“Magistrati, torniamo al concorso di primo grado” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 marzo 2019 “Siamo contrari ai test psicologici”, dice l’ex segretario dell’Anm Edoardo Cilenti “perché introducono il rischio di una omologazione, secondo un modello precostituito di tipo soggettivo”. “L’attuale meccanismo di reclutamento dei magistrati è davvero idoneo a selezionare i “migliori”? Credo sia questo il punto di partenza della discussione. Di certo sono contrario ai test psicologici”. A dirlo è Edoardo Cilenti, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati e attuale componente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, replicando alla proposta del ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno di prevedere una selezione psicoattitudinale per le toghe. Consigliere, cosa non funziona nell’attuale sistema di reclutamento dei magistrati? Occorre tornare alle riforme dei guardasigilli Castelli e Mastella che intendevano costruire, nelle intenzioni, un livello di preparazione più elevato. Da concorso di “primo grado”, aperto ai neo laureati, si passò a un concorso sostanzialmente di secondo grado, con i candidati che dovevano possedere dei titoli maturati in un percorso post universitario per essere ammessi alle prove. In precedenza l’accesso rappresentava un traguardo per una platea di aspiranti di età - mediamente compresa tra i 26 e i 28 anni. Oggi i candidati giungono al concorso in età più avanzata e senza la auspicata maggiore preparazione da conseguire presso le scuole di specializzazione, che sono diventate una zona di parcheggio con esborsi economici anche importanti. Perché è contrario a chi entra in magistratura con qualche capello bianco? Con il trascorrere del tempo ci si deve normalmente confrontare con problemi personali, di vita privata e familiare, che rendono meno efficace la dedizione nella formazione e la iniziale, necessaria, mobilità sul territorio. Il pericolo è quello di una minore predisposizione a cogliere la funzione intesa come un servizio da rendere alla collettività. I più brillanti scelgono altre strade. E chi, invece, prima di diventare magistrato ha fatto un altro mestiere, anche nella stessa Pubblica amministrazione? Si corre il rischio di trasferire nella funzione giudiziaria atteggiamenti mentali inappropriati, come una ridotta disponibilità a confrontarsi utilmente con i vertici degli uffici giudiziari. Ulteriore pericolo è quello della mentalità impiegatizia: guadagnato un posto rassicurante, si tende a stare lontani dalle assunzioni di responsabilità e ad evitare gli svantaggi della giurisdizione. Che soluzioni propone? Sarebbe molto più lineare e razionale tornare al concorso di primo grado, potenziando la successiva formazione per i vincitori. Consentire a tutti i laureati di accedere subito al concorso, senza distinzioni di classe sociale, permetterebbe loro di sapere, dopo un numero accettabile di anni - ossia il tempo dei tre concorsi previsti per legge -, se la loro strada è quella della magistratura o di un’altra, altrettanto dignitosa, professione. La sua corrente, Magistratura indipendente, non è contraria in maniera preconcetta alle scuole di specializzazione. Funzionano? Siamo certamente contrari ai test psicologici perché introducono il rischio di una omologazione secondo un modello precostituito di tipo soggettivo, con presunti esperti valutatori che potrebbero entrare finanche nel merito delle attitudini. Per chiudere il discorso è sufficiente pensare che li aveva già suggeriti Licio Gelli. Siamo invece favorevoli alla libera iniziativa, ma l’attività di preparazione al concorso è allo stato preclusa ai magistrati ordinari per effetto di una interpretazione restrittiva data dal Consiglio Superiore della magistratura. In ogni caso queste scuole o si riformano o si aboliscono. Salvo qualche distinguo e qualche merito, hanno fallito il loro compito, essendosi rivelato un errore continuare la didattica di stile universitario, che produce solo un eccesso di nozionismo. Il ministro della Giustizia ha recentemente ampliato la pianta organica di 600 magistrati. Ci sarà un maxi concorso? È una scelta organizzativa del Ministero. Ciò che serve è procedere a un lavoro di equilibrata distribuzione delle nuove risorse sul territorio dove vi è effettiva necessità. La banda dei giudici corrotti: l’inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura di Paolo Biondani L’Espresso, 24 marzo 2019 Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. C’è una vera e propria rete di toghe sporche al lavoro da Milano alla Sicilia. Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado. Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino annullare le elezioni. L’indagine della procura di Roma ha già provocato decine di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi con i soldi all’estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e sentenze svendute in serie, “a pacchetti di dieci”. Con tangenti pagate anche per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la corruzione. L’antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il politico siciliano, secondo l’accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore, un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla l’elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell’ottobre 2014 conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio 2018 come grandi corruttori di magistrati. L’esistenza di una rete strutturata per comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016, in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi, vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, “un elenco di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie”, con nomi di magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi altrui, chiusi in una busta con il nome proprio di Mazzocchi. Negli stessi mesi Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l’accusa di essersi fatto corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di Mazzocchi, ma anche di “magistrati di Roma” e “ufficiali della Finanza”. Ma si rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra ricattatoria: l’ex giudice cerca di “controllare questa rete riservata” di magistrati e ufficiali “in debito con lui per i favori ricevuti”. Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue “raccomandazioni” a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e due società immobiliari di famiglia dell’avvocato Calafiore, che progettavano speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza. L’inchiesta riguarda molti verdetti d’oro. Russo è accusato anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi contratti pubblici all’impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio: secondo l’accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore. Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato. A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche, secondo l’accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso. Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo l’ordinanza d’arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l’ex giudice ha versato in banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni. Amara, come avvocato siciliano dell’Eni, è anche l’artefice della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno 88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria ipotizzando un inesistente complotto contro l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell’Eni in Nigeria e Congo. Dopo l’arresto, Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri dell’Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni italiane in Africa. Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla giunta dell’ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato. A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano 300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L’ex ministro Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi nelle sue sentenze siciliane. Tra i legali ora indagati c’è un altro illustre avvocato, Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l’imprenditore Alfredo Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un “arbitrato libero” (un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo. Proprio lui, l’ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione. La lotta alle lobby per battere la corruzione di Raffaele Cantone* Il Messaggero, 24 marzo 2019 I recenti sviluppi dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma ripropongono con forza il tema del rapporto tra interessi privati e funzione pubblica. Ferma restando la doverosa presunzione d’innocenza, è comunque impressionante constatare che un presidente dell’Assemblea capitolina, per la seconda volta in nemmeno quattro anni, sia finito in carcere con l’accusa di aver mercificato il proprio autorevole incarico (in precedenza, nell’ambito di Mafia capitale). Malgrado il cambio di stagione politica, all’insegna del proclamato cambiamento, si direbbe che le peggiori prassi del passato non abbiano subito alcuna battuta d’arresto, come d’altronde aveva già certificato la prima ondata di arresti: la famelica mercificazione del ruolo pubblico, piegato a interessi di parte e utilizzato per l’arricchimento personale; l’immancabile presenza di faccendieri e facilitatori, con la loro rete di relazioni e contatti; le tangenti nascoste consulenze e da prestazioni professionali; l’incasso delle dazioni tramite una società riconducibile, secondo i pm, all’esponente politico di turno. Sotto il profilo criminale, è interessante notare come i reati, ascrivibili a più vicende e nemmeno tutte collegate fra loro, siano stati commessi quando i progetti erano in una fase preliminare. Quella, cioè, in cui essi stanno ancora prendendo forma e hanno di conseguenza caratteristiche di “fluidità- tali da farne una zona opaca per eccellenza, perché è più facile orientarne l’esito facendo valere l’arbitrio e il proprio peso politico. A mio avviso questa circostanza deve indurre a una prima riflessione: se i meccanismi corruttivi operano già durante la pianificazione, in cui di fatto non vi è alcuna attività amministrativa in senso stretto, figuriamoci che cosa può comportare, specie nei contesti più a rischio, una maggiore discrezionalità nella fase esecutiva come quella che si vorrebbe introdurre per “far ripartire il Paese” (ad esempio aumentando le soglie per gli affidamenti diretti). Proprio episodi come quelli di Roma dovrebbero indurre infatti a una certa prudenza nelle decantate semplificazioni, per evitare che nobili intenti si traducano nella pratica in una pericolosa deregulation criminogena. C’è poi una seconda considerazione, ancora più pregnante. Per una vicenda che la magistratura lodevolmente scopre e reprime, quanti sono coloro che la fanno franca? E soprattutto, dobbiamo proprio rassegnarci al triste spettacolo di pubblici ufficiali che svendono la loro funzione per assicurarsi - testualmente - “un prepensionamento dignitoso”? Sia beninteso, non esistono formule magiche: chi vuole corrompere (proprio come chi è disponibile a mettersi al servizio di un corruttore) troverà sempre un modo per riuscirci. Ciò non vuol dire, tuttavia, che non sia possibile quanto meno provare a rendere la vita difficile ai disonesti. Come hanno mostrato molte inchieste per corruzione, il vero tema riguarda la necessità di intervenire sulle lobby. Innanzitutto regolamentando il settore, così da rendere più facile (rispetto all’attuale vuoto normativo) l’individuazione di chi svolge tale attività in maniera illegale. In secondo luogo, introducendo appositi meccanismi di trasparenza. I precedenti non mancano. Negli ultimi anni vari titolari di cariche di governo, di propria iniziativa, hanno reso pubblica la loro agenda e di recente anche l’Autorità anticorruzione ha deciso di percorrere questa strada, prevedendo che siano tracciati tutti gli incontri avuti coi portatori d’interessi dai componenti del Consiglio e dai dirigenti degli uffici. Prevengo l’obiezione: anche così, nulla impedirà che gli appuntamenti che nascondono fini illeciti avvengano comunque altrove. Verissimo, ma con una significativa differenza. Attualmente, in assenza di una apposita disciplina, nulla può rappresentare motivo di sospetto. Al contrario, se ci fosse una regolamentazione in tal senso, sarebbero quanto meno bizzarri eventuali incontri “di lavoro” (come accaduto a Roma) al tavolino di un baro in un autosalone durante l’orario di chiusura. *Presidente Anac “Il film sulla camorra è prodotto dai clan”. Il Viminale lo blocca di Andrea Palladino La Stampa, 24 marzo 2019 Dietro “La Casalese” c’è la società di un pregiudicato legato a Schiavone. Il ministero dell’Interno vieta la presentazione della pellicola. Tutto era pronto a Spigno Saturnia, a cavallo tra Caserta e Latina, terra di investimenti, di conquista e di presenza militare per il cartello dei casalesi. Martedì doveva essere il grande evento, il lancio ufficiale di “La casalese - l’operazione Spartacus”. Un film di camorra, con protagonista una donna che si oppone al marito collaboratore di giustizia. Ieri è arrivato il divieto del Viminale, nessuna proiezione, quel film va fermato. Dietro l’evento, spiega una nota, c’è “la famiglia Bardellino in prima linea”, il nipote dell’ex capo, defunto, del clan dei casalesi. La trama del film ha la firma di Antonella D’Agostino, l’ex moglie di Vallanzasca, “Il bel René”, il bandito della Comasina. Ma è il produttore il vero nome ingombrante, che riporta alle origini di Gomorra. Angelo Bardellino, nipote di Antonio, ovvero il fondatore con Francesco Schiavone, Sandokan - del gruppo criminale più noto dell’agro di Caserta. Non un nipote innocente, ma “un pluripregiudicato”, scrivono dal Viminale. È la sua società, la Roxyl Music con sede in Romania, a promuovere l’evento vietato e a firmare la produzione del film. Attivissimo da anni in campo musicale, sempre alla caccia di nuovi talenti da lanciare negli show televisivi, Angelo Bardellino era apparso negli anni passati in prima fila nel format “The Voice” promuovendo il lancio di una cantante arrivata dall’Albania. Il film “La Casalese” era il suo grande passo verso la fiction e tutto sembrava filare liscio. La location dell’evento era a cavallo tra il suo passato e la sua vita attuale. Quando il nonno Antonio venne ucciso nella prima guerra interna al clan di Casal di Principe, il padre Ernesto con tutta la famiglia fuggì nel sud pontino, zona del Lazio conosciuta come “la Svizzera dei Casalesi”. Terra di investimenti, prima di tutto. E proprio a Spigno Saturnia, dove era prevista la presentazione del film, i Bardellino avevano gli uliveti, beni poi confiscati e passati allo Stato. Una presenza che in fondo era un segno. “Sul set c’erano i carabinieri” - “Ho incontrato questo ragazzo, Angelo Bardellino, durante la manifestazione “Microfono d’oro” - racconta la regista del film Antonella D’Agostino - io quando posso i giovani li aiuto, lo sa?”. Per l’ex moglie di René Vallanzasca quel nome non era un problema: “Aveva il nonno che faceva le bufale, e allora?”. La Roxyl di Bardellino, spiega D’Agostino, è arrivata quando il film era già in post produzione: “Il produttore è di Milano, è la Lindy Hop, loro hanno seguito il film dall’inizio”. Società romana, con un amministratore della Brianza, la casa di produzione effettivamente aveva contattato alcune amministrazioni comunali per le location. Per organizzare il casting, alla fine del 2017, aveva chiamato Lele Mora, un nome che attraeva. Oggi sembra essere sparita nel nulla. “È solo un polverone - spiega D’Agostino - io voglio valorizzare la Campania, le fiction sulla Camorra tengono i turisti lontano”. Ed elenca quelli che, secondo il suo racconto, sono i patrocini arrivati al film: “Io ho girato con l’aiuto dei carabinieri, con carabinieri veri!”