Legittima difesa, finale col botto al Senato di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 26 marzo 2019 Domani l’ok definitivo. Salvini invita ad assistere alla votazione dalla tribuna di palazzo Madama quattro persone che hanno sparato e ucciso, tre assolte una ancora sotto processo. La festa al saloon della repubblica è in programma domani. Non potranno entrare armati, il saloon è pur sempre il senato, ma non mancheranno un bel po’ di quei signori che hanno sparato e ucciso per difendere le loro proprietà. Gli stessi che la Lega ha voluto elevare a testimonial della “sua” legge sulla legittima difesa che allarga ancora le maglie della riforma di tredici anni fa, firmata dall’allora ministro della giustizia leghista Roberto Castelli. Già, perché in materia la competenza è ovviamente del guardasigilli, anche se il grillino Alfonso Bonafede adesso fischietta e i 5 Stelle tutti si dicono “non entusiasti” ma in ogni caso obbedienti. Qualche assente dissidente ci sarà, ma niente di preoccupante per Salvini. Che infatti prepara la festa ostentando tranquillità: “Comunque abbiamo l’opposizione intelligente di Forza Italia e Fratelli d’Italia”. Sull’intelligenza si può discutere, sull’opposizione non più: è infatti il terzo voto pro Salvini che gli alleati del centrodestra esprimeranno apertamente - non più limitandosi ad astensioni benevole - dopo il decreto sicurezza e il no alla richiesta di processare il ministro dell’Interno per la Diciotti. Il certificato di una nuova maggioranza, naturalmente solo su quello che interessa a Salvini. Nella prima votazione al senato anche il Pd votò a favore dell’articolo 2 della legge, per “coerenza” con il voto della precedente legislatura in cui erano stati i dem a proporre la categoria del “grave turbamento” come causa giustificativa della reazione armata. Poi alla camera il partito ha corretto il giudizio votando sempre contro, con Leu. La decisione di convocare sulla tribuna del senato ad applaudire la Lega quattro persone che hanno sparato e ucciso è certamente criticabile, e irrispettosa di un dramma che è comunque anche in parte di chi impugnava l’arma. Ma non può sorprendere, visto che Matteo Salvini e i suoi hanno evocato i nomi di chi si è fatto giustizia da solo a ogni passaggio parlamentare del testo di legge. Chiamandoli persino in audizione in commissione per dare sulla voce a magistrati e avvocati contrarissimi alla riforma. Un doppio equivoco: la giustizia amministrata nel nome della vittima, e della vittima sbagliata. Il ministro è andato persino a trovare un imprenditore armato che non potrà essere al senato, perché in carcere con una condanna definitiva per tentato omicidio. Il relatore Ostellari, responsabile della clamorosa svista che ha costretto la legge a tornare in terza lettura al senato, ha voluto dedicare i suoi sforzi all’ex parà della Folgore Franco Birolo che sparò nel suo negozio e che è stato infine assolto. Con lui domani dovrebbero esserci Graziano Stacchio benzinaio, Francesco Sicignano pensionato e Mario Cattaneo oste. È l’unico ancora sotto processo, la nuova legge può aiutarlo. Non ce ne sono molti come loro. Secondo i dati del ministero della giustizia comunicati al senato, nel periodo 2013-16 sono stati appena quattro i processi per eccesso colposo di legittima difesa e una sola condanna (ladro in fuga colpito alle spalle). Del resto lo riconosce anche implicitamente la legge che adesso si approva, visto che nel capitolo per il gratuito patrocinio - una novità- di chi si difende armato nel suo domicilio sono stanziate somme necessarie al massimo per una decina di casi. È di questo che si occupa la legge bandiera di Salvini. Al quale ovviamente importa solo di riuscire a piantarla. A bersaglio. “Sangue infetto”: i morti ci sono, i colpevoli no di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2019 Scandalo emoderivati, assolti l’ex Dg del servizio farmaceutico nazionale Poggiolini oltre ai funzionari del gruppo Marcucci. Nell’aula 214 del Tribunale di Napoli sono appena scoccate le 15 e l’avvocato Luigi Ferrante accenna un sorriso dopo la sentenza di assoluzione per il processo Sangue Infetto: “Se telefonerò al mio cliente, Duilio Poggiolini, per comunicargli la buona notizia? Non credo, sono anni che non lo sento. Vive in una casa di riposo, non sta bene, presentai anche un’istanza, respinta, per non farlo processare perché non era in condizione di poter affrontare il dibattimento”. L’ex Dg del servizio farmaceutico nazionale Poggiolini alla soglia dei 90 anni è ormai un ex re Mida della sanità, per lui dopo le condanne di Tangentopoli e le confische, si è aperto l’esilio dell’oblio. Per il suo avvocato, quello concluso ieri a Napoli con l’assoluzione dalle accuse di concorso in omicidio colposo “perché il fatto non sussiste” era un processo che Poggiolini non doveva neppure subire. “Nonostante la normativa in questione fosse chiarissima, e riferisse la responsabilità dei controlli sugli emoderivati ad organi e istituzioni diverse dalla direzione generale del servizio farmaceutico - afferma Ferrante - sono stati necessari ben 23 anni per liberare il mio assistito da una contestazione così pesante”. Poggiolini e gli altri sette imputati, tra cui ex tecnici e funzionari del gruppo farmaceutico Marcucci, difesi dagli avvocati Alfonso Maria Stile, Massimo Di Noia e Carla Manduchi, erano finiti alla sbarra dopo una lunga e complicata inchiesta iniziata nel 1996 e rimpallata tra più procure sulle migliaia di emofiliaci morti in seguito alle infusioni di sangue infetto da Hiv ed epatite, sacche di emoderivati ricavati dal plasma di donatori mercenari esteri, diffuse negli anni 70 e 80 dall’azienda fondata dal capostipite, Guelfo Marcucci, scomparso poco dopo il rinvio a giudizio. Altrimenti sarebbe stato assolto anche lui. Il giudice monocratico Antoni o Palumbo ha assolto tutti con formula ampia e tra novanta giorni ne apprenderemo le motivazioni. A credere nella colpevolezza degli imputati erano rimasti i familiari di nove deceduti, parti civili assistite dagli avvocati Stefano Bertone ed Ermanno Zancla. Non ci credeva la procura di Napoli: finite in soffitta le accuse di epidemia colposa (archiviate dal Gip) anche il pm Lucio Giugliano aveva chiesto l’assoluzione per l’omicidio colposo, ritenendo impossibile da provare il nesso di causalità tra le trasfusioni e la morte degli emofiliaci, sopraggiunta in qualche caso moltissimi anni dopo. E quasi certamente non ci credeva più neanche il ministero della Salute, che si era costituito parte civile chiedendo 55 milioni di euro di risarcimento danni e aveva depositato la consulenza di un medico. Nel corso del processo l’avvocatura dello Stato si è defilata, fino a rinunciare alle conclusioni. Che per il codice di procedura penale fa scattare la rinuncia al diritto a chiedere il risarcimento. Non si gioca con la giustizia, discutiamone al Festival di Palmi di Alessia Candito Corriere della Sera, 26 marzo 2019 Dall’11 al 13 aprile, il Festival di Diritto e Letteratura affronta (fuori dall’aula...) il tema dell’azzardo e delle scommesse. Partendo dalla letteratura, fino alla “mandrakata” di Gigi Proietti. Previsto anche un workshop di scrittura creativa, a cura della Scuola Holden. Possono diritto e letteratura parlarsi ed insieme aprirsi alla società? Giunto alla sua sesta edizione, il “Festival Nazionale Diritto e Letteratura” - a cura del professor Daniele Cananzi e dal magistrato Antonio Salvati - sceglie il gioco come spunto di riflessione collettiva e dall’11 al 13 aprile propone una tre giorni fitta di incontri, riflessioni, proiezioni ed eventi per riflettere su un tema che va ben oltre il tavolo verde. Il titolo dice tutto: “Il dado è tratto”. Baricentro della manifestazione, la cittadina di Palmi (Rc), con puntate in tutta la Calabria, e appuntamenti nei licei delle maggiori città italiane, da Milano a Napoli. Una riflessione interdisciplinare che mette insieme avvocati, giudici, intellettuali, ma soprattutto cittadini. Indagato in letteratura da penne che vanno dal maestro russo Fedor Dostoevskij al magistrato, politico, scrittore Gianrico Carofiglio, celebrato al cinema da registi e sceneggiatori di ogni tempo, per gli organizzatori il gioco d’azzardo diventa anche concreto e reale nella quotidianità delle aule di giustizia e lì deve essere governato. Il processo - spiegano - è un gioco di specchi e di ruoli in cui il giudice, grazie al diritto, può e deve rendere oggettivo un processo di valutazione personale, sfuggendo all’azzardo dell’arbitrarietà. Sono questi i temi che il Festival si propone di esplorare nel corso degli incontri-dibattito, ma anche di momenti di approfondimento più nuovi e forse maggiormente accessibili al grande pubblico, come il cineforum realizzato in collaborazione con il circolo del cinema “Vittorio De Seta” o il workshop di scrittura creativa gestito insieme alla Scuola Holden di Torino, fondata da Alessandro Baricco. In programma torna anche il “processo simulato”, un giudizio reale ad un personaggio immaginario, affrontato non da attori, ma da tecnici del diritto. Sul “palco” di una vera aula di giustizia, la “Scopelliti” del tribunale penale di Palmi, andrà a giudizio Mandrake, l’incallito scommettitore impersonato da Gigi Proietti nel film Febbre da cavallo. A difenderlo sarà il giudice Antonio Salvati, mentre la pubblica accusa sarà rappresentata da Erminio Amelio, pm di punta della Procura di Roma. Il giudizio toccherà invece a Giacomo Ebner, attualmente in servizio presso il dipartimento Giustizia minorile e autore del caustico “Dodici qualità per sopravvivere in tribunale (e non è nemmeno certo)”. Ad arricchire la tre giorni ci sarà poi l’incontro con l’avvocato tunisino Abdelaziz Essid, insignito con il Consiglio Nazionale Forense del Premio Nobel per la Pace 2015. Un’iniziativa - spiegano gli organizzatori del Festival - che vuole essere un “ponte tra culture e tradizioni giuridiche e letterarie solo apparentemente lontane ma in realtà vicine, e non solo geograficamente, come quelle che accomunano i Paesi del Mediterraneo”. Ma quest’anno il festival rilancia e raddoppia ed anche a maggio propone tre appuntamenti, fra cui “Calabria, Sud: law and humanities”, l’inizio di un percorso di “riscoperta” di autori calabresi meno conosciuti o di classici dimenticati che indaghino il rapporto fra diritto, giustizia e letteratura “perché se è provincialismo non guardare al di là del proprio cortile di casa, è egualmente provinciale ritenere che sia degno di nota e di attenzione solo ciò che proviene da “altrove”, da rotte lontane dalle nostre traiettorie meridionali”. Tutte le informazioni sulla pagina Facebook del Festival, e sul profilo twitter@festdl. Battisti ammette i quattro omicidi: “Era una guerra civile, chiedo scusa” di Paolo Colonnello La Stampa, 26 marzo 2019 La confessione potrebbe convertire la sua pena da ergastolo a 30 anni. L’ex militante dei Pac confessa quello che aveva negato per 37 anni. “Una scelta faticosa”. La confessione di Cesare Battisti non era scontata e nemmeno così semplice: “E’ vero, tutto ciò che c’è scritto nelle mie sentenze di condanna lo confermo: Santoro e Sabbadin li ho uccisi io, di Torreggiani e Campagna sono stato il mandante. Chiedo scusa a tutti”. Una frase che da sola, spazza via in un colpo anni di difese pelose, di appelli intellettuali poco informati, di stizzite considerazioni sulla correttezza del sistema giudiziario italiano. Quando invece sarebbe bastato rileggersi con attenzione quelle sentenze di cui ora lo stesso ex militante dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo) riconosce la giustezza. La confessione del sessantasettenne Battisti, resa dal carcere di Oristano questo week end, ha qualcosa di semplice e definitivo: restituisce alle vittime il rispetto, ristabilisce la verità storica della lotta al terrorismo e, soprattutto, zittisce per sempre chi ha paragonato la giustizia italiana - ma solo per il caso di Battisti, - a quella di una dittatura da regime sudamericano. Anche se Battisti, nel suo racconto, usa parole come “guerra civile”, “scelta di campo”, dimenticando che tra le sue vittime nessuno aveva idea di essere al fronte. La decisione di raccontare quello che aveva negato per 37 anni non è arrivata all’improvviso ma è stata “preparata” da lunghi colloqui con il suo avvocato, Davide Steccanella, penalista, scrittore e musicofilo. Finché, quando si è sentito pronto, Battisti ha chiesto di parlare con uno dei magistrati più anziani della Procura milanese, Alberto Nobili che con il terrorismo aveva combattuto veramente, una sorta di onore delle armi. Non ci sono state quasi domande: il magistrato si è seduto davanti all’ex latitante e lo ha invitato a raccontare. Un lungo lavoro di “rivisitazione” che, secondo il suo legale, è partito da lontano, forse fin dal giorno in cui Battisti ha cominciato a fuggire, evadendo dal carcere di Frosinone dove era stato rinchiuso dal 1979 al 1981. “Scappando, trovai un mondo completamente cambiato”, ha raccontato a verbale, ripercorrendo anche tutte le fasi della sua latitanza ma senza coinvolgere nessun altro: “Parlo solo delle mie responsabilità”. Dagli anni di piombo all’epoca dell’edonismo, in un soffio: “Il mio era un altro mondo che adesso non condivido, anche se riconosco - ha detto a verbale Battisti - che quel periodo della mia vita ha comportato conseguenze tragiche per tanti altri”. E’ certo un Battisti molto cambiato quello che l’altro ieri ha chiesto soprattutto notizie sul figlioletto, ha accolto il procuratore Nobili e la dirigente della Digos che l’aveva arrestato, Cristina Villa, con un sorriso timido, in jeans e maglietta, sbarbato come uno scolaretto. Lontano anni luce dal Battisti irriverente e spavaldo che compariva nelle foto dalla Francia o dal Brasile, in una latitanza protetta prima dalla “dottrina