Dal carcere alla giustizia riparativa di Giorgio Manusakis napoliflash24.it, 25 marzo 2019 Punire o riabilitare? Vendetta della società sul reo o giustizia necessaria? Le cronache dei giornali, anche recenti, riportano spesso di situazioni disperate nelle carceri italiane, di multe da parte della Comunità Europea all’Italia per il mancato rispetto delle norme e di detenuti che si suicidano, ed è ancora molto attuale e viva la polemica sulla morte di un detenuto nel carcere di Poggioreale. L’istituzione del carcere esiste da sempre nella storia dell’uomo, e se per lungo tempo è stato un luogo dove tenere il colpevole in attesa di torturarlo o giustiziarlo senza che avesse alcuna possibilità di riabilitazione, non è passato poi così poco tempo dal 1764, anno in cui Cesare Beccaria scrisse il famoso “Dei delitti e delle pene”, in cui predicava l’abolizione della pena di morte e introduceva l’idea della riabilitazione del reo. Eppure da allora resta ancora molto da fare, se si vuole almeno avvicinarsi all’obiettivo descritto da Beccaria. Alcuni sostengono che il carcere in Italia sia talmente disumano da ritenerlo una sorta di vendetta da parte della società nei confronti del colpevole, mentre per i più rappresenta un luogo dove tenere i criminali per avere una società più sicura. Ma esistono altre forme di punizione per chi commette crimini? Non tutti sanno che esiste una giustizia detta “retributiva”, che è quella che applica il codice penale e per cui si va in carcere a seguito di un reato per cui sia previsto, ma esiste anche la giustizia detta “riparativa”, che da l’opportunità al reo di rimediare a ciò che ha commesso. L’esempio più famoso di giustizia riparativa è stata l’istituzione della “Commissione per la verità e la riconciliazione” in Sud Africa dopo l’apartheid, che alla fine degli anni 90 riconciliò un’intera nazione stabilendo amnistie e soluzioni riparative in uno Stato dove, fino ad allora, alle persone di colore non veniva riconosciuto alcun diritto. Ovviamente si tratta di un caso molto particolare, ma esempi di giustizia riparativa esistono anche molto più vicini a noi: in Spagna già da oltre vent’anni viene applicata nei tribunali minorili, ma esiste da tanto anche negli Stati Uniti, dove la recidiva si abbatte 24-25% in caso di giustizia riparativa, e poi in Germania e in tanti altri Stati. In Italia la legge prevede che le carceri abbiano una funzione rieducativa: il 19% dei detenuti affidati ai servizi sociali ricade nel crimine, mentre tra quelli non affidati ai servizi sociali ben il 68% torna in carcere. Purtroppo però, in realtà la rieducazione funziona poco, questo perché sono esigui i finanziamenti per i programmi di recupero e di istruzione per i detenuti: infatti nel carcere di Busto Arsizio c’è solo un rieducatore ogni 169 detenuti, e gli altri istituti penitenziari non stanno messi molto meglio. Nelle nostre carceri, inoltre, abbiamo un 35% di detenuti in attesa di giudizio, e se è vero che in molti casi è meglio che alcuni di essi non vadano in giro liberamente per le strade, è anche vero che tra loro ci sono alcuni imprigionati per reati lievi o di cui, in qualche caso, verranno anche assolti. In questa ottica non va dimenticato il famigerato “carcere duro” previsto dal 41bis e mal visto anche dalla Comunità Europea a cui, però, andrebbe detto che se fosse esistito prima delle stragi siciliane, i suoi ideatori, Falcone e Borsellino, sarebbero ancora vivi dato che l’ordine di compiere quelle stragi partì dal carcere, e oggi avremmo forse due eroi vivi, anziché morti. Tutto ciò dovrebbe far riflettere le persone che vedono tutto bianco o tutto nero, perché probabilmente anche in questo caso avevano ragione i latini a dire che il giusto è nel mezzo. Il carcere non può né deve essere la vendetta della società verso un individuo resosi colpevole di un reato, ma non può non esistere in una società composta da milioni di individui e in cui, da sempre, la responsabilità delle proprie azioni e, appunto, individuale. L’attenzione andrebbe posta, piuttosto, sul tipo di rimedio che si intende porre e, in questo senso, introdurre la giustizia ‘riparativa’ anche in Italia, potrebbe aiutare a sfollare le carceri e, dunque, favorire anche la riabilitazione di chi vi è detenuto. Attualmente in Italia vige l’obbligatorietà dell’azione penale, ma anche grazie a numerose direttive europee, la giustizia ‘riparativa’ si sta facendo largo, soprattutto nei casi che riguardano minori. Inoltre già da tempo è stata creata la figura del Giudice di Pace, e sebbene siamo ancora molto indietro rispetto alla Finlandia, dove la conciliazione tra le parti avviene negli uffici di Polizia, evitando querele e aule di tribunale, è già un passo avanti verso una giustizia che non possa essere vista come qualcosa di disumano, ma come una giusta punizione che permette la riabilitazione del reo, nei casi in cui anche lui, ovviamente, intenda redimersi. Nelle carceri italiane si diventa terroristi? di Alessandro Di Meo ilpost.it, 25 marzo 2019 L'Ispi ha analizzato i dati sulla diffusione del jihadismo nelle nostre prigioni: non va benissimo, ma potrebbe andare molto peggio. Dal 2015, anno del primo attentato dello Stato Islamico (o Isis) in Europa, i termini “radicalizzazione” e “jihadismo” sono diventati sempre più comuni. I governi di molti paesi europei hanno approvato nuove leggi antiterrorismo per processare i “foreign fighters”, i combattenti stranieri andati a combattere con l’ISIS in Siria, e allo stesso tempo hanno messo in piedi programmi di prevenzione della radicalizzazione jihadista, con l’obiettivo di eliminare il problema dei cosiddetti “lupi solitari”. Non sempre però queste misure sono state sufficienti. Sono state riscontrate grandi difficoltà soprattutto nel prevenire la radicalizzazione nelle carceri: dal giugno 2014 a oggi, più di un quarto dei terroristi che hanno agito in Europa e negli Stati Uniti aveva trascorso in precedenza del tempo in prigione. Il problema della radicalizzazione islamista in carcere - che continua a esistere ancora oggi, nonostante l’imminente fine del Califfato Islamico - ha interessato anche l’Italia. A inizio marzo l’ISPI (Istituto per gli studi della politica internazionale) ha diffuso una dettagliata analisi sulla radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane, mettendo in fila un po’ di informazioni e dati, e raccontando le misure prese finora dalle autorità penitenziarie e dal governo per prevenire il fenomeno. Il caso più noto in Italia di radicalizzazione in carcere è quello di Anis Amri, l’uomo che il 19 dicembre 2016 investì la folla ai mercatini di Natale di Berlino uccidendo 12 persone: Amri, si scoprì poi dalle successive indagini, si era radicalizzato nelle prigioni della Sicilia, prima di trasferirsi in Germania e iniziare a pianificare l’attentato. Un altro caso interessante, hanno scritto Francesco Marone e Marco Olimpio dell’ISPI, ha coinvolto Giuseppe D’Ignoti, 31enne italiano arrestato nell’ottobre 2017 in Sicilia con accuse molto gravi di maltrattamenti e abusi sulla compagna, una donna ucraina. D’Ignoti aveva costretto la donna a convertirsi all’Islam, a pregare insieme a lui e guardare i video di esecuzioni jihadiste su Internet. Secondo le ricostruzioni della stampa italiana, l’uomo si era convertito all’Islam e poi radicalizzato nel 2011, mentre si trovava nel carcere di Caltagirone (provincia di Catania) per scontare una condanna di cinque anni: a spingerlo alla conversione, ha scritto la Stampa, era stato un altro detenuto, il marocchino Aziz Sarrah, espulso nel 2017 perché trovato in possesso di una bandiera dell’ISIS. Nel gennaio 2019 D’Ignoti è stato infine incriminato per apologia del delitto di terrorismo mediante strumenti telematici. Il problema della radicalizzazione islamista nelle carceri è riconosciuto da anni dalle autorità italiane in diversi rapporti ufficiali. Nell’ultima Relazione sulla politica dell’informazione per la Sicurezza, documento annuale presentato dall’intelligence italiana al Parlamento, si fa riferimento esplicito a “trascorsi in prigione” di molti attentatori, mentre nella relazione dell’anno precedente si definivano le carceri come un “fertile terreno di coltura per il “virus” jihadista, diffuso da estremisti in stato di detenzione”. Anzitutto un po’ di numeri, diffusi alla fine del 2018. La popolazione carceraria italiana è di 59.655 individui, di cui 34 per cento stranieri e un quinto di religione musulmana (quest’ultimo dato è una stima basata sui paesi di provenienza dei detenuti). Secondo i dati del ministero della Giustizia, 7.169 detenuti musulmani sono osservanti: di questi 97 sono imam, coloro che guidano le preghiere, 88 si sono definiti “promotori”, cioè si sono proposti per rappresentare altri detenuti all’interno della prigione, e 44 si sono convertiti all’Islam durante la detenzione. L’ultimo rapporto del ministero della Giustizia relativo alle attività del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, diffuso nel gennaio 2019, fornisce inoltre diversi dati interessanti riguardo al numero e alla tipologia di detenuti tenuti sotto controllo dalle autorità per il rischio di radicalizzazione jihadista. I detenuti accusati di reati legati al terrorismo islamico internazionale, e quindi sottoposti al cosiddetto “circuito di Alta sicurezza 2”, sono 66, rigorosamente separati dai detenuti “comuni” proprio per evitare processi di radicalizzazione: gli uomini sono distribuiti nelle prigioni di Rossano (Calabria), Nuoro e Sassari (Sardegna), mentre le uniche due donne si trovano nel carcere dell’Aquila (Abruzzo). Questo primo gruppo di detenuti, classificati come “terroristi” dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), è sulla carta il più pericoloso, anche se il suo sistematico isolamento dal resto della popolazione carceraria lo rende meno pericoloso nelle attività di proselitismo. Come ha sottolineato l’ISPI, i principali problemi arrivano dalle altre due categorie di detenuti individuate dal DAP: i cosiddetti “leaders”, persone carismatiche che hanno sposato un’ideologia estremista, e i cosiddetti “followers”, detenuti che sembrano essere particolarmente vulnerabili al proselitismo dei “leaders”. Visto il crescente pericolo di attentati jihadisti, negli ultimi anni il DAP ha introdotto un ulteriore sistema a tre livelli per segnalare la pericolosità dei detenuti: il livello alto, che include chi ha commesso reati legati al terrorismo internazionale, chi è profondamente radicalizzato e chi è coinvolto in attività di proselitismo; il livello medio, che include chi ha mostrato simpatie per l’ideologia jihadista durante la detenzione; e il livello basso, che raggruppa i detenuti che sono considerati da valutare, quindi da spostare al primo o secondo livello oppure da togliere dalla lista. Nell’ottobre 2018 c’erano 478 detenuti segnalati per radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane: 233 di livello alto, 103 di livello medio e 142 di livello basso. Uno dei problemi principali dell’affrontare la radicalizzazione dei detenuti in carcere è che non sempre questo processo si accompagna con trasformazioni del comportamento immediatamente riconoscibili. Negli ultimi anni il DAP ha cercato di lavorare sulla formazione del personale penitenziario, sia per riconoscere per tempo i sintomi di una radicalizzazione, sia per distinguere tra pratiche religiose legittime ed estremismo violento. Da qualche anno a dare una mano alle guardie carcerarie ci sono anche gli imam cosiddetti “certificati” dell’UCOII - l’Unione delle comunità islamiche in Italia, la più grande organizzazione islamica italiana - cioè imam che non adottano una visione estremista dell’Islam e che sono disposti a collaborare con la polizia se si accorgono di casi di proselitismo. L’idea alla base del progetto è limitare il ruolo degli imam improvvisati, quelli che decidono di sfruttare il proprio carisma con gli altri detenuti diffondendo idee estremiste. Negli ultimi anni ci sono stati diversi casi di imam improvvisati anche in Italia. Lo scorso gennaio, per esempio, un tunisino di 31 anni detenuto nel carcere di Padova è stato espulso dall’Italia dopo che si era autodichiarato imam imponendosi tra gli altri detenuti in maniera violenta, e cercando di fare proselitismo con idee molto radicali. In generale, la collaborazione