sistema di giustizia minorile che non leghi certe opportunità solo al dato anagrafico, ma tenga conto dell’effettivo sviluppo dei minori; non tutti i diciassettenni, ad esempio, sono uguali e non tutti meritano di essere trattati da ragazzini che devono essere aiutati a crescere”. È opportuno il richiamo di Paglia alla nota affermazione evangelica: “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi” (Matteo 25,36). Sono poche parole - ricorda Paglia, facendo tesoro dell’esperienza nelle carceri della Comunità di Sant’Egidio -, che hanno segnato in profondità milioni di credenti, di carcerati ed anche la stessa storia civile. Sono le parole con cui Gesù in certo modo chiuse la sua stessa vicenda terrena. Gesù - seguendo la narrazione dei Vangeli - visse in prima persona le esperienze dei perseguitati dalla “giustizia” umana, fino alla condanna a morte pur essendo innocente, come lo stesso Pilato riconobbe pubblicamente. Ricorda Paglia: “Gesù fece esperienza della rappresaglia e dell’arresto, provò l’angoscia sino a sudare sangue, subì l’arresto, la detenzione, il processo, le false testimonianze, le false accuse, le derisioni dei carcerieri, e infine il supplizio della morte in croce. Al culmine del suo dramma seppe trovare anche le parole giuste per confortare uno dei suoi due compagni di croce. A questi che gli chiese: “Ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, egli rispose: “Oggi stesso, sarai con me in paradiso”. Don Mazzolari, da quel grande credente che era, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: “Che corteo!”. Gesù non si vergognò di identificarsi con i carcerati, fu lui stesso carcerato. C’è come una sorgiva “fraternità” dei cristiani con i carcerati. In precedenti pubblicazioni Paglia aveva già ricordato quanto nella tradizione cristiana è ininterrotta la pratica della visita ai carcerati, ed è tra le più pervase di misericordia: “e spesso è stata all’origine di una nuova e più umana condizione dei carcerati e degli stessi edifici nella loro struttura architettonica sino al cambiamento del termine, da carceri a penitenziari, ossia luoghi di penitenza in analogia ai conventi. E la penitenza era tesa alla redenzione, al cambiamento del colpevole, perché potesse reinserirsi nella società. Tale amore per i carcerati ha spinto molti credenti lungo i secoli a frequentare i luoghi di reclusione e a sviluppare una preziosa e molteplice azione tesa comunque ad umanizzare le carceri”. Migranti. L’atto d’accusa del garante: “Troppo tempo rinchiusi nei Centri” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 27 marzo 2019 Mauro Palma: meno della metà dei reclusi è stato poi rispedito a casa. Oggi relazione in Parlamento, ma Salvini non ci sarà. È il dato più basso degli ultimi otto anni e cozza in modo stridente con quel “dalle parole ai fatti”, lo slogan preferito di Matteo Salvini. Meno della metà (per l’esattezza il 43 per cento) dei migranti irregolari che nel 2018 sono stati reclusi nei centri di permanenza per il rimpatrio sono stati effettivamente rispediti a casa. E questo a dispetto del prolungamento dei tempi di detenzione (portati a sei mesi dal decreto sicurezza) e dall’aumento dei Cpr che Salvini vorrebbe realizzare uno per regione. Le cifre non mentono: nel 2018 delle 4.092 persone rinchiuse nei centri per il rimpatrio solo 1.768 sono state messe su un aereo e spedite indietro. E gli altri? Alla fine sono stati rilasciati o per la mancata convalida del trattenimento da parte dei giudici o per la scadenza dei termini. E dunque la loro detenzione si è rivelata ingiusta e immotivata. È molto severa con gli effetti già anticipati da tre mesi di applicazione del decreto sicurezza la relazione che il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma presenta oggi al Parlamento alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e del presidente della Camera Fico, presenti anche il premier Conte, i ministri della Giustizia Bonafede e della Salute Grillo, ma non Salvini che (forse non a caso) non ha risposto all’invito né ha delegato nessuno. Prolungare la detenzione nei Cpr e prevederne di nuovi, secondo il garante, è un errore: “Si allunghi o meno il tempo massimo della detenzione dei migranti nei Cpr - dice Palma - la media di rimpatriati resta stabile intorno alla metà. Ciò costituisce un problema perché la detenzione di chi non viene rimpatriato finisce per non avere una ragione. Non solo non è stato neppure lontanamente raggiunto l’obiettivo di un Cpr per regione, ma quelli esistenti non si sono differenziati in termini di qualità delle strutture e di qualità della vita dai vecchi Cie”. Ma anche nei soli quattro hotspot ancora operativi - segnala il garante - spesso i migranti vengono trattenuti ben oltre il consentito (37 giorni la media record di Messina) senza un mandato dell’autorità giudiziaria. Ecco perché, dopo aver monitorato anche 38 voli di rimpatrio e le situazioni verificatesi a bordo della nave Diciotti, il garante Palma ha redatto un volume di linee guida “Standard per la privazione della libertà delle persone migranti” che verrà presentato il 4 aprile. “L’estensione della durata della detenzione - è la sua valutazione - non deve assumere la configurazione del messaggio disincentivante da inviare a potenziali partenti. La libertà di una persona non può mai divenire simbolo e messaggio di una volontà politica”. Ma l’allarme sulla privazione della libertà in Italia non riguarda solo i migranti. Il sovraffollamento delle carceri è preoccupante: oltre 60.000 i detenuti, quasi 10.000 oltre la capienza dei 191 istituti di pena italiani, 2.000 in più solo nell’ultimo anno. Numeri in crescita che non sono provocati da un maggiore ingresso di persone in carcere ma a minori uscite perché è di molto diminuito l’utilizzo delle misure alternative previsto dal nostro ordinamento. Anche qui cifre impressionanti: in cella ci sono più di 1.800 persone con una pena inferiore ad un anno e 3.300 con pene inferiori a due anni. Insomma più di 5.000 persone che avrebbero diritto ad usufruire di misure alternative al carcere. Un campanello d’allarme