. Nel trailer che gira in rete appaiono automobili con le insegne dell’Arma: “Ho girato nelle caserme vere! C’erano tutte le carte in regola arrivate da Roma”, spiega con foga. Il comando generale dell’Arma, contattato da La Stampa, al momento non ha risposto sul caso. “La trama? La protagonista si è messa contro la camorra”, si difende convinta l’autrice, con un certo fastidio. “Era la moglie di un grandissimo schifoso”, aggiunge subito dopo. “Ecco, scriva le cose come sono”. Le parole parlano da sole. Calabria: il Garante nazionale formerà il personale penitenziario del DGMC garantenazionaleprivatiliberta.it, 24 marzo 2019 Dopo la Sardegna è la volta della Calabria. Grazie a un apposito protocollo d’intesa firmato con il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità - Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna della Calabria il Garante nazionale parteciperà alla formazione degli operatori penitenziari operanti nella Regione. Il protocollo, il secondo finora siglato in Italia tra il Garante nazionale e un DGMC, prevede che oltre alla formazione del personale i sottoscrittori possano collaborare per progettare e condurre in ambito penale analisi, studi e ricerche di tipo giuridico, criminologico e sociologico. L’attività di formazione e di ricerca sarà svolta dai membri del Collegio del Garante nazionale, Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, nonché dai componenti dell’Unità operativa “Privazione della libertà in ambito penale”, Claudia Sisti e Giovanni Suriano. Il Presidente Palma esprime soddisfazione per la collaborazione con il DGMC della Calabria e per il fatto che, a pochi mesi dalla prima sottoscrizione l’esperienza positiva del protocollo che riguarda il personale della Sardegna si sia replicata in un’altra Regione. Il testo del protocollo d’intesa è disponibile al seguente link. Sicilia: reinserimento per trenta minori a rischio attraverso l’agricoltura cefaluweb.com, 24 marzo 2019 Trenta minori a rischio, tutti palermitani tra i 15 e i 17 anni, segnalati dal Centro di giustizia minorile, sosterranno il loro percorso di reinserimento sociale attraverso l’agricoltura. “Dalla parte di Franti” è il nome del progetto di inclusione sociale che la Cia Sicilia Occidentale sta mettendo in campo con il consorzio Sintesi di Roma (capofila): nella capitale altri 30 ragazzi seguiti dal consorzio proveranno la medesima esperienza nei campi, seguendo tutte le fasi di crescita delle coltivazioni. Poi le due esperienze saranno messe a confronto. Di questo progetto si è parlato venerdì a Palermo, nel corso del convegno “Agricoltura sociale, un’opportunità per tutti”, organizzato dalla Cia Sicilia Occidentale con il patronato Inac e l’associazione Donne in campo. “Si tratta di 30 minori che hanno già avuto problemi con la giustizia o che sono a forte rischio di devianza. La maggior parte sono palermitani, gli altri sono figli di immigrati, nati in Italia e che hanno vissuto in certi contesti. Quale mezzo migliore di reinserimento dell’agricoltura, che ti costringe a fare cose vere, con le tue mani”, ha spiegato Enzo Rimicci, presidente del consorzio Sintesi che a Roma ha creato il noto ristorante La locanda dei girasoli, interamente gestito da persone affette d sindrome di Down. Sono 110, in Sicilia, le social farming che hanno aderito alla rete delle Fattorie sociali e che operano quasi esclusivamente nelle aree rurali in assenza, però, di una legge quadro regionale di cui invece è dotato ormai quasi tutto il resto d’Italia. In queste strutture si svolgono regolarmente attività agricole con finalità produttive e sociali a beneficio di soggetti fragili (persone con disabilità fisica o psichica, psichiatrici, dipendenti da alcool o droghe, detenuti o ex-detenuti) o sono indirizzate a fasce della popolazione (bambini, anziani) per le quali risulta carente l’offerta di servizi. “Una legge che fissi i paletti e descriva gli ambiti di azione e i ruoli dei promotori è indispensabile per consentire un ampliamento dell’offerta di servizi”, ha spiegato il presidente della Cia Sicilia Occidentale, Antonino Cossentino. Nei giorni scorsi, il Pd ha presentato all’Ars un disegno di legge in materia di agricoltura sociale. Promotore del ddl Antonello Cracolici, ex assessore all’Agricoltura nella passata legislatura quando aveva cercato di portare in porto una legge per il settore: “Il nuovo testo declina quello vecchio, ma è un tema su cui lavorare: la sua approvazione permetterebbe di aprire nuovi volani di sviluppo socio-economico in un settore che rappresenta una delle principali risorse della nostra regione”, ha spiegato Cracolici intervenuto al convegno. “Lavoriamo senza una legge che ci aiuterebbe. Bisogna uscire dal concetto che l’agricoltura sociale è solo una bella idea da tirare fuori dal cassetto ogni tanto”, ha aggiunto Salvatore Cacciola, sociologo e presidente della rete Fattorie sociali Sicilia. Il convegno ha ospitato anche la testimonianza di alcune esperienze di agricoltura multifunzionale vissute nell’isola: dalle iniziative per la terza età portate avanti dall’Associazione nazionale pensionati di Palermo, descritte da Caterina Pasta, all’importanza del rapporto tra agricoltura e stili di vita testimoniato da Francesco Sanfilippo, presidente dell’Associazione diabetici “Stili di vita”. A dare il proprio contributo anche Giuditta Petrillo, presidente del Cesvop, Angelo Forgia, direttore regionale del patronato Inac-Cia, Francesco Prezzabile, psicologo e responsabile del gruppo Felix Gea e Carlo Bargione, che ha descritto le varie iniziative di interazione tra agricoltura, giovani e disagio sociale portate avanti nell’azienda agricola multifunzionale Mariscò, nel palermitano. Le conclusioni del convegno sono state affidate a Cinzia Pagni, membro del Forum Nazionale dell’Agricoltura Sociale e presidente di ASeS - Associazione Solidarietà e Sviluppo, Ong promossa da Cia-Agricoltori Italiani: “La solidarietà - ha detto - è un grandissimo valore italiano, la Cia crede nell’agricoltura sociale e sta cercando di diffonderla in tutto il territorio. Si va verso la riforma della Pac e dobbiamo incidere in questo processo, dare indicazioni. Questo è un nuovo welfare per le comunità rurali e bisogna investirci con una programmazione che metta al centro l’agricoltura”. Palermo: auto bruciata alla giovane militante di Libera di Salvo Palazzolo La Repubblica, 24 marzo 2019 Giovedì Chiara era sul palco a ricordare le vittime della mafia Don Ciotti: una sfida per tutti noi. Giovedì, il giorno della memoria organizzato da Libera, Palermo si è svegliata con il volto di Chiara Natoli, che su Rai 3 diceva: “Ricordare le vittime della mafia vuol dire impegnarsi concretamente per i diritti e la giustizia sociale”. Poi, Chiara e i suoi compagni sono corsi a sistemare gli ultimi dettagli della grande manifestazione che ha attraversato la città. Due giorni dopo, nel cuore della notte, hanno bruciato l’auto di Chiara, che era parcheggiata sotto casa. Una sfida. Chi ha distrutto la Nissan Pixo della referente di Libera ha agito a pochi passi dalla caserma della Guardia di finanza che si trova nel popolare quartiere del Borgo Vecchio, di fronte al porto. “Una sfida per tutti noi - ripete don Luigi Ciotti, l’instancabile animatore di Libera - ma noi siamo molti di più. Giovedì, c’erano quasi ventimila studenti nel centro di Palermo, mentre venivano letti i nomi delle 1.011 vittime della mafia”. E Chiara guidava la manifestazione. “Lei lavora ogni giorno nei quartieri più difficili della città - racconta don Luigi - si dà un gran da fare in maniera concreta”. Chiara e la sua battaglia. Ha 31 anni, è arrivata a Libera dopo il servizio civile al centro Pio La Torre, intanto ha fatto anche un dottorato in Letteratura italiana e adesso è fra gli animatori della bottega di Libera che si trova in centro città: accoglie gli studenti che arrivano da tutta Italia, racconta le storie di Palermo. “Stamattina, la polizia mi ha spiegato quello che era accaduto, non avevo sentito nulla”, dice un po’ frastornata. “Una cosa che colpisce, ma Palermo è cambiata - ripete Chiara - vedo una grande voglia di partecipazione. E ce lo siamo ripetuti il giorno del ricordo, non si può delegare l’impegno contro la mafia a magistratura e forze dell’ordine”. Giovedì, c’erano anche i ragazzi dei quartieri difficili di Palermo davanti al Teatro Massimo, gli studenti con cui Libera sta facendo un percorso importante. E poi c’erano i vertici delle forze dell’ordine, i magistrati, il sindaco Orlando, c’era la prefetta Antonella De Miro, che continua a ribadire: “L’organizzazione mafiosa, ancorché colpita dagli arresti, è viva e tenta con raffinata strategia di nascondimento di infiltrarsi nella società e