tra UCOII e governo avrebbe potuto diventare molto più estesa e proficua se il Parlamento avesse approvato la proposta di legge sulla prevenzione della radicalizzazione jihadista presentata dai deputati Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso: la proposta era stata approvata alla Camera nel luglio 2017 ma era arrivata in Senato troppo tardi, alla fine della legislatura, e lì si era persa. Quella legge avrebbe potuto fornire nuovi strumenti per prevenire i processi di radicalizzazione nelle carceri italiane, che per quanto più contenuti che in altri paesi europei continuano comunque a esistere e a essere una potenziale minaccia per la sicurezza del paese. Più consulenze tecniche nell’indagine per far valere la legittima difesa di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2019 Sì alle indagini ma no ai processi. È il traguardo che si pone la riforma della legittima difesa domiciliare, che questa settimana è in calendario per l’esame finale in Aula al Senato(AS 5-199-234-253-392-412-563-652-B). Quel che si tratta però di capire è come quella che oggi appare una petizione di principio possa tradursi, nel caso concreto, in un provvedimento di archiviazione senza necessità di celebrare un processo (si veda anche Il Sole 24 Ore dell’11 marzo). Con la riforma, infatti, non scompaiono i limiti dell’attualità del pericolo di aggressione e della inevitabilità del ricorso alla violenza per difendere l’incolumità propria o altrui, già previsti dall’articolo 52 del Codice penale. Ciò significa, ad esempio, che non è scusato chi spara a un ladro, sorpreso nottetempo nella propria abitazione, o nel proprio esercizio commerciale, se capisce che è disarmato e non dà segni di aggressività, ma anzi prova a darsi alla fuga. Limiti meno rigidi - Il nuovo comma 2 dell’articolo 55 del Codice penale, contenuto nella riforma all’esame del Senato, cerca però di mitigare la rigidità di questi limiti, introducendo due presunzioni relative. La prima si riferisce a quelle situazioni in cui la sproporzione della reazione difensiva dipende dalle caratteristiche intrinsecamente pericolose dell’aggressione, anche in relazione alle condizioni di particolare vulnerabilità dell’aggredito. Può essere il caso di un’intrusione avvenuta in orario notturno in un’abitazione di campagna lontana da centri abitati, oppure in danno di persona anziana o malata. La seconda presunzione, invece, riguarda l’atto violento commesso dall’aggredito che, per lo spavento, venga colto da un turbamento psicologico talmente intenso da non consentirgli di comprendere se l’intruso stia per attentare alla sua incolumità, oppure se, capendo di essere stato scoperto, desista. Non sono però situazioni semplici da ricostruire, a maggior ragione se l’intruso rimane ucciso, e poi si scopre che era disarmato. In questo quadro magistrati e avvocati dovranno appoggiarsi alle scienze forensi, che avranno un ruolo essenziale per risalire alle condotte dei protagonisti del fatto. Il ruolo delle consulenze tecniche - Sarà necessario affidarsi a consulenze tecniche per valutare, ad esempio, la traiettoria del colpo d’arma da fuoco esploso dall’aggredito, che può essere indice del suo effettivo turbamento, o il rumore causato dagli intrusi. Lo stato emotivo che esclude la punibilità potrebbe infatti essere compatibile con un colpo sparato da lontano per respingere un’intrusione in corso, soprattutto se l’aggredito è un anziano che vive da solo in un luogo isolato e sente provenire rumori violenti dall’interno della propria abitazione; la punibilità non potrebbe invece essere esclusa se l’accertamento balistico dimostrasse, ad esempio, che l’aggredito ha mirato a un organo vitale di una persona disarmata che si trovava a poca distanza da lui. Anche gli aspetti psicologici possono avere un ruolo importante nella dinamica della reazione difensiva. Ad esempio la presenza di una comune forma nervosa, come la sindrome da attacchi di panico, può ingigantire la percezione di un pericolo imminente per l’incolumità personale, in realtà non tale. Gratuito patrocinio più esteso - Per queste ragioni, l’indagato e la persona offesa - o i suoi eredi, se è morto - devono essere messi da subito nelle condizioni di contribuire alla ricostruzione del fatto: si tratta di una possibilità che, per quanto riguarda l’aggredito, è agevolata dall’estensione del patrocinio a spese dello Stato, introdotta dalla riforma, che copre le spese sostenute per avvocato e consulenti tecnici di parte. Un altro snodo-chiave per ricostruire la vicenda è l’articolo 358 del Codice di procedura penale, che obbliga il pubblico ministero a svolgere anche “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Si tratta di una norma che oggi, indipendentemente dal reato per cui si procede, non è di frequente applicazione: senza il suo sistematico rispetto difficilmente la riforma può raggiungere il traguardo che si pone. Bloccati i fondi per gli orfani dei femminicidi di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 25 marzo 2019 Due milioni “congelati” dalla burocrazia: i costi ricadono sulle famiglie affidatarie. Abbandonati dallo Stato. C'è Giada che a cinque anni era sotto il lettone mentre il suo papà si accaniva sulla madre fino a toglierle per sempre il respiro, i nonni non sanno che lei tutto quell'orrore lo ha ascoltato in silenzio nel buio, nascondendosi. Colpo dopo colpo, urla su urla. A Giada i nonni ripetono che “mamma si è allontanata per curarsi” e lei ogni volta quasi ci spera lo stesso che davvero sia così. Luigi invece ha cambiato città, amici, scuola ed è stato affidato agli zii, anche lui non ha più i genitori perché il padre, in un raptus di odio e ferocia, ha ammazzato barbaramente la moglie. Sono nomi di fantasia, di bimbi che hanno perso genitori e innocenza, ma le storie purtroppo - sono tutte reali e fanno parte della cronaca dei giorni nostri. Oltre duemila sono i bimbi orfani a causa di femminicidio negli ultimi venti anni: bimbi senza una madre a cui è stata tolta la vita e con un padre suicida oppure a scontare in carcere le conseguenze del gesto efferato. Bambini dimenticati dallo Stato, ma pure dalle cronache giornalistiche così attente nel raccontare minuziosamente ogni gesto degli uomini-belva o il vissuto delle donne uccise, per poi lasciarle all'oblio, proprio come quegli orfani che continuano a vivere tra mille difficoltà psicologiche, ma anche materiali e senza nessun genere di aiuto. Da vent’anni a questa parte anche la politica ha fatto passi da gigante nel sensibilizzarsi e nel sensibilizzare le persone sul dramma degli uomini che ammazzano le donne. Poco o nulla invece si è fatto per quelle che vengono definite “le vittime secondarie”, quei bambini che restano al mondo senza più nessuno. Generalmente, per preservare “la continuità affettiva”, sono affidati ai parenti più stretti, spesso nonni che però vivono di modeste pensioni e che non riescono a far fronte a tutte le spese necessarie per accudire anche materialmente questi bimbi. “Nel 2016 - grazie ad un mio emendamento - spiega Mara Carfagna, da sempre impegnata su queste tematiche - venne istituito un fondo per finanziare percorsi di educazione, formazione e assistenza”. Eppure, da allora, mancano ancora i decreti attuativi. Stessa sorte quando - ancora su proposta della vicepresidente della Camera - fu bocciato un emendamento che prevedeva la creazione di un fondo da 10 milioni per gli orfani dei femminicidi. “Dissi con toni forti - dice la parlamentare di Fi - che si trattava di una bastardata. Il governo ha trovato milioni di euro per finanziare la detassazione delle sigarette elettroniche o le accise sulla birra artigianale, ma nulla per questi bambini”. A decorrere dal 2017 il Fondo per le vittime di mafia, usura e reati intenzionali violenti è stato esteso anche agli orfani di crimini domestici con una apposita dotazione aggiuntiva di appena 2 milioni di euro all’anno per borse di studio e reinserimento lavorativo. Ai figli delle vittime è stata assicurata assistenza medico-psicologica gratuita fino al pieno recupero ed è attribuita la quota di riserva prevista per l’assunzione di categorie protette. Se il cognome è quello del genitore condannato in via definitiva, il figlio può chiedere di cambiarlo. “Anche in questo caso esiste solo la legge - spiega Carfagna - mancano però ancora i decreti attuativi, 2 milioni sarebbero comunque una cifra irrisoria. Servirebbe poter dare assistenza erogando assegni mensili a queste famiglie, ma negli ultimi anni c’è stata una crescente sottovalutazione da parte delle istituzioni”. Insomma senza decreti attuativi quel fondo, pur se insufficiente, è solo un salvadanaio vuoto e la legge contiene solo parole ricche di buone intenzioni. Chi, dallo scorso settembre, sta raccogliendo fondi per questo scopo è l’Associazione Edela. La presidente onoraria è Roberta Beolchi che, oltre ad organizzare serate di beneficenza, spesso ricorre alle sue risorse personali per aiutare questi bambini che incontra in ogni parte d’Italia. “C’è uno speciale elenco per le vittime di mafia - racconta Beolchi - manca invece un albo degli orfani da femminicidio eppure in questi anni sono stati più i bimbi che hanno perso i genitori per omicidi domestici che non per mano della criminalità organizzata. In più in questi casi sarebbe opportuno celebrare solo un grado di giudizio, tre sono inutili soprattutto nei casi di flagranza di reato”. L’associazione fa il possibile per raccogliere soldi in favore delle vittime. Negli ultimi giorni, Massimo Perrino, l’ex portavoce della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, ha deciso di devolvere all’Associazione Edela i proventi del suo libro di poesie napoletane, “Il tempo che non vola”, in cui racconta anche “l’ammore favezo” - l’amore falso - degli uomini-belve che maltrattano le compagne. La mancanza di risorse adeguate da parte dello Stato genera paradossi. Spesso, almeno da un punto di vista economico, sono privilegiati quei bimbi che non hanno parenti stretti a cui essere affidati e che così sono adottati da famiglie benestanti. Chi invece può trovare l’affetto sicuro di nonni e zii, va ad aggiungere con l’esigenza del proprio accudimento un problema al bilancio familiare dei parenti affidatari. Lo Stato non offre aiuti concreti a queste famiglie. Lo scorso 8 marzo, per la festa della donna, a Fisciano è stato devoluto un aiuto ai nonni che con la piccola pensione stanno provando a tirar su il nipotino di 6 anni orfano di femminicidio. C’è l’amore, non c’è invece la possibilità di comprare i libri di scuola al loro piccolo o di potergli consentire una palestra o una scuola calcio. Il fenomeno è affrontato solo con la buona volontà dei singoli: le associazioni oppure le deputate come Mara Carfagna che devolvono la propria indennità parlamentare per far fronte a questi drammi. In attesa che aumentino i fondi e che almeno vengano approntati i decreti attuativi da parte del Parlamento. Una risposta la attendono le Giada, i Luigi e tutti quei bimbi che non ricevono alcun aiuto. E poi ci sono sentenze incredibili come quella della Corte d’appello di Messina che solo pochi giorni fa ha annullato il risarcimento di 259mila euro che nel 2017 i giudici di primo grado avevano riconosciuto ai tre figli minorenni di Marianna Manduca, (Carmelo, Salvatore e Stefano, che oggi hanno rispettivamente 17, 16 e 14 anni), dopo avere ammesso la responsabilità civile dei magistrati rimasti inerti nonostante le 12 denunce della donna, poi uccisa nell’ottobre 2007 dal marito. Anche questa è violenza. Se la giustizia si arrende alla violenza sulle donne di Titti Marrone Il Mattino, 25 marzo 2019 Abbiamo capito bene? Dunque la ragazza di 25 anni che ha denunciato di essere stata violentata da tre giovani conoscenti in un ascensore della Circum in realtà voleva essere stuprata? Nella sostanza sembra essere proprio questo il sottotesto della decisione del Tribunale del Riesame che venerdì ha messo in libertà uno dei tre. Decisione presa in evidente contraddizione con quanto era stato dichiarato dal gip che aveva disposto la carcerazione, e dopo aver visionato vari elementi probatori, specialmente le riprese effettuate dalle telecamere: per il Riesame, dalle immagini non risulterebbe che la ragazza sia stata costretta a entrare nell'ascensore con una spinta né all'uscita mostrerebbe