a cui si aggiunge l’aumento del numero dei suicidi in cella, 64 nel 2018, 10 nei primi mesi del 2019, circa uno a settimana. Manconi: “Un anno all’ufficio antirazzismo, ma dal governo ostilità e indifferenza” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 27 marzo 2019 “Non mi aspettavo, certo, riconoscimenti da un governo che evidentemente mi considera un avversario politico, ma voglio ricordare che quando sono arrivato all’Unar, la situazione era davvero drammatica. In 12 mesi siamo riusciti a porre obiettivi e a far ritrovare il piacere del lavoro a persone che, due anni fa, avevano dovuto superare i picchetti di Forza Nuova e di cattofascisti che li insultavano imputando a Unar di aver svolto una insidiosa campagna pro-gay. Il primo obiettivo è stato quello di restituire all’ufficio la sua dignità e penso che ci siamo riusciti”. Luigi Manconi, sociologo e già presidente della commissione Diritti umani del Senato, dal 22 marzo 2018 era alla guida dell’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, presso il dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. A nominarlo l’allora premier Paolo Gentiloni. Professore, come si è conclusa questa esperienza? E come è stato il congedo? “La legge non consente il rinnovo dell’incarico, ma forse un po’ di galateo nelle relazioni istituzionali andrebbe salvaguardato. Il mio mandato si è concluso sabato 23 marzo, ho chiuso la porta e, diciamo così, chi s’è visto s’è visto. E questo al termine di un’intera settimana dedicata alla mobilitazione contro le discriminazioni di natura etnico-razziale. Moltissime le iniziative importanti, in coincidenza con la Giornata internazionale contro il razzismo, promossa dall’Onu, e la diffusione di uno spot, per una volta non retorico né paternalista, su un tema tanto delicato. A queste manifestazioni non ha preso parte un solo rappresentante del governo. Nemmeno il sottosegretario alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora, titolare del dipartimento in cui è inserito l’Unar”. Il governo è stato assente in questo anno? “È stato indifferente o insofferente. Tra le molte iniziative realizzate, solo ad una - la ricorrenza della Dichiarazione universale dei diritti umani con Giovanni Maria Flick e Liliana Segre - ha preso parte la vicepresidente della Camera, Maria Edera Spadoni. Spadafora è venuto in visita un anno fa per pochi minuti e poi più nulla. Ha avuto un ruolo importante nella istituzione del tavolo delle associazioni Lgbt, ma per quanto riguarda il resto, a esser sincero, non pervenuto”. E dire che l’Unar si occupa di temi importanti. “Ed è, secondo la legge, “punto di contatto” per l’applicazione della strategia di inclusione di rom, sinti e caminanti e su questo abbiamo molto lavorato, in particolare per ricostruire la memoria di minoranze da sempre perseguitate. E che hanno avuto 500.000 morti nei lager nazisti e nei campi di detenzione italiani. Il riconoscimento della storia di quelle vittime è la premessa essenziale per consentire ai sopravvissuti e ai loro familiari, di sentirsi parte della società”. Essendo un organo del governo, se il governo non lo sostiene... “Esatto. Temo che si rischi davvero di andare verso l’azzeramento dell’Unar o, comunque, verso un suo indebolimento, come chiedono la destra e i suoi organi di stampa. In pochi mesi, sono stati pubblicati da alcuni quotidiani filo-governativi diversi articoli contro l’Unar e contro di me. Figuriamoci se me ne lamento, ma non sono segnali incoraggianti. Sarebbe un vero peccato se l’Unar dovesse scomparire: qui ho incontrato tante persone competenti e che lavorano sodo”. Secondo lei, quale dovrebbe essere il futuro dell’Unar? “Da tempo, la Commissione europea chiede che sia un organismo autonomo dal governo, richiesta imprescindibile, che è anche mia da sempre, ma non vorrei fosse presa a pretesto per mettere in mora e liquidare progressivamente i compiti dell’ufficio. Che restano comunque preziosi. Anzi, se posso buttarla in politica, sempre più preziosi”. Ora si dovrà nominare il suo successore. “Mi auguro che chi mi sostituirà sia capace e indipendente e, in tempi di sbandierata morigeratezza, che non costi troppo più di me, che ho lavorato per un anno a titolo totalmente gratuito”. Migranti. I rischi di sventolare lo “ius soli” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 27 marzo 2019 Proprio per difendere il principio della cittadinanza, però, sventolare lo “ius soli” così, tout court, a pappagallo, non è solo fuorviante: è suicida. Scommettiamo? Ogni volta che Matteo Salvini sente qualcuno di sinistra appellarsi a un rilancio dello “ius soli”, si frega le mani. E accende mentalmente un cero a “San Tafazzio”, patrono di tutti i masochisti sinistrorsi seguaci del Tafazzi creato da Aldo, Giovanni e Giacomo, quello che si martellava accanitamente, per dirla con Giacomo Leopardi, i propri “tommasei”. Capiamoci: la battaglia per riconoscere la cittadinanza agli figli degli immigrati è sacrosanta. E fino a sette anni fa era condivisa, spiegò l’Istat l’11 luglio 2012, dalla larga maggioranza degli cittadini: “Il 72,1% degli italiani è favorevole al riconoscimento alla nascita della cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese”. Di più: “Il 91,4% ritiene giusto che gli immigrati, che ne facciano richiesta, ottengano la cittadinanza italiana dopo un certo numero di anni di residenza regolare nel Paese”. Un patrimonio enorme di fiducia, apertura, disponibilità buttato via. Disperso in una manciata di anni non solo a causa delle campagne della nuova Lega salviniana via via più identitaria, sovranista, ostile agli immigrati. Ma anche per gli errori macroscopici di un pezzo della sinistra che perse il momento giusto ma più ancora ignorò i timori crescenti nella pancia di tanti elettori cavalcando il tema con parole sbagliate. Prima fra tutte quelle due: “ius soli”. Non c’entrava niente ma proprio niente, la legge abortita, con lo “ius soli”. Il riconoscimento automatico alla nascita. Un sistema che fino al 1948 era applicato nel 47% degli Stati del mondo ma nel tempo è stato via via abbandonato (unica eccezione gli Usa) in favore di un sistema misto. Un po’ “ius soli”, un po’ “ius sanguinis”, un po’ “ius culturae”. Fatto di regole precise. Paletti precisi. Che aprissero spazi ai bambini degli immigrati arginando però le paure sollevate dai professionisti della paura. L’ha riconosciuto ieri, in un’intervista a Repubblica, anche Marilena Fabbri, ex deputata Pd e relatrice della legge sullo “Ius soli” mai approvata: “Se tornassi indietro avrei puntato sul concetto dello “Ius culturae”. Sicuramente avrebbe fatto meno paura, perché affermava in modo estremamente semplice un principio sul quale è impossibile non essere d’accordo”. Parole sante. Proprio per difendere il principio della cittadinanza sventolare lo “ius soli” così, tout court, a pappagallo, non è solo fuorviante: è suicida. Eppure insistono, insistono, insistono. Migranti. La missione Sophia: avanti per sei mesi senza le navi in mare di Marco Bresolin La Stampa, 27 marzo 2019 Sospensione temporanea dei salvataggi per accontentare Roma. Il pattugliamento sarà solo aereo. Mogherini: “Così si snatura l’operazione”. L’operazione Sophia va avanti per altri sei mesi ma, a causa delle elezioni europee, sospenderà “temporaneamente” le operazioni di salvataggio dei migranti nel Mar Mediterraneo. Sintetizzato in modo molto brutale, il compromesso raggiunto ieri dai governi Ue suona più o meno così. Una moratoria elettorale che consentirà alla missione di andare avanti, ma soltanto per quanto riguarda le attività di pattugliamento aereo e l’addestramento della Guardia Costiera libica. Niente più navi in mare, niente attività di ricerca e salvataggio. E di conseguenza niente sbarchi sulle coste italiane. Il compromesso è stato raggiunto ieri nella riunione degli ambasciatori Ue, riuniti nel Comitato politico e di sicurezza. Il via libera all’accordo dovrebbe arrivare oggi, dopo che i diplomatici si saranno consultati con le rispettive capitali. Una soluzione va trovata entro il 31 marzo, giorno in cui scade la proroga di tre mesi che era stata decisa a fine 2018. In base all’intesa, una fonte diplomatica europea conferma che “per ora” l’Italia manterrà il comando dell’operazione. Dietro quel “per ora” potrebbe esserci un impegno a ridiscutere la questione, visto che alla Francia non dispiacerebbe affatto prendere il posto di Roma. Ma al momento nulla cambia. Il controllo di Sophia consente all’Italia di avere a disposizione importanti informazioni di intelligence relative alla Libia e ai trafficanti di esseri umani. Questa è una delle ragioni per cui il governo - nonostante l’opposizione di Matteo Salvini - ha sempre fatto il possibile per evitare di fermare la missione, ritenuta preziosa dal ministero della Difesa. Il compromesso sembra conciliare le esigenze del governo italiano: avanti con la missione, ma niente sbarchi. Francia e Germania avrebbero preferito un rinvio di tre o sei mesi senza modifiche del mandato, ma l’opzione era stata respinta da Roma. Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue, aveva proposto di mettere fine a Sophia e di far ripartire una nuova operazione con un mandato ridotto, ma a quel punto il comando non sarebbe più andato in automatico all’Italia. Alla fine è stata trovata questa soluzione che consente a Sophia di proseguire, ma senza la componente navale. Un paradosso per una missione che si chiama EuNavFor Med (European Union Naval Force Mediterranean, ossia Forza navale mediterranea dell’Ue). La soluzione non piace affatto a Federica Mogherini, che ha messo in guardia dal rischio di snaturare Sophia, nata nel 2015 proprio come missione navale con l’obiettivo smantellare il traffico di esseri umani. Obiettivo che ora appare difficile senza il pattugliamento in mare. Con gli anni il mandato di Sophia si era poi ampliato all’addestramento della Guardia costiera libica (che continuerà) e al “contributo all’attuazione dell’embargo Onu sulle armi in alto mare al largo delle coste libiche”, attività impossibile da portare a termine senza navi. Al momento la missione guidata dall’ammiraglio Enrico Credendino (supportata da 26 Stati) dispone di 7 mezzi aerei e di due navi. Droghe. Cannabis all’Onu, il 2020 sarà l’anno buono? di Leonardo Fiorentini e Serena Franchi Il Manifesto, 27 marzo 2019 La dichiarazione finale della Commission on Narcotic Drugs dell’Onu, conferma la cecità e l’ipocrisia di un sistema internazionale che prima si loda per l’implementazione dei processi, poi evita accuratamente di valutarne l’efficacia. Si è conclusa senza grandi novità anche la riunione a Vienna della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) dell’Onu, che ha seguito il Segmento Ministeriale già analizzato in questa rubrica (Susanna Ronconi, il manifesto del 20 marzo 2019). È esemplare come alle cinque righe di lode dei “tangibili progressi” nella raccolta di dati, di analisi e di scambio di informazioni sul problema delle droghe ne seguano infatti 27 in cui si attestano la continua espansione dei mercati di droghe illecite, i livelli record raggiunti da coltivazioni e consumi di droghe, l’aumento delle morti droga-correlate nel mondo e la stabilità dei tassi di trasmissione di Hiv e Hcv. Ciononostante, obiettivi e mezzi rimangono gli stessi, e i richiami alla centralità dei Diritti Umani e alla flessibilità delle convenzioni introdotti nel 2016 risultano non enfatizzati. Sulla legalizzazione della cannabis la Russia ha tentato un attacco diretto a Canada e Uruguay (e Stati uniti), proponendo una risoluzione per il rafforzamento del ruolo dell’Incb (International Narcotics Control Board). Un paragrafo poi espunto esprimeva “profonda preoccupazione per la legalizzazione dell’uso non medico di determinate droghe in alcune regioni, che rappresenta una sfida all’attuazione universale delle convenzioni sul controllo delle droghe, una sfida alla salute pubblica e al benessere, in particolare tra i giovani, e una sfida agli Stati aderenti alle convenzioni”. Una lunghissima trattativa - terminata venerdì dopo pranzo - con il sostegno di Usa e Olanda ha modificato decisamente il senso del testo. Del