Mitterrand” poi dal “compagno” presidente Lula. “E’ stato faticoso prendere la decisione di confessare e chiedere scusa ai famigliari delle vittime ma dalla Francia o dal Brasile non avrebbe avuto senso. Da qui invece posso farlo”. E che si tratti di una confessione genuina, non c’è dubbio. “L’interrogatorio - spiega l’avvocato Steccanella - non è stato fatto per i benefici eventuali, la speranza è di restituire un’immagine giusta del mio assistito, che non è quel mostro che può colpire ancora come è stato descritto, ma è una persona che da 40 anni non ha più commesso delitti”. Davanti al tribunale di sorveglianza, ora potrebbe ottenere al massimo una conversione dei suoi 4 ergastoli in 30 anni di reclusione, nella speranza, tra una dozzina d’anni, di poter avere magari un permesso per uscire un giorno. La lotta armata produsse “danni irreparabili al ‘68 e alle sue utopie”, chiosa il procuratore Francesco Greco. Ma soprattutto ha prodotto dolore e solitudine a chi toccò viverla, da vittima o da carnefice. Battisti, giù la maschera di Benedetta Tobagi La Repubblica, 26 marzo 2019 Decenni di dinieghi, campagne innocentiste e attacchi contro la presunta iniquità dei giudizi sono andati in fumo in un momento. È bastato che l’ex terrorista Cesare Battisti si trovasse in carcere, e diventasse più consono alla sua linea difensiva riconoscersi colpevole dei quattro omicidi per cui è stato condannato anziché gridare alla persecuzione politica, per fare tabula rasa della narrazione che ha sedotto tanti intellettuali, per troppi anni, in Francia, in Brasile e in Italia. Come se nulla fosse. Possiamo finalmente considerare archiviate le filippiche pretestuose fondate sull’alterazione dei dati di fatto (dalle condanne che sarebbero state basate sulle parole di un solo pentito alle presunte violazioni dei diritti della difesa). Speriamo che scrittori, filosofi e simpatizzanti se ne facciano una ragione, ora che la loro icona ha riconosciuto di essere stato condannato da uno Stato democratico, con processi equi. Come ha detto Maurizio Campagna, fratello dell’agente di pubblica sicurezza Andrea, una delle quattro vittime di Battisti, le scuse suonano stridenti e artificiose, tanto sono fuori tempo massimo. Ben più delle scuse, conta il riconoscimento della verità dei fatti, accertata dalla magistratura. È questa che porta sollievo non solo alle vittime, ma anche a tutti i cittadini che hanno nella memoria, negli occhi e nel cuore le ferite della violenza terroristica che ha lacerato l’Italia per oltre un decennio. La mancanza di riconoscimento aggiunge, sempre, violenza psicologica alla violenza fisica già consumata. Negare alle vittime, e, in questo caso, alla società tutta, il riconoscimento della verità dei fatti significa costringerle a scivolare su un ghiaccio sottile. Significa rendere ancora più arduo rimarginare le ferite morali e simboliche. Se è necessario ingaggiare una battaglia costante perché la realtà dei fatti non venga mistificata, negata o manipolata, diventa molto arduo lasciarsi il passato alle spalle, come sanno fin troppo bene anche le vittime di mafia e del terrorismo stragista (ma anche chi ha subìto abusi). Il riconoscimento di un’evidenza troppo a lungo negata è un sollievo risanatore. Una “memoria condivisa” è impossibile, laddove ci sono stati vissuti così radicalmente diversi come quelli di chi, negli anni Settanta, mise mano alle armi e chi invece la violenza l’ha subita, chi si è aggrappato alla fatica della democrazia, anche davanti agli abusi di potere e agli omicidi. E non è nemmeno auspicabile, se per realizzarla si edulcora e si annacqua la verità complessa degli scontri che hanno percorso la nostra società. Uscendo però dal livello puramente soggettivo, la condivisione (o comunque il civile confronto, nel rispetto reciproco, oltre le diversità) è possibile sul piano della “memoria storica”, ossia sul terreno in cui si ragiona sui fatti avvenuti, sul contesto in cui si sono verificati, sulla loro qualificazione sociale, politica, giuridica, sul funzionamento della macchina giudiziaria. È su questo terreno che, finalmente, Cesare Battisti ha accettato di condividere con la stragrande maggioranza della società italiana, insieme alla correttezza della ricostruzione offerta in sede giudiziaria dei quattro omicidi e delle numerose rapine per cui è stato condannato, una lettura complessiva di ciò che è accaduto in Italia nei cosiddetti anni di piombo. Quanto sia sincero non è dato saperlo (e per la verità non è nemmeno così rilevante): resta comunque un passaggio importante, il fatto che uno dei personaggi-simbolo della visione apologetica o addirittura romantica del terrorismo di sinistra abbia riconosciuto gli effetti nefasti che l’azione armata di brigatisti e affini ha avuto sulla società, comprimendo le libertà e gli spazi d’espressione del dissenso. Riconoscere la correttezza dei processi che l’hanno condannato, prendere le distanze dal se stesso di allora, vuole dire abbandonare la rappresentazione (autoassolutoria) che descrive l’Italia degli anni Settanta come in preda a una fantomatica “guerra civile”. Non erano in guerra, l’agente Campagna, il macellaio Sabbadin, il gioielliere Torregiani, l’agente di custodia Santoro e le altre decine e decine di morti ammazzati. C’è stato un lungo e virulento terrorismo, e l’Italia ne è uscita senza brutalizzare la propria Costituzione democratica. Punto. I familiari delle vittime: “Ora è tardi per perdonare, dica quello che nessuno sa” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 26 marzo 2019 Torregiani prudente: “Sta anticipando i tempi Ha già dato prova di essere camaleontico”. “Le sue scuse? Non ci interessano proprio. Le sue ammissioni dei delitti? Sapevamo già che era stato lui, a uccidere, grazie tante. Adesso, dica piuttosto quello che ha tenuto nascosto”. C’è sempre dell’imbarazzo, nel disturbare i famigliari delle vittime di Battisti, per chiedere loro un commento, l’ennesimo commento, a qualche nuova azione dell’eterna saga del terrorista. Ma dall’ora dell’arresto - le 17 di sabato 12 gennaio a Santa Cruz de la Sierra, grazie all’occhio di un poliziotto boliviano in macchina con la figlia, è come se fosse finita una seconda condanna, dopo il dolore per la perdita di una persona amata: la condanna di immaginare che non ci sarebbe mai stata una fine. E invece, come dice Maurizio Campagna, fratello dell’agente della Digos Andrea (assassinato a Milano il 19 aprile 1979), “non soltanto questa fine l’abbiamo vista: ora sappiamo è che cominciata una nuova storia. Battisti ha l’opportunità di fornire agli inquirenti elementi inediti, che potrebbero aiutare nella ricostruzione di altri omicidi sui quali c’è una verità parziale, o non c’è per nulla. Certo, bisogna vedere se ne avrà la voglia. O meglio, se gli converrà”. Il figlio del gioielliere - Del resto l’uomo, dice Alberto Torregiani, figlio del gioielliere Pier Luigi (assassinato a Milano il 16 febbraio 1979), “ha dato prova d’essere camaleontico, furbo, capace di spiazzare”. E se Campagna è sicuro che questo interrogatorio sia la conseguenza di “una mossa dell’avvocato nella speranza di fargli guadagnare dei benefici nella detenzione”, Torregiani, a sua volta colpito nell’agguato al papà e costretto alla sedia a rotelle, preferisce essere attendista: “Non ho elementi per suffragare o meno un preciso piano del legale. Vediamo come va. Ero convinto che Battisti avrebbe cominciato a verbalizzare in estate, dopo i primi sei, sette mesi di cella, quando la sofferenza lascia i segni... Abbiamo invece visto che ha anticipato i tempi. Per quale motivo? Ripeto: stiamo a vedere”. E le scuse? “Le scuse... Che cosa volete che risponda? “Meglio tardi che mai”?”. No, ormai è tardi, dice Adriano Sabbadin, figlio del macellaio Lino (assassinato il 16 febbraio 1979 a Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia): “Io le sue scuse non le accetto. Le ho aspettate troppo a lungo. C’è stato un periodo in cui avrei anche potuto accettare una richiesta di perdono, se soltanto Battisti avesse dimostrato un pentimento sincero, consegnandosi alle autorità italiane. Ma non si è mai costituito”. Il figlio del maresciallo - L’unico che preferisce non parlare è Alessandro Santoro, figlio del maresciallo della penitenziaria Antonio (assassinato a Udine il 6 giugno 1978). Gli altri, Campagna, Torregiani e Sabbadin, convengono sul fatto che è un errore “limitarsi” a Battisti, nella misura in cui non ha agito in solitaria, ma armato e aiutato da attuali latitanti. Come Luigi Bergamin, che vive tra Parigi e Metz da impunito, pagato da case editrici per le traduzioni di libri e ospitato da intellettuali. Dice Campagna che, arrivati a questo punto, dobbiamo decidere quale strada seguire: “A mio modesto avviso, e insisto, Battisti deve diventare uno sprone per i politici e le forze dell’ordine, affinché trovino e facciano estradare quelli che ancora mancano all’elenco dei catturati. E non è una pura sete giustizialista, non è la ricerca della vendetta come ragione di vita: il mio è l’auspicio che venga riaperto un dibattito in Italia chiuso troppo presto. Sarebbe un atto di rispetto non tanto per me oppure per noi, quanto per le nuove generazioni”. “Superate la dottrina Mitterrand”. In Francia ancora 15 latitanti di Francesco Grignetti La Stampa, 26 marzo 2019 Era il 22 marzo, quattro giorni fa, primo bilaterale tra Francia e Italia dopo il grande gelo. In mezz’ora di colloquio vis-a-vis, Macron e Conte, oltre che della Tav, parlarono anche dei latitanti che sono in Francia. “I nostri ministri della Giustizia su questo si incontreranno”, parola di premier. E non è un caso se ieri Alfonso Bonafede, che era a Bruxelles per incontrare un gruppo di colleghi, annunciava che ne avrebbe parlato nuovamente con la sua omologa francese Nicole Belloubet. Da parte italiana, il pressing diplomatico va avanti da mesi. Ci sono state riunioni tecniche a Parigi; sono stati rispolverati vecchi dossier. La controparte francese ha riconosciuto che in anni passati molte richieste di estradizione sono state congelate nei cassetti senza nemmeno farle visionare a un loro magistrato. Era stata una decisione totalmente politica, non giudiziaria. Perciò l’altro giorno Conte aveva esplicitamente chiesto a Macron “di superare la dottrina Mitterrand” e sosteneva di avere notato una certa apertura dell’Eliseo. Da ieri, però, la confessione piena di Cesare Battisti, svelando il castello di menzogne a cui hanno voluto credere fin troppi intellettuali di sinistra in Italia, in Francia, e in Sudamerica, fa sognare il governo italiano. È un’ulteriore picconata alla dottrina Mitterrand, che si basava sull’assunto che la giustizia italiana fosse stata troppo sbrigativa. Invece no. Battisti confessa di avere preso tutti in giro. Si fa sentire così il sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, M5S: “Ora andiamo avanti con il lavoro per catturare altri latitanti, riprendiamoli e portiamoli in Italia affinché anche loro paghino per i crimini commessi”. Oppure Stefano Buffagni, un altro grillino di peso, sottosegretario alla Presidenza: “Adesso andiamo avanti su questa strada. Abbiamo già intavolato un discorso molto franco con Macron riguardo al superamento della dottrina Mitterrand”. In effetti sono una quindicina i latitanti riparati in Francia che devono tremare: i brigatisti Enrico Villimburgo e Sergio Tornaghi, terroristi di gruppi minori quali Narciso Manenti e Raffaele Ventura, e poi Giovanni Alimonti, Ermenegildo Marinelli, Luigi Bergamin e Paola Filippi (dello stesso gruppo di Battisti, i Pac), Roberta Cappelli, Enzo Calvitti, Paolo Ceriani Sebregondi, Maurizio Di Marzio, Gino Giunti, fino al celebre Giorgio Pietrostefani, dirigente di Lotta continua, condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. I toni dei Cinque Stelle fanno pensare che non vogliano più lasciare il campo libero a Salvini, che da mesi batte a martello sul punto. Anche qualche giorno fa. “Il tema terroristi - diceva - è quello che mi sta più a cuore: ce ne sono almeno una quindicina che dovrebbero essere in galera in Italia e invece bevono champagne a Parigi e dintorni. Spero che su questo la Francia ci dia una mano e faccia quello che è giusto”. La sentenza Cedu su Contrada si dovrebbe applicare anche ai “fratelli minori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2019 La Corte d’appello di Caltanissetta aveva ritenuto non estensibili a terzi gli effetti per i fatti commessi prima del 1994 per concorso esterno all’associazione mafiosa. Il ricorso dell’avvocato Stefano Giordano avverso una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta (che aveva ritenuto non estensibili a terzi gli effetti della sentenza emessa nell’aprile 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a favore di Bruno Contrada), è stato quindi accolta dalla Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione e, con ordinanza emessa il 22 marzo scorso, ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione circa la questione dell’estensibilità o meno degli effetti della sentenza Contrada a favore dei cosiddetti “fratelli minori”. “Si tratta della rimessione alle Sezioni Unite - spiega a Il Dubbio l’avvocato Giordano, che ho chiesto io stesso, circa la questione sul riconoscimento della sentenza Contrada, come pronuncia che ha una valenza sistemica nell’ordinamento. Ieri (venerdì ndr) ho discusso un caso di concorso esterno e ho chiesto la rimessione alle Sezioni Unite per contrasto giurisprudenziale. La relatrice ha colto perfettamente lo spirito del ricorso anche nella relazione ed è arrivata la notizia che hanno rimesso il ricorso alle Sezioni Unite”. Precisamente il ricorso riguarda un “fratello minore” di Contrada: così si chiamano quei ricorsi di chi, come Dell’Utri, ha la stessa situazione giuridica di Contrada: ovvero chi è stato condannato per fatti