abiti in disordine o altri segni di violenza appena subìta. Però, a complicare il quadro delle contraddizioni tra gip e Riesame viene fuori che il referto stilato dal centro antiviolenza del Cardarelli confermerebbe il racconto della giovane. Ma il Riesame insiste in particolare sul bacio sulla guancia che i due si sarebbero scambiati salutandosi. Mercoledì si deciderà se rilasciare o meno anche gli altri due ragazzi. Intanto viene da chiedersi: allora siamo a questo? Un bacio su una guancia equivale a incoraggiare un uomo a sbatterti contro una parete, ad alzarti la gonna e andare avanti indisturbato? Il fatto che la ragazza sia entrata in ascensore volontariamente starebbe a significare che in realtà non desiderava altro che essere assalita brutalmente da un giovane suo conoscente pronto a cedere il posto agli altri due suoi compari avvicendatisi nello stupro dopo di lui? Altro che marzo mese della donna. Forse solo ai tempi del Codice Rocco, e mai come in questi giorni, la giustizia penale sta sciorinando sentenze, decisioni e ordinanze così ferocemente avverse al genere femminile. E da Messina arriva l'eco della sentenza forse più incredibile di tutte: la Corte d'Appello ha revocato il risarcimento già erogato, di 259.200 euro, per i tre figli di Marianna Manduca, ammazzata dal marito nel 2007. I tre, oggi adolescenti e molto piccoli quando, dodici anni fa, il padre uccise la madre, dovrebbero anche restituire interessi di dodici anni su quella somma. Leggete bene il perché, fidatevi pure dei vostri occhi: per i giudici di appello, “l'epilogo mortale della vicenda (cioè l'uccisione a coltellate) sarebbe rimasto immutato”. Ecco il motivo, secondo gli estensori della sentenza che ha ragione Mara Carfagna sancisce l'impotenza dichiarata, anzi la resa assoluta, dello Stato italiano di fronte ai femminicidi: “A nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l'ha uccisa, dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità dell'arma”. Cioè: siccome il mondo è pieno di coltelli, e poiché l'uomo aveva già minacciato la moglie, tant'è che Marianna Manduca lo aveva denunciato ben 12 volte, che ci vuoi fare? Il femminicidio era inevitabile. Era scritto che lui si sarebbe procurato la lama affilata, era scritto che la avrebbe affondata nelle carni della moglie e amen. Non si può accettare. Come era e resta inaccettabile la sentenza della Corte di Bologna che nei giorni scorsi ha quasi dimezzato la pena all'omicida di Olga Matei ritenendolo, com'è scritto nella motivazione, affetto da tempesta emotiva scatenata dalla gelosia. Ho scritto allora che equivaleva a un ritorno al delitto d'onore, ma poi c'è stato dell'altro: la sentenza giustificatoria di Genova sulla profonda delusione del maschio tradito, quella di Ancona dove un ragazzo è stato assolto dall'accusa di violenza a una giovane peruviana perché lei era troppo brutta per essere stuprata, non per niente era soprannominata Vikingo. Viene da chiedersi che cosa stia capitando alla giustizia penale se si arrende di fronte a una pretesa ineluttabilità del femminicidio, o se equipara un bacio a un incitamento alla violenza su di sé. Per i giovani indicati come aggressori dalla ragazza a San Giorgio a Cremano si prospetterebbero altre giustificazioni riferite allo stato mentale di lei, ai suoi disturbi alimentari, a disagi psichici veri o presunti. Se davvero poi la giovane della Circum, che ieri ha dichiarato al nostro Leandro Del Gaudio di voler lasciare Portici dov'è nata e andare via, dovesse avere una qualche forma di disagio psichico, questo farebbe di lei una persona consenziente all'atto sessuale? O dovrebbe piuttosto essere considerata una circostanza aggravante per gli aggressori? Con quale aggettivo andrebbero nel caso definiti gli uomini approfittatori di una giovane donna dal quadro mentale confuso? Direbbe Romina Amicolo, studiosa di diritto e co-autrice del bel libro “Se il mondo torna uomo” curato da Lidia Cirillo: “Il riconoscimento del legame tra violenza sulle donne e violenza sui soggetti vulnerabili rivela l'origine ideologica del sessismo come svalutazione e disprezzo delle donne e mira a presentare la violenza sugli uni e sugli altri come qualcosa di naturale, come la violenza naturale dei più forti sui più deboli”. Come a dire, il maschio è maschio, se la donna è debole peggio per lei, è naturale e giusto che lui prevalga anche con la violenza: è la legge della giungla. Ma com'è possibile che il sistema giudiziario possa avallare una simile visione del mondo? Purtroppo la risposta viene da sé, o meglio sembra scaturire da quello che Lidia Cirillo chiama “il nuovo ciclo politico globale” avverso alle donne, la “vera e propria controffensiva” portata all'“unico grande movimento di liberazione fin qui non sconfitto”. Insomma il sistema giuridico, con sentenze emesse a volte anche da giudici donne, si farebbe condizionare dallo spirito del tempo, totalmente sessista: quanto sessista sia verrà fuori in piena evidenza al forum di Verona del prossimo fine settimana, di cui lo scorso mercoledì ha scritto Francesco Lo Dico su queste pagine. Ma era già chiaro da tempo, e da molti segnali, uno tra tutti il modo in cui durante la campagna elettorale Donald Trump suggeriva che occorresse trattare le donne: prendendole per i genitali. Risponde per omesso controllo il direttore del giornale telematico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2019 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 11 gennaio 2019 n. 1275. Il giornale telematico - a differenza dei diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero: forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook - soggiace alla normativa sulla stampa, perché ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea e rientra, dunque, nella nozione di “stampa” di cui all'articolo 1 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, con la conseguente configurabilità della responsabilità ex articolo 57 del codice penale ai direttori della testata telematica. Da queste premesse, la Corte, con la sentenza n. 1275 dell'11 gennaio 2019, nel ribadire che il giornale telematico non può sottrarsi alle garanzie e alle responsabilità previste dalla normativa sulla stampa, ha ritenuto che potesse ravvisarsi la responsabilità del direttore responsabile per il reato di omesso controllo). Assimilazione giornale telematico ai giornali tradizionali - La Corte, nell'affermare l'assimilazione, sotto il profilo delle responsabilità anche penali, del giornale telematico ai giornali tradizionali, si riallaccia agli argomenti sviluppati dalle sezioni Unite, nella sentenza 29 gennaio 2015, Fazzo e altro, anche se, come è noto, dedicata alla tematica del sequestro preventivo del giornale telematico (secondo le sezioni Unite, infatti, la testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale, rientra nel concetto ampio di “stampa” e soggiace alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l'attività d'informazione professionale diretta al pubblico: proprio per tale assimilazione, il giornale on line, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa). Altri siti web non paragonabili alla “stampa” - Nell'argomentare le proprie conclusioni la Cassazione distingue dal giornale telematico gli altri siti web che non possono essere paragonati alla “stampa” perché chiunque può inserire dei contenuti (in termini, sezione V, 19 febbraio 2018, Rando, dove, peraltro, si è precisato che il direttore/amministratore di tali siti, se non può rispondere ex articolo 57 del codice penale, può rispondere di concorso nella diffamazione con l'autore dello scritto ove ne ricorrano i presupposti). Secondo la Corte, invece, per il giornale telematico (onde evitare un irragionevole trattamento differenziato dell'informazione giornalistica veicolata su carta rispetto a quella diffusa in rete) è possibile e doveroso adottare una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa” che tenga conto del fatto che il giornale telematico è strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea). È quindi possibile e doveroso adottare, rispetto al giornale telematico, un concetto figurato di “stampa” che, superando il concetto di stampa nella sua accezione tecnica di riproduzione tipografica o comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisiochimica (l'unico che poteva essere preso in considerazione nella legge n. 47 del 1948), si riferisca al prodotto editoriale che comunque presenti i requisiti ontologico (struttura) e teleologico (scopi della pubblicazione) propri di un giornale: dovendosi intendere, sotto il profilo strutturale, la “testata”, che è l'elemento identificativo del giornale, e la periodicità regolare delle pubblicazioni (quotidiano, settimanale, mensile, ecc.), mentre sotto il profilo della finalità questa deve concretizzarsi nella raccolta, nel commento e nell'analisi critica di notizie legate all'attualità (cronaca, economia, costume, politica) e dirette al pubblico, perché ne abbia conoscenza e ne assuma consapevolezza nella libera formazione della propria opinione. La Cassazione, seguendo questa interpretazione, prende consapevolmente le distanze da altro orientamento che si era espresso nel senso che il direttore di un giornale telematico non può invece rispondere ex articolo 57 del codice penale di omesso controllo sui contenuti pubblicati, non solo per l'impossibilità di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori “postati” direttamente dall'utenza, ma anche e principalmente per l'impossibilità di ricomprendere detta attività on line nel concetto di “stampa” (sezione V, 5 novembre 2013, Montanari e altri, che, per tale ragione, ha escluso che, in caso di diffamazione, possa contestarsi l'aggravante di cui all'articolo 13 della legge 8 febbraio 1948 n. 47; in termini, cfr. anche sezione V, 16 luglio 2010, Brambilla). In linea con la sentenza in commento, cfr., invece, sezione V, 11 dicembre 2017, parte civile D'Ambrosio in procedimento Dell'Olmo, dove, dopo essersi ribadito che al giornale telematico si estendono non solo le garanzie costituzionali a tutela della stampa e della libera manifestazione del pensiero previste dall'articolo 21 della Costituzione, ma anche le disposizioni volte a impedire che con il mezzo della stampa si commettano reati, tra le quali quella di cui all'articolo 57 del codice penale, che punisce appunto l'omesso controllo sui contenuti pubblicati, si è anche precisato che tale responsabilità riguarda certamente i contenuti redazionali, ma non può escludersi neppure relativamente ai commenti inseriti (“postati”) dagli utenti estranei alla redazione, perché, rispetto a tali ultimi contenuti, se pure si accertasse l'impossibilità per il direttore di impedirne la pubblicazione con gli opportuni, praticabili accorgimenti tecnico-organizzativi, ciò non sarebbe sufficiente ad escludere la responsabilità per omesso controllo in relazione alla “permanenza” del commento incriminato, che il direttore avrebbe potuto e dovuto rimuovere. Falsità della notitia criminis nel delitto di simulazione di reato Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2019 Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Simulazione di reato - Configurabilità. Ai fini della sussistenza della simulazione di reato, fattispecie delittuosa disciplinata dall'art. 367 c.p., è necessaria l'idoneità della denuncia a dare corso al procedimento penale; il reato non si configura invece quando il contenuto della denuncia sia tale da suggerire di dare avvio a indagini dirette ad accertare la veridicità e la fondatezza della denuncia stessa e non quella del fatto denunciato, poiché la notitia criminis deve avere la capacità propulsiva di avviare atti diretti all'accertamento del reato denunciato. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 12 marzo 2019 n. 10837. Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Simulazione di reato - In genere - Ritrattazione successiva all'avvio delle indagini - Configurabilità dell'attenuante del ravvedimento operoso - Condizioni. La ritrattazione successiva all'avvio delle investigazioni dà luogo al ravvedimento operoso nel delitto di simulazione di reato - reato istantaneo e di pericolo - solo se elida o attenui efficacemente le conseguenze del fatto e non quando avvenga a tale distanza dalla falsa denuncia da non arrecare alcun efficace contributo alle indagini, avendo già l'autorità investigativa ricostruito autonomamente la consistenza dei fatti. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 13 luglio 2018 n. 32221. Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Simulazione di reato - In genere - Denuncia - Nozione - Fattispecie. La falsa denuncia che integra l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 367 cod. pen. può essere formulata con qualunque atto idoneo a provocare investigazioni, anche in assenza di una iniziativa spontanea del denunciante. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata che aveva condannato l'imputato per aver falsamente dichiarato alla P.G., che lo escuteva nel corso di un'indagine già avviata, di aver smarrito una carta “post-pay”, per la quale era stata presentata denuncia di smarrimento, così simulando tracce del reato di furto e di indebito utilizzo della carta). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 aprile 2015 n. 16277. Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Simulazione di reato - In genere - Idoneità della denuncia a dare inizio a un procedimento penale - Reato - Configurabilità - Sufficienza - Limiti - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del delitto di simulazione di reato, è sufficiente che la falsa denuncia determini l'astratta possibilità di un'attività degli organi inquirenti diretta all'accertamento del fatto denunciato, attesa la natura di reato di pericolo della fattispecie di cui all'art. 367 cod. pen., con la conseguenza che la sussistenza della stessa può essere esclusa solo quando la denuncia appaia palesemente inverosimile e gli organi che la ricevono svolgano indagini al solo fine di stabilirne la veridicità e non già per accertare i fatti denunciati. (Fattispecie in cui è stata esclusa la sussistenza del reato, osservandosi che la denuncia non possedeva nessun carattere di inverosimiglianza, e che, a tal fine, era irrilevante che gli inquirenti ne avessero ben presto compreso la falsità all'esito dello svolgimento delle prime indagini sul fatto denunciato). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 24 luglio 2014 n. 33016. Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Simulazione di reato - In genere - Idoneità della denuncia a provocare l'inizio di un procedimento penale - Condizioni - Fattispecie. Il delitto di simulazione di reato non è configurabile se la condotta non è idonea a determinare il pericolo che venga iniziato un procedimento penale e, quindi, se il contenuto della denuncia appaia palesemente inverosimile ovvero la complessiva situazione di fatto consenta di escludere la necessità di svolgere delle indagini sul reato denunciato e suggerisca invece di avviarle proprio sulla falsità delle denuncia. (Fattispecie in cui un militare, dopo aver informato i Carabinieri di non aver più rinvenuto il tesserino di riconoscimento nel proprio armadietto, del quale escludeva l'effrazione, si presentava il giorno successivo alla medesima autorità per effettuare formale denuncia del furto dello stesso tesserino, affermando che quest'ultimo era stato sottratto, previa effrazione, dal suo armadietto). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 8 febbraio 2010 n. 4983. Reati contro l'amministrazione della giustizia - Delitti contro l'attività giudiziaria - Simulazione di reato - In genere - Natura giuridica - Reato istantaneo e di pericolo - Momento consumativo. Il delitto di simulazione di reato ha natura di reato istantaneo e di pericolo e si consuma con la semplice denuncia idonea a provocare investigazioni e accertamento della polizia giudiziaria. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 20 gennaio 2009 n. 2071. Ragusa: tossicodipendente 36enne muore in carcere, aperta un'inchiesta La Sicilia, 25 marzo 2019 I genitori dell’uomo hanno presentato denuncia contro ignoti per fare chiarezza sul caso. La Procura di Ragusa ha aperto un’inchiesta sulla morte di Cesare Rugnetta, 36 anni, celibe e senza figli, avvenuta il 20 marzo scorso nel carcere di Ragusa. L'uomo stava scontando un residuo di pena e in quanto tossicodipendente era stato preso in cura dal Sert e assumeva dosi di metadone per la disintossicazione. I genitori dell’uomo hanno presentato denuncia contro ignoti per fare chiarezza sul caso. Un atto dovuto che mira a far luce sulle cause che hanno provocato l’arresto cardiocircolatorio del detenuto. Il sostituto procuratore Monica Monego ha disposto l'autopsia sul corpo di Rugnetta, che è stata eseguita venerdì, all’obitorio del cimitero di Ragusa Ibla, dal medico legale Walter Di Mauro. Bollate (Mi) i detenuti votano per migliorare l'ambiente di Marzia Paolucci Italia Oggi, 25 marzo 2019 Il primo progetto di bilancio partecipativo che coinvolge un carcere. Si chiama “Idee in fuga” ed è il primo progetto di bilancio partecipativo che coinvolge un carcere e soprattutto i suoi detenuti che voteranno interventi per migliorare l'ambiente in cui vivono con l'opportunità di vederli realizzati attraverso il crowd-funding. Un modo per mettere in comunicazione la comunità dei reclusi con la società libera attivando un processo di democrazia partecipata capace di autofinanziarsi grazie al finanziamento collettivo. L'istituto di pena è il carcere milanese di Bollate e 1.200 i detenuti chiamati a partecipare. Curato dalla Bi- Part, impresa sociale esperta di bilancio partecipativo e democrazia diretta e con un indirizzo web tutto suo, ideeinfuga.bipart.it, il progetto è stato inaugurato il 28 febbraio scorso con il lancio dell'iniziativa a cui sono intervenuti rappresentanti del mondo istituzionale e associativo a cominciare tra gli altri, da Giorgio Pittella della Bi-Part, Lucia Castellano, direttore generale dell'Esecuzione penale esterna del Ministero ed ex direttore del carcere di Bollate e Marcella Peluffo dell'Associazione Autori di Immagini che con una mostra di illustrazioni a tema, ha dato il via alla raccolta fondi in favore dei detenuti. L'obiettivo è quello di arrivare a raccogliere 20mila euro che serviranno a finanziare le idee di chi nel carcere ci vive e sa bene cosa manca e dove migliorare. È infatti previsto che i detenuti si incontrino in assemblee per fare le loro proposte e votarle in un percorso a tappe che terminerà in tre mesi dall' inizio il 5 marzo scorso con i primi incontri informativi durante i quali è stato distribuito materiale informativo e spiegato in dettaglio il processo. Previste, a seguire le assemblee deliberative: primo vero momento in cui si inizia a riflettere insieme sulle priorità del carcere per promuovere un confronto finalizzato a riunire le idee in campo e trasformarle in proposte progettuali condivise. Le proposte saranno poi raccolte e messe a disposizione dei reparti carcerari perché tutti possano prenderne visione, tra queste si selezioneranno quelle da portare a valutazione, progettazione e voto. Una commissione tecnica valuterà la fattibilità delle proposte, a cominciare dalla più condivisa ed è allora che saranno trasformate in progetti finanziabili con costi, tempi di realizzazioni e dettaglio delle azioni da compiere. I progetti più votati saranno realizzati attraverso l'attività di crowd-funding di cui primo partner è l'associazione AI - “Autori di immagini” che ha organizzato una raccolta di illustrazioni e grafiche a tema. Spiegano gli organizzatori: “Gli obiettivi del progetto sono favorire la contaminazione cross-mediale e riuscire a rendere accessibili temi delicati e complessi, spesso male interpretati e semplificati a danno di una convivenza civile: la detenzione come pena rieducativa e non come vendetta; la democrazia come metodo di cooperazione e non di competizione, la partecipazione come pratica di comunità e non di lotta, la libertà come apertura al prossimo e non come chiusura egoistica”. I fondi raccolti serviranno a finanziare almeno un intervento o progetto per i reparti maschili ed uno per quelli femminili definendo una soglia massima di 10 mila euro per ogni intervento o progetto dei detenuti. Potranno essere finanziati solo interventi e opere di manutenzione ordinaria degli spazi e delle strutture carcerarie, tutto ciò che può essere realizzato internamente dagli stessi detenuti, l'acquisto di beni durevoli - pc, attrezzatura per la palestra, cucina, strumentazione varia - servizi o attività di natura culturale e formativa. Chiunque può partecipare al crowd-funding acquistando con una donazione il catalogo della mostra di illustrazioni o le opere degli illustratori. Palermo: agricoltura come seconda occasione, progetto reinserimento per 30 adolescenti palermotoday.it, 25 marzo 2019 L'iniziativa è organizzata dalla Cia Sicilia Occidentale con il consorzio Sintesi di Roma (capofila). Si tratta di ragazzi che hanno già avuto problemi con la giustizia o che sono a forte rischio di devianza. Trenta ragazzini palermitani tra i 15 e i 17 anni, segnalati dal Centro di giustizia minorile, sosterranno il loro percorso di reinserimento sociale attraverso l’agricoltura. “Dalla parte di Franti” è il nome del progetto di inclusione sociale che la Cia Sicilia Occidentale sta mettendo in campo con il consorzio Sintesi di Roma (capofila): nella Capitale altri 30 ragazzi seguiti dal consorzio proveranno la medesima esperienza nei campi, seguendo tutte le fasi di crescita delle coltivazioni. Poi le due esperienze saranno messe a confronto. Di questo progetto si è parlato nel corso del convegno “Agricoltura sociale, un’opportunità per tutti”, organizzato dalla Cia Sicilia Occidentale con il patronato Inac e l’associazione Donne in campo. “Si tratta di 30 minori che hanno già avuto problemi con la giustizia o che sono a forte rischio di devianza. La maggior parte sono palermitani, gli altri sono figli di immigrati, nati in Italia e che hanno vissuto in certi contesti. Quale mezzo migliore di reinserimento dell’agricoltura, che ti costringe a fare cose vere, con le tue mani”, ha spiegato Enzo Rimicci, presidente del consorzio Sintesi che a Roma ha creato il noto ristorante La locanda dei girasoli, interamente gestito da persone affette da sindrome di Down. Sono 110, in Sicilia, le social farming che hanno aderito alla rete delle fattorie sociali e che operano quasi esclusivamente nelle aree rurali in assenza, però, di una legge quadro regionale di cui invece è dotato ormai quasi tutto il resto d’Italia. In queste strutture si svolgono regolarmente attività agricole con finalità produttive e sociali a beneficio di soggetti fragili (persone con disabilità fisica o psichica, psichiatrici, dipendenti da alcool o droghe, detenuti o ex-detenuti) o sono indirizzate a fasce della popolazione (bambini, anziani) per le quali risulta carente l’offerta di servizi. “Una legge che fissi i paletti e descriva gli ambiti di azione e i ruoli dei promotori è indispensabile per consentire un ampliamento dell’offerta di servizi”, ha spiegato il presidente della Cia Sicilia Occidentale, Antonino Cossentino. Nei giorni scorsi, il Pd ha presentato all’Ars un disegno di legge in materia di agricoltura sociale. Promotore del ddl Antonello Cracolici, ex assessore all’Agricoltura nella passata legislatura quando aveva cercato di portare in porto una legge per il settore: “Il nuovo testo declina quello vecchio, ma è un tema su cui lavorare: la sua approvazione permetterebbe di aprire nuovi volani di sviluppo socio-economico in un settore che rappresenta una delle principali risorse della nostra regione”, ha spiegato Cracolici intervenuto al convegno. “Lavoriamo senza una legge che ci aiuterebbe. Bisogna uscire dal concetto che l’agricoltura sociale è solo una bella idea da tirare fuori dal cassetto ogni tanto”, ha aggiunto Salvatore Cacciola, sociologo e presidente della rete Fattorie sociali Sicilia. Alba (Cn): “TuttiDiritti”, il carcere in mostra ed in dialogo con le scuole albesi cuneodice.it, 25 marzo 2019 Sabato 30 marzo inaugurazione di tre esposizioni in Banca d’Alba. Tra aprile e maggio incontri ed iniziative con gli studenti degli istituti “Cillario” e “Da Vinci”. “TuttiDiritti”, la rassegna di eventi su Carcere, Legalità e Diritti umani inaugura l’evento conclusivo di questa stagione, un’esposizione promossa dall’Associazione di Volontariato Penitenziario “Arcobaleno”, sabato 30 marzo alle ore 16.30 nel Palazzo Banca d’Alba. L’iniziativa si articola in tre diversi