resto l’Incb e il suo Presidente, il thailandese Viroj Sumyai, non hanno certo mai nascosto la loro irritazione per le legalizzazioni nelle Americhe. L’agenzia ha dedicato l’intero primo capitolo del suo ultimo rapporto alla cannabis e ai “molti” rischi e “pochi” benefici del suo uso, medico e non. A Vienna Viroj Sumyai a precisa domanda ha risposto, con malcelata irritazione, che “la legalizzazione dell’uso non medico della cannabis contravviene i trattati internazionali sul controllo delle droghe”. Per fortuna è un organismo inutile e basta replicare a muso duro e si tacciono. Dunque, questa sessione sembra essere stata solo il preludio allo scontro che si preannuncia per il 2020, quando la raccomandazione dell’Oms per la revisione della classificazione della cannabis nelle tabelle delle convenzioni arriverà sul tavolo della Cnd. La raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), basata su una solida revisione della letteratura scientifica, propone l’eliminazione della cannabis dalla tabella IV delle droghe pericolose senza uso terapeutico della prima Convenzione del 1961. Tale riclassificazione costituirebbe un volano per la legalizzazione dell’uso medico a livello globale, anche se non sufficiente per aprire all’uso ricreativo. Questo obiettivo può contare sulla flessibilità delle convenzioni esplicitata ad Ungass 2016 e confermata la scorsa settimana a Vienna. È evidente che sulla raccomandazione dell’Oms, la cui pubblicazione era prevista nemmeno un mese dopo l’avvio della legalizzazione in Canada, hanno pesato molto le pressioni politiche, in particolare della Russia. Non è un caso il curioso ritardo di trasmissione, che ha di fatto permesso il rinvio della sua discussione. L’interrogativo politico del prossimo anno riguarderà se e come intervenire sul mantenimento della cannabis in tabella I, proposto dall’Oms dopo una revisione scientifica che invece non ne giustifica la collocazione fra le droghe pericolose. ADHD, quando l’adulto viene “dimenticato” e cade nelle dipendenze di Maurizio Paganelli La Repubblica, 27 marzo 2019 Uso di sostanze, reati, incidenti: il lato oscuro del disturbo. Le richieste di incontro con il ministro Grillo dell’associazione Aifa onlus, e dei psichiatri Sip e Sipad. Sono impulsivi, ansiosi, stressati, incapaci di pianificare o di pensare alle conseguenze delle proprie azioni né di mantenere rapporti affettivi e di lavoro o di gestire soldi. Hanno continue dimenticanze e massima distraibilità, quasi incapaci di “dedurre” cosa gli altri pensano del loro atteggiamento, sono sfiduciati in sè stessi e con scarsa autostima, hanno maggiore incidenza di incidenti domestici e stradali come di suicidi, non fanno caso alla propria salute e usano diverse sostanze, alcol, nicotina, stupefacenti, farmaci, spesso in mix come forma di automedicazione. Parliamo delle persone con ADHD, con disturbo da deficit di attenzione e iperattività, isolate e quindi sensibili ai gruppi che in qualche forma li accettano, diventando facile preda anche di gang criminali. Basterebbe questo quadro per farne tipici soggetti da prendere in carico “integralmente” da parte del Servizio socio-sanitario. Invece, chi soffre da adulto di questo disturbo neuropsichiatrico (“dimenticato” e “offuscato”, spesso persino negato), non trova né diagnosi né considerazione. Si tratta di una condizione che comporta un disequilibrio circoscritto del neurotrasmettitore dopamina a livello cerebrale; disturbo riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della Sanità, presente nel manuale di psichiatria, il DSM5 (solo nel 2014 per la prima volta è stata inserita la categoria diagnostica nell’adulto), ma è la “cenerentola nell’ambito delle diagnosi psichiatriche”, come la definì Emilio Sacchetti, allora presidente della Società Italiana di Psichiatria (direttore del DSM Spedali Civili di Brescia). L’acronimo inglese è ADHD, Attention deficit hyperactivity disorder, o anche ADD, deficit di attenzione senza iperattività. Colpisce più i maschi che le femmine in rapporto 4 a 1. Categoria tanto utilizzata in modo schematico per i ragazzini nelle scuole e tra i genitori, quanto ignorata negli adulti. Mai emersi o “spariti” dalla maggiore età in poi, quando lavoro e responsabilità li pone di fronte alle prove più dure, come per tutti. “Gli adulti con ADHD possono avere le stesse difficoltà dei minori, alcuni hanno anche problemi con la droga, la criminalità o il lavoro”, attesta l’Istituto Superiore di Sanità sul suo sito a proposito di questo disturbo. Si parla di “aumentata probabilità di commettere reati di vario genere e, conseguentemente, di andare incontro a problemi giudiziari”. I dati direbbero che un uomo con ADHD ha il 37% di probabilità di commettere un reato rispetto al 9% di un maschio che non ha questo disturbo. Per le donne il rapporto è 15% contro 2%. “Connessione scioccante di cui nessuno vuole parlare: ADHD e reati”, scrivono in Gran Bretagna. Tra il 25 e il 40% dei detenuti avrebbe l’ADHD; la charity inglese ADHD Action si attesta al 30%. Su BMC Psychiatry del 2018 (rivista del gruppo Nature) ci si ferma al 25%, segnalando “un’allarmante sovrarappresentazione” visto che la media nella popolazione si stima sia del 4-6%. Stesse percentuali in varie meta-analisi di studi. Dati tanto allarmanti che l’intergruppo parlamentare (membri di tutti i partiti) di Westminster hanno proposto da poco che “tutte le persone tra i 12 e i 20 anni arrestate per “crimini impulsivi” (risse, furti di biciclette, furti nei negozi ecc.) siano sottoposte a test/screening per l’ADHD”. Le recidive, la possibilità di reiterare il reato, sono assai alte se non vi è diagnosi e non si cerca di curarli, dicono anche al ministero della Giustizia inglese. “La mancanza di diagnosi negli adulti - oggi quasi impossibile in Italia - porta al peggioramento delle condizioni, aumento delle dipendenze e nei casi più estremi ai problemi con la legge”, avverte anche Patrizia Stacconi, presidente dell’associazione AIFA onlus che invano cerca udienza dal ministro della Salute Giulia Grillo (lettera aperta inviata ad ottobre 