commessi prima del 1994 per concorso esterno all’associazione. La Corte Europea, ribadiamo, aveva stabilito che la sentenza è legittima solo per fatti commessi dopo il 1994. Lo ha stabilito per Contrada, ma ha identificato un deficit sistemico nell’ordinamento: fino a quel momento il reato non era infatti, per la Corte, configurato in modo sufficientemente chiaro. Si è cercato di annullare le conseguenze che la pronuncia Contrada avrebbe avuto nel sistema, perché si sarebbero dovute revocare tutte le sentenze di quelli che, pur non avendo fatto ricorso a Strasburgo, erano comunque nelle stesse condizioni di Contrada. “Tanti sono i giuristi - sottolinea sempre l’avvocato Giordano - che si sono schierati a favore di questa pronuncia, da Viganò a Fiandaca, osservando che, per garantire l’uniformità di trattamento, gli effetti della pronuncia Contrada si dovevano riconoscere anche agli altri casi, essendo una sentenza che riguarda aspetti generali”. Ma, di fatto, si è cercato di evitare che ciò accadesse. “La Cassazione, la Prima Penale - spiega l’avvocato Giordano si è quasi divisa in due, prevedendo due orientamenti: da un lato quello per cui, se non si presenta il ricorso alla Cedu si può chiedere la revisione europea ma non l’incidente d’esecuzione in Italia; dall’altro un orientamento, che ha preso piede nell’ultimo anno, per cui la pronuncia Contrada sarebbe contraria all’ordinamento giuridico italiano”. Per questo motivo, l’avvocato ha discusso un caso di concorso esterno e ha chiesto la rimessione alle Sezioni Unite per contrasto giurisprudenziale. Le Sezioni Unite dovranno decidere se il principio della sentenza Contrada si estende a tutti gli altri “fratelli minori”, pena la disparità di trattamento. “In caso diverso - fa sapere sempre l’avvocato Giordano -, impugnerò la pronuncia alla Cedu. È assurdo che per vedere riconosciuto il principio generale, che ha sancito la pronuncia Contrada, si debba andare a Strasburgo”. L’avvocato crede che emerga un fatto evidente: “Le Sezioni Unite, nel decidere, dovranno essere più caute nel valutare l’incidenza della pronuncia Contrada rispetto agli altri ricorsi su situazioni identiche”. Perché? “La decisione delle sezioni unite della Cassazione - risponde Stefano Giordano - sarà fondamentale perché ci sono molte persone che si trovano in questa situazione”. Per l’avvocato Giordano è necessario che, per evitare una disparità di trattamento, “alla sentenza Contrada venga riconosciuta dalle Sezioni unite una valenza sistemica”. La decisione delle Sezioni Unite è attesa per i prossimi mesi. Alcol alla guida, niente sanzioni penali anche con tasso doppio del limite di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2019 Non importa se si guida con un tasso alcolemico doppio rispetto a quello massimo consentito: anche in questo caso si può evitare la condanna penale e “cavarsela” con la sospensione della patente e la decurtazione dei punti. A patto che si vada piano e non si mostrino particolari problemi nella guida. Parola della Cassazione, che con la sentenza 12863/2019 depositata oggi dalla Quarta sezione penale ha aggiunto un tassello al mosaico dell’applicazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto alla guida in stato di ebbrezza. La sentenza richiama i princìpi già fissati dalle Sezioni unite sulla tenuità per decidere sul caso di un anziano automobilista sardo colto mentre guidava con a bordo un passeggero e un tasso alcolemico di 1,03 grammi/litro (il limite è 0,5 e, quando si supera la soglia di 0,8, le sanzioni diventano da amministrative a penali). La tenuità del fatto - Dal 2016, l’articolo 131-bis del Codice penale prevede che “nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. Le Sezioni unite (sentenza 13681/2016) hanno stabilito che occorre soprattutto analizzare la condotta in sé e le sue conseguenze in termini di danno e pericolo nel caso concreto. Senza farsi “ingabbiare” dal fatto che la condotta viene inquadrata in una fattispecie di reato di una certa gravità. Il ricorso del pm - Nel caso dell’automobilista sardo, il gip aveva applicato la particolare tenuità, ma il pm aveva presentato ricorso perché guidatore “manifestava segni esteriori di ebbrezza”. Una circostanza che - unita alla presenza di qualcun altro a bordo e al fatto che la guida in stato di ebbrezza è un “reato di pericolo che si perfeziona con il semplice fatto di porsi alla guida” in tale stato - aveva indotto il pm a presentare ricorso alla Cassazione. La risposta della Cassazione - Ma la Quarta sezione non si è discostata per nulla né dalla linea delle Sezioni unite né dall’interpretazione che ne aveva dato in passato, secondo cui non si può dimostrare le pericolosità della condotta nel caso concreto senza descriverla e spiegare esattamente in che cosa consista il pericolo (si veda, per esempio, la sentenza 24100/2018). Così non è stato ritenuto sufficiente il fatto che l’automobilista sardo avesse gli occhi lucidi e un forte alito vinoso: “non presentava ulteriori e più importanti segni di ebbrezza”, annota la Corte. Almeno stando a quanto verbalizzato dagli agenti che lo avevano fermato: negli atti non ci sono segnalazioni di “comportamenti di guida inadeguati né difficoltà a parlare né, ancora, incertezze nei movimenti”. Non si sa se quel guidatore fosse davvero sufficientemente presente da non manifestare tali segni o se gli agenti non li abbiano colti. Sta di fatto che ora le sanzioni penali (ammenda da 800 a 3.200 euro e arresto fino a sei mesi) non si possono applicare. Restano le sanzioni accessorie che riguardano la patente, di competenza del prefetto: sospensione da sei mesi a un anno e decurtazione di 10 punti. Ma bisogna vedere se davvero nella prassi le Prefetture danno seguito a sentenze penali dalle conseguenze così complesse. Senza contare che, trascorsi cinque anni dal fatto, scatta la prescrizione. Reati edilizi, la norma dichiarata incostituzionale tocca anche il giudicato Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 25 marzo 2019 n. 12916. Se la norma è stata dichiarata incostituzionale può essere modificata l’esecuzione di una decisione passata in giudicato. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 12916 depositata ieri. Questi i fatti: un signore ha fatto un abuso edilizio su beni vincolati paesaggisticamente. Ma la corte costituzionale, con la sentenza 56 del 2016, ha “declassato” questo tipo d’abuso prevedendo una contravvenzione al posto della reclusione. Il giudice di merito però non ha tenuto conto della decisione della Consulta. E il giudice dell’esecuzione non ha voluto “modificare” la sentenza del collega perché passata in giudicato e come tale “intoccabile”. Una scelta non condivisa dalla Cassazione che, citando diversi precedenti, ha precisato che quando interviene una dichiarazione di illegittimità costituzionale “il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena a favore del condannato”. Furto di bene destinato alla pubblica fede o a pubblica utilità. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2019 Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Furto di cose esposte alla pubblica fede - Condizione originaria della cosa - Fattispecie. La circostanza aggravante di cui all’art. 625, n. 7 cod. pen. è configurabile nel caso di cose esposte alla pubblica fede per fatto umano o per condizione naturale, non essendo necessariamente richiesta la volontà del proprietario o possessore di esporre il bene alla pubblica fede, che può derivare anche da una condizione originaria della cosa e non dipendere dall’opera dell’uomo. (Fattispecie relativa ad asportazione di sabbia dal lido del mare, integrante il reato di furto, a prescindere dal volume di sabbia asportato, salvo non si tratti di quantitativi irrilevanti come quelli utilizzati per l’esplicazione di attività ricreative). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 13 marzo 2019 n. 11158. Reati contro il patrimonio - Delitti - Danneggiamento - Circostanze aggravanti - Danneggiamento commesso mediante forzatura della porta d’ingresso di un esercizio commerciale - Presenza all’interno del locale del proprietario - Applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 635, comma secondo, n. 1 in relazione all’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen. - Esclusione - Ragioni. Non integra l’ipotesi di danneggiamento aggravato, ai sensi dell’art. 635, comma secondo, n. 1,in relazione all’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen. (fatto commesso su cose esposte alla pubblica fede), la forzatura della porta di ingresso di un locale pubblico all’interno del quale sia presente il titolare, considerato che la “ratio” della maggiore tutela accordata alle cose esposte per necessità, per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede va individuata nella minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione dei beni, in quanto posti al di fuori dalla sfera di diretta vigilanza del proprietario e, quindi, affidati interamente all’altrui senso di onestà e di rispetto. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 29 maggio 2017 n. 26857. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Cose esposte alla pubblica fede - Furto all’interno di esercizio commerciale - Prodotti dotati di placca antitaccheggio - Aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen. - Configurabilità - Ragioni. Integra il reato di furto aggravato dall’esposizione della cosa alla pubblica fede la sottrazione, all’interno di un esercizio commerciale, di prodotti dotati di placca antitaccheggio, in quanto tale dispositivo, consistendo nella mera rilevazione acustica della merce occultata al passaggio alle casse, non ne consente il controllo a distanza che esclude l’esposizione della merce alla pubblica fede. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 3 maggio 2017 n. 21158. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Cose esposte alla pubblica fede - Bicicletta parcheggiata sulla pubblica via per sosta momentanea - Esposizione per necessità alla pubblica fede - Aggravante di cui all’art. 625 n. 7 cod. pen. -Configurabilità. In tema di reati contro il patrimonio, sussiste l’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen. - “sub specie” di esposizione per necessità alla pubblica fede - nel caso in cui si verifichi il furto di una bicicletta parcheggiata sulla pubblica via, la quale deve intendersi esposta, per necessità, e non già per consuetudine, alla pubblica fede quando il detentore la parcheggi per una sosta momentanea lungo la strada. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 30 gennaio 2017 n. 4200. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Cose esposte alla pubblica fede - Furto di legna in zona demaniale - Integrazione dell’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7 - Ragioni. Integra il reato di furto aggravato ai sensi dell’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen., la sottrazione di rami e tronchi asportati da alberi di faggio ubicati in zona demaniale, trattandosi di cose che per destinazione, oltre che per necessità naturale, sono esposte alla pubblica fede; né è rilevante, a tal fine, il fatto che l’esposizione non dipenda da un’azione o da un’omissione del possessore, potendo essa derivare anche da una condizione originaria della cosa sottratta, avuto riguardo alla ratio dell’aggravante in questione, preordinata alla tutela di un bene che non può essere adeguatamente protetto. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 gennaio 2015 n. 3550. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Cose destinate a pubblico servizio, utilità, difesa o reverenza - Asportazione di materiale inerte dal greto del fiume o dall’arenile - Aggravanti ex art. 625 n. 7 cod. pen. - Concorrenza - Sussistenza. In tema di furto, la sottrazione o asportazione della sabbia o della ghiaia dal lido del mare o dal letto dei fiumi determina la configurabilità concorrente, ai sensi dell’art. 625 n. 7 cod. pen.,sia della circostanza aggravante dell’esposizione della cosa alla pubblica fede, sia di quella della destinazione della cosa a pubblica utilità, giacché il prelievo del materiale lede, attraverso il danno idrogeologico all’arenile, la pubblica utilità dei fiumi o la fruibilità dei lidi marini. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 30 giugno 2009 n. 26678. Milano: detenuto 53enne si impicca nel carcere di San Vittore di Monica Serra La Stampa, 26 marzo 2019 Pietro Carlo Artusi, 48 anni accusato dell’omicidio della fidanzata e arrestato martedì scorso, non ha retto. Soccorso dai medici è morto all’ospedale San Carlo. Non ha retto il peso di quello che aveva fatto. Ci aveva già provato in casa, dopo aver ucciso la compagna, Roberta Priore, 53 anni, a staccare i tubi del gas. Ci ha riprovato ieri sera, nella cella del carcere di San Vittore dov’era detenuto, a togliersi la vita stringendo forte le lenzuola attorno al collo. Questa volta ci è riuscito. Dopo ore di agonia all’ospedale San Carlo di Milano, i medici hanno dichiarato la morte cerebrale di Pietro Carlo Artusi, 48 anni. Quando è stato arrestato martedì pomeriggio, sulle scale del palazzo di via Piranesi, dove viveva con la compagna, ha subito confessato di averla uccisa. Ha detto di averla soffocata con un cuscino, per terra, al culmine dell’ennesimo litigio. I segni della furia nell’appartamento messo a soqquadro. L’alcol e la droga consumati la sera prima. Quella cena fuori andata male, in un ristorante all’Ortica. Sempre a litigare e a discutere. Gli agenti della squadra mobile, alla guida di Lorenzo Bucossi, che nella notte tra martedì e mercoledì lo hanno interrogato a lungo, lo hanno descritto come un uomo profondamente scosso e che continuava a piangere per quello che aveva fatto. La relazione con Roberta andava avanti da non più di sei mesi. E i vicini di casa li sentivano spesso litigare tanto che un’altra volta nelle ultime settimane avevano richiesto l’intervento della polizia. Il loro era un rapporto complicato, forse segnato anche dal passato difficile della donna, che aveva dovuto superare una grande tragedia familiare. Dall’alcol e dalla droga che entrambi consumavano. Secondo quanto è emerso, Artusi, che era detenuto nel quinto reparto del carcere milanese, si è tolto la vita con le lenzuola al collo, legate alle sbarre della cella, dopo le 21 di ieri sera. In carcere l’uomo non aveva manifestato istinti suicidi. Il 48enne, secondo fonti penitenziarie, in carcere “era monitorato e seguito”. Ma evidentemente questo non è bastato a salvargli la vita. È stato ricoverato in condizioni disperate e oggi i medici ne hanno dichiarato la morte cerebrale. Napoli: Cisco Academy in carcere, “così è cambiata la mia vita” di Rossella Grasso Il Mattino, 26 marzo 2019 “Prima di iniziare questo corso non avevo la più pallida idea di cosa fare quando uscirò. Adesso lo so”, racconta Giuseppe, 29 anni, detenuto al carcere di Secondigliano da quando ne aveva solo 22. Tra pochi mesi uscirà e ha già le idee chiare sul da farsi: “Il mio obiettivo è lavorare nella Cybersecurity - dice fiero - Diciamo come polizia informatica”. Un radicale cambio di prospettiva, un piccolo “miracolo”, che avviene tra le spesse mura del carcere di Secondigliano, casa circondariale di massima sicurezza alle porte di Scampia, grazie alla sede distaccata della Cisco Academy. Un corso di formazione altamente qualificante che Cisco, multinazionale specializzata nella fornitura di apparati di networking, offre ai detenuti, affinché possano conoscere il mondo dei computer e dei sistemi di rete e scoprire l’infinito mondo delle nuove tecnologie. Un’opportunità per imparare tante cose e scorgere un futuro diverso, lontano dalla criminalità, che permette ai detenuti di reinserirsi nella società, e, una volta terminata la reclusione, trovare un lavoro qualificato e buttarsi alle spalle gli errori e una vita che li ha portati a compiere scelte sbagliate. Il programma della Cisco Academy parte dalla conoscenza base del PC. Sono i detenuti stessi a spiegare con orgoglio come si svolge l’Academy nella piccola aula all’interno del padiglione Mediterraneo. “Partiamo dalla conoscenza degli elementi che compongono il computer, fino alle loro funzioni - dice Sebastiano, 54 anni - Tutte cose che prima dell’esperienza detentiva davamo per scontate. Probabilmente come quelle che riguardano la nostra vita: le diamo per scontate, poi quando ti viene a mancare qualcosa ti rendi conto che era essenziale”. Per ottenere il primo livello gli allievi devono superare decine di complicati esami. “In carcere non abbiamo internet - spiega Nello, 32 anni - Per studiare e tenerci al passo abbiamo creato un sistema sia cartaceo sia offline attraverso un cablaggio che abbiamo costruito noi stessi. Poi ci sono gli appuntamenti con il docente della Cisco che viene qui da noi. E così facciamo esami e riusciamo a mantenere un ritmo parallelo con l’esterno”. Gli allievi riescono a sostenere un esame ogni due settimane con ottimi voti e con un trend ottimo. Dopo i primi esami in italiano, si passa a quelli interamente in inglese come il livello Cisco Ccna, Cisco Network Associated. “È composto circa da 40 esami in inglese - spiega Giuseppe, che sta brillantemente superando tutti gli esami - Io mi sono cimentato in questa impresa perché mi sono appassionato tantissimo, pensa che studio anche in cella con il supporto del secondino. Tra poco uscirò da qui e continuerò il percorso da casa”. A Secondigliano l’impegno e la costanza dei detenuti è stato premiato con ottimi risultati ai voti degli esami e un coinvolgimento sempre maggiore che ha portato a 17 il numero dei partecipanti, tanto che bisogna fare a turno per sostenere gli esami on-lne e la permanenza in aula. “Tutto realizzato con grande disponibilità da parte di Cisco che ci ha anche donato 14 PC per la sala informatica - spiega Giulia Russo, direttrice del carcere di Secondigliano. E con una proiezione futura, perché i risultati lusinghieri dei nostri detenuti hanno senza dubbio infiammato gli animi di Cisco per cui si ammiccava a una possibilità per il futuro, quella a cui noi ambiamo, cioè la possibilità di realizzare il famoso salto di qualità da una rieducazione a una risocializzazione vera con l’inserimento nel mondo del lavoro”. “Uno dei ragazzi che sta studiando all’interno della nostra aula, che è già avanti con gli studi, non finirebbe neanche la certificazione che avrebbe già un contratto di lavoro indipendentemente dal suo curriculum con i carichi pendenti”, dice Lorenzo Lento, Teacher Local Academy Cisco, che ogni settimana segue i ragazzi negli studi. Varie Cisco Academy sono state aperte dal 2000 a oggi in varie carceri, tra cui a La Spezia, a Milano Opera e Bollate, a Firenze dal 2014 presso l’istituto per minori, poi a Napoli all’ istituto di Nisida, reparto femminile, poi Monza e Regina Coeli. Pochi giorni fa ha aperto anche a Bollate nella sezione femminile. Un’esperienza quasi ventennale che ha portato a svariati successi. “Durante i corsi ho visto i detenuti piano piano socializzare, avere un radicale cambiamento nel loro modo di porsi, di vedere le cose - racconta Lento. C’è gente che faceva a botte quasi tutti i giorni, poi magari veniva sospeso, e quando ritornava non creava più problemi. Ce n’è uno in particolare che non ha più creato problemi in assoluto e che tra l’altro è uno dei più bravi. Qualcosa è successo”. Lento racconta che molti dei suoi ex allievi delle varie Academy in Italia sono adesso impiegati con contratto a tempo indeterminato in grandi aziende come personale qualificato per la vendita di attrezzature informatiche. Poi c’è chi ha avuto ancora più successo. “Abbiamo già 3 esperti in sicurezza che lavorano per delle multinazionali - dice il coach Cisco - Ce n’è uno che ha scritto anche un libro, tra poco ci sarà anche un film su di lui, che ha 14 stabilimenti nel mondo e li gestisce lui a livello di sicurezza”. È il secondo anno che al carcere di Secondigliano partono i corsi dell’Academy e per chi li frequenta da allievo o da docente o per tutto lo staff del carcere è già chiaro che si tratta di una grandissima opportunità di riscatto. “I detenuti sono anche persone che prima o poi usciranno da questi inferni, migliori o peggiori, e questo dipende soprattutto dalle azioni concrete delle istituzioni, non da loro”, dice Lento. “Quando uscirò voglio insegnare a mia figlia tutto quello che ho imparato all’Academy”, dice Francesco, 39 anni, che prima dell’esperienza detentiva non aveva mai avuto a che fare con un pc. Come lui sono in tanti che spesso hanno a malapena la terza media eppure si cimentano con passione e dedizione nelle complicate materie proposte dall’Academy. “All’esterno non ci pensi proprio a seguire un corso della Cisco che ti può dare la possibilità di lavorare - dice Alessandro, 31 anni che in carcere dovrà rimanerci ancora per 5 anni - Le cose tecnologiche mi stupiscono, mi danno quell’emozione di sapere, di cercare cose nuove. Mi danno un’ispirazione incredibile”. “È quello che ci anima ogni giorno che noi veniamo a lavorare - dice la direttrice Russo - L’idea di poter tirare fuori da almeno uno di loro una prospettiva completamente diversa di vita”. Una missione che con il suo staff porta avanti proponendo ai detenuti una miriade di attività per mettere a frutto in maniera positiva le capacità di ognuno. A Secondigliano da poco è stato inaugurato il Polo Universitario Penitenziario della Campania in collaborazione con la Federico II, poi ci sono corsi professionalizzanti di ogni genere, supporto alla genitorialità, lavori socialmente utili, biblioteca, una compagnia teatrale, musica e anche la prima officina meccanica in un carcere autorizzata a compiere revisioni alle auto della polizia, tutto in un penitenziario che ospita oltre 1.400 detenuti. “Riuscire ad avere la certezza che il carcere rappresenti una possibilità definitiva di riabilitazione non è possibile ma è la nostra mission - ha concluso l’energica direttrice - Fuoriescono numeri piccoli in termini di successo, ma anche se noi riusciamo per ogni attività a dare concretezza attraverso degli strumenti veri anche a piccoli numeri, per me esiste l’effetto moltiplicatore. Un papà che ha raggiunto un risultato, un fratello che è uscito dal carcere e mostra altri orizzonti alla sua famiglia è chiaramente la possibilità di un effetto moltiplicatore. Bisogna fare i conti anche con chi si è ringalluzzito nella propria criminalità ma questo non ci deve far demordere rispetto alla presenza di detenuti che invece hanno avuto solo mancate occasioni”. La Cisco Academy nelle carceri sta avendo un grandissimo successo, tanto da aver da poco inserito un nuovo programma che riguarda l’Industria 4.0. Chi non riesce a fare la parte Networking, Rete e Telecomunicazioni, può occuparsi di disegno e della creazione di oggetti bidimensionali e tridimensionali da stampare in 3D. “Questo cambierà veramente per loro il modo di porsi verso un lavoro che cambia perché l’industria 4.0 è già oggi. Sarà per pochissimi però si farà in un carcere”, ha concluso Lento. Viterbo: reinserimento detenuti, siglata convenzione tra Procura e carcere di Simona Tenentini lamiacittanews.it, 26 marzo 2019 Reinserimento dei detenuti e trasformazione del carcere in risorsa culturale. Siglata oggi la convenzione tra Procura e casa circondariale. Sono molteplici le finalità sottese all’importante “Convenzione per lo svolgimento di attività di volontariato ad opera dei detenuti della casa circondariale di Viterbo presso il Palazzo di Giustizia di Viterbo” che si è tenuta stamattina alla presenza del Sindaco di Viterbo Giovanni Arena, del procuratore capo Paolo Auriemma, del presidente del Tribunale Maria Rosaria Covelli, del rettore dell’Università di Viterbo Alessandro Ruggieri, del vescovo di Viterbo Lino Fumagalli, del direttore del carcere Mammagialla di Viterbo, Pierpaolo D’Andria, del Prefetto di Viterbo Giovanni Bruno, del presidente di Confagricoltura Viterbo-Rieti Pierferdinando Chiarini, del senatore Umberto Fusco, del presidente dell’Ordine degli avvocati di Viterbo Marco Prosperoni, del capo dipartimento amministrazione penitenziaria Francesco Basentini e della docente e membro del Consiglio Superiore della magistratura Paola Balducci. Una tappa importante verso la progressiva conquista di un carcere meno punitivo e più umano che possa, finalmente, fungere anche da strumento per una reintegrazione sociale una volta scontata la pena. Per realizzare questa significativa tappa di solidarietà, “un progetto da sempre auspicato” dal vescovo Fumagalli, è stata necessaria la sinergia e la collaborazione fattiva tra i tanti attori coinvolti, ognuno dei quali ha contribuito, nel suo ambito, al raggiungimento del risultato. Nello specifico, l’attività dei due detenuti individuati, che, in maniera volontaria hanno dato la loro disponibilità ad un attività di utilità sociale in maniera gratuita, si concretizzerà nella cura e manutenzione delle aree verdi di pertinenza del Tribunale. Per svolgere questo tipo di compito sono stati formati da tecnici di Confagricoltura che ha fornito anche l’attrezzatura specifica. “La convenzione sottoscritta oggi è un decisivo passo in avanti verso la realizzazione degli obiettivi espressi da tutta la comunità con la quale, quotidianamente, ci interfacciamo e relazioniamo, cogliendone esigenze, priorità e necessità. Si tratta di un importantissimo risultato, utile a far rimettere in gioco i detenuti, a fargli esprimere le loro capacità, a dare un senso al concetto di rieducazione che sottende, e dovrebbe costituire l’essenza, della funzione punitiva dell’istituzione carceraria”. Napoli: Corte costituzionale nelle carceri, Rosario Morelli il 27 marzo a Secondigliano agenparl.eu, 26 marzo 2019 Nella Sala della palestra dell’Istituto, dopo una lezione che prenderà spunto dal frammento di Costituzione “effettiva partecipazione”, il Giudice risponderà alle domande che i detenuti vorranno rivolgergli. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018 e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri in diverse carceri italiane. Il primo si è svolto il 4 ottobre 2018 a Rebibbia Nuovo complesso. Sono seguiti, sempre nel 2018, San Vittore, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Nel 2019, dopo Sollicciano, Potenza, Padova e Napoli seguirà Bologna. I giornalisti e i cineoperatori interessati a seguire di persona l’incontro dovranno accreditarsi entro martedì 26 marzo, ore 17,00. L’ingresso al carcere di Secondigliano sarà consentito tra le 13,00 e le 13,30 di mercoledì 27 marzo. Alba (Cn): il sottosegretario Ferraresi rassicura sul carcere, ma il Garante ha dubbi gazzettadalba.it, 26 marzo 2019 Dopo mesi di silenzio, arrivano notizie incoraggianti per il carcere di Alba. Durante il question time di martedì 12 marzo, il sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi è intervenuto sulla vicenda del Montalto, in risposta all’interrogazione presentata dalla parlamentare M5s Fabiana Dadone. “Lo scorso 20 febbraio il Provveditorato di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria ha approvato il progetto per il rifacimento dell’impianto idrico e dei servizi igienico-sanitari. In questo modo si potrà procedere in tempi brevi all’affidamento dei lavori, in modo da consentire al carcere di Alba di ripartire a pieno regime”, ha detto. Ferraresi ha sottolineato anche il sovraffollamento del Montalto: “Dopo la riapertura, sono 35 i posti disponibili, ma si sono toccate punte anche di 50 detenuti. In questo momento sono 42, di cui 32 di nazionalità italiana e 10 stranieri. A livello centrale, sono stati stanziati 25,5 milioni di euro da qui al 2021”. Soddisfatta la deputata Dadone. Meno positivo il Garante per i detenuti Alessandro Prandi: “Ora spetterà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emettere il bando per i lavori e non penso che avverrà in tempi brevi. In più non sono stati chiariti alcuni dubbi: sui 4 milioni e mezzo di euro stanziati si rincorrono voci al ribasso”. Taranto: “Insegno alle detenute a rifarsi belle”, il corso di un parrucchiere nel carcere di Giancarlo Visitilli La Repubblica, 26 marzo 2019 Un progetto di formazione che aiuta le donne in carcere non solo a lavorare ma anche a ritrovare la femminilità perduta: “La bellezza è qualcosa che sta dentro: insegno che, se vuoi, puoi modellarla fuori”. Come si può ritrovare un minimo di bellezza, fra le porte di ferro arrugginite di un carcere, fra le sbarre e quadrati d’aria? A cosa può servire la bellezza in un luogo simile? Se lo sono chieste Stefania Baldassarri, direttrice del carcere di Taranto, insieme ad Angela Intini, direttrice dell’ufficio esecuzione esterna, dipendente del Ministero della Giustizia, e hanno messo su un progetto davvero singolare: insegnare alle detenute a curare la propria e l’altrui bellezza. Ormai da quattro anni, il progetto di “promozione della comunità e di inclusione lavorativa - spiega Intini - è nato per caso, un giorno, parlando con il mio parrucchiere, Ferdinando Delvecchio, si stava ragionando sulla possibilità di creare qualcosa che avesse a che fare con la bellezza e la cura nelle carceri dove operiamo, e insieme abbiamo pensato a un progetto che è partito anni fa nel carcere di Foggia e oggi continua con le detenute del carcere di Taranto, grazie a Pietrangelo Falconi, direttore della L’Orèal cosmesi”. L’ufficio presso cui lavora la Intini si occupa di esecuzione penale esterna e di osservazione dei detenuti e del loro trattamento, ed è grazie alla collaborazione di quest’ufficio, insieme alla possibilità offerta dalla L’Oréal, che si è potuto sovvenzionare e attrezzare il corso di formazione in cui Delvecchio, parrucchiere originario di Santeramo in Colle, insegna alle detenute “a rifarsi belle”, come lui stesso spiega. “Non saprei raccontarle a parole cosa è questo corso. Io ho la tentazione di andare a insegnare, ma me ne torno sempre carico di meraviglie - spiega Ferdinando - Fa strano i primi giorni, spiegare a delle donne che hanno perso il senso del loro vivere e della loro bellezza, cosa può significare ritrovarle, andare a ricercarle”. Si tratta, innanzitutto, di un’esperienza che vede le detenute lavorare sulla loro “persona”, spiega Piero Rossi, Garante regionale delle detenute e dei detenuti, un lavoro di autostima”. “Far credere per davvero che di questo si tratta - sostiene Delvecchio - è la cosa più difficile, all’inizio. Molte volte, queste donne, che hanno delle storie assurde, difficili, devono avere un’opportunità, la possibilità di un carcere alternativo, perché almeno possano cercare un minimo di senso nella loro esistenza”. E allora la cura della persona, farsi belle, volersi agghindare, sebbene per incontri che difficilmente si potranno realizzare, diventa l’unico modo per continuare a credere. “In se stesse, prima di tutto. Se su quindici detenute, anche soltanto due hanno imparato a svolgere il mio stesso mestiere, è segno di riuscita del progetto, che diventa utile anche per quelle donne per cui il percorso diventa solo finalizzato alla cura di se stesse”. Ferdinando racconta di aver visto, in questi anni, donne che hanno ripreso a discutere anche della loro stessa femminilità, “e non solo rispetto a un qualcosa che ha a che fare con l’aspetto estetico”. Fra le storie che Ferdinando si porta addosso c’è quella di una detenuta sessantenne. Madre e nonna di una famiglia sana. “La sua storia è diventata per me emblematica. Quando mi ha conosciuto, ce l’aveva con tutti gli uomini, quindi anche con me. E’ stato davvero difficile farmi accettare: per lei, qualsiasi uomo assomigliava a suo genero, che ha compiuto delle efferatezze nei confronti della figlia”. Partecipava al corso con diffidenza, sosteneva che la bellezza non aveva nulla a che fare con lei e le donne lì recluse. Oggi, la stessa, è una rinomata parrucchiera, sebbene in carcere, “e aiuta tante donne a rifarsi la testa, non solo per mezzo dei capelli. Ha compreso che la bellezza è qualcosa che sta dentro, e che se vuoi, puoi modellare fuori”. Bassano del Grappa (Vi): il progetto carcere-scuola arricchito da un premio letterario di Sonia Rossi Ristretti Orizzonti, 26 marzo 2019 Il progetto carcere scuola al Liceo Brocchi di Bassano si è arricchito grazie a un premio letterario dedicato a detenuti e studenti. La prigione non è solo un luogo fisico, ma soprattutto un luogo mentale: pregiudizi e indifferenza possono essere vinti anche attraverso l’arte e la poesia. Il terreno su cui è nata un’esperienza del tutto nuova nel nostro territorio è il progetto carcere-scuola, che da quest’anno al liceo Brocchi si arricchisce grazie ad un premio letterario a cui hanno partecipato studenti e detenuti. “Alberi infiniti” è il Premio letterario “carcere - scuola” alla sua prima edizione, promosso e organizzato dal Liceo G. B. Brocchi di Bassano del Grappa in collaborazione con la casa circondariale di Vicenza. La premiazione è avvenuta sabato 23 marzo in saletta Bellavitis alla presenza della Giuria del premio, dei referenti del carcere e degli studenti delle classi quinte partecipanti. “Abbiamo organizzato un premio - afferma la presidente di Giuria Donatella Garavello, docente di scienze motorie - per dare voce alla bellezza che l’arte sa offrire. Il titolo si rifà ad una vecchia canzone scritta da Gino Paoli: stare insieme e comunicare è il primo modo per abbattere i muri e far nascere alberi infiniti. I ragazzi stanno spesso nelle aule ed entrare invece in contatto con l’umano permette di ampliare gli orizzonti culturali e uscire dal pregiudizio”. Gli alberi sono stati scelti come simbolo del Premio anche per ricordare la recente strage di abeti rossi che ha colpito l’Altopiano. L’albero rappresenta la vita in continua evoluzione e rigenerazione, in ascensione verso il cielo, l’albero è madre e, con i suoi cerchi concentrici nella sezione del tronco, è una lunga eco del tempo che scorre: tutte queste valenze sono condensate in un Premio che ha anche una Musa protettrice, Alda Merini, per la sua esperienza dolorosa di prigionia in manicomio. Della poetessa dei navigli, nata il 21 marzo, sono stati ricordate alcune poesie, ma soprattutto le sue parole sul pregiudizio: “Il vero inferno - scriveva - è fuori, a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano”. L’inferno del carcere, del pregiudizio, del male oscuro che è in noi: la poesia ridona bellezza. Il Premio è stato dedicato ad un ex studente del liceo, Andrea Ramon, scomparso prematuramente qualche anno fa: sono stati letti alcuni passaggi di una lettera che aveva scritto dopo la visita in carcere ed è intervenuto il papà Luigi portando il proprio esempio di uomo capace di coniugare forza e dolcezza, capacità di rinascita attraverso un calvario che ne segna il volto e la voce. Andrea è stato ricordato perché amava la poesia e amava coltivare fiori, ma anche perché troppe volte a lui “la luna [ha chiesto] tormento”, come avrebbe detto Alda Merini. “Ogni anno - hanno affermato i promotori - il suo nome sarà ricordato perché la poesia è sempre una parola di speranza che supera anche la morte”. Benché appena nato, il concorso ha visto la partecipazione di tanti detenuti e davvero molti studenti che hanno accettato la sfida. “Era poco il tempo a disposizione - ha affermato la Giuria - ma abbiamo avuto un livello molto alto. Sono state premiate l’originalità, la cura del dettaglio, l’aderenza al tema di questa edizione, Dietro il paesaggio, evidente riferimento al poeta Andrea Zanzotto”. Nei testi giunti dalla casa circondariale di Vicenza si avverte la nostalgia per un eden perduto, un paese innocente da cui si proviene tutti, prima che il male ci attraversi. Al terzo posto si è classificata un’opera grafica, un albero colto nelle sue valenze materne: un dettaglio del disegno è diventato il logo del Premio. Il secondo e il primo classificato hanno in comune l’attenzione per l’Altopiano e lo strazio degli alberi. Si classifica seconda “Lettera all’Altopiano” e al primo posto la poesia “Neve, alberi e acqua”. Per il liceo Brocchi le due sezioni erano Poesia e Prosa lirica. Per la poesia vince Tommaso Dallan con l’opera “Il matto”; al secondo posto Nicola Scodro, “Come una stella alpina”; al terzo si colloca Leonardo Fior con “Più di tutto il mare”. Nella sezione prosa un ex aequo al terzo posto per Angela Cogo e Marco Xillo, al secondo posto Allyson Obber. Vince Matteo Dal Soglio con un’opera molto vicina al poeta di Pieve di Soligo, una prosa lirica che si affida al teatro di poesia per rappresentare il soggetto lirico in un ambiente che dà poche certezze, all’interno del quale, però, egli continua spesso a trovare una rispondenza interiore, un interlocutore. Solitudine, crollo delle certezze razionali, perdita di un equilibrio nella percezione del mondo esterno sono i sintomi di uno iato tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, ma c’è una speranza nella comunione con l’umano. E poiché nel contatto con la terra e con l’umano ci si sporca le mani, come quando si maneggia l’inchiostro, accanto ai vari premi assegnati c’era un asciugamano artigianale opera dei detenuti, un oggetto simbolico che ricorda il valore delle mani che fanno, perché fare è il verbo greco da cui deriva il termine poesia. E il filo d’inchiostro che lasciamo è la traccia comune, il “filo che unisce”, come è stato ricamato su questo prodotto in cotone. A rendere possibile questa prima edizione del Premio le docenti Donatella Garavello, Anna Balzan, Laura Dinale e Sonia Rossi, le docenti e i referenti del carcere, nonché il dirigente scolastico Gianni Zen e Ivano Zamperoni, presidente del Comitato Genitori del liceo Brocchi. Campobasso: la scrittrice Valentina Farinaccio incontra i detenuti molisenews24.it, 26 marzo 2019 L’incontro in programma il 26 marzo rappresenta un’occasione unica di crescita culturale e umana, non solo per i detenuti, ma anche per gli organizzatori dell’appuntamento. “Poche certezze su cui contare, ma un’unica incrollabile fede: tra un’isola e l’altra c’è sempre il mare. Ma per il resto tutto può diventare il suo esatto contrario. Tanto vale rischiare, soprattutto quando la posta in gioco è la felicità”. È questo il messaggio con cui si sono confrontati nelle ultime settimane e da qui partono per una giornata all’insegna della lettura e del confronto. Nell’ambito di Liberi di leggere, l’iniziativa di Ti racconto un libro 2019, il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione - promosso e sostenuto dal Comune di Campobasso e realizzato dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli e il patrocinio della Provincia di Campobasso, la scrittrice Valentina Farinaccio farà visita ai detenuti del carcere di Campobasso per discutere e confrontarsi sul suo ultimo libro, Le poche cose certe, che gli ospiti della casa circondariale hanno letto nelle ultime settimane. L’incontro, in programma domani martedì 26 marzo alle ore 15.30 nell’istituto carcerario, è organizzato in collaborazione con il Laboratorio di lettura del carcere di Campobasso, condotto da Brunella Santoli, e rappresenta un’occasione unica di crescita culturale e umana, non solo per i detenuti, ma anche per gli organizzatori dell’appuntamento che da anni promuovono questo tipo di iniziativa che ha registrato sempre riscontri molto positivi. Nel corso degli anni, Liberi di leggere ha ospitato alcune delle personalità più prestigiose della narrativa italiana, tra cui Pino Roveredo, Ivan Cotroneo, Antonio Pascale, Eugenio Allegri e Francesco Viviano, dando vita ad una formula innovativa di lettura basata sul confronto e la discussione e che ha di fatto creato le basi per il Laboratorio di lettura, un’esperienza realmente condivisa e che ha riscosso una straordinaria partecipazione. Un luogo in cui la lettura rappresenta un ritaglio di libertà e un modo per mantenere viva l’intelligenza e per elaborare un nuovo senso della vita. Il prossimo appuntamento con Ti racconto un libro è in programma giovedì 28 marzo alle ore 18.30 nel Circolo sannitico di Campobasso con il poeta e paesologo Franco Arminio per un doppio appuntamento. Nel pomeriggio, alle ore 15.30, Arminio sarà alla guida di Esercizi di osservazione, un originalissimo laboratorio poetico aperto a tutti coloro (disponibilità limitata) che vorranno cimentarsi con la poesia. Alle ore 18.30, sempre nei locali del Circolo sannitico di Campobasso, l’autore incontrerà il pubblico per la presentazione di Resteranno i canti, omaggio alla parola che sa posarsi su dettagli fino a un minuto prima invisibili, illuminandoli e che, nascendo nel silenzio, ridanno voce ai paesi spopolati. Reggio Emilia: “Cena al fresco”, serata benefica stellata nel carcere gazzettadellemilia.it, 26 marzo 2019 Cena benefica: la direzione artistica ad Antonio Marras e il menù a cura dello chef Luca Marchini. Una cena sicuramente diversa dal solito, alternativa. Una cena per mostrare il grado di civiltà presente in una città, quella di Reggio Emilia. Ecco, questa serata serve come luogo di incontro, di comprensione e scoperta nei confronti di una comunità convinta che la bellezza sia un diritto. Una cena svolta all’interno del carcere, il cui ricavato andrà in beneficenza. Si tratta di una tappa del percorso di condivisione del Manifesto del diritto alla bellezza, l’occasione per osare il gusto di un incontro. Per varcare una soglia e tornare cambiati. Fulcro del progetto è il recupero di luoghi, in questo caso le cucine dell’Istituto Penale di Reggio Emilia, dove ogni giorno si trovano impegnati i detenuti nella