spazi: • Nocchier che non seconda il vento… Una serie d’istantanee in bianco e nero, crude ma realistiche, per provare a “immergersi” nella quotidianità degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il reportage è realizzato dal fotografo Max Ferrero e promossa dall'Associazione Allievi di Giornalismo “Giorgio Bocca” in collaborazione con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte e con il sostegno della Compagnia San Paolo; • Guardami. Un percorso fotografico con i detenuti della Casa di Reclusione di Alessandria realizzato dal fotografo Mattia Marinolli, in collaborazione con l’associazione Musica Libera, Ics Onlus e Fondazione SociAL di Alessandria, Canon Italia e il patrocinio della Città di Alessandria. • Le nostre prigioni. Cimeli, documenti, immagini. La storia della Città di Alba si intreccia con le vicende e gli avvenimenti del vecchio Carcere San Giuseppe e dell’odierna Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto”. È la prima volta che questi reperti escono dal museo istituito nel carcere albese dove sono conservati. Saranno anche proiettati video e immagini che descrivono le attività svolte all'interno del carcere albese per il reinserimento delle persone detenute. Oltre ai foto reporter Max Ferrero e Mattia Marinolli, parteciperanno all’inaugurazione il sindaco di Alba Maurizio Marello, il presidente di Banca d’Alba Tino Cornaglia, il garante regionale delle persone private della libertà Bruno Mellano, la direttrice del Carcere di Alba Giuseppina Piscioneri, il comandante del carcere albese Giuseppe Colombo e il presidente dell’Associazione “Arcobaleno” Domenico Albesano. Introdurrà il garante comunale Alessandro Prandi. Al termine dell’inaugurazione è previsto un piccolo buffet. Oltre che durante l’inaugurazione, sabato 30 marzo, l’esposizione sarà visitabile: domenica 31 marzo dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00; venerdì 5 aprile dalle 15.00 alle 19.00; sabato 6 aprile dalle 15.00 alle 19.00; domenica 7 aprile dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00. Possibile visita per gruppi e scuole su appuntamento, durante la settimana, prenotando telefonicamente al 320.630 8456. Nell'ambito delle iniziative promosse da “TuttiDiritti”, una particolare attenzione anche quest'anno è rivolta agli studenti delle scuole secondarie dell'albese, ai quali l'Associazione di volontariato “Arcobaleno” sta proponendo percorsi didattici specifici e occasioni di approfondimento sui temi legati alla condizione detentiva, al rispetto dei diritti, all'umanizzazione delle pene. Le iniziative consistono in incontri in classe con esperti e volontari, visite guidate al carcere “Montalto” e al Museo del Carcere “Le Nuove” di Torino, nella partecipazione attiva agli eventi promossi da “TuttiDiritti”, nella promozione di esperienze di alternanza scuola-lavoro in carcere. “TuttiDiritti” è promossa da Città di Alba, Compagnia di Iniziative Sociali - CIS, l’associazione di volontariato penitenziario “Arcobaleno”, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba, il Mercato della Terra “Italo Seletto” Onlus, “Libera - Associazioni, Nomi e Numeri Contro le Mafie”, Consulta comunale del Volontariato, l’Istituto di Istruzione Statale “Umberto I°”, Liceo “Leonardo Da Vinci” di Alba, l’Istituto d'Istruzione Secondaria Superiore “Piera Cillario Ferrero” di Alba, l’associazione “RecuperAmiamoli” e la Caritas Diocesana. “TuttiDiritti” è possibile grazie al sostegno della Città di Alba, di Banca d’Alba e del Centro Servizi per il Volontariato Società Solidale. Porto Azzurro (Li): nuova pubblicazione per il “Teatro in carcere” Il Tirreno, 25 marzo 2019 Da oltre vent’anni nel carcere di Porto Azzurro è attivo il laboratorio teatrale “Il Carro di Tespi”. Diretto dalla professoressa Manola Scali, il laboratorio, oltre ai detenuti, vede protagonisti alcuni studenti liceali di Portoferraio e di Piombino e i soci della cooperativa Alta Marea. “Iniziativa di alto valore culturale e sociale quella del teatro di Porto Azzurro, che ogni anno rinnova la sua proposta e si inserisce nel progetto regionale “Teatro in carcere”, sostenuto dalla Regione Toscana”, commenta Licia Baldi, presidentessa della associazione Dialogo. Giovedì alle 12, a Firenze, si terrà la presentazione della pubblicazione per il Concorso Siae “Nuove drammaturgie da quattro carceri”, che premia il lavoro del laboratorio di Porto Azzurro per il copione inedito dal titolo “Artuà - Riflessioni sul tema dell’espiazione della pena”. “La prossima performance - spiega la presidentessa Licia Baldi - prevede la messa in scena della commedia di Aristofane “La Pace”, in edizione rielaborata e ridotta, ma tuttavia fedele a quell’ideale allora panellenico, oggi si direbbe di pace globale, che ci piace ricordare così bene espresso dalla celebre frase di Pertini: “Vuotiamo gli arsenali e riempiamo i granai”, detta con la convinzione di chi sa che oggi l’unica realtà possibile è l’utopia della pace”. Pesaro: in carcere la cerimonia ufficiale della 57a Giornata mondiale del Teatro viverepesaro.it, 25 marzo 2019 Sarà ospitata martedì 26 marzo 2019 nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro la Cerimonia ufficiale della 57° Giornata Mondiale del Teatro. L’evento si inserisce nell’ambito del Programma delle iniziative per la Sesta Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, iniziativa curata ogni anno in concomitanza con il World Theatre Day, dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere insieme al Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità). Grazie al lavoro del Teatro Universitario Aenigma, che opera con continuità nella Casa Circondariale di Pesaro dal 2002, capofila del progetto del Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere al quale aderiscono oltre 50 esperienze da 15 Regioni italiane differenti, l’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco ha voluto ancora una volta valorizzare l’attività del Coordinamento italiano (riconosciuta unanimemente come una buona pratica), chiedendo di organizzare la Cerimonia ufficiale internazionale a Pesaro, abbandonando l’ufficialità della grande cerimonia Unesco a Parigi per unirsi ai detenuti e alle detenute e agli operatori teatrali che svolgono questo lavoro importantissimo nelle carceri attraverso il teatro. La Sesta Giornata Nazionale del Teatro promossa il 26 marzo a Pesaro, in collaborazione con Iti - Unesco e il suo Centro italiano, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, la Rivista europea “Catarsi-teatri delle diversità” e il Teatro Aenigma all'Università di Urbino, prevedrà quindi una Cerimonia che sarà conosciuta in tutto il Mondo e rimarrà nella storia delle celebrazioni internazionali del World Theatre Day. Dalle ore 10 nella sala teatrale della Casa Circondariale per l’iniziativa, coordinata da Vito Minoia (Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e dell’Associazione Internazionale del Teatro Universitario), interverranno Armanda Rossi, Direttrice della Casa Circondariale di Pesaro come struttura ospitante, Daniele Vimini, Vice Sindaco del Comune di Pesaro, Carlos Celdràn, drammaturgo, regista e docente universitario cubano, autore del Messaggio internazionale che sarà tradotto in oltre 50 lingue in tutto il mondo, Tobias Biancone (direttore generale dell'ITI - Unesco), Enrica Olivieri (Magistrato di Sorveglianza ad Ancona), Fabio Tolledi (Presidente del Centro Italiano e vice presidente dell'ITI - Unesco), Rosella Persi (docente di Pedagogia dell'Università di Urbino Carlo Bo), Antonio Rosa (docente dell'Istituto Comprensivo Statale Galileo Galilei di Pesaro), l'attrice Roberta Quarta, che leggerà la traduzione italiana del Messaggio di Carlos Celdràn, e il Frate francescano Stefano Luca che, oltre a ripercorrere le esperienze condotte in Africa con minori in carcere, presenterà il documentario “Undhur ilay / see me / guardami” sull'esperienza di Teatro Sociale condotta in Libano nel 2018 con adolescenti rifugiati siriani. da Teatro Aenigma (www.teatroaenigma.it) Migranti e decreto Salvini, in Italia 44.000 irregolari in più (e la Caritas corre ai ripari) di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 25 marzo 2019 Sono quelli espulsi dai circuiti di accoglienza e integrazione in seguito al decreto Salvini ma che non sono stati allontanati dall’Italia: I dati Eurostat 2018: in Germania e Francia il maggior numero di richieste di asilo. Dal giorno dell’entrata in vigore del decreto sicurezza in Italia ci sono oltre 40.000 stranieri irregolari in più. La stima è stata diffusa dall’Ispi, istituto di ricerca su temi internazionali che già prima del varo della nuova legge aveva avvertito sui rischi connessi alla stretta sui permessi umanitari. Secondo gli esperti, infatti, il boom degli stranieri “fantasma” è dovuto al fatto che migliaia di immigrati hanno perso le tutele di legge ma non sono stati espulsi dal territorio italiano. L’Ispi non è l’unica “antenna” ad aver captato questa novità. la Caritas, ad esempio ha deciso di incrementare l’accoglienza riservata proprio ai nuovi irregolari che non hanno nessun mezzo per mantenersi se non l’illegalità. Il saldo negativo - La stima formulata dall’Ispi si basa su dati del ministero dell’interno e prende in considerazione il periodo giugno 2018-febbraio 2019 (quindi anche alcuni mesi precedenti al cosiddetto decreto Salvini): è stato calcolato che 49.460 migranti hanno ricevuto il diniego a qualsiasi richiesta di asilo. Nello stesso periodo appena 4.806 stranieri sono stati fisicamente messi su un aereo o su una nave e allontanati dall’Italia. Ne esce un saldo negativo di 44.654 casi, tutte persone privati di ogni “ombrello” di legge ma che devono in qualche maniera campare. L’aumento degli irregolari, secondo Ispi è il frutto di due misure adottate dal governo: l’iniziale circolare distribuita alle prefettura con le quali si sollecitava maggiore severità nella concessione della protezione umanitaria e poi il decreto sicurezza che ha ulteriormente ristretto le possibilità per i richiedenti asilo. La risposta del volontariato - Chi è impegnato sul fronte dell’assistenza agli stranieri ha già avvertito tali effetti e sta cercando di correre ai ripari. La Caritas Ambrosiana, emanazione della diocesi di Milano, ha istituito un “fondo di solidarietà per gli esclusi dall’accoglienza” destinato proprio agli stranieri che si sono visti interrompere il percorso di integrazione a causa delle nuove norme e sono stati allontanati dai centri di accoglienza che fanno capo alle prefetture. Caritas stima che nella sola Milano già 200 persone si sono ritrovate in questa situazione. “Il Decreto Sicurezza, al contrario di quanto promesso, produrrà una situazione di emergenza nel nostro Paese. Abbiamo deciso di farvi fronte, come si fa in questi casi, mettendo a disposizione strutture e risorse e chiedendo a tutti coloro che lo desiderano di darci una mano” ha dichiarato il direttore della Caritas Luciano Gualzetti in un comunicato dell’organizzazione stessa. I dati Ue: Italia quinta per accoglienza - La nuova emergenza si fa strada in Italia in un momento in cui i volumi dell’immigrazione calano: non solo gli sbarchi - scesi a poche centinaia - ma anche le richieste di asilo, come ha sottolineato un report di Eurostat (l’istituto di statistica della Ue) datato 14 marzo. Le domande applicate in tutto il 2018 sono state 580.000 con un calo dell’11% rispetto all’anno precedente, ma la metà in meno rispetto alla grande crisi migratoria del 2015. Siria, Iraq e Afghanistan restano le principali zone di provenienza. Nonostante non abbiano sbarchi, i due stati europei che hanno dato assistenza al maggior numero di asilanti sono la Germania (28% del totale) e la Francia (19%). A seguire in graduatoria la Grecia e la Spagna (rispettivamente 11 e 9%). L’Italia è la quinta avendo accolto 49.000 richiedenti asilo pari all’8% del totale europeo. La cittadinanza per i bambini stranieri rafforza lo stato di diritto di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 25 marzo 2019 Rami, il bambino di origine egiziana che ha salvato tutti i suoi compagni, è stato eccezionale, molto coraggioso e solidale, si è messo in gioco con grande determinazione. È giusto premiarlo, perché ha rischiato la vita per tutti e non solo per sé. Perché ha espresso inequivocabilmente il suo senso