2018, mai ricevuta risposta) insieme alla Società di Psichiatria (Sip) e alla SIPAD (Società italiana patologie da dipendenza) Andreas Conca, Direttore del Servizio di Psichiatria del Comprensorio di Bolzano e Coordinatore del Servizio Provinciale di Psichiatria e Psicoterapia dell’Età Evolutiva, tra i pochissimi centri di riferimento e d’eccellenza per l’ADHD nell’adulto, si sofferma sulla “sofferenza spesso negata” e sulla forma diversa che assume nell’adulto il disturbo. “Si riduce l’iperattività e aumenta a dismisura l´inattenzione, l’impulsività e l’ansia, si intrecciano altre patologie, dell’umore e d´ansia, ai disturbi di personalità, dall’anoressia nervosa a disturbi ossessivo-compulsivi. C’è mancanza di autostima, solitudine cronica con conseguenze pesanti fino a comportamenti antisociali e suicidari. Spesso la cocaina viene usata come automedicazione, avendo un effetto paradossale su queste persone, li calma”. Sulle carceri in Italia vi sono rarissime ricerche. Tra le più recenti una sul carcere di Rovigo (oltre 230 detenuti) confermerebbe il dato internazionale: un 30% di reclusi sarebbe ADHD. I dati che Conca fornisce sulla sua attività sono nel complesso più che allarmanti: “Il 90% dei nostri pazienti adulti, praticamente arrivano da tutta Italia - quasi un pellegrinaggio - non ha mai ricevuto una diagnosi. Sono dati di dieci anni che stiamo elaborando”. Numeri analoghi negli altri centri d’eccellenza. Persone che soffrono mai diagnosticate e che si possono finalmente riconoscere: non sono stupidi o diversi, hanno una malattia. “Già nominarla è terapeutico - dice Conca - Pazienti con associate sindromi varie, spessissimo vittime di forti dipendenza da droghe, alcol o internet o gioco d’azzardo. Vanno seguiti in un percorso terapeutico olistico: farmaci, psicoterapie, inserimento sociale”. Sul fronte delle dipendenze negli adulti ADHD (ma anche nei teenager) è Fabio Lugoboni, direttore di Medicina delle dipendenze di Verona a fare il punto e rilanciare la questione: “Nel nostro servizio da alcuni anni, insieme ai test di routine su ansia e depressione abbiamo avviato anche lo screening sull’ADHD. Risultano positivi tre su dieci, il 30%. E tra i pazienti che abbiamo in carico soltanto ad uno era stato diagnosticato nell’infanzia”. Se chi ha un disturbo da dipendenza soffre anche di ADHD, cambia la prospettiva. “In caso di mancata diagnosi - avverte Lugoboni - è oltremodo probabile il fallimento terapeutico. Ma nei SerT (Servizio per le Tossicodipendenze) praticamente nessuno fa un semplice screening dell’Oms, “eppure dura tre minuti, sei domande. Ha un’attendibilità di oltre il 70 per cento. Nel caso poi si deve passare a test mirati con Risonanza magnetica e specialisti neuropsichiatri per una diagnosi”. Anche Lugoboni, per la sua vasta esperienza, dice che nella psichiatria l’ADHD è ignorato o trascurato. Sembra che il 50% dei ragazzi ai quali è stato diagnosticato l’ADHD in infanzia svilupperà un forma di dipendenza, spesso da cocaina. “In realtà - spiega lo specialista - l’ADHD nell’adulto porta verso comportamenti impulsivi, verso l’azzardo, l’alcolismo e tossicodipendenze da stimolanti, cocaina in primis che su questi pazienti ha un effetto calmante. Sono individui che ci mettono meno tempo a diventare compulsivi e hanno più difficoltà a smettere. Sono facili nicotino-dipendenti ma anche da benzodiazepine. Assumono enormi quantità di ansiolitici. E, a conferma, anche negli screening dei servizi francesi ritorna un 30% di ADHD nei pazienti con disturbi da dipendenze”. “Il fatto è che non c’è formazione all’università, l’ADHD è tralasciata, nulla o poco ne sanno anche i pediatri e i medici di famiglia”, insiste Conca da Bolzano. Fare screening e diagnosi corrette, ripete da Verona Lugoboni. I primi segni si hanno a tre anni, ma una diagnosi si può fare dai sei anni. E su cento bimbi diagnosticati la metà ne esce con interventi multimodali, un quarto risolve con la crescita. L’ultimo quarto arriva all’età adulta con il disturbo. Le ricerche e le analisi sulle cure sono controverse. Sul sito dell’Iss (dove ancora appare nella pagina ADHD come responsabile Pietro Panei, da tempo in pensione), le informazioni sembrano rappresentare una realtà idilliaca di servizi e cure. Il contrario delle realtà, come si è visto. Gran Bretagna. Il detenuto Lewis che leggeva favole ai suoi bambini di Michele Farina Corriere della Sera, 27 marzo 2019 Un programma britannico consente ai prigionieri di registrare la loro voce e così sentirsi vicini ai figli. Il primo giorno di libertà, il primo minuto fuori di prigione, Lewis Hardy sapeva che cosa fare. Era la stessa cosa che per mesi, una volta alla settimana, aveva fatto dietro le sbarre, la cosa che l’aveva mantenuto vivo, però finalmente dal vivo: leggere una storia ai suoi figli. Una favola della buona notte: un’avventura del Gruffalo, o un fumetto della serie Marvel. L’esistenza in carcere “così stressante - racconta Hardy alla Bbc. Ti senti raffreddare dentro, a poco a poco. Ti manca la famiglia, vivi una tensione continua e devi stare attento a non pestare i piedi agli altri. Ma ogni volta che io entravo in quello studio per la registrazione, mi sentivo rinascere”. E i suoi bambini, di 5 e 6 anni, lo sentivano vicino: quando ascoltavano il cd o guardavano il dvd, “mi hanno poi raccontato che chiudevano gli occhi prima di addormentarsi ed era come se fossi là, con loro, nella stanza”. A casa, come i papà normali dei compagni, non in una cella del penitenziario di Dartmoor a scontare due anni per violenza durante una rissa. Lewis Hardy racconta che leggere storie della buona notte l’ha aiutato a sopravvivere al carcere, ad uscire migliore di come era entrato. “Prima, non avevo mai passato tempo a leggere con i miei figli”. Dopo aver scoperto il programma “Storybook Dads”, Lewis è arrivato a disegnare per loro fumetti di sua invenzione. I “papà delle favole” vivono in circa cento prigioni della Gran Bretagna. Fra tutti, producono dalle 5 mila alle 6 mila storie all’anno. Tutto è partito 16 anni fa, proprio nel carcere di Dartmoor, grazie a una