nell’economia legale”. È la sfida degli scarcerati tornati in libertà dopo aver scontato il loro debito con la giustizia. Al Borgo Vecchio, il quartiere dell’intimidazione, ce ne sono diversi. E la zona resta un’enclave di Cosa nostra a due passi dal salotto della città. Ora, la polizia cerca due giovani per il raid contro la referente di Libera: in un video, estratto da una telecamera della zona, si vedono di spalle mentre vanno a colpo sicuro. “Dobbiamo essere ancora di più - è l’appello di Luigi Ciotti - E ci vuole continuità nel fare le cose. Perché non si può stare in silenzio di fronte a tutto quello che ci accade attorno”. Chiara e i suoi compagni di Libera sono già al lavoro per organizzare una nuova iniziativa per Palermo. Milano: i detenuti di Bollate bonificano la scuola di via Moscati Corriere della Sera, 24 marzo 2019 Pettorine, rastrelli, guantoni: una squadra di dieci detenuti del carcere di Bollate, insieme ai rappresentanti del Municipio 8, del Comune e dell’associazione dei genitori, ieri ha rimosso le masserizie e ripulito per la prima volta dopo vent’anni le cantine della scuola primaria e secondaria di via Moscati, infestata di topi proprio per la mancanza di igiene nei sotterranei. “Sono opere utili per la collettività e anche occasioni preziose di aggregazione nel quartiere per chi si trova in condizione di libertà ristretta”, spiega Simone Zambelli del Municipio 8 che ha firmato con la casa circondariale una convenzione grazie alla quale ogni week end nasce un “piccolo miracolo”, come lo chiama l’assessore ai Lavori pubblici del Municipio, Fabio Galesi. Finiti i lavori, pranzo sociale all’interno della scuola. Porto Azzurro (Li): quattro liceali detenuti hanno incontrato 700 studenti del “Foresi” elbareport.it, 24 marzo 2019 Due mattinate di permesso per incontrare circa 700 studenti dell’istituto scolastico “Foresi”. Le hanno ottenute quattro detenuti del penitenziario di Porto Azzurro, iscritti alla sezione carceraria del liceo scientifico “Foresi”. Tutto all’interno del progetto scolastico “Comunicazione e prevenzione”, messo a punto lo scorso anno dai docenti Mariateresa Lisco e Nunzio Marotti, e realizzato all’interno della Casa di reclusione elbana. L’occasione è stata la presentazione, sia nella sede del Grigolo che in quella di Concia di Terra, del libro “Non fare come me”, curato dai due docenti e contenente gli scritti di 17 detenuti studenti, realizzato con l’editore Marco Del Bucchia a conclusione del progetto. Due incontri ricchi di significato proprio per la presenza a scuola di quattro degli autori del libro: Dan, Giuseppe, Nicola e William, studenti della sezione carceraria di Porto Azzurro (Giuseppe ha concluso gli studi liceali nel luglio scorso ed è attualmente iscritto al corso di laurea in Filosofia). Grazie alla disponibilità del Preside, prof. Enzo Giorgio Fazio, e alla sua intensa collaborazione con la Casa di reclusione di Porto Azzurro, di cui si ringraziano tutte le figure coinvolte (il Direttore Francesco D’Anselmo, gli educatori e la polizia penitenziaria), è stato possibile questo incontro tra gli studenti delle classi di Portoferraio e gli studenti detenuti di Porto Azzurro, che hanno presentato il loro lavoro, concepito in particolare per i giovani di oggi. Il libro affronta temi centrali e decisamente attuali, quali ad esempio quello del giudizio o del pregiudizio, o quello della diversità intesa come forma di ricchezza per ognuno di noi. Dopo una breve presentazione da parte dei docenti Lisco e Marotti, hanno preso la parola gli autori del libro che, colmi di emozione per aver avuto la possibilità di confrontarsi direttamente con i giovani elbani, hanno comunicato le loro esperienze e i loro sbagli, hanno rivelato agli studenti la grande speranza che i loro errori non siano ripetuti da altri. Non è stato facile per i 4 reclusi affrontare questo momento: “La paura di fare una brutta figura era tanta, sapevamo infatti che su di noi avevano scommesso in tanti, dai professori al preside, dall’area educativa al Direttore”. Come superare la paura? “Abbiamo parlato fra noi quattro per tutta la settimana, dandoci coraggio l’un l’altro. Abbiamo pensato che la fiducia doveva in qualche modo essere ripagata; infatti, nei giorni dell’incontro, nonostante l’emozione, siamo riusciti a dare il meglio. Abbiamo visto ragazzi attentissimi che ci guardavano e ascoltavano, quasi increduli. Abbiamo anche capito che eravamo quasi riusciti a rompere il muro del pregiudizio. La nostra speranza è che gli adolescenti di oggi, adulti di domani, siano pronti a darci una mano per il reinserimento nella società”. I ragazzi presenti si sono detti più che soddisfatti dell’incontro, positivo e propositivo, hanno mostrato interesse facendo domande e ottenendo valide risposte. Al termine dell’incontro, alcuni di loro hanno scritto: “Grazie per averci raccontato la vostra esperienza. Terremo in testa i vostri consigli”. E poi: “Grazie per averci aperto uno spazio e una visione diversa”. E ancora: “Questa giornata mi ha lasciato tanti sentimenti, come la tristezza; ma anche la certezza di dover ragionare prima di fare una cosa”. Infine: “Mi sento libero fuori ma chiuso dentro” e “Umanità che si cerca, umanità che si trova”. Dunque, due incontri che hanno riempito il cuore di tutti e grazie ai quali si auspica che ognuno creda sempre e fermamente nella forza prorompente del Bene, che può emergere anche dalle “spesse e fredde mura” del carcere. “Sbagliare, può capitare a tutti” ha affermato il preside Fazio, “l’importante è rialzarsi sempre”. da Istituto Statale d’Istruzione Superiore “R. Foresi” di Portoferraio Lecco: una cella in municipio, spunti di riflessione sulle carceri italiane lecconotizie.com, 24 marzo 2019 “Oltre le sbarre” con gli studenti del Bertacchi e l’installazione “Extrema Ratio”. Mercoledì 27 marzo in municipio sarà inaugurata l’installazione Extrema Ratio, un percorso esperienziale che ricrea le condizioni di vita all’interno delle carceri italiane, attraverso una cella di 8 metri quadrati realizzata dai detenuti della falegnameria del carcere di Bollate. L’inaugurazione dell’installazione e della mostra Apac collegata, che appartengono a un’iniziativa più ampia promossa da Caritas Decanale e Ambrosiana con la collaborazione di un’ampia rete di soggetti, istituzioni e realtà della società civile, in programma per le 17, sarà preceduta alle 16 da una conferenza stampa in sala consiliare. Il giorno precedente, martedì 26 marzo, presso la sala don Ticozzi in Lecco, dalle ore 9.30 alle ore 12.50, si terrà la conferenza dal titolo: “Oltre le sbarre. La cultura della legalità, un ponte per abbattere le barriere”. L’incontro, organizzato dal Cpl (Centro di Promozione della Legalità) e da 2 rappresentanti degli studenti dell’Istituto Bertacchi di Lecco, in collaborazione con il Comune di Lecco, fa seguito alla partecipazione, durante l’anno scolastico in corso e per il secondo anno consecutivo, delle classi III A e III B del Liceo delle Scienze Umane, al progetto “Crescere ad arte nella legalità”, un percorso ideato e condotto dall’artista-arte-terapeuta lecchese, Luisa Colombo, promosso dal Centro Studi Parlamento della Legalità - Sez. di Milano, ed in collaborazione con il secondo reparto della II Casa di Reclusione di Milano/Bollate. La conferenza, alla quale prenderà parte il Presidente di Sezione del Tribunale di Lecco, Enrico Manzi, la direttrice della Casa Circondariale di Pescarenico Antonina D’Onofrio, e altri ospiti, sarà strutturata in modo da offrire agli studenti delle classi IV del Bertacchi, spunti di riflessione, opportunità di dialogo e di confronto, con le istituzioni presenti e con alcuni detenuti del gruppo di Arteterapia “Oltre le sbarre”. Gli studenti delle classi III A e B offriranno la loro personale testimonianza e mostreranno gli elaborati realizzati, a seguito del percorso svoltosi a scuola e presso il II reparto del penitenziario milanese, dove hanno avuto l’opportunità di partecipare a due distinti laboratori Artistico/Creativo, con i detenuti del gruppo di arteterapia. Seguirà un interessante e toccante intervento della mamma di Alex Crippa, un giovane lecchese, ex alunno dell’Istituto Bertacchi, deceduto