preparazione di oltre 800 pasti al giorno. L’obiettivo è quello di dare a questo spazio dignità, di renderlo bello, curato e funzionale. Un obiettivo possibile grazie alla generosità e alla creatività di tanti sostenitori. Ecco quindi che il 29 Marzo prossimo, l’Istituto Penale di Reggio Emilia si trasformerà in un ristorante sotto la direzione creativa di Antonio Marras. Ad occuparsi della cena sarà lo chef stellato Luca Marchini, titolare de L’Erba del Re di Modena, che cucinerà insieme ai detenuti, guidandoli nella preparazione di piatti di alta cucina da condividere. Il ricavato della cena contribuirà ai costi di ristrutturazione della cucina e consentirà il recupero dell’area accoglienza bimbi, uno spazio che, prima di ogni altra cosa, deve rispettare i bimbi, le mamme e i papà e il loro diritto ad un abbraccio. Stati generali dell’Informazione, tanto rumore per quasi nulla di Vincenzo Vita Il Manifesto, 26 marzo 2019 Due ore scarse per celebrare l’apertura degli “stati generali dell’editoria” presso la presidenza del consiglio. Così ieri il premier Conte e il sottosegretario con delega Crimi hanno ottemperato a un impegno assunto nella conferenza stampa di fine anno. Peccato che la “prima” corresse su un canovaccio prestabilito, con pochi interventi e un pubblico contingentato. Per un governo che si ritiene voce narrante del popolo, non c’è male. Se non fosse stato per Radio radicale, che peraltro l’esecutivo ha crudelmente punito dimezzandone le risorse e mettendone in forse l’esistenza, non si sarebbe conosciuto ciò che è avvenuto nelle segrete stanze, aperte ai giornalisti solo dopo forti proteste. L’impressione è che si sia fatto tanto rumore per quasi nulla. Infatti, a parte le prevedibili parole di Conte (forse con l’eccezione positiva del cenno alle querele temerarie), la relazione di Crimi ha detto meno di ciò che le varie interviste rilasciate nell’ultimo periodo avessero indotto a supporre. Il sottosegretario del settore si è limitato a esporre i titoli generali dei passaggi previsti per giugno, luglio e settembre: dalle agenzie di stampa, alla deontologia, agli istituti previdenziali, all’Ordine, alla distribuzione, alla concorrenza, al diritto d’autore (ma nulla sulla direttiva europea oggi nell’aula di Strasburgo). Nel merito il solito mantra: sostenere il pluralismo e non le singole testate. Già, la categoria generale e non la sua declinazione reale interpretata da persone in carne e ossa. Che ora sono a grave rischio di trovarsi disoccupati dopo la cura gialloverde, simile quest’ultima a quella dei dotti medioevali che curavano le malattie con le sanguisughe. La traduzione concreta di tali ipotesi si capirà meglio se il governo coinvolgerà il parlamento con qualche più dettagliata proposta di legge. In verità, non nella relazione, bensì nelle dichiarazioni successive Crimi ha esplicitato meglio la volontà di tagliare il fondo per il pluralismo, persino soffermandosi su il manifesto con un certo accanimento. Va ribadita una banale verità: quali “stati generali” se i referenti concreti (editori, giornalisti, edicolanti, lettori, etc.) nel frattempo soccombono? Di tali aspetti hanno parlato con precisione il segretario della federazione della stampa Lorusso e il presidente dell’ordine Verna: il primo sul tema dell’occupazione e della mancanza di certezze; il secondo rilanciando, tra l’altro, la giusta idea di una moratoria rispetto ai tagli previsti dalla legge di bilancio. E sì, è questa la parola d’ordine necessaria: qualsiasi confronto è reso impraticabile se sono già scritte le condanne a morte. Non solo. Nel suo pur felice intervento Marco Giovannelli, rappresentante dell’associazione delle testate online Anso, ha sottovalutato che nell’editoria analogico e digitale sono vasi comunicanti: non c’è futuro per blog professionali o start up nell’innovazione se crollano le fondamenta del sistema. Da quel crollo derivano inesorabilmente contraccolpi per l’intero universo. Si è accennato, ma non troppo, ai nuovi oligarchi della rete, che spadroneggiano cannibalizzando l’informazione e neppure pagando adeguatamente le tasse. Gli “Over The Top” sono il grande problema di un presente che è già futuro. Anche nella pubblicità Google e affini sono “trust” terribili, come ha ricordato Giovanna Maggioni per gli utenti dell’advertising ormai in presenza di soggetti potenti e prepotenti. Gli editori, con il presidente Riffeser, non sono sembrati offrire particolari suggestioni, a parte l’accenno ai prepensionamenti e la curiosa richiesta di estendere la “par condicio” ai giornali (come si fa? chi controllerebbe?). Ma l’intervento pubblico - come ha rammentato Vetere dell’Uspi - è considerato desueto proprio nell’editoria, mentre il governo lo sta rilanciando ovunque? La federazione della stampa ha poi svolto nel pomeriggio le sue controdeduzioni. Certamente giuste, se si rilancia davvero il conflitto. A fari spenti si va a sbattere. Annamaria Furlan: “Basta pregiudizi, lo ius soli migliora il nostro futuro” di Rosaria Amato La Repubblica, 26 marzo 2019 La leader della Cisl spiega perché la legge può aiutare il Paese a crescere. “In un Paese a crescita zero come l’Italia una legge così restrittiva sul diritto di cittadinanza non ha senso in termini umani, giuridici, sociali ed anche economici”. Annamaria Furlan, leader della Cisl, appoggia da sempre le proposte di legge sullo ius soli. Con l’Anolf, organizzazione fondata 30 anni fa, la Cisl promuove l’assistenza e l’integrazione degli immigrati in Italia: il sindacato vanta anche un’elevata presenza di dirigenti stranieri. Uno ius soli “temperato”, ancorato a una serie di condizioni, oppure aperto a chiunque: secondo lei quale potrebbe essere la scelta giusta? “Sono convinta che senza pregiudizi si possa trovare la proposta giusta per il nostro Paese: gli Stati Uniti applicano semplicemente lo ius soli a chi nasce sul loro territorio, ogni Paese europeo ha trovato la sua risposta. Solo da noi è motivo di scontri e chiusure: non solo è ingiusto, così si compromette il nostro futuro”. Il nodo è proprio questo: una parte del Paese e del governo pensa che l’Italia non abbia bisogno di immigrati, e che la cittadinanza a 18 anni vada bene. “Due anni fa al Congresso i razionale della Cisl è venuto un ragazzo di Caserta che proprio quel giorno compiva l8 anni, e ha raccontato come pur essendo nato in Italia, frequentato le scuole italiane giocato a calcio in una squadra locale, avesse dovuto aspettare fino a quel giorno perché il suo sentirsi profondamente italiano venisse anche riconosciuto dallo Stato. Aveva anche un marcato accento campano...”. Si avvertono perplessità persino rispetto alla cittadinanza da concedere in via straordinaria a Rami. “Della storia di Rami ci deve far riflettere anche il fatto che desideri diventare carabiniere, cioè appartenere al corpo più fedele allo Stato. L’identità di appartenenza non si costruisce da adulti, ma nella primissima infanzia: il mancato riconoscimento della cittadinanza comporta disagi per i bambini e le bambini spesso di seconda generazione. Il futuro è loro e devono sentire l’appartenenza alla comunità, sentirsi protagonisti, non lo si è se si viene lasciati sulla porta”. Ma allora perché questa forte ostilità verso lo ius soli, espressa da Salvini e condivisa da una parte degli italiani? “Non si vuole riconoscere quanto sia fondamentale l’apporto degli immigrati alla nostra economia, quanto in Italia, come nel resto dell’Europa, gli stranieri rappresentino una risorsa fondamentale per il mondo del lavoro. Abbiamo centinaia di migliaia di immigrati impegnati quotidianamente nelle nostre imprese, da quelle agricole al Sud a quelle industriali in Lombardia e in Veneto. Senza di loro si bloccherebbe l’economia. Il decreto che ha fermato i flussi migratori è assolutamente negativo, da superare, anche se oggi non va di moda dire queste cose”. Anche molte delle nostre scuole sono tenute in piedi solo dalla presenza degli immigrati. “I numeri ci aiutano a riflettere un po’ meglio: stiamo parlando di 825.000 bambini nati nel nostro Paese, che frequentano le scuole materne, elementari, medie e superiori. In media un bambino su dieci nelle scuole è straniero, ma dipende dagli istituti, a voltele percentuali sono più alte. A Milano ce ne sono 85.000, a Roma 65.000, parliamo di un numero davvero elevato di italiani e italiane a cui non viene riconosciuto da subito il diritto di cittadinanza, è un errore strategico, tragico dal punto di vista giuridico, sociale ed economico”. Caporalato senza fine. In Calabria il sistema continua a prosperare di Silvio Messinetti Il Manifesto, 26 marzo 2019 Ad un posto di blocco trovati i migranti stipati nei portabagagli Undici denunce tra cui tre titolari aziende: 10 euro per 10 ore. Nel 2016 la morte di un bracciante rumeno. A tre anni di distanza la situazione è peggiorata: molti migranti pur di lavorare arrivano a comprarsi il posto. Se vuoi lavorare, soprattutto se sei straniero, devi per forza farlo sotto i caporali. Non c’è altra soluzione a queste latitudini. Nella piana di Sibari, in tutto lo Jonio cosentino, e ancor più su fino in Lucania, nei campi di Scanzano e Metaponto, sono i caporali a trattare con i proprietari e quindi sono loro che forniscono la manodopera. Se vuoi lavorare in agricoltura devi sottostare ai loro ricatti. Lavori mediamente dalle 7 del mattino fino alle 5 del pomeriggio nella raccolta degli agrumi ed il massimo che riesci a portare a casa sono 10 euro al giorno. Dieci ore di lavoro quotidiano, a spezzarti la schiena in mezzo a soprusi, insulti, minacce ed una paga giornaliera da schiavi. I caporali che si impossessano dei documenti per poi ricattarti durante le ore di lavoro, i caporali che ti rinchiudono nei furgoni come delle bestie. E come delle bestie ti spostano da un luogo all’altro. La scena che è apparsa ieri all’alba lungo la Statale Jonica, tra Montegiordano e Roseto Capo Spulico, ai finanzieri impegnati in un posto di blocco era questa: sette furgoni in cui erano stipati all’interno del vano portabagagli, in condizioni degradanti, 56 braccianti di nazionalità pakistana, nigeriana, bulgara e rumena, provenienti dalle campagne della Basilicata. Denunciate 18 persone per caporalato e immigrazione clandestina, identificati 56 soggetti reclutati in violazione dei contratti nazionali e provinciali del comparto agricoltura. I raccoglitori sono stati accompagnati per essere identificati con l’ausilio di interpreti. Sulla base delle dichiarazioni fornite e della documentazione, è emerso che erano stati reclutati in violazione dei contratti ed impiegati presso le aziende percependo paghe nettamente inferiori a quanto stabilito dalle norme. Sono stati denunciati alla procura di Castrovillari 11 caporali, tra cui i tre titolari delle aziende lucane, in concorso tra loro, per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: rischiano la reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. In queste lande il refrain di sfruttamento e disperazione umana non è cambiato negli anni. Neanche la morte nel 2016 di Aurel Galbau, rumeno di 49 anni, caduto da un albero sul quale stava raccogliendo le olive in un campo nei pressi di Rossano, ha cambiato l’andazzo. Tra Schiavonea e Villapiana ogni mattina la scena è sempre quella. Un sacchetto di plastica con il pranzo in mano, stivali ai piedi e qualche fuoco improvvisato con i cartoni per scaldarsi dal freddo, i capannelli di migranti che attendono all’alba l’arrivo di camion, furgoncini e macchine che li porteranno sui campi. Nella Sibaritide il caporalato si nasconde dietro forme para-legali, quelle che i sindacati chiamano “cooperative senza terra”: sono fatte solo da braccia. Il titolare è italiano o straniero ed è lui il vero aguzzino che forma le squadre di lavoro. A volte gli stranieri sono dei prestanome dietro cui si nascondono dei calabresi per non rendere il caporale identificabile. Spesso anche l’autista del pulmino che recluta la manodopera per strada è solo un altro bracciante sfruttato. La cooperativa offre alle aziende un servizio a basso costo, riduce la paga della giornata di lavoro e tiene sotto ricatto il lavoratore. Alcuni braccianti pur di lavorare arrivano a comprarsi il contratto di lavoro. “Bisogna cambiare marcia con provvedimenti seri - incalza il sindacalista Usb Giuseppe Tiano - potenziando i centri per l’impiego in tema di intermediazione di manodopera, aumentando i controlli degli ispettorati, riformulando i contratti di lavoro nazionali e creando un sistema di filiera corta con un bollino di qualità per il lavoro virtuoso”. Ma nonostante il sistema schiavistico, i migranti non si ribellano, hanno imparato a non vedere e a non parlare. Il clima è di assoluta omertà. La Caritas ha aperto “la mensa per i braccianti” a Corigliano. Nel mentre, lo Stato è assente e silente. Le ruspe di Salvini, qui, non accendono il motore. Abbiamo bisogno di eroi? di Alberto Leiss Il Manifesto, 26 marzo 2019 Reagire alla violenza con la violenza forse a volte è necessario. Ma non dovrebbe mai piacerci. Mi ha impressionato la vicenda di Lorenzo Orsetti, il giovane che combatteva dalla parte dei Curdi, ucciso dai miliziani dell’Isis a pochi giorni dalla sconfitta (quanto definitiva?) dello “Stato Islamico”. Ho due figli poco più grandi del trentatreenne Lorenzo, appassionati della giustizia, e penso a cosa farei se mi comunicassero una scelta come la sua. Cercherei in ogni modo di dissuaderli, come mi pare abbia raccontato anche il padre del ragazzo, con il semplice argomento: c’è tanto da fare qui da noi per una società più giusta. E non dico del dolore del perdere un figlio, che immagino sia la cosa peggiore che possa accaderci. La storia tragica di Orsetti, come molte altre in un tempo di cambiamenti profondi in direzioni diverse e spesso opposte, ha dato luogo a un discorso pubblico discordante. Giuliano