donna che aveva studiato radiofonia. Come volontaria, Sharon Berry aveva contribuito a mettere in piedi una stazione radio nel carcere di Channing Wood. E lì aveva condiviso la sofferenza di tanti detenuti, in particolare dei papà con figli piccoli. Così le è venuta l’idea delle favole, racconta Berry alla Bbc. In un mondo come quello carcerario, percepito come teatro di machismo estremo, “leggere libri per i bambini ha permesso a tanti uomini di far uscire il loro lato vulnerabile”. Sharon ha visto detenuti scoppiare in lacrime mentre registravano per i loro bambini piccoli messaggi introduttivi a Robin Hood o Hansel e Gretel. Ha visto anche uomini fieri, orgogliosi del fatto che i figli portassero a scuola le storie con la voce dei loro papà lontani. Da parte loro, i piccoli figli dei Ristretti (i detenuti nel gergo carcerario) “non si sentono abbandonati”. Certo è una fragile magia, quella racchiusa negli audiolibri provenienti dal Pianeta P (come penitenziario). Una magia che può durare nel tempo: Lewis Hardy è fuori da cinque anni e non ha mai smesso di leggere con i suoi figli. Con il più grande stanno avanzando nella saga di Harry Potter. “Non siamo ancora arrivati alle pagine dove si parla della prigione di Azkaban, ma quando ci arriveremo sarà l’occasione per parlare con mio figlio della mia esperienza”. Lewis non è più tornato “dentro”: lui che ha sempre avuto problemi nel contenere gli scatti d’ira, in questi anni non ci è più cascato. Si è inventato un hobby da allenatore di boxe, lavora come operaio. E appena può legge libri con i suoi figli: un papà da favola. Turchia. Il processo-farsa che ha condannato venti avvocati dell’associazione Chd di Ezio Menzione* Il Dubbio, 27 marzo 2019 È un processo quello in cui la Corte viene sostituita da altra solo perché ha osato rimettere in libertà alcuni imputati detenuti da più di un anno? Ed infatti immediatamente arresta di nuovo gli imputati liberati il giorno prima. È un processo quello in cui la Corte chiamata a subentrare si caratterizza per aver comminato nei processi politici pene doppie rispetto a quelle generalmente comminate per uguali reati di opinione? Il riferimento specifico è ai processi degli “Accademici per la Pace”, che di solito vengono condannati a 15 mesi, ma da questo stesso Presidente lo sono a due anni e mezzo o tre. È un processo quello in cui le prove d’accusa consistono in dichiarazioni di due collaboranti e quattro testi anonimi? Tutti assunti in video conferenza con volto pixelato e voce alterata per non svelarne l’identità. È un processo quello in cui tali “testi” non possono essere controesaminati dalla difesa, che viene estromessa se protesta sul punto? E vengono invece “controesaminati” dal Presidente che suggerisce loro nomi, fatti e date se non li ricordano. È un processo quello in cui si utilizzano “documenti digitali” proposti dall’accusa senza che se ne conoscano gli originali né il modo in cui sono entrati nell’indagine? È un processo quello in cui tutte, ma proprio tutte, le prove a difesa vengono rigettate? E ciò perché proposte fuori termine rispetto a quello fissato da un’ordinanza disposta fuori udienza e non notificata alle parti e comunque perché sarebbero inutili in quanto il quadro offerto dall’accusa è ormai chiaro e bastevole. È un processo quello in cui l’accusa non procede alla requisitoria (ma pare l’abbia fatto brevemente con uno scritto che non è dato conoscere alla difesa) e ai difensori viene negata la parola, anzi vengono allontanati dall’aula? È un processo quello in cui, in assenza dei difensori perché allontanati, non si procede nemmeno a chiamarne uno d’ufficio? Eppure la legge lo prevede espressamente, ma questo avrebbe comportato di dover posporre di qualche giorno l’udienza di discussione. È un processo quello in cui si intende chiudere tutti gli ovvii adempimenti in una sola udienza per evitare che una Corte superiore possa accogliere frattanto l’istanza di ricusazione che gli imputati avevano ritualmente e fondatamente avanzato? Già, perché qui si colloca la richiesta di ricusazione della Corte. In Turchia essa viene decisa in prima battuta dalla stessa Corte che ne è investita. Se rigettata, se cioè l’oste sostiene che il vino è buono, la parte ha sette giorni di tempo per le proprie deduzioni in appello e il giudice del secondo grado ha poi tre giorni per decidere. Nel frattempo la Corte ricusata può non solo portare avanti il processo, ma anche emettere sentenza. Violazioni queste, tutte quante, che fanno rabbrividire e concludere che un tale processo è solo una tragica farsa. Ci si affaccia rabbrividendo sull’abisso oscuro di un tale modo di intendere la giustizia, anzi di negarla. È ciò che è avvenuto nel processo contro 20 avvocati dell’associazione progressista CHD svoltosi in questi giorni nell’aula bunker della zona militare di Silivri. Tanto più si rabbrividisce di fronte alle modalità concrete con cui un simile processo viene “amministrato”, in un’aula in cui l’ordine è tenuto non dalla Polizia ma dall’esercito. Gli imputati vengono allontanati con la forza. Alle proteste dei difensori, anch’essi vengono buttati fuori. Rimangono solo due parlamentari nell’apposito settore dell’aula e gli osservatori internazionali, perché anche il pubblico decide di allontanarsi gridando slogan. In questa situazione qualunque presidente non prevenuto, ma anche solo saggio avrebbe rinviato l’udienza, ma invece questo no, vuole continuare il processo in assenza di tutti i difensori. I quali hanno cominciato a rumoreggiare e a battere ad una porta per poi sfondarla e riversarsi in aula in una cinquantina. I soldati si sono precipitati a fronteggiare gli avvocati, mentre un altro plotoncino si è schierato in difesa della corte: la distanza è di un centinaio di metri o più. Si è avuto qualche scontro e qualche naso rotto fra gli avvocati. Gli osservatori internazionali si sono proposti come mediatori, ma il presidente era indaffarato a buttar giù un provvedimento con cui rigettava la ricusazione e stabiliva che il giorno dopo gli avvocati sarebbero stati ammessi e si sarebbe