a seguito delle ferite riportate in un incidente stradale l’estate scorsa. Brindisi: l’amore non va in prigione, i figli incontrano i papà detenuti di Adele Galetta senzacolonnenews.it, 24 marzo 2019 Quando Rocco ha chiuso la sua “scatola magica”, quella dei momenti più belli vissuti insieme a suo papà, è scoppiato a piangere ed abbracciandolo gli ha detto: “Chissà se faremo ancora queste cose insieme”. Rocco ha 8 anni, ogni quindici giorni, il mercoledì pomeriggio, entra nella Casa Circondariale di Brindisi per incontrare papà Stefano, rinchiuso lì dal 2015. Una circostanza che Rocco comprende a pieno ma per la quale non ha colpa perché Stefano vuole e può continuare ad esercitare il proprio ruolo di padre, perché l’amore per il proprio figlio va oltre le sbarre. E va salvaguardato. Il progetto Altrove ha avuto inizio nel 2014 e dal 2018 è sostenuto dalla Cooperativa Eridano di Brindisi che, fin da subito, ha creduto nella potenzialità e nell’importanza dello stesso. “Tutto nasce dalla volontà di sostenere la genitorialità dei detenuti, messa a dura prova durante il periodo in carcere - spiegano Angela Corvino, esperta di counseling e la fotografa Martina Leo - con l’obiettivo principale di fare in modo che la lontananza fisica non interrompa la relazione affettiva tra genitore e figlio”. Il progetto si suddivide in tre momenti. Il mercoledì, il giovedì e il sabato. “Ogni sabato, dalle 10 alle 12 - raccontano - incontriamo solo i papà per il “gruppo di crescita” che ha come obiettivo quello di agevolare, utilizzando le tecniche del counseling, la conoscenza di sé padre e fissare obiettivi per migliorare la relazione con i propri figli attraverso la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse. I mercoledì, ogni quindici giorni, dalle 15:30 alle 17:30, c’è l’incontro padri e figli. In queste due ore il nostro obiettivo è farli incontrare in un contesto che non è quello del colloquio ma in un momento esclusivo tra papà e figlio che, attraverso le attività preparate per loro e con il nostro sostegno, diventano momenti di crescita e di intimità utili a sopperire la mancanza fisica quotidiana e accrescendo invece la qualità del tempo passato insieme. Molto spesso i genitori ci dicono di non aver mai passato fuori dal carcere momenti così belli e intensi come quelli durante quelle due ore perché tutto il lavoro fatto, prima e durante, agevola l’ascolto e la qualità dello stare insieme. Nello specifico, facciamo attività laboratoriali in modo che i figli abbiano anche altri ricordi delle loro visite e del tempo passato con il papà. Durante questa attività costruiscono insieme delle cose che i figli portano a casa in modo che nei momenti tristi possano ritrovare in quel lavoro un abbraccio del papà. Il giovedì, invece, dalle 13:30 fino alle 18:00, la famiglia e i figli attendono i colloqui. Durante questo momento sosteniamo il bambino a vivere più serenamente il momento dell’attesa prima del colloquio e dell’esplorazione post colloquio delle emozioni, in modo che i bambini tornino a casa senza il peso della situazione vissuta. Inoltre questo momento di ascolto alla famiglia serve per sostenere le difficoltà attraverso il racconto spontaneo e il disegno. Questi incontri ci portano a conoscere a fondo situazioni delicate che, in casi particolari, vengo affrontati individualmente”. Negli ultimi mesi, per la prima volta, grazie alla forte disponibilità a collaborare della Casa Circondariale, del direttore e di tutto il personale, le porte del carcere e del progetto, hanno accolto esperti esterni, costruendo con loro piccoli eventi di gioco. Il laboratorio di cioccolato tenuto da Nicola Ravone della pasticceria “La Nuova Capannina”, quello di panettoni tenuto da Tommaso Chirico del “Forno San Lorenzo” di Ceglie Messapica, la creazione del logo del progetto con il designer Domenico De Pascale, momenti di lettura con libri donati dalla Feltrinelli di Brindisi. “Uno dei momenti più emozionanti - raccontano Angela e Martina - è stato, sicuramente, quello che ha visto insieme finalmente la famiglia al completo per Natale: papà, mamma e figli hanno preparato i panettoni da portare a casa.” Una delle poche opportunità in cui vivono una situazione normale. Il normale che sembra straordinario per un carcerato. Una carezza, un sorriso, un abbraccio. “Durante questi anni tante sono state le emozioni e i momenti delicati e forti allo stesso tempo che abbiamo vissuto con loro - dicono Angela e Martina - abbiamo visto detenuti che avevano perso la voglia di vivere, ritrovarla negli occhi dei loro figli attraverso un difficile percorso che li ha messi in discussione. Tanti di loro vivono quotidianamente la frustrazione e la vergogna davanti ai propri figli e noi cerchiamo di far ritrovare in loro le risorse per superare questi momenti difficili. Per farlo utilizziamo molto la fotografia come strumento di consapevolezza, scattiamo foto che insieme riguardiamo e durante l’esplorazione in gruppo di queste immagini loro si guardano dall’esterno e arrivano a una consapevolezza che non avevano. Ad esempio, uno dei momenti più significativi è stato sentir dire a un detenuto “allora esisto ancora” guardando una foto di lui con i figli che lo guardavano con amore. È difficile descrivere tutte le sensazioni che ci portiamo addosso ogni volta. Tutte le volte noi stesse abbiamo bisogno di tempo per elaborare quello che è accaduto. Infatti ci fermiamo a condividere le nostre emozioni e riflessioni in modo che ogni incontro possa servire a migliorare il nostro lavoro sulla base dei bisogni emersi. Lo scambio che si crea è intenso e basato sulla fiducia e per questo riusciamo a fare un buon lavoro con loro, che ci gratifica, perché vediamo i risultati nel miglioramento della relazione padre-figlio che altrimenti sarebbe a grosso rischio per tutti i limiti ai quali è esposto. Siamo cresciute anche noi e la cosa nella quale, dopo quasi cinque anni crediamo, fermamente, è che le emozioni dentro e fuori sono le stesse e bisogna averne cura”. Mentre il sole pian piano scompare dietro le finestre del carcere e le mamme ed i bambini si avviano verso l’uscita, Rocco stringe la sua “scatola magica”. L’unico suono in quel momento è quello dei baci. *Rocco e Stefano sono nomi di fantasia Potenza: le poesie di Prospero Cascini alla Casa circondariale lasiritide.it, 24 marzo 2019 Si è tenuto presso la casa circondariale di Potenza l’ incontro con il poeta lucano Prospero Cascini, autore della recentissima raccolta di poesie intitolata “Il girotondo, tra primina e buona scuola nella Lucania” della Monetti Editori. La raccolta, che mostra nella propria copertina un tramonto di Matera (opera di De Marinis) il patrocinio del comune di Matera, la prefazione di Giampaolo D’Andrea assessore al comune di Matera che è anche dotata di un cd allegato con 9 poesie recitate dall’autore con musiche scelte ed eseguite da Daklen Difato, è stata presentata dalla giornalista Cristina Longo che ha coordinato i lavori. Sono intervenuti per i saluti la direttrice Maria Rosaria Petraccone che ha ricordato l’esperienza di Cascini come psicologo del carcere e che tale esperienza ha contribuito sicuramente alla formazione della pietas che trasuda in tante poesie. È intervenuto il comandante Aldo Lista portando il saluto di tutto il personale militare e riconoscendo altamente educativa l’iniziativa culturale. Si è associata al saluto la dottoressa Bosso commissario all’interno dell’istituzione. L’editore Monetti ha ringraziato i presenti e le autorità intervenute dichiarando la sensibilità personale e della propria casa editrice a favore di iniziative che aiutino chi è in sofferenza a trovare un momento culturale di riflessione che sviluppi nuove prospettive di vita. La dottoressa Angela Benemia educatrice, organizzatrice culturale dell’incontro, si è soffermata sulla necessità di favorire tali iniziative quale momento di autentica presa in carico delle persone che soffrono. Padre Janvier Ague, cappellano del carcere, ha portato i saluti del vescovo ed ha espresso con partecipazione emotiva il suo apprezzamento per l’iniziativa. I detenuti hanno letto durante le varie fasi dell’incontro numerose poesie, concludendo con la