Ferrara ha proposto - con i suoi modi provocatori - una “medaglia d’oro alla Resistenza in memoria” del ragazzo, paragonandone la morte da un lato a quella di Fabrizio Quattrocchi, (che gridò ai suoi assassini iracheni “vi faccio vedere come muore un italiano”) dall’altro a figure della resistenza antifascista come Eugenio Colorni e Eugenio Curiel, uccisi dai nazifascisti alla vigilia della Liberazione. Un altro giornalista di destra, Vittorio Feltri, ha liquidato grevemente il caso, definendolo un “ganassa” che aveva scelto avventatamente di andare in guerra, dove la logica è quella del “chi di cecchino ferisce, di cecchino perisce”. Forse un’allusione alla testimonianza resa al Corriere della Sera dal fotoreporter Gabriele Micalizzi, che aveva conosciuto Orsetti prima di essere a sua volta ferito: “Mi diceva: se esco vivo, m’iscrivo all’accademia militare dell’Sdf (le forze democratiche siriane che combattono l’Isis, ndr) e divento cecchino”. Ma secondo altri, invece, cominciava a essere stanco e a desiderare di tornare a casa. Il presidente della Regione Toscana Rossi ha reso omaggio al giovane fiorentino - come anche l’Anpi - lodando il suo impegno a fianco dei Curdi, di cui Lorenzo apprezzava i programmi sociali democratici, socialisti, ambientalisti e femministi. La famiglia vorrebbe un sostegno più pieno dalle istituzioni nazionali, ora che si prevede anche il rientro in Italia del corpo. Ma c’è anche imbarazzo: a Torino per altri ragazzi italiani anarchici, reduci dall’impegno militante nel Rojava, Digos e Procura richiedono una “sorveglianza speciale”. Ieri il PM Manuela Pedrotta ha sentito il bisogno di dichiarare che Orsetti - che aveva apertamente solidarizzato con i suoi compagni torinesi - non avrebbe avuto lo stesso trattamento poiché non aveva “precedenti penali”. Retoriche e strumentalizzazioni diverse dovrebbero fare spazio al semplice rispetto e alla solidarietà con il dolore della famiglia. Resta però l’interrogativo aperto dal suo stesso “testamento”, senza incertezze sulla giustezza della sua scelta, e la convinzione di essersene andato “con il sorriso sulle labbra”. Parole toccanti: ma è davvero “bella” la morte per una giusta causa? Io credo di no. Il rispetto non mi impedisce di dichiararlo: non è bello morire per la patria come per qualunque altro nobilissimo e rivoluzionario motivo. Naturalmente vengono in mente le parole del Galileo di Brecht, che dopo aver pronunciato l’abiura che gli salva la vita, e di fronte al giovanissimo Andrea Sarti che lo insulta e grida “sventurata la terra che non ha eroi”, risponde: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Reagire alla violenza con la violenza forse a volte è necessario. Ma non dovrebbe mai piacerci. Medio Oriente. La guerra di Gaza fa paura al mondo di Vittorio Zucconi La Repubblica, 26 marzo 2019 Con la benedizione di Trump e con la maledizione dei razzi di Hamas lanciati su Israele, il “socio” israeliano del presidente Usa scatena l’offensiva elettorale su Gaza e lascia Washington di corsa per curare i propri interessi politici. Ora che Trump ha proclamato la sovranità di Israele sulle alture del Golan occupate dal 1967, in disprezzo di ogni risoluzione Onu, e Netanyahu è impigliato in inchieste e incriminazioni per corruzione e tangenti, i due signori del Risiko senza fine israelo-palestinese si sentono liberi di buttare all’aria ogni residua speranza di negoziati e soluzione, incoraggiati dai razzi di Hamas e indifferenti alle condanne internazionali. “Bibi” e il “Don” sono da sempre in perfetta sintonia nel loro giocare d’azzardo forzando, uno a cannonate, l’altro a bordate di tweet, i confini di quella sterile prudenza e di quella esitante strategia che da anni non produce pace o soluzioni, ma ha almeno contenuto conflitti allargati. Per cinismo politico Netanyahu, deciso a tutto per proteggersi la poltrona dall’insidia di un avversario pericoloso alle elezioni di aprile, e per garrula incoscienza e felice ignoranza il socio americano che si muove nel mondo come il proverbiale elefante in cristalleria, i due leaders camminano di pari passo dal riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana verso il vuoto. La loro forza, per ora incontrollata, è la completa assenza di conseguenze, è la inesistenza di chi, come l’Europa vaporizzata, la Cina in altri affari indaffarata, l’Onu irrilevante dovrebbe rappresentare un contrappeso alla prepotenza dell’uno e alla spregiudicatezza dell’altro, come impotenti sono a portare Hamas alla rinuncia ad azioni provocatorie che non servono ad altro se non a dare apparente copertura alle pesantissime rappresaglie dell’Idf, la forza armata israeliana. Lamentare la insostenibile leggerezza di Trump nel demolire il ruolo internazionale degli Usa ormai schierati o condannare la rinuncia di Netanyahu a ogni finzione di negoziato è pura ipocrisia. La forza dei due soci del Risiko è la debolezza degli altri giocatori. Debolezza alla quale va assommata l’indifferenza di opinioni pubbliche in tutto l’Occidente incapaci di mobilitarsi per altre cause che non siano la etiopica difesa del proprio confine, magari da pattuglie di disperati naufraghi, sensibile soltanto alla sirena di un “sovranismo” che dovrebbe proteggerle da ogni ricaduta internazionale delle crisi croniche come quella medio orientale. Fra l’incantesimo del “terrorismo fondamentalista” che ha risucchiato ogni altra preoccupazione e illusione di potersi tirare le coperte dei propri sacri confini sugli occhi, la “gente” ha da tempo smesso di occuparsi d’altro che non siano malesseri e disagi immediati. Il fatto che l’occupazione dei territori attribuiti ai palestinesi rimanga la ferita iniziale e purulenta nel conflitto con il mondo arabo è ormai lontano e irrilevante, spesso anche per le stesse nazioni arabe, e in special modo l’Arabia Saudita fissata nell’incubo dell’Iran e incoraggiata da Trump ossessionato dal vecchio, nuovo Satana. “Bibi” non ha più altri limiti internazionali, ora che gli Stati Uniti hanno rinunciato al ruolo classico dell’HonestBroker, del mediatore onesto e la sua preoccupazione può concentrarsi sulla rielezione a rischio, ora non più soltanto politico, ma giudiziario. Trump non ha limiti perché non ha limiti e ora si crede anche definitivamente riscattato da sospetti di azioni criminali. I due soci ruzzolano lungo il toboga della propria tracotanza e dell’indifferenza altrui. Soltanto la democrazia israeliana, ferita ancora da lui stesso se le inchieste sono fondate e dai razzi di Hamas, e la democrazia americana, paralizzata nella ricerca di soluzioni giudiziarie al problema politico Trump, come fu l’Italia con Berlusconi, potrebbero fermarli e riportarli sulla via della ragione. Siria. 6.500 “bambini dell’Isis” tra i catturati nel campo di Al Hol Il Giornale, 26 marzo 2019 Ci sono 6.500 bambini e sono la maggioranza degli oltre 9mila stranieri, tra cui moltissime donne collegati con i jihadisti dell’Isis e finiti nel campo profughi di Al Hol, nel Nord-Est della Siria. Una sorta di città che attende di capire quale sarà la sua sorte. Lo ha riferito Luqman Ahmi, portavoce delle forze curde, precisando che i dati risalgono a una settimana fa prima che le Forze Democratiche Siriane (Sdf) annunciassero di aver conquistato Baghuz, ultima roccaforte dell’Isis, e proclamassero la distruzione dell’auto-proclamato Califfato. Secondo un rapporto della Casa Bianca, sono almeno un centinaio gli esponenti di spicco dello Stato islamico uccisi a partire dal 2017 dalle Forze democratiche siriane (Fds) nell’est della Siria. La relazione dell’amministrazione americana è stata pubblicata dopo l’annuncio da parte delle Fds della presa di Baghuz, ultima roccaforte dello Stato islamico in Siria la cui caduta pone fine ai combattenti sul piano territoriale. Il rapporto fa il punto sugli ultimi due anni di guerra contro lo Stato islamico condotta dalle Fds con il sostegno della Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Secondo Washington, a partire dal 2017 le Fds con il sostegno della Coalizione sono riuscite a liberare oltre 50 chilometri quadrati di territorio in mano allo Stato islamico in Siria, distruggendo ben sessanta obiettivi di alto valore strategico ed eliminando 100 leader di spicco dell’autoproclamato califfato. Il rapporto non fa menzione dei combattenti dello Stato islamico e delle Fds uccise in battaglia. Secondo la Casa Bianca sarebbero invece oltre un migliaio i combattenti stranieri catturati dalle forze curdo arabe provenienti da 40 paesi. C’è una “Guantánamo” neofascista in Ucraina di Marco Boccitto Il Manifesto, 26 marzo 2019 L’ex agente segreto Prozonov svela l’esistenza di prigioni speciali gestite dal battaglione Azov presso il fronte del Donbass. E sulle presidenziali di domenica prossima si sbilancia: “Vince Poroshenko, è troppo esperto di frodi”. In Ucraina ci sarebbe una vera e propria Guantánamo gestita da neofascisti non lontano dal fronte del Donbass dove dal 2014 si combatte la guerra tra Ucraina e le milizie delle autoproclamate repubbliche. A svelarlo ieri in una conferenza stampa a Mosca l’ex funzionario dei servizi segreti ucraini dal 1999 al 2018, Vasily Prozorov, ora disertore. Secondo Prozonov all’interno dell’aeroporto dalla città di Maryupol, nel Donbass controllato dal governo Poroshenko, sarebbe attiva una prigione segreta dove sarebbero stati torturati e uccisi molti combattenti nemici. Nel gergo dell’intelligence ucraina queste prigioni sono denominate “biblioteche” e i prigionieri “libri”. Secondo Prozorov “sono delle vere camere dell’orrore, quella che conosco io ha iniziato a funzionare dall’inizio del 2017 e vi sono passate almeno 300 persone e almeno due delle quali sono morte dopo sevizie. Ma ne esistono sicuramente altre”. L’ex agente ucraino sostiene anche che il famigerato battaglione Azov composto da volontari neonazisti e operante sul fronte orientale avrebbe anche proprie prigioni speciali, di cui si sa pochissimo. Il battaglione Azov a quanto afferma Prozorov si sarebbe macchiato di massacri di civili inermi e “agisce praticamente in completa autonomia non rispondendo ai vertici della guardia nazionale ma solo ed esclusivamente all’onnipotente ministro degli interni Arsen Avakov”. Quest’ultimo, ormai da tempo, gioca una sua autonoma partita politica: solo la scorsa settimana ha accusato il presidente Poroshenko di compravendita di voti nell’attuale campagna elettorale, senza che questi abbia avuto il coraggio di dimissionarlo. Inoltre a Kiev per Prozorov sono presenti stabilmente dal 2005, un vasto contingente di agenti della Cia che dimorerebbero appena fuori dalla capitale. L’Azov e le formazioni di estrema destra sembrano finalmente destare qualche perplessità anche nel distratto mondo delle cancellerie occidentali. Dopo che il Dipartimento di Stato Usa aveva denunciato il ruolo di gruppi come Nazkorp (braccio politico dell’Azov) e S14, sabato è stata la volta dei ministri degli esteri del G7 a lanciare “l’allarme fascismo”, sollecitando però paradossalmente proprio chi tira i fili delle violenze in Ucraina a intervenire per porre un freno a una situazione da tempo sfuggita di mano: “Invitiamo Arsen Avakov ad agire contro i gruppi violenti di estremisti politici che potrebbero minacciare di impedire il prossimo voto e usurpare il ruolo della polizia nazionale ucraina, e prendere in considerazione la possibilità di metterli fuori legge” si legge nel documento dei ministri. A proposito di elezioni i giornalisti hanno voluto chiedere all’ex agente segreto ucraino chi secondo lui vincerà le prossime presidenziali. La sua risposta è stata lapidaria: “Credo le vincerà Poroshenko: ha una vasta esperienza in frodi e ha sotto il suo controllo tutte le risorse finanziarie del paese”, ha dichiarato Prozorov. “Non tornerò in Turchia, sarebbe un suicidio” di Laura Ricci articolo21.org, 26 marzo 2019 Intervista a Asli Erdogan, la scrittrice turca che rischia l’ergastolo. La scrittrice e pubblicista turca Asli Erdogan è stata insignita, il 21 marzo 2019 a Trieste, dell’International Award “Trieste, diritto di dialogo”. La giuria, presieduta da Gabriella Valera, ha inteso assegnarle il riconoscimento per il suo impegno civile in difesa dei diritti della persona, in particolare delle donne e delle minoranze etniche, della libertà nelle opinioni politiche e nel pensiero, per l’impegno per l’abolizione della tortura nelle carceri e contro la violenza di ogni genere. La scrittrice, imprigionata il 16 agosto 2016 per la sua attività di opposizione al regime antidemocratico di Recep Tayyip Erdogan, liberata dopo 136 giorni per il vasto movimento internazionale d’opinione diffusosi in suo sostegno, vive attualmente in Germania, in attesa di un processo per cui rischia nel suo Paese l’ergastolo per “aver agito per la distruzione dell’unità dello Stato”. Ho approfittato della sua presenza a Trieste per realizzare questa intervista per Articolo21, quotidiano nato nel segno della difesa della libertà di opinione e di stampa. Buongiorno Asli, grazie dell’intervista, che vorrei cominciare con una nota lieta. Sono io la scrittrice e giornalista italiana che, conoscendo la tua attività, parte della tua opera letteraria e quanto per il tuo impegno rischi, ha avanzato la tua candidatura a questo premio. Sono molto felice che la giuria ti abbia scelto fra altre impegnate e ammirevoli personalità, e vorrei chiederti, innanzi tutto, cosa pensi di questo riconoscimento. Grazie della candidatura e grazie di cuore alla giuria per avermi scelto. Sono molto felice, naturalmente, di questo riconoscimento. Perché sottolinea il valore della libertà di pensiero e del dialogo, che ho sempre sollecitato e difeso, e perché mi porta in Italia, Paese nel quale sono poco conosciuta. Spero che questo premio possa servire a portare maggiormente all’attenzione non solo il mio impegno per la