ripreso con la discussione finale. La leggeva a rotta di collo e poi scappava. Al momento in cui la Corte si ritira e poi quando dopo un’ora legge la sentenza, in aula ci sono solo due imputati non detenuti, non gli altri né i difensori, i quali hanno deciso di non presentarsi dato che il giorno prima erano stati allontanati con la forza e non avevano potuto né parlare né concludere. C’è una quindicina di Osservatori Internazionali che assistono allo scempio del diritto di difesa e dello stato di diritto. Fra loro e la Corte circa 150 soldati. La sentenza è nota ed era prevedibile, date le premesse: condanne da 5 a 18 anni per reati di opinione. Nel caso specifico, trattandosi di avvocati, per aver espletato il proprio dovere di difensori. Ci si può indignare ma prima ancora si rimane allibiti. Si può darsi da fare, ognuno nel proprio ambito, perché in Turchia le cose cambino. Ma forse è ben difficile che nell’attuale regime turco ciò avvenga. Perché questa giustizia è funzionale all’autoritarismo statuale. Tornano dunque a proposito le parole di Selgiuk Kosaacli, presidente del CHD, a conclusione del suo intervento di ricusazione della Corte: “In questi lunghi 17 mesi di detenzione ho incontrato, nella cella accanto alla mia, un alto magistrato che in passato mi aveva pesantemente condannato”, dice “Ma facciano attenzione questo presidente e anche i due che gli siedono accanto per controllare in perenne silenzio. La nostra ricusazione investe non solo questa Corte, ma tutto il circolo che la sostiene. Attenzione, presidente, a non esagerare e a diventare scomodo anche per chi ti ha messo lì perché tu ratifichi una decisione già presa da altri”. “Voi siete altamente immorali”. *Osservatore Internazionale per l’Ucpi Silvia Romano, braccio di ferro sulla missione in Kenya: “Fateci indagare” Corriere della Sera, 27 marzo 2019 La volontaria è stata rapita il 20 novembre. L’ultima richiesta dei carabinieri del Ros per essere autorizzati a Nairobi è stata trasmessa tre giorni fa. L’ultima richiesta per essere autorizzati a inviare un pool di investigatori a Nairobi è stata trasmessa via Interpol tre giorni fa. Ma, ancora una volta, dalle autorità locali non è giunta alcuna risposta. E così si è inasprito lo scontro tra Italia e Kenya sulla sorte di Silvia Romano, la ragazza di 23 anni volontaria per la Onlus “Africa Milele”, rapita il 20 novembre scorso mentre si trovava nel villaggio di Chakama. Anche perché dallo Stato africano non è giunta alcuna notizia sulla sorte della giovane e con il trascorrere dei giorni aumentano i timori, alimentati del resto anche dalle dichiarazioni di una settimana fa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Posso dire che c’è stato un momento in cui sono stato confidente che si potesse avere un risultato positivo a portata di mano. I gruppi criminali sono stati individuati, ma non siamo ancora riusciti a venirne a capo e a raggiungere quel risultato per cui lavoriamo da mesi”. Le lettere - La prima istanza era stata presentata dai carabinieri del Ros appena qualche ora dopo la cattura di Silvia. In una lettera inviata al capo della polizia keniota, il generale Pasquale Angelosanto - d’accordo con il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e con il pm Sergio Colaiocco - aveva chiesto di poter partecipare alle indagini con un gruppo di investigatori specializzati che sarebbero partiti da Roma. Non aveva ricevuto alcuna risposta e così in questo periodo sono stati inviati numerosi solleciti, anche sfruttando i canali diplomatici. Tentativi che non hanno mai avuto riscontro, nonostante le difficoltà mostrate dagli investigatori locali che avevano assicurato di poter chiudere la vicenda in pochi giorni e invece si sono dovuti arrendere di fronte al fallimento delle indagini. E questo nonostante l’arresto di Ibrahim Adan Omar, uno dei sequestratori catturato nel villaggio di Bangale, nella contea di Tana River. L’interrogatorio - Secondo le notizie arrivate dalla polizia locale, l’uomo avrebbe rapito Silvia insieme ad altri due complici che poi sarebbero sfuggiti alla cattura portando con sé la giovane. Le autorità avevano assicurato di aver messo una taglia da un milione di scellini sulla testa di Yusuf Kuno Adan e Said Adan Abdi, ma senza poi ottenere alcun risultato. Anzi, le notizie arrivate all’intelligence e agli investigatori sono state sempre più scarne fino ad arrivare allo stallo di questi giorni. E ciò nonostante il rapitore avesse anche fornito alcuni elementi sulla possibile destinazione. In particolare aveva raccontato che Silvia poteva essere stata trasferita nella zona tra il fiume Tana e il suo affluente, a nord di Garsen, a 80 chilometri da Malindi. Alcune persone sostenevano di averla vista con i “capelli rasati e ferita a una gamba”. Le verifiche - Proprio per poter verificare questi dettagli, parlare con eventuali testimoni e soprattutto ricostruire gli spostamenti della giovane e della banda, i carabinieri del Ros insistono dunque per andare in Kenya, come del resto è sempre accaduto in passato in occasione di altri rapimenti di italiani all’estero. Nelle lettere è stato sottolineato come la cooperazione tra investigatori potrebbe rivelarsi determinante anche per verificare l’ipotesi che Silvia sia stata “venduta” dalla banda a un gruppo terroristico di al-Shabaab e trasferita in Somalia. Ma durante le trattativa a livello diplomatico si è evidenziato che una presenza dei carabinieri - oltre a quella dell’intelligence che agisce su canali riservati - potrebbe fornire elementi di verifica e un aiuto nell’accertamento di alcune informazioni che erano state raccolte già all’inizio di questa drammatica vicenda. Pressioni finora senza esito, ma magistrati e carabinieri non sembrano intenzionati ad arrendersi. L’Algeria secondo l’esercito: via Bouteflika, non il sistema di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 27 marzo 2019 Il capo di stato maggiore Gaid Salah chiede l’applicazione dell’articolo 102 della Costituzione: “Destituire il presidente per garantire la stabilità”. Nessuna apertura alle richieste dei