lettura della poesia Matera 2019 e alcuni detenuti hanno letto proprie poesie maturate appunto in un ambiente di totale privazione. L’autore nel concludere i lavori ed anche rispondendo ad alcune domande specifiche ha ricordato come la propria humanitas e Pietas affondino le radici anche in questo ambiente come ha sottoscritto anche nella lavagna che arreda il palco della bella e funzionale sala biblioteca. Trani (Bat): triathlon, Cala Ponte dà una chance ai detenuti di Antonio Ruzzo Il Giornale, 24 marzo 2019 Ci sono gare e gare. Dure, veloci, facili, epiche, storiche. Gare classiche, corse monumento, quelle che almeno un volta nella vita… E poi ci sono gare che danno un senso allo sport che è spesso la via più diretta per esaltare ciò che siamo e facciamo, un momento della nostra vita o un sentimento, per ricordare o dimenticare o per riscattarsi. E in questa direzione va il progetto TriChanche a cui si sta lavorando nella Casa circondariale di Trani e che porterà un gruppo di detenuti al via della Gara di Triathlon di Cala Ponte Triweek che si correrà il 19 maggio. Una sfida non facile. Complicata dal punto di vista logistico ma ovviamente non solo da quello. “L’idea, elaborata di concerto con l’Associazione dilettantistica sportiva Otrè su iniziativa di Domenico Lippolis e Linda Cavallo- spiega il Direttore della Casa Circondariale di Trani il dottor Giuseppe Altomare - è stata accolta con entusiasmo sia dai funzionari di Polizia Penitenziaria che dell’Area Pedagogica. Risponde ad una duplice esigenza. Da un lato prevede la realizzazione di un’area, appositamente attrezzata per le attività sportive delle persone detenute, dall’altro darà la possibilità ad alcuni detenuti che saranno in condizione giuridiche tali da fruire di permessi premio concessi dal Magistrato di Sorveglianza, di misurarsi con l’esterno, nel triathlon di Polignano a Mare”. C’è un triathlon che offre una chanche quindi. Che diventa progetto sociale e che si realizza grazie alla collaborazione del Team All Tri Sport, di To Do Tri che fornirà i programmi di allenamento, di Magnetic Days che metterà a disposizione i rulli per la preparazione ciclistica, si Made in Carcere e di Studio Sport. E grazie anche ad alcuni tecnici federali della Fitri che settimanalmente in carcere cureranno la preparazione atletica di undici detenuti tra cui una donna. “La condizione di detenzione, per definizione, corrisponde alla deprivazione della libertà del corpo e può evidentemente sortire notevoli effetti sulla mente, e quindi sulla psiche, di chi la subisce - spiega il direttore del carcere di Trani - l’aver commesso dei reati, o l’essere accusati di averne commessi, non può comportare l’annullamento fisico e quasi inevitabilmente psichico. Ogni attività sportiva quindi, specie se adeguatamente sopportata e guidata, non può che essere benvenuta in un istituto penitenziario”. Triathlon sia quindi. Nuotare, pedalare e correre verso il Cala Ponte Triweek per una sfida che avrà anche un altro, importante, riscontro concreto. Servirà infatti, con il progetto finanziario sostenuto dall’Ance Giovani del Bat, a raccogliere fondi per la realizzazione di una palestra che sarà realizzata al interno dell’istituto di detenzione a disposizione di tutti i detenuti. Ci sono gare e gare. Ma alcune valgono di più. Ecologia. Clima e grandi opere inutili, un’onda verde sulla capitale di Serena Tarabini Il Manifesto, 24 marzo 2019 In decine di migliaia da tutta Italia marciano a Roma in difesa dell’ambiente e della salute. Insieme ai No Tav, No Triv e No Tap sfila la generazione di Greta Thunberg. Una piazza di difficile connotazione quella di ieri a Roma e che non si vedeva nella capitale da molto tempo. Decine di migliaia di persone di tutte le età e di tutte le parti del paese hanno sfilato da Piazza della Repubblica a Piazza San Giovanni in una babele colorata dove assieme agli striscioni delle realtà organizzate c’erano anche tanti altri, e cartelli con scritte diverse, ironiche e simboli nuovi. Ad essere protagonisti soprattutto i tantissimi comitati e movimenti che da tempo danno battaglia per la difesa dei loro territori che in questa manifestazione hanno investito in presenza e contenuti, difficile vederli in così tanti e tutti insieme. Non una manifestazione solo No Tav quindi, che in virtù dei loro 25 anni di lotta urlano dal camion “siamo ancora qui”, ma una varietà e quantità di realtà che rende l’idea di come il Paese sia disseminato di problematiche ambientali e di come anche le piccole e medie opere, non solo le grandi, possono avere un impatto devastante. Come la costruzione della Pedemontana in Veneto, terra già tartassata da consumo di suolo e casi di inquinamento come Pfas e pesticidi, e dove attorno a questa nuova linea di asfalto si moltiplicano corruzioni, speculazioni e crimini ambientali come l’interramento illecito di rifiuti. Alcune vertenze come il tema Grandi Navi o gli abitanti della Riviera del Brenta colpiti negli ultimi due anni da un tornado e due alluvioni sono arrivate fino a Roma anche in bicicletta per sensibilizzare i territori attraversati in giorni e giorni di pedalate, incontrare gli altri comitati e parlare non solo delle vertenze territoriali ma anche “della grande sfida contro i cambiamenti climatici” racconta uno dei 10 ciclisti che hanno fatto tutto il tragitto per intero. Fra le bandiere più numerose, oltre naturalmente a quelle No Tav, quelle No Triv, contro le politiche di estrazione e utilizzo degli idrocarburi, che in posti come la Basilicata sta portando a una nuova ed ennesima emergenza. Una problematica quella No Triv che attraversa più regioni, arrivando anche in Lombardi dove dopo aver estratto metano per anni, ora “gli ex giacimenti vengono utilizzati per lo stoccaggio anche in sovrappressione, provocando sismi che mettono a rischio due milioni di persone”, denunciano al corteo. C’è tanto Sud in questa Italia ferita: quello di “Stop biocidio” è uno degli striscioni più grandi, a significare l’entità e la durata di una tragedia, quella della terra dei fuochi, evidente con le sue morti e le sue malattie, e che non riguarda solo la Campania. La Puglia porta i No Tap, Taranto, Brindisi e sono fra i più animati a denunciare quello che per la loro terra è un martirio senza fine. E poi i No Muos, il Forum per l’acqua, Bagnoli, Il Trentino, la Sardegna… nominarli tutti è impossibile, e a vederli cosi, tutti insieme, ci si rende conto che l’unica, o almeno la prima grande opera di cui l’Italia ha bisogno, è il suo risanamento. “Non c’è giustizia climatica senza fermare le grandi opere” scandiscono dalla testa del corteo, e i giovani che la settimana scorsa hanno inondato le strade di tutta Italia rispondendo all’appello del Friday for Future “Non c’è più tempo”, lo hanno capito e in piazza ci sono ritornati per gridare “Siamo ancora in tempo”, lo slogan che ondeggiava sull’enorme telo verde che si dispiegava poco dopo lo striscione di apertura. Studenti delle scuole e delle Università, con numeri inferiori ma presenti e anche in forme nuove, alternative ai classici collettivi studenteschi, come gli”Studenti per la terra”, un ‘organizzazione trasversale ai tre atenei di romani, La Sapienza, Tor Vergata e Roma tre, nata in direzione del 15 marzo, che chiama le Università a fare la loro parte con un impegno più specifico fatto di progetti di ricerca mirati e misure concrete anche all’interno delle strutture universitarie stesse per diminuire lo spreco, consumare in forma alternativa, sensibilizzare gli studenti: per contribuire come gli compete a una riconversione ecologica anche delle menti. “Manifestare il nostro sdegno contro le grandi opere è il minimo” dice Cristina, una studentessa campana di 21 anni. “Non possiamo percepire necessari questi enormi investimenti di capitali quando al Sud per spostarci dobbiamo prendere tre treni, quando intere fette di popolazione in questo paese sono condannate all’isolamento e alla marginalità”. Forte anche la presenta dei centri Sociali, anche loro da tutta Italia, non isolati ma connessi con le vertenze, a testimonianza del fatto che non da ora ma da prima le realtà antagoniste sono impegnate sul tema della difesa dei territori dallo