civico e di appartenenza alla comunità. Si è comportato come un cittadino emerito del nostro Paese. E non è un caso, lui si sente italiano, i suoi compagni lo riconoscono tale, i suoi insegnanti anche. La prova di unità, coraggio e solidarietà che la classe ha dato, evidenzia anche la grande capacità degli insegnanti di sviluppare coesione nella multiculturalità, spirito di comunità e di nazione e non è il lavoro di un giorno. Nelle scuole si fanno miracoli. La maggioranza dei bambini stranieri ha come migliore amico un italiano. Solo un terzo dei bambini figli di immigrati si sente straniero. La gran parte degli insegnanti considera buona l’integrazione dei bambini. La loro soddisfazione è alta. Le ragazze figlie di immigrati assumono rapidamente modi e stili di vita occidentali e sono sempre di più quelle che si rifiutano di essere soggiogate, che vogliono essere libere come le loro compagne italiane, che hanno il coraggio di ribellarsi perché sentono una comunità vicina che può tutelarle con le sue leggi, e questo per loro è motivazione per rispettarle. Questa è la realtà normale del nostro Paese. Non è l’eccezionalità, lo dicono i dati Istat, e i continui fatti di cronaca positivi. Questi bambini non devono dimostrare nulla, sono come i nostri figli e nipoti, e sono molto più integrati di quanto non si pensi. Si è ipotizzato di poter concedere a Rami la cittadinanza perché se lo è meritato. Ma la cittadinanza non è un privilegio che si dà e si toglie, non è una elargizione per chi rispetta le leggi, studia e lavora e paga le tasse come noi. Perché si ipotizza di togliere la cittadinanza all’autista e non ai tanti mafiosi, agli autori di femminicidi o all’autore della tentata strage di Macerata? È come dire che l’origine senegalese dell’autista rappresenta un marchio di infamia indelebile. Così sanciremmo una condizione di disuguaglianza, creando una categoria di italiani di serie B a cui può essere revocata la cittadinanza a nostro piacimento. La nostra Costituzione, il nostro faro, non lo permetterebbe. Trattare i bambini da diversi fin da piccoli fa sviluppare in loro un senso di frustrazione e di rabbia. Non potranno che pensare di essere diversi, perché hanno un altro colore della pelle o origini culturali diverse; che non sono uguali agli altri e non potranno esserlo mai. E la loro rabbia crescerà e la coesione sociale si romperà. Dare la cittadinanza ai bambini e non ad uno solo eccezionale significa solo riconoscere la loro normalità del vivere e dare ulteriore impulso alla loro integrazione. Significa rafforzare ancora di più i legami con la collettività. Come diceva Stefano Rodotà: “Perché inchiodarli in un’identità che non è la loro? Sono cittadini di questo Paese e va riconosciuto”. Cittadinanza, Valerio Onida: “La legge in vigore è troppa restrittiva” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 25 marzo 2019 Il decreto “Salvini” ha introdotto delle norme che creano ulteriori diseguaglianze. Professor Valerio Onida, la vicenda di San Donato Milanese ha rilanciato il tema dello Ius soli. Matteo Salvini, dice: non serve, diamo a Ramy la cittadinanza per premiarlo, ma niente più... “Il problema non è premiare Ramy, bensì consentire a tutti i ragazzi stranieri come lui che lo desiderano di acquisire la cittadinanza. Altrimenti devono aspettare di compiere 18 anni, purché siano nati e abbiano sempre risieduto in Italia; se nati all’estero, debbono aspettare che i genitori conquistino la cittadinanza italiana, dopo dieci anni di residenza regolare, e con un’attesa che, scandalosamente, oggi può arrivare a quattro anni dalla domanda. Le condizioni oggi sono troppo restrittive”. Ma, dice Salvini, si può essere integrati anche senza cittadinanza. In fondo i diritti fondamentali sono garantiti comunque da convenzioni internazionali... “La cittadinanza non è un “favore” che si può concedere a discrezione, ma è la naturale conseguenza del fatto che la persona vive stabilmente in Italia, integrato nella comunità. Nella nostra tradizione di Paese di emigranti vige il “diritto di sangue”: è italiano chi è figlio di un italiano, anche se non è mai vissuto e non vive in Italia; mentre non lo è chi vive qui, insediato con la propria famiglia da tempo”. Per la destra con lo Ius soli si apre la strada alla “sostituzione etnica”, rimpiazzare italiani con stranieri... “Mi ricorda la motivazione principale con la quale il fascismo introdusse le leggi razziali: non tanto l’avversione per razze “inferiori” o per gli ebrei, ma prima di tutto la difesa della purezza della “razza italiana” da contaminazioni, “incroci” o “imbastardimenti”; tanto da vietare persino il matrimonio dei dipendenti pubblici italiani con persone di nazionalità straniera di qualsiasi “razza”, pena la perdita dell’impiego”. Insomma la cittadinanza come una sorta di patrimonio genetico anziché come espressione di appartenenza a una comunità... “Esatto. Oltre tutto, sappiamo benissimo che la storia d’Italia è quella di una terra dove sono arrivate popolazioni delle più diverse provenienze. E la nostra è una cultura aperta agli altri, volerla trasformare in una cultura chiusa è assurdo”. E cosa pensa di Salvini che annuncia la revoca della cittadinanza per l’attentatore di San Donato Milanese? “Il decreto che ha preso nome da Salvini ha introdotto una ipotesi di revoca della cittadinanza, a seguito di condanna per reati di tipo terroristico. Ipotesi di assai dubbia costituzionalità. La cittadinanza è solo la conseguenza dell’appartenenza alla comunità, che può riguardare i buoni cittadini o anche chi commette delitti. Un italiano che commette lo stesso reato rimane cittadino italiano; lo stesso deve accadere per il cittadino acquisito. La revoca comporta una diseguaglianza non giustificata”. Terrorismo xenofobo, servono più risorse per polizie e intelligence di Guido Olimpo Corriere della Sera, 25 marzo 2019 Polizie e intelligence hanno come target primario i militanti del Califfato o i qaedisti, una conseguenza delle stragi avvenute in questi ultimi anni. Un fronte aperto fin dalla prima metà degli anni 90, una guerra mai finita. Moschee, chiese e sinagoghe. Attentati in paesi diversi compiuti da estremisti xenofobi, decine le vittime. I dati indicano di una minaccia in crescita, ma che apparentemente è sottovalutata per troppo tempo. Solo adesso, dopo l’eccidio in Nuova Zelanda, si inizia ad avvertire il pericolo, anche se restano dei freni. Il primo è rappresentato dalla tendenza a considerare questi attacchi come terrorismo interno e, a volte, a paragonarli a gesti di follia. È vero che gli assassini neonazisti agiscono spesso da soli, però ideologicamente fanno parte di una rete ampia e globale. È proprio a questa platea che si rivolgono, imitando chi li ha preceduti e usando i loro nomi come simboli. È un errore considerali dei lupi solitari. Il secondo aspetto è il loro modus operandi. Rispetto ai jihadisti, con i quali condividono non pochi punti in comune, costituiscono un numero più ridotto e sono abili nel mimetizzarsi. I killer vivono nella loro tana, dalla quale escono solo per sparare. Il web diventa il loro canale di collegamento, hanno una grande attività coperta quanto intensa davanti ad un computer. Infine le risorse dedicate al contrasto. Polizie e intelligence hanno come target primario i militanti del Califfato o i qaedisti, una conseguenza delle stragi avvenute in questi ultimi anni. Un fronte aperto fin dalla prima metà degli anni 90, una guerra mai finita. Inevitabile che fosse così. Oggi però occorre bilanciare lo scudo dedicando grande attenzione ad un avversario capace nello sfruttare le tensioni sociali e persino nel fiancheggiare - con gli slogan - l’uomo della strada. Donne e bambini dell’Isis, così l’Europa tenta di affrontare il problema di Marta Serafini Corriere della Sera, 25 marzo 2019 Dalla Francia al Belgio, passando per Berlino e Roma: gli Stati non sono riusciti a trovare una chiave alla questione dei “returnees”. Mentre la Svezia propone la creazione di un tribunale internazionale. Mentre le Sdf, le forze curde siriane, festeggiano la caduta di Baghouz gli Stati membri dell’Europa si preparano ad affrontare il rientro dei foreign fighters e delle loro famiglie. Secondo la Commissione europea, più di 42 mila persone si sono unite all’Isis tra il 2011 e il 2016. Di queste 5.000 proviene dall’Europa. Secondo gli Stati Uniti, almeno 1.000 jihadisti sono nelle mani delle forze curde e sono detenuti. Tuttavia non possono subire un processo data l’assenza di uno Stato curdo riconosciuto. Le donne e i bambini invece sono stati deportati nei campi vicini all’aerea di Baghouz. In dicembre, annunciando il ritiro (poi posticipato) delle truppe Usa dalla Siria, il presidente Trump ha intimato ai Paesi europei di farsi carico di queste persone. Fino a poco tempo fa infatti la prassi di quasi tutti gli Stati membri dell’Ue era di evitare il problema anche perché processare i miliziani in patria comporta dei rischi e dei costi, sia nel reperimento delle prove, sia nell’eventuale detenzione in carcere, con il rischio di nuove ondate di radicalizzazione. Ora che il Califfato pare sconfitto almeno nella dimensione territoriale, gli europei si trovano costretti a prendere l’iniziativa, soprattutto per quanto riguarda i bambini, ossia i figli dei miliziani e delle donne. Alcuni sono partiti piccolissimi, altri sono nati all’ombra delle bandiere nere, mentre altri ancora sono rimasti orfani. Per tutti loro si pone il problema della tutela dei loro diritti e di prevenire nuove ondate di radicalizzazione. Le difficoltà legali - La Macedonia del Nord è stato il primo Paese europeo a condurre un rimpatrio, riprendendo e perseguendo sette combattenti nell’agosto 2018. A gennaio, la Francia ha dichiarato star prendendo in considerazione il rimpatrio di 130 uomini e donne per sottoporli a processo, ma un mese dopo non è stato fatto alcun progresso. D’altro canto la Germania, dove sono rientrati in 1.000 secondo quanto riferito dal ministero degli Interni, aspetta di vedere cosa fanno i francesi. “Il governo federale sta esaminando tutte le opzioni per un possibile ritorno di cittadini tedeschi”, ha detto il ministro degli Esteri tedesco in una dichiarazione a novembre. Secondo gli esperti, a spaventare le cancellerie è la concreta possibilità che gran parte delle prove a carico dei foreign fighters non possano reggere in tribunale, con il rischio che poi queste persone vengano rimesse in libertà. Questo scenario è particolarmente plausibile per le donne, dato che il loro ruolo è stato per lo più limitato alle attività di propaganda e spionaggio, se non di semplice cura dei figli. Tuttavia sono parecchie le donne cui è stato affidato il ruolo di carceriere delle yazide, secondo quanto riportano le stesse vittime. E questo profila dunque la possibilità di procedimenti a carico con l’accusa di riduzione in schiavitù, di abusi e violenze se non di omicidio, come avvenuto nel caso della 27enne tedesca, seguace dell’Isis, Jennifer W., formalmente accusata dalla procura generale di Karlsruhe di avere ridotto in schiavitù, e poi lasciato morire, una bambina di 5 anni in Iraq. In Gran Bretagna a complicare le cose ci si mette il divieto di usare prove di intercettazione. Facile dunque per molti sostenere la tesi di essere andati al fronte come volontari e di non aver combattuto. I diversi approcci - Ancora più delicato è il caso dei minori. Durante un‘intervista al britannico Times Shamima Begum, pur dicendosi non pentita delle decisione di unirsi all’Isis (Begum è partita che era minore), ha chiesto per sé e per il bambino di cui era in attesa di poter tornare in Gran Bretagna. Ne è nato un dibattito politico che, per il momento, si è concluso con la revoca della cittadinanza alla donna e nulla di fatto per il bambino che nel frattempo è morto nell’ospedale vicino al campo nel nord della Siria dove la madre è detenuta. Proprio per evitare drammi di questo tipo la Francia sta lavorando a un piano di rimpatrio dei bambini ma fin qui nessun minore ha fatto rientro a casa. Gli psicologi e gli esperti avvertono poi della necessità di affiancare alle pratiche burocratiche la previsione di un piano di reinserimento di questi bambini nella società. La maggior parte di loro ha infatti subito il lavaggio del cervello oltre che traumi e abusi. In Belgio, le politiche