manifestanti. Ieri nuove proteste degli studenti. Il capo di stato maggiore, generale di corpo d’armata, Ahmed Gaid Salah ha deciso di rompere l’impasse in cui si trovava il regime algerino dopo oltre un mese di proteste oceaniche “suggerendo” l’applicazione dell’articolo 102 della Costituzione. “L’unica soluzione che garantisce il mantenimento della stabilità politica del paese”, secondo il generale. L’applicazione dell’articolo 102, che permette la destituzione del presidente della repubblica quando, a causa di una malattia grave e duratura, si trova nell’impossibilità di esercitare le sue funzioni, era stata sollecitata da diverse parti nei mesi scorsi, anche per evitare che Bouteflika si presentasse, o fosse presentato, per un quinto mandato. Ora, togliere di mezzo Bouteflika per non mettere in discussione il sistema non sembra essere la soluzione, visto anche il fallimento del premier incaricato, Noureddine Badaoui, di formare un nuovo governo. Gaid Salah, dopo diverse dichiarazioni sibilline, ieri da Ouargla, con un discorso diffuso dalla tV pubblica (il cui direttore, Toufik Khelladi, è stato appena sostituito mentre i dipendenti continuano a manifestare contro la censura) ha fornito “una soluzione che si inscrive esclusivamente nel quadro costituzionale”. La soluzione del capo di stato maggiore non ha interrotto le proteste che anche ieri sono continuate e hanno avuto come protagonisti soprattutto gli studenti. Il generale non sembra infatti attribuire alla protesta - che ha dimostrato una grande capacità di mobilitazione, di maturità e di autocontrollo - la rappresentanza che merita. “A dispetto del carattere pacifico e del civismo che caratterizzano queste marce finora, che dimostra la grandezza del popolo algerino, la sua coscienza e la sua maturità, e che ha tenuto a preservare l’immagine che contraddistingue l’Algeria tra le nazioni, è nostro dovere sottolineare che queste manifestazioni potrebbero essere sfruttate da parti ostili e malintenzionate, sia all’interno che all’esterno del paese, che usano manovre sporche per attentare alla stabilità del paese. Disegni spregevoli che il popolo cosciente e attento saprà far fallire”, ha dichiarato Ahmed Gaid Salah. La “proposta” è stata accettata dal Raggruppamento nazionale democratico (Rnd), uno dei due maggiori partiti di governo, mentre il Fronte nazionale di liberazione (Fln) mentre scriviamo è riunito per decidere. La prima risposta all’azione del generale è arrivata dal Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rcd) che l’ha definita “un tentativo di colpo di stato contro la volontà popolare”. Mentre “è una decisione conforme alla costituzione che evita al paese di entrare in un periodo di vuoto costituzionale”, per Amar Saadani, ex-segretario generale del Fln. Nei giorni scorsi Saadani aveva lanciato accuse molto pesanti nei confronti dell’ex capo di governo Ouyahia, che, secondo lui, avrebbe scritto le lettere diffuse a nome del presidente e soprattutto sarebbe stato l’istigatore di manovre orchestrate contro il popolo. Il clima è estremamente avvelenato e i tentativi di depistare il movimento di protesta non risparmiano colpi: innanzitutto attraverso i social, che lanciano appelli allo sciopero generale senza tener conto del fatto che si tratta di un mezzo estremo che deve essere ben valutato, o con provocatori che si infiltrano nelle manifestazioni per lanciare slogan che non riflettono le posizioni degli organizzatori, che però finora sono riusciti ad arginare questi tentativi. Ora il capo di stato maggiore interviene - come se non fosse implicato nelle scelte fatte finora dal regime - per dare la sua soluzione, che peraltro non compete all’esercito. Secondo l’articolo 102 è il Consiglio costituzionale che deve verificare l’incapacità del presidente e proporre al parlamento di dichiarare lo stato di impedimento, con una maggioranza dei due terzi. Sarà il presidente del Senato, Abdelkader Bensalah, ad assumere l’interim e se, dopo 45 giorni, l’impedimento sarà confermato, dovranno essere organizzate nuove elezioni entro 90 giorni. Ma i problemi da risolvere per garantire elezioni libere e trasparenti sono molti. Questo percorso non tiene però conto della protesta, che molti definiscono insurrezione, che non accetterà la continuità del sistema senza Bouteflika. Nei giorni scorsi la presidenza della Repubblica aveva contattato l’ex-presidente Liamine Zeroual, che aveva proposto l’applicazione dell’articolo 102, per assumere il potere ad interim, a capo di un gruppo di “saggi”. Tutte ipotesi calate dall’alto e alcuni dei nomi proposti come personalità da coinvolgere hanno già declinato l’invito. Non tutti i partiti hanno reagito alla proposta di Gaid Salah ma si può dire che mentre i più zelanti sostenitori di Bouteflika plaudono, gli oppositori la respingono. Rifugiati nicaraguensi in Costa Rica, occorre l’aiuto internazionale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 marzo 2019 Se c’è un Paese che sta dando un buon esempio per quanto riguarda l’accoglienza dei rifugiati, è la Costa Rica. Il paese centroamericano ha accolto decine di migliaia di persone fuggite dal Nicaragua a seguito della repressione ordinata dal presidente Daniel Ortega nei confronti delle proteste dell’ultimo anno. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nella Costa Rica si trovano attualmente più di 42.000 nicaraguensi bisognosi di protezione internazionale: 23.000 hanno presentato domanda d’asilo politico. Nel lungo periodo, tuttavia, la situazione rischia di farsi complessa. Nel quartiere La Carpio della capitale San José, i richiedenti asilo nicaraguensi vivono in alloggi insalubri e sovraffollati, con accesso molto limitato ai servizi sanitari e all’istruzione e difficoltà a trovare un lavoro a causa della lentezza delle procedure per l’ottenimento dell’asilo politico. Il presidente costaricano Carlos Alvarado si è impegnato a presentare un piano d’azione per venire incontro ai bisogni dei rifugiati nicaraguensi. La comunità internazionale può fare la differenza: o finanziare quel piano o lasciare che le cose peggiorino.