sfruttamento e dal degrado provocate da un modello di sviluppo non più sostenibile. Il messaggio che dietro le grandi opere e i cambiamenti climatici c’è lo stesso problema è partito soprattutto da loro e ieri questa partita l’hanno vinta, con una manifestazione inclusiva che ha puntato il dito contro i responsabili del disastro ma che ha anche voluto indicare le possibili vie di uscita. “Questa manifestazione non è l’inizio, non è la fine” dice un attivista “ma solo la tappa di un percorso”. Migranti della Mare Jonio detenuti arbitrariamente nell’hostpot di Lampedusa? La Repubblica, 24 marzo 2019 Il “Progetto In Limine”, che realizza monitoraggi nei centri di identificazione chiede l’autorizzazione di poter entrare urgentemente nei luoghi dove sono stati portati le persone sbarcate. Le 50 persone soccorse dalla Mare Jonio e condotte all’Hotspot di Lampedusa il 19 sera sono da allora trattenute all’interno della struttura. Il Progetto In Limine - il monitoraggio degli Hostpot, nato nel marzo 2018 da una collaborazione tra Asgi (Associazione di studi giuridici) Cild, Indiewatch e ActionAid, oggi ancor più utile dopo l’approvazione del Decreto 113/2018 cosiddetto “Sicurezza e immigrazione” - il 20 mattina ha inviato alla Prefettura e alla Questura di Agrigento una richiesta di informazioni circa la condizione dei cittadini stranieri presenti nell’Hotspot. In particolare, si richiedevano chiarimenti rispetto all’accesso alla protezione internazionale, alla tutela dei minori e all’eventuale privazione della liberta? delle persone presenti. Ad oggi non e? stata ricevuta nessuna risposta. Una sorta di “detenzione clandestina”. Di fatto, i cittadini stranieri, nel corso di questi giorni, non hanno lasciato la struttura e l’ente gestore ha comunicato per via telefonica a In Limine che non sussistono meccanismi di regolamentazione in merito all’uscita e al rientro dalla struttura delle persone presenti. L’ente gestore ha infatti sostenuto che trattandosi di un Centro di primo soccorso e accoglienza i cittadini stranieri debbano essere trattenuti al suo interno. Questa situazione, che di fatto si configura come una sorta di “detenzione arbitraria e clandestina”, desta grandi preoccupazioni: l’hotspot e? percepito dall’ente responsabile della sua gestione come un centro di detenzione e le autorità pubbliche responsabili sembrano assecondare tale visione. Un problema sollevato già 2 anni fa. Il problema della detenzione illegittima all’interno dell’hotspot di Lampedusa era già stato sollevato dal Garante dei diritti dei detenuti in data 11 maggio 2017. In tale occasione il prefetto di Agrigento alla richiesta del perché non venisse permesso alle persone di uscire dal Centro aveva risposto “se vogliono possono uscire da un buco nella rete”. In seguito, nel febbraio del 2018 il Prefetto inviava una comunicazione all’allora ente gestore con l’indicazione di dotarsi di sistemi per consentire ai richiedenti asilo di circolare liberamente. A oltre un anno da tale comunicazione, tali sistemi non sono stati adottati. L’inviolabilità della libertà personale. Di fronte a questa allarmante situazione c’è da ricordare che la libertà personale è un diritto inviolabile, in quanto tale tutelato dalla Costituzione (art. 13) nonché da norme di diritto internazionale, tra cui l’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. La privazione della libertà può avvenire solo sulla base di norme che ne disciplinino tassativamente casi e modi, deve essere disposta da provvedimenti scritti e motivati e deve essere convalidata dall’autorità giudiziaria competente. Le tre diverse situazioni. Nel caso dei cittadini stranieri presenti a Lampedusa ci troviamo potenzialmente di fronte a tre diverse situazioni: - Il trattenimento nel corso delle procedure di identificazione. Tale forma di detenzione non e? prevista da alcuna norma ed e? quindi di per se illegittima. - Per quanto concerne la privazione della liberta? dei richiedenti protezione internazionale all’interno dei centri hotspot questa è prevista dall’art. 6 del D.lgs. n. 142/2015, che stabilisce che il richiedente asilo può essere trattenuto solo in appositi locali, al fine di determinare o verificare l’identità o la cittadinanza e, in ogni caso, esclusivamente ove vi sia un provvedimento scritto emesso e notificato dall’autorità competente e convalidato dall’autorità giudiziaria. - Per quanto riguarda i cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di allontanamento l’unica eccezione al trattenimento presso i Centri per il rimpatrio e? contenuta nell’art. 13, co. 5-bis, del Testo Unico sull’Immigrazione. Questo prevede che in caso di indisponibilità dei posti all’interno dei CPR tali cittadini possono essere trattenuti in strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza solo dietro autorizzazione del giudice di pace e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida; Lo status di adulti e minori. In base a quanto visto sopra si ritiene che la detenzione cui sono sottoposti i 36 adulti, nel centro di Lampedusa potrebbe essere illegittima, sia nella sua fase iniziale - ovvero durante l’identificazione -sia nei momenti successivi, a meno che non siano stati emessi i provvedimenti di trattenimento e non vi sia stata la relativa convalida. Per quanto riguarda i minori, la situazione è evidentemente ancora più grave. Infatti, in nessun caso i minori non accompagnati possono essere trattenuti e devono essere accolti in “strutture governative di prima accoglienza a loro destinate” e, in caso di indisponibilità di posti in tali strutture, l’assistenza e l’accoglienza devono essere garantite dal Comune. Il trattenimento ovvero la permanenza dei minori nel centro hotspot è estremamente preoccupante in quanto illegittima e contraria al principio del superiore interesse del minore. È urgente conoscere lo stato delle cose “Si invitano pertanto le autorità competenti - si legge in un documento diffuso - a fornire nel minor tempo possibile informazioni sulla condizione delle persone soccorse dalla Mare Jonio, sulla messa in campo delle garanzie previste per il trattenimento e sulle misure adottate per l’immediato trasferimento dei minori. In ultimo, è indispensabile, dal punto di vista della società civile prestare l’opportuna attenzione nei confronti delle procedure applicate alle 50 persone attualmente presenti a Lampedusa. Il tema del rispetto dei diritti e le potenziali frizioni tra diritto e prassi - conclude il comunicato - non si esauriscano con l’approdo e lo sbarco. Viceversa, è indispensabile continuare a mantenere alta la soglia dell’attenzione: va garantito il rispetto dei diritti all’interno degli hotspot e nelle delicate fasi successive”. Austria. Detenuti a casa con il braccialetto elettronico per svuotare le carceri di Marco Di Blas La Repubblica, 24 marzo 2019 Anche le carceri austriache sono sovraffollate, per quanto non come quelle italiane. Secondo i dati del Ministero della Giustizia sono circa 9.000 i detenuti in più, rispetto ai posti letto previsti nei vari istituti di pena. È questa fondamentalmente la ragione per cui si punta ad ampliare l’istituto della detenzione domiciliare, utilizzando lo strumento di controllo del braccialetto elettronico che si trovano in questa situazione: scontano la pena residua stando in casa, da dove non possono muoversi se non in orari prefissati e autorizzati (per recarsi al lavoro o per una visita medica). Il braccialetto elettronico applicato alla caviglia consente alle autorità di Justizministerium will Ausweitung der elektronischen Fu§fessel angehen vigilanza di sapere in tempo reale dove si trovano i portatori o se hanno tentato o se sono riusciti a liberarsene. È stata allestita una unica sala di controllo per tutto il Paese, che si trova nel carcere giudiziario di Vienna-Josefstadt. Per poter applicare a un maggior numero di detenuti il braccialetto elettronico e svuotare così le carceri il ministro della Giustizia, Josef Moser (Övp), intende proporre una modifica al residuo di pena: in futuro andranno a casa anche quelli a cui restino da scontare fino due anni (anziché uno solo), con esclusione di quelli che si erano macchiati di gravi delitti di violenza o di