pace, il dialogo, i diritti e la democrazia, così assente dal mio Paese, ma anche ad avvicinare l’editoria italiana e le persone alla mia opera letteraria. Sono inoltre molto felice di essere a Trieste, così vicina alla Duino del grande poeta Rilke, dove mi recherò domani per conoscere questo luogo così fondamentale nella produzione di questo scrittore che molto amo. Passiamo, purtroppo, a note più dolorose. Come vedi il contesto politico e sociale dell’odierna Turchia? Penso che il governo di Erdogan è una vera e propria giunta militare, la peggiore che ci sia mai stata nella Turchia sconvolta da vari colpi di stato e sempre in grave difetto di democrazia. I colpi di stato del 1971 e del 1980 hanno visto al potere giunte che hanno promulgato leggi marziali e misure straordinarie di sicurezza, torturato, processato e pronunciato gravi sentenze verso trentamila persone, ma con la giunta di Erdogan siamo arrivati, con le condanne, a tre volte di più, e tutto questo non sconvolge troppo gli stati democratici, sembra quasi normale. Sono tutti in prigione in Turchia, giornalisti, militari, funzionari o impiegati dello Stato, con processi celebrati da giudici di nuova nomina e di nessuna esperienza. Per un attimo abbiamo pensato a una possibile entrata della Turchia in Europa, ormai ne è completamente fuori. A proposito di processi, cosa ne è del tuo? Deve ancora essere svolto e rischi ancora l’ergastolo? E pensi di tornare in Turchia? Certo che rischio l’ergastolo. Il mio processo viene continuamente rimandato, siamo al terzo rinvio attualmente; e è nelle mani di un giudice come quelli a cui accennavo prima, un trentenne che non ha alcuna esperienza. In Turchia non ho nessuna intenzione di tornare, sarebbe un’azione suicida. Anche se Istanbul mi manca, non tornerò di certo nella mia terra per farmi incarcerare. Cosa pensi del recente ritiro delle truppe Usa dal fronte siriano? Credi che questo favorisca le mire di Recep Tayyip Erdogan rispetto alla questione curda? Certamente sì, ma non segna una grossa novità, perché i due statisti si sono sempre spalleggiati. Credo che Trump, Erdogan, Urban e Putin si somiglino e si spalleggino l’un l’altro: megalomani di un grande teatro, che incoraggiano il populismo e la deriva della democrazia, e che purtroppo godono di popolarità. Parliamo anche della tua scrittura. Quali sono, attualmente, i tuoi progetti? Grazie della domanda, mi sono sempre considerata soprattutto una scrittrice. Anche se spesso vengo definita una giornalista, in realtà non lo sono mai stata nel senso più comune del termine, non ho mai fatto cronaca o giornalismo politico propriamente detto, né collaborato continuativamente con un giornale. Ho tenuto solo alcune rubriche periodiche. In fondo la mia voce, a livello giornalistico, è stata una piccola voce, ma evidentemente scomoda. Credo di aver ricevuto da questa giunta (così Asli definisce ripetutamente il governo Erdogan, n.d.a.) un trattamento sproporzionato rispetto all’importanza della mia voce nel giornalismo. Nel giornalismo vero e proprio è richiesto un ritmo immediato, veloce, un minimo di aggressività, io invece sono una persona introversa, riflessiva, lenta, una scrittrice appunto, che ha bisogno di cercare e limare le parole. Come sai sono poco tradotta in Italia, spero che in futuro l’Italia possa conoscere meglio la mia scrittura. Per il resto, sono stata completamente tradotta in Francia e in modo molto consistente in Germania. Attualmente sto rivedendo la versione tedesca di “Das Haus aus Stein” (La casa di pietra), perché l’editore vuole farne una riedizione un poco diversa dalla precedente. È un libro sulla situazione carceraria turca che ho scritto in un periodo molto difficile, per il Paese e per me, mentre mi sentivo molto minacciata e molto condizionata nella mia libertà; ora è molto interessante rivisitarlo nel mio nuovo stato di donna libera. Qual è tra i tuoi libri quello a cui sei maggiormente legata? “Kirmizi Pelerinli Kent” (La città dal mantello rosso), legato, in un romanzo poetico e visionario, alla mia esperienza in Brasile. Penso di poterlo considerare, come la protagonista del libro - una studentessa di Istanbul che si immerge sempre più profondamente e pericolosamente negli abissi di Rio de Janeiro per poterne scrivere - il libro della mia vita. Turchia. Tragedia curda: Meyda Cinar, libera alla fine di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 26 marzo 2019 Il 25 marzo un’altra prigioniera politica, Meyda Cinar, ha messo in atto l’estrema protesta, il suicidio, contro l’isolamento imposto a Ocalan e contro la politica repressiva di Ankara. Mentre oltre settemila prigionieri curdi sono in sciopero della fame (e il governo rimane del tutto impassibile alle richieste), già quattro di loro - nell’arco di un sola settimana - hanno radicalizzato la protesta ponendo fine volontariamente alla vita stessa. Oltre a Meyda Cinar, Zulkuf Gezen (17 marzo, prigione di Tekirdag), Ayten Beçet (22 marzo, prigione di Gebze), Zehra Saglam. (24 marzo, prigione di Oltu). A questi bisogna poi aggiungere un militante - Ugur Sakar - che in febbraio si era immolato con il fuoco in Germania e che è deceduto per le gravi ustioni qualche giorno fa. Pare inoltre che un altro curdo si sia voluto immolare, sempre con il fuoco, proprio il 25 durante una manifestazione. Meyda Cinar, 24 anni, era rinchiusa dal 2015 nel carcere di tipo E di Mardin. Tornata a Nusaybin dopo essere rimasta ferita (mentre combatteva in Rojava con le YPG contro lo stato islamico), era stata arrestata durante un rastrellamento per imporre il coprifuoco. Sottoposta a tortura, come aveva denunciato, si trovava in attesa del processo. In questo momento, mentre scrivo (tarda serata del 25 marzo) il suo corpo è ancora nell’obitorio di Mardin e la polizia si rifiuta di restituirlo ai familiari. La drammaticità della situazione è ormai ad un punto tale che il PKK, con un comunicato, ha richiesto con forza la sospensione di tali “atti individuali”. Atti che comunque rendono l’idea di quanto grave sia la situazione carceraria in Turchia e quella dei prigionieri politici in particolare. Nel suo comunicato il PKK rende onore a coloro che hanno scelto di mettere fine alla loro vita, ma contemporaneamente chiede agli altri prigionieri di non proseguire con tali gesti definitivi e irreparabili. Il presidente dell’Associazione per i Diritti dell’Uomo (IHD) - Ozturk Turkdogan - e il segretario generale della Fondazione turca per i diritti dell’Uomo (TIHV) - Metin Bakkalci - in una dichiarazione congiunta alla stampa (sia sulla questione degli scioperi della fame che su quella dell’isolamento) hanno dichiarato che “le persone che hanno posto fine alla loro vita in questi giorni per protestare contro l’isolamento di Abdullah Ocalan, detenuto nel carcere di Imrali, ci hanno lasciato con una profonda tristezza. Vogliamo ricordare che la vita è sacra. In quanto difensori dei diritti umani, noi difendiamo il diritto alla vita in ogni genere di condizione. Facciamo un appello affinché nessun altro ponga fine ai suoi giorni, in prigione o altrove”. Pur consapevoli di quali siano le tensioni - sia politiche che psicologiche - a cui i detenuti vengono sottoposti, hanno voluto ribadire la loro contrarietà a questo genere di azioni. Arrivando a definirle “non accettabili” e sostenendo che “non devono essere utilizzate per ottenere la soppressione dell’isolamento”. Una dichiarazione che - a mio avviso - lascia intravedere una possibile spaccatura tra diverse anime del movimento di liberazione curdo. Se vogliamo, tra quella più radicale, rivoluzionaria e quella riformatrice, gradualista. Ma il comunicato si sofferma anche sul diritto, al momento negato, dei familiari di “seppellire i loro cari secondo la loro religione, le loro usanze”. Mentre invece al momento vengono inumati nottetempo, quasi clandestinamente, dalla polizia. Un metodo definito “irrispettoso e illegale che impedisce ai familiari di vivere il processo del loro lutto”. Del resto cosa aspettarsi da un regime che ormai - almeno nei confronti dei curdi - pare avviato all’istituzione di un autentico apartheid? Avvocati minacciati in Cina camerepenali.it, 26 marzo 2019 La visita del Presidente Cinese Xi Jinping in Italia sia anche l’occasione per riflettere sulla violazione dei diritti umani e sulle limitazioni ai difensori dei diritti umani e colleghi avvocati. Il documento della Giunta e dell’Osservatorio Avvocati minacciati. In merito alla visita del Presidente Cinese Xi Jinping in Italia, prendiamo spunto dalle parole del Presidente della Repubblica Mattarella, il quale si augura “un confronto sui diritti umani” con la Cina. “Alla luce del mandato italiano nel consiglio per i diritti umani dell’ Onu desidero auspicare che, in occasione della sessione del dialogo Ue-Cina sui diritti umani che si svolgerà a Bruxelles dopo quella che si è svolta a Pechino lo scorso luglio, si possa proseguire in un confronto costruttivo sui temi così rilevanti”. L’UCPI condivide appieno il pensiero del Presidente Mattarella, il quale ha messo in luce una tematica delicatissima che si pone al di là delle collaborazioni commerciali con il colosso asiatico. L’Osservatorio UCPI “Avvocati Minacciati” ricorda come la Cina sia stato il Paese protagonista della giornata dell’avvocato minacciato 2017, proprio in ragione delle gravi violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali che vengono perpetrate nel Paese e che spesso colpiscono difensori dei diritti umani e colleghi avvocati. Secondo il rapporto predisposto dal progetto Avvocati Minacciati il 24 gennaio 2017, “In mancanza di un sistema di giustizia indipendente, i più di 300.000 avvocati in Cina sono soggetti ad un controllo costante delle autorità riguardo il loro lavoro. (...) la legge cinese sull’avvocatura (2012) stabilisce che studi legali ed associazioni di avvocati debbano sottostare alla supervisione ed alla guida del ramo esecutivo del potere giudiziario. Le riformate Misure Amministrative per studi legali (2016), un elenco di regole stabilito dal Ministero della Giustizia, stabilisce che gli studi legali debbano “supportare la leadership del partito comunista cinese e lo stato di diritto socialista “ come requisito fondamentale per le loro attività. Le nuove regole stabiliscono altresì che una divisione del partito debba essere presente nello studio legale. Il codice di procedura penale cinese e il codice penale cinese sono stati altresì riformati nel 2015 e 2012 al fine di includere articoli facilmente manipolabili, artt. 37 e 73 del CPP e 309 del CP, al fine di limitare la capacità degli avvocati di realizzare i propri doveri professionali. Al di là degli ostacoli legislativi, gli avvocati in Cina sono vincolati da interventi diretti e misure amministrative da parte degli uffici giudiziari, associazioni di avvocati e la polizia, intralciati spesso senza solide basi giuridiche o come conseguenza dell’abuso di poteri esecutivi. Uno dei maggiori ostacoli è rappresentato dal sistema di ispezione annuale. Al fine di proseguire la loro attività professionale, gli avvocati devono sottoporre la loro licenza all’ufficio giudiziario, un ramo esecutivo del potere giudiziario, al fine di un’ispezione su base annuale. Verranno ispezionati in base ai casi trattati, specialmente con riferimento ai casi “sensibili politicamente”, che spesso hanno implicazioni relative ai diritti umani ed allo stato di diritto. All’esito dell’ispezione, all’avvocato può essere negato il timbro sulla licenza. Il timbro, che consiste in una misura amministrativa priva di basi giuridiche, determinerà se l’avvocato possa proseguire o meno il proprio lavoro negli anni successivi. Le autorità possono anche sospendere la licenza, sospendendo di conseguenza l’attività dell’avvocato, anche per anni. Nel lavoro quotidiano, gli avvocati incontrano altresì violenza da parte della polizia, e nelle corti. Vengono vietati incontri con i clienti, accesso alla documentazione, specialmente per i casi definiti “sensibili politicamente”. Tutto ciò può risultare nella detenzione e violenza a cui gli avvocati sono sottoposti, nel caso insistano sui diritti umani e sul giusto processo. Altre misure contro gli avvocati consistono nell’obbligo di cambiare frequentemente residenza, ed il divieto di viaggiare al di fuori del paese. Nel luglio 2015 si è verificato il - tristemente - celebre “709 crackdown”. L’arresto dell’avvocatessa Wang Yu e della sua famiglia, avvenuto il 9 luglio ha segnato l’inizio di una repressione senza precedenti da parte del governo nei confronti di avvocati per i diritti umani e altri attivisti. Nelle settimane successive, almeno 248 avvocati e attivisti sono stati interrogati o arrestati da agenti della sicurezza dello stato e molti dei loro uffici e abitazioni sono stati perquisiti. A fine anno, 25 persone erano ancora in custodia o risultavano scomparse e almeno 12 di loro, tra cui i noti avvocati per i diritti umani Zhou Shifeng, Sui Muqing, Li Heping e Wang Quanzhang, erano trattenuti in “sorveglianza residenziale in una località designata”, sospettati di coinvolgimento in crimini contro la sicurezza dello stato. Poco o nulla è cambiato dal 2017 ad oggi; i colleghi continuano ad essere ingiustamente accusati, controllati ed imprigionati. L’UCPI continua a monitorare attentamente tale situazione e sollecita il governo ed i rappresentanti della politica e della società civile italiana a far sì che il confronto con la Cina non si risolva in un mero accordo di partnership commerciale, ma che rappresenti piuttosto un’occasione per affrontare il tema dei diritti umani e promuovere uno stravolgimento dell’attuale regime in cui si trovano ad operare i colleghi cinesi, privi di qualsiasi protezione e anzi perseguitati per la difesa dei diritti fondamentali. La Giunta UCPI L’Osservatorio UCPI “Avvocati Minacciati”