per il rimpatrio dei bambini sono state suddivise in fasce di età. Ai minori di 10 anni è stato concesso il diritto di rientro immediato, mentre per quelli di età compresa tra 10 e 18 anni si è deciso di valutare caso per caso. In Italia ancora non si è presentata la questione, sebbene ci siano un numero imprecisato di minori che sono partiti con le madri per unirsi all’Isis e potrebbero fare ritorno qualora fossero ancora vivi. Un tribunale e un modello - Se ognuno fin qui ha fatto per sé, la Svezia ha suggerito di condurre un’indagine a livello europeo sugli approcci legali. Il ministro degli Interni Mikael Damberg e il ministro della Giustizia, Morgan Johansson, si sono incontrati con il consiglio dei ministri europei, per sondare la creazione di un tribunale europeo per i combattenti dell’Is. I ministri svedesi ritengono che uno sforzo internazionale nei rapporti di rientro dei membri IS originari dell’Unione europea contribuirebbe a indagini più approfondite e, successivamente, a processi, evitando così nuove ondate di radicalizzazione. Le reazioni però sono state tiepide. Ma un modello c’è ed è quello di Aarhus della Danimarca, che ha creato un progetto di rientro controllato dei seguaci dell’Isis reinserendoli nella società e supportando il loro percorso di rientro con programmi di deradicalizzazione. Tuttavia è un progetto che richiede un sostegno finanziario che - evidentemente - non tutti i governi sono disposti a mettere in preventivo. I jihadisti e la cittadinanza: un tema cruciale per l'Europa di Riccardo Redaelli Avvenire, 25 marzo 2019 Come fare con le persone che hanno combattuto o commettono atti di terrorismo in patria? Non solo sicurezza: rendere apolidi è questione etica, morale e giuridica. Apparentemente, è una soluzione semplice e geniale. E, in tempi di “cattivismo” imperante, sicuramente anche molto popolare. La decisione britannica di togliere la cittadinanza ai sudditi della regina che sono andati nel Levante a combattere per Daesh (o comunque a sostenerlo) risolve alla radice una delle principali preoccupazioni delle forze politiche e di sicurezza europee: cosa fare dei jihadisti di ritorno. Il caso più eclatante è quello di Shamima Begum, una ragazza di fede musulmana partita 15enne nel 2015 con due coetanee per unirsi al Daesh in Siria. Ora, a 19 anni, con un neonato che è morto poco dopo la decisione di Londra, voleva fare ritorno e si trova bloccata in un campo curdo senza più il passaporto britannico, revocatole sebbene il suo caso abbia suscitato emozione nella sua ex patria. Il laburista Corbyn l’ha difesa, il ministro dell’Interno Javid (figlio di pachistani) è stato però irremovibile (“Dobbiamo mettere al primo posto la sicurezza del Regno Unito”, ha detto) suggerendo poi che la giovane chieda la cittadinanza bengalese, come la madre, ma il Bangladesh si è subito opposto. Quello dei foreign fighter è un problema oggettivamente spinoso, dato il timore che chi abbia combattuto in Siria e Iraq per lo Stato Islamico o per le varie formazioni qaediste possa, una volta tornato in patria, compiere attentati o creare cellule terroristiche. E considerando che arrestarli, processarli e tenerli in galera risulta spesso un compito lungo e complicato. Senza trascurare infine il fatto che le prigioni europee e mediorientali sono ormai chiamate le “università del jihad”, visto il significativo numero di musulmani che si radicalizzano dietro le sbarre. Togliere loro la cittadinanza permette quindi di impedirne il ritorno. Lasciandoli nella mani dei curdi (se sono fortunati), delle forze armate siriane e irachene o, se proprio la sorte gli è avversa, delle milizie sciite. Pazienza, se la sono cercata. Se sei uomo e sei andato a uccidere, minacciare, torturare è nella logica delle cose che - per la legge del taglione - tu finisca torturato e ucciso. Se sei donna e sei andata in sposa di jihadisti che hanno rapito e violentato le donne delle altre comunità, ora ti lasciamo in pasto a chi ti stuprerà finché reggi gli abusi. In fondo, sposando la causa del califfato islamico è come se avessero volontariamente rinunciato alla loro cittadinanza europea. Un deterrente efficiente anche per il futuro. Indubbiamente efficace, veloce, sicuro. Peccato sia anche inumano e vada contro secoli di riflessione etica, morale e giuridica europea. E che apre la porta a un meccanismo di rimozione del “nemico sociale” che risulta storicamente pericoloso oltre che giuridicamente opinabile. Già ai tempi della Grecia classica togliere la cittadinanza, rendere apolide, era considerato forse la punizione peggiore, poiché lasciava “nudo” l’individuo, senza alcuna protezione e privato di ogni diritto a fare parte di una comunità riconosciuta. Hannah Arendt nel suo saggio Le origini del totalitarismo parla di Heimatlose, colui che è allo stesso tempo privo di una patria, di cittadinanza, di un posto nel mondo e del diritto a godere di diritti. Non a caso i despoti hanno sempre amato la pratica di privare della cittadinanza i cittadini che si opponevano al loro potere. In Iraq, Saddam Hussein la praticava contro gli oppositori, in special modo contro i curdi. Un intellettuale che fra i primi ha cercato di dare un senso libertario - senza riuscirvi - al nuovo Iraq a seguito all’invasione anglo-americana del 2003 era proprio un curdo reso apolide, poi accolto dalla Svezia, che sottolineava la crudeltà di ridurre una persona a essere senza casa. Senza nazione. Senza passaporto. Primo passo per privarli di ogni diritto. Anche quello a un’esistenza riconosciuta. Proprio per questo la nostra Costituzione, nata all’indomani del fascismo che con le leggi razziali aveva aperto la porta alla revoca della cittadinanza per gli ebrei italiani, stabilisce all’articolo 22 che non si può privare un cittadino italiano della propria cittadinanza e della propria capacità giuridica per motivi politici. Il recente decreto sicurezza voluto da Salvini ha introdotto la possibilità che il passaporto italiano sia ritirato - con decreto del presidente della Repubblica - a chi abbia una condanna passata in giudicato per reati di terrorismo. Si tratta di una norma controversa che comunque esclude chi abbia acquisito la cittadinanza per ius sanguinis e per adozione prima della maggiore età. È di ieri la prima proposta di revoca per un marocchino condannato per terrorismo, divenuto italiano nel 2015. Il principio che la Gran Bretagna vuole adottare, ma a cui guardano molti altri Stati europei, non è solo quello di togliere la cittadinanza a immigrati che ne abbiano già un’altra, originaria, e che poi abbiano nel tempo acquisito anche quella del Paese in cui vivono. Questa ipotesi, nei fatti giuridicamente difficile da mettere in pratica, appare certo meno brutale di quella di rendere dei cittadini europei apolidi. Una scorciatoia per lavarsi le mani da ogni problema di tutela giuridica: “noi” infatti non possiamo consegnare i “nostri cittadini” nelle mani di paesi che praticano la tortura e la pena di morte. Quindi è necessario renderli non cittadini. Anche nel caso si tratti di minorenni irretiti dalla propaganda jihadista o che hanno seguito il proprio compagno per amore. Si badi bene: non si vuole negare o sminuire la bestiale brutalità degli atti compiuti da Daesh, né negare che chi ha sbagliato debba pagare e pagare per intero. Ma l’idea del togliere la cittadinanza a chi si radicalizza e compie atti violenti distrugge anche ogni idea - per altro sostenuta dalla stessa Gran Bretagna - di affiancare la parte repressiva contro il jihadismo a programmi di de-radicalizzazione e contro-radicalizzazione. Che sono già attivi e che sembrano dare risultati interessanti, proprio quando vengono coinvolti ex-jihadisti che possono testimoniare l’errore (e l’orrore) da essi compiuto. Ma l’idea di punire il reo rendendolo apolide è inaccettabile, al di là della sua perversa seduttività, anche da altri punti di vista. Perché usarla solo per chi si unisce ai movimenti jihadisti? Forse che chi traffica nel commercio internazionale di organi, spesso ammazzando per ottenerli, non è meno esecrabile? O gli assassini mafiosi che negano l’autorità del nostro stato sul suo stesso territorio? Chi decide quanto colpevoli debbano essere i colpevoli? E chi decide il limite? Cacciare dalla comunità chi infrange le sue leggi, e non solo sanzionarlo, ha nella storia solo esempi tetri. Dittature e ideologie totalitarie che ritenevano che lo stato dovesse tutelarsi da ogni minaccia, compresa quella di chi semina il dubbio che le scelte compiute siano illegittime. I nemici del popolo insomma. Per chi come me lavora da decenni in Medio Oriente non vi può essere alcuna simpatia per jihadisti e aspiranti jihadisti, seguaci della forma più aberrante e distorta dell’islam sunnita, propagatori e giustificatori di una violenza inaudita che ha spazzato via tanto di quel che amavo di quel mondo. Eppure, nonostante abbiano intenzionalmente rigettato ogni idea di umanità con le loro azioni, essi rimangono esseri umani. Uomini e donne che devono essere giudicati secondo giustizia. Gli inglesi durante la rivolta dei Sepoys in India del 1858 resero celebre il detto: “Mostriamo a questi selvaggi che sappiamo essere più selvaggi di loro”. Ecco, noi no. Oggi in Europa non possiamo né dirlo né tantomeno farlo in silenzio. Stati Uniti. Russiagate, per Trump niente incriminazione. La rabbia dei democratici di Francesco Semprini La Stampa, 25 marzo 2019 Nessuna prova di collusione con Mosca nell’indagine di Mueller. L’opposizione: “Diffondete il rapporto”. Nuove ombre sulla Fondazione. Nessuna nuova incriminazione, neppure per il presidente Donald Trump che, a questo punto, vedrebbe venire meno l’ipotesi di impeachment, ovvero di messa in stato di accusa nei suoi confronti. È questo l’elemento principale che emerge - secondo quanto riferito da fonti del dipartimento di Giustizia - al termine dell’inchiesta Russiagate, il cui fascicolo è stato consegnato dal procuratore speciale Robert Mueller al ministro della Giustizia William Barr. Il quale potrebbe già oggi comunicare al Congresso gli esiti principali dell’inchiesta. In realtà è a discrezione del titolare del dicastero decidere quanti e quali elementi dell’inchiesta sulle presunte interferenze di Mosca nelle elezioni presidenziali del 2016 trasmettere al Congresso. Pressioni dei democratici - I democratici sono già sul piede di guerra: chiedono che il rapporto sia reso pubblico nella sua interezza. Non farlo, spiegano gli osservatori, significherebbe tradire la fiducia degli americani, e aprire quello che potrebbe essere lo scontro finale con la Casa Bianca di Donald Trump. Il presidente della commissione di intelligence della Camera, il democratico Adam Schiff, non esclude una convocazione dello stesso procuratore speciale Mueller per ottenere un quadro più chiaro sui contenuti del suo rapporto sul Russiagate. “Se necessario chiameremo Mueller e altri davanti alla commissione” mette in evidenza Schiff, ipotizzando anche un’audizione del ministro della Giustizia William Barr. Tutti i candidati democratici alle primarie del 2020 sono compatti nel chiedere l’immediata pubblicazione del rapporto. Le opzioni per Trump - Sono tre le strade percorribili per il presidente. Chiedere in via confidenziale al ministro della Giustizia William Barr cosa c’è nel rapporto: in questo caso però rischierebbe di voler apparire come censore del segretario. Trump potrebbe appellarsi al privilegio esecutivo con il quale si blocca la pubblicazione di alcune informazioni private. Anche questa possibilità però comporta dei rischi perché i democratici, che già accusano Trump di ostruzione alla giustizia, potrebbero sollevare dubbi sul privilegio esecutivo in tribunale. La Casa Bianca potrebbe infine opporsi ai mandati mettendo in evidenza che il rapporto è un documento interno del dipartimento di Giustizia che include informazioni su individui che non sono stati incriminati e il cui obiettivo non era quello di essere reso pubblico. Anche questo, però, esporrebbe l’amministrazione a critiche. I rischi non sono finiti - La chiusura dell’indagine segna quanto meno una prima vittoria per Trump: l’essere riuscito a evitare di essere sentito da Mueller. E in seconda istanza, se confermate le anticipazioni dei giorni scorsi, il mancato impeachment, ma solo per questa inchiesta. Il presidente, che