delitti sessuali. Va rilevato, tuttavia, che in Austria l’uscita dal carcere con il braccialetto al piede non è automatica, quando vi siano le condizioni che abbiamo appena menzionato. È necessario anche che il detenuto abbia una casa dove andare a vivere, che tutte le persone che con lui dovranno convivere siano d’accordo, che la persona sia coperta da un’assicurazione per i danni che potrebbe provocare. Queste condizioni sono in vigore dal 2010, da quando cioè è stato introdotto il braccialetto elettronico, e saranno mantenute anche per i nuovi detenuti con residuo di pena fino a 2 anni. Una curiosità. Per favorire l’inserimento al lavoro di chi si trova agli arresti domiciliari con braccialetto, la sua condizione di detenuto in libertà vigilata non dovrà essere comunicata al suo datore di lavoro. In altre parole, se la persona riuscirà a trovare un impiego da sola o con l’assistenza dell’Arbeitsmarkt Service (un’agenzia che aiuta i disoccupati a trovare lavoro, un po’ come si spera che riescano a fare i non ancora costituiti centri per l’impiego), l’azienda non saprà nulla della sua fedina penale e nemmeno della sia condizione attuale di detenuto domiciliare. Il riserbo garantito ai detenuti in Austria fa venire in mente il caso del senegalese autista di autobus a Milano, che aveva preso in ostaggio gli allievi di due classi. Molti in Italia (tra questi il ministro Salvini) si erano chiesti come mai l’azienda di trasporti fosse stata così imprudente dall’assumere un autista con precedenti per ubriachezza e molestie sessuali. In Austria una domanda del genere è improponibile, perché è lo Stato stesso a volere che i datori di lavoro non conoscano la fedina penale dei loro dipendenti, per favorire la loro assunzione. Serbia. Belgrado 20 anni dopo i raid Nato, tutti in piazza contro il presidente di Massimo Nava Corriere della Sera, 24 marzo 2019 Il 24 marzo 1999 iniziavano i bombardamenti sulla Jugoslavia di Slobodan Milosevic. Oggi i cittadini chiedono diritti, potere d’acquisto e riforme. Sfilano a migliaia, da piazza della Repubblica al palazzo della Presidenza. È cosi, ogni sabato, da novembre. Sono studenti, cittadini, pensionati, operai. È la Serbia civile e democratica, la Serbia senza leader e senza partito, che chiede diritti, potere d’acquisto, riforme per sentirsi finalmente in Europa. Bersaglio della protesta, il governo e il presidente Aleksandar Vucic, un oligarchia partorita da vecchi partiti e consumate alleanze fra nazionalisti e socialisti, lo schema dei tempi di Milosevic, di cui Vucic fu ministro dell’Informazione, un’esperienza messa a frutto oggi, con il controllo quasi capillare delle televisioni. In effetti, la macchina del tempo, nelle piazze di Belgrado, sembra tornare indietro di vent’anni, quando la Serbia oppressa da Milosevic, messa in ginocchio dai bombardamenti della Nato e umiliata dall’amputazione del Kosovo, cuore della spiritualità e della storia nazionale, si risvegliò all’improvviso e fece crollare il regime. Lo fece senza sparare un colpo, come se fosse esausta di propaganda, lutti, vendette etniche. Anche le facce sembrano le stesse. Sguardi rabbiosi e malinconici, il sorriso sarcastico sulle stupidità delle gerarchie e la voglia di rivolta che fa trovare il coraggio di invadere la sede della televisione di Stato. Biljana, psicologa, oggi cinquantenne, era in piazza, fra i lacrimogeni della polizia, anche nel giorno della caduta del dittatore. “È cambiato molto poco in questi anni. Di sicuro, la maggioranza dei serbi è più povera e i giovani, appena possono emigrano”. Sono almeno trentamila, ogni anno, i laureati e i diplomati che lasciano il Paese. La generazione del dopoguerra non ha memoria, è meno sensibile ai richiami nazionalistici, sogna un avvenire migliore e quindi impoverisce ancora di più il Paese. Il calo demografico è un’evidenza statistica, nonostante le migrazioni interne, le correnti migratorie, l’insediamento dei serbi cacciati dalle regioni della ex Jugoslavia, che le guerre balcaniche hanno reso etnicamente omogenee. Di diverso, rispetto al passato, c’è la disattenzione dei media occidentali su questo angolo del mondo. La fine di Milosevic fu incoraggiata, esaltata, finanziata in ogni forma possibile. Oggi i serbi lottano da soli contro un presidente che si mostra sprezzante, poco disponibile al dialogo e molto interessato a mettere la sordina su tutto ciò che possa incrinare la sua leadership. “Basta camicie insanguinate”, urlano i manifestanti alludendo al pestaggio di un oppositore, ma in verità il governo usa il guanto di velluto, facendo calcoli sullo sfinimento di una mobilitazione che ha attraversato, ingrossandosi, il gelido inverno e che è riesplosa con la primavera, contaminando anche altre città e piccoli centri. Persino la ricorrenza dei bombardamenti è attesa senza enfasi, con il chiaro intento di evitare sia nuove proteste sia rigurgiti nazionalistici. In gioco ci sono il cammino verso l’integrazione europea, la soluzione della questione kosovara (per la quale, Vucic avrebbe proposto uno scambio di territori), il controllo capillare dei gangli vitali dell’economia: edilizia, appalti, esportazioni, privatizzazioni. Tutti settori in qualche modo collegati ad apparati dello Stato e del governo e cresciuti grazie a importanti investimenti cinesi, arabi, russi. Mentre il palazzo del ministero della Difesa, accartocciato su se stesso, rimane il più visibile monumento dalla guerra, sulle sponde della Sava, nella Belgrado nuova, spuntano grattacieli di cristallo, uffici di multinazionali, shopping center. Luccicano la sera e si riflettono sull’altra sponda del fiume come una quinta di Manhattan, per la gioia di una classe affluente ed elegante che si riversa a Beton Hale, la sequenza di bar, ritrovi, ristoranti internazionali decisamente omologata al gusto e al design occidentale. È la Serbia dei nuovi ricchi, dei rampolli delle classi dominanti, minoritaria eppure importante, perché anche questa Serbia vuole stare in Europa e ha perso la memoria della guerra. Basta scorrere le supercar parcheggiate, le limousine con autisti in attesa, le ville un po’ kitch di Dedinje dove li riporteranno. A Beton Hale, si brinda e si ride fino a tarda notte, come si continua a bere e a ballare nei club dove impazza il turbo rock, come ai tempi di Arkan e Milosevic. E si continua a sorridere nella Belgrado underground, intellettuale, ribelle, alternativa, che irride a qualsiasi potere come nelle vignette di Korac, fantastico umorista che non ha mai smesso di sbugiardare propaganda e disinformazione di tutte le epoche. Poi vai nei mercatini di Zemun, periferia di Belgrado, l’ex feudo di Seselj, leader ultranazionalista della prima ora, incriminato al Tribunale dell’Aja ma ancora sui banchi del Parlamento, ed ecco affiorare la Serbia di sempre, quella che ha pagato per tutti e che continua a pagare la sbornia nazionalista, mossa da spiritualità atavica e più o meno consapevole delle proprie radici. Tra parentesi, il Kosovo è anche una questione economica che i serbi sono stanchi di pagare, ossia il fiume di soldi per pensioni e salari che viene riversato ai fratelli separati dalla guerra. “Cominciamo a sentirci come quando muore una persona cara dopo lunga sofferenza. Siamo addolorati, ma si prova anche uno strano sollievo interiore per la fine dell’agonia”. Militanti del partito di Vucic raccolgono iscrizioni, fra i banchetti del mercato. Si vendono fiori, ottimo pesce di fiume, biancheria per signora, chincaglieria cinese, vestiti di seconda e terza mano. I contadini vengono qui a vendere i loro prodotti. Pensionati a meno di duecento euro al mese comprano un uovo al giorno. Un pollo deve bastare per la settimana. “Non dimenticare, mi dice il vecchio amico belgradese, che il 5 ottobre del Duemila, la rivoluzione la fecero i contadini, invadendo Belgrado”. Siria. Baghouz liberata. “È la fine del Califfato ma restiamo vigili” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 24 marzo 2019 I curdi annunciano la sconfitta del Califfato. Le incognite di reduci e prigionieri. Alla fine anche i portavoce curdi annunciano la sconfitta del Califfato nelle sue ultime roccaforti nella Siria Nordorientale. “Baghouz è stata