segue la vicenda in rigoroso silenzio dalla sua residenza di Mar-a-lago in Florida, è infatti interessato da altre indagini. Al di là del Russiagate, le autorità di New York stanno indagando sulla Trump Organization e sulla campagna di Trump del 2016 per accertare eventuali violazioni delle legge sui finanziamenti elettorali. Il procuratore generale di New York indaga poi sulla fondazione di Trump. A queste indagini si affiancano quelle avviate dai democratici in Congresso, dalla dichiarazione delle tasse di Trump alle pratiche della Casa Bianca per la concessione dei nullaosta di sicurezza, dai legami fra Deutsche Bank e il presidente ai pagamenti alla proprietà di Trump da parte di governi stranieri. La prudenza di Giuliani - A parlare per Trump è stato il suo legale di punta Rudolph Giuliani, il quale ha espresso “cauto ottimismo”. “Siamo - ha detto - in un’attesa vigile”. Qualunque cosa deciderà domani Barr, sembra comunque scritto nella storia che la fine del Russiagate aprirà una nuova fase, forse più incerta e caotica. Con un inasprimento del confronto tra compagini politiche, tra Trump e i suoi detrattori, destinato a travolgere l’America tutta almeno sino alla notte elettorale del 2020. Turchia. Un'altra prigioniera politica curda, Zehra Saglam, si è suicidata per protesta di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2019 Come temevo, tre non sono bastati. Un'altra prigioniera politica curda in sciopero della fame si è tolta la vita. Rinchiusa nella prigione di tipo T a Oltu (provincia di Erzurum) Zehra Saglam (amareggiata - ipotizzo - per la scarsa, quasi nulla visibilità che a questa lotta - e alle ragioni di tale lotta - viene data dai media) ha inteso così levare la sua estrema protesta. Come il giorno prima aveva deciso un'altra prigioniera, Ayten Becet. Un inciso personale, lungo. Questo non è un commento, tantomeno un articolo, ci mancherebbe. Nemmeno un necrologio. Vorrebbe essere - questo sì - un'invettiva contro tutti coloro che, potendo darne notizia, fingono di ignorare l'orrore di quanto sta accadendo e di cui i suicidi di protesta, tre in una settimana (il 17 marzo Zulkuf Gezen, il 23 marzo Ayten Becet, più un altro militante - Ugur Sakar - che si era immolato col fuoco in febbraio e che è morto in questi giorni), rappresentano solo la punta dell'iceberg. Poi non dite che non lo sapevate. Ho un elenco, piuttosto lungo, di testate (sia cartacee che in rete) e gestori di blog che, di solito almeno, mi pubblicano di tutto e di più (anche cazzate talvolta, lo ammetto). Dalle questioni ambientali alla memorialistica. Dal “come eravamo” ai necrologi. Anche sui curdi, almeno quando si parla dell'eroismo di coloro che combattono lo Stato islamico salvando il culo alla vecchia Europa. Ma stavolta, sulla faccenda del lungo sciopero della fame che coinvolge ormai migliaia di persone, devo amaramente constatare che preferiscono stendere un impietoso silenzio. Anche alcuni che su quello del 1981 dei Repubblicani irlandesi hanno costruito gran parte della loro carriera e reputazione. Ma i curdi non sono cattolici, peccato! Comprensibile, a questo punto, l'appello di Leyla Guven affinché altri prigionieri non seguano la medesima strada, quella di auto-sacrificarsi per protestare sia contro l'isolamento per Ocalan, sia contro le condizioni carcerarie, sia contro il regime fascista turco. Nel suo invito a non cedere all'amarezza e alla disperazione Leyla aveva spiegato che “per la prima volta nella nostra storia, migliaia di persone resistono indefinitamente per spezzare l'isolamento. Nessuno può affermare che queste azioni non produrranno alcun risultato. Noi otterremo certamente dei risultati e vinceremo, di sicuro”. Me lo auguro anch'io, pur con qualche riserva. Il cinismo, l'indifferenza di cui finora han dato prova l'opinione pubblica e le istituzioni internazionali non mi inducono all'ottimismo. Yemen. Ogni giorno un bambino muore sotto le bombe della guerra più dimenticata di Francesca Paci La Stampa, 25 marzo 2019 Save the Children lancia una petizione per lo stop alla vendita di armi usate nei raid aerei. La più dimenticata in assoluto tra le primavere arabe fiorite con sorti alterne in un passato che sembra oggi lontanissimo è quella yemenita. Ben pochi ricordano probabilmente che nel 2011 le piazze di Sana’a si accesero di speranze democratiche esattamente come quelle del Cairo, Tunisi, Bengasi, Aleppo, Manama. Eppure quell’anno, a riconoscimento dello sforzo titanico dei ragazzi yemeniti, i più poveri tra i poveri, il premio Nobel per la Pace andò ad una di loro, un’attivista, Tawakkol Karman. Meteore della Storia e della memoria. La gloria del decaduto Paese della regina di Saba sarebbe durata ancor meno della sua visibilità mediatica: il 22 marzo 2015, nello Yemen uscito dai radar, comincia una sanguinaria guerra civile tra la minoranza Houti, sostenuta dall’Iran, e il governo centrale, che dopo la deposizione del trentennale despota Saleh è guidato da Hadi e gode dell’appoggio politico e miliare di Riad. Quella guerra, dagli esiti altalenanti e i capovolgimenti ripetuti (Saleh è morto nel 2017 dopo aver disertato, gli Houti hanno preso Sana’a), dura ancora oggi mentre i tentativi dell’Onu di negoziare una tregua quantomeno umanitaria s’infrangono con la determinazione delle potenze regionali risolute al redde rationem per procura sulla pelle dello Yemen. A quattro anni dall’inizio del conflitto meno seguito dei tempi moderni (in confronto la pur reietta Siria sembra costante breaking news) Save the Children, una delle Ong sempre presenti sul terreno, traccia un bilancio che brucia: oltre 19 mila raid aerei hanno raso al suolo scuole, ospedali e infrastrutture (ne crolla in media uno ogni 2 ore); 1,5 milioni di minori sono stati costretti a fuggire con o senza le famiglie e 10 milioni non hanno accesso a cure mediche; ogni giorno almeno un bambino viene ucciso dalle bombe che, in barba alle polemiche, i governi di mezzo mondo continuano a vendere alla coalizione a guida saudita; uno su 3 non va a scuola. Non è un mistero che i morti in cifre siano distanti anche quando sono vicinissimi. Le cifre scivolano sulle coscienze come l’acqua, alla fine ci si fa l’abitudine. Almeno fino a quando un barcone non ci ricorda che la guerra è non poi così lontana. È dietro l’angolo invece, così come lo è la famiglia che - racconta Medici senza Frontiere - nei giorni scorsi, nella città di Taiz, ha guidato tre ore attraversando la linea del fronte per portare in ospedale un bambino di due anni ferito al volto da una scheggia dopo l’esplosione di una bomba vicino casa. Fortunati, quasi: la maggior parte non arriva neppure all’ospedale. Mentre sul calendario corre via veloce il quarto anniversario della nostra indifferenza e mentre naufragano uno dopo l’altro i tentativi di tregua mediati dall’Onu, Save the Children chiede ai governi occidentali un passo indietro, uno stop alla vendita di armi allo Yemen insanguinato con una petizione, “Stop alla guerra sui bambini”, che solo in Italia ha già raccolto oltre 54 mila firme. Dal 2005 ad oggi le bombe straniere hanno ucciso o gravemente ferito quasi 6500 bambini. Sì, perché i raid aerei vengono spesso condotti su aree altamente popolate con tutto ciò che comporta. Come avvenuto il 10 marzo scorso, quando un bombardamento ha colpito cinque abitazioni provocando la morte di almeno 10 bambini, come avvenuto a Samer, 8 anni, ferito in un villaggio vicino a Hodeidah mentre tornava a casa con suo nonno. Troppi bambini sono nel vento. Le loro voci e quelle di chi resta nel limbo della vita senza vita rimbalzano oltre le poche immagini della tv attraverso Save the Children: “Quando camminiamo abbiamo paura; quando dormiamo abbiamo paura; quando giochiamo abbiamo paura. Non vogliamo più vivere dove c’è la guerra, non ce la facciamo più. Siamo innocenti e siamo bambini proprio come ogni altro bambino al mondo, come i vostri bambini. Vogliamo che ci si prenda cura di noi come per tutti gli altri bambini. Vogliamo la possibilità di studiare e andare a scuola. Vogliamo disegnare, mangiare, ridere, giocare, crescere e seguire i nostri sogni”. Mentre vi raccontiamo questa storia alcuni dei protagonisti sono probabilmente già muti. Nuova Zelanda. Censurato il “manifesto” del killer Tarrant: carcere per chi lo condivide La Repubblica, 25 marzo 2019 La decisione ha scatenato un acceso dibattito nel Paese. “C'è differenza tra l'hate speech e un manuale che dà istruzioni per atti di terrorismo”, ha detto David Shanks, il responsabile dell'ufficio della censura neozelandese. “Così si nascondono le idee” del terrorista, dice Stephen Franks, portavoce della Coalizione per la libertà di parola. Censurare o parlare delle idee di Brenton Tarrant, il supermatista australiano accusato di aver ucciso 50 persone in due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda? La decisione di David Shanks, responsabile dell'ufficio della censura neozelandese, di mettere al bando il manifesto del killer sta suscitando un dibattito molto acceso nel Paese. L'ufficio di Shanks ha stabilito che il manifesto di Tarrant di 74 pagine condiviso su diversi canali online deve essere rimosso dalla Rete e che chiunque venga trovato in possesso di una copia sul proprio computer rischia fino a 10 anni di carcere, che diventano 14 se qualcuno prova a condividerlo. Questo mentre la stampa e i media neozelandesi si chiedono se sia giusto non nominare il killer come ha promesso di fare la premier Jacinda Ardern. Shanks ha spiegato la sua scelta sostenendo che il manifesto di Tarrant contiene giustificazioni per atti di enorme crudeltà come uccidere bambini e che incoraggia il terrorismo, indicando anche possibili obiettivi e metodi per attuare gli attacchi. Una cosa molto diversa dal diritto a poter esprimere liberamente le proprie opinioni anche radicali. “Esiste un'importante distinzione tra l'“hate speech” che è legale e questo tipo di pubblicazione, che è deliberatamente costruita per ispirare ulteriori omicidi e atti di terrorismo”, ha detto Shanks. Lo stesso discorso che la Nuova Zelanda applica ai video e al materiale di propaganda dello Stato islamico, che è vietato. Hanks aveva già vietato la distribuzione e la condivisione del video in diretta della strage, girato dal killer stesso con una telecamera montata sull'elmetto che indossava. Ricercatori e giornalisti potrebbero essere autorizzati ad avere accesso al materiale, ma associazioni e gruppi che lavorano in difesa della libertà di espressione sono molto critici con la decisione del Censore di bannare il manifesto. “Le persone si fidano di più l'uno dell'altro e dei loro leader quando non c'è più spazio per le teorie della cospirazione, quando nulla viene nascosto”, ha spiegato alla Associated Press Stephen Franks, avvocato costituzionale e portavoce della Coalizione per la libertà di parola. “Il danno e i rischi sono maggiori nel censurare queste cose piuttosto che fidarsi della capacità delle persone di farsi una propria opinione e di vedere il male o la pazzia per quello che sono”. Per Franks il divieto va troppo in là, in un Paese in cui - dice - chiuque può acquistare una copia del Mein Kampf di Hitler e non farebbe altro che suscitare curiosità, sortendo l'effetto opposto a quello sperato. Altri temono che la censura finisca per oscurare anche le idee pericolose di Tarrant, che finisca per de-ideologizzare una strage che invece aveva una forte matrice ideologica, quella del fanatismo suprematista. Il giornalista danese Claus Blok Thomsen, che lavora per il giornale Politiken e ha seguito il processo contro lo stragista norvegese Anders Breivik, ha detto all'Ap che censurare Tarrant espone a diversi rischi. Thomsen racconta che “durante il processo Breivik, molti media, compreso il suo, riferirono solo quello che succedeva in tribunale senza discutere dell'ideologia di estrema destra di Breivik”. Un approccio, spiega il giornalista all'agenzia, difeso da “intellettuali e dai cosiddetti esperti”, ma che lasciava perplesse le famiglie delle vittime. “Quando li ho intervistati - ha raccontato Thomsen - ho scoperto che molti di loro erano arrabbiati. Mi dicevano: quando iniziamo a censurare noi stessi, lo facciamo diventare un martire. Non abbiamo capito quanto fosse pazzo questo ragazzo, quale fosse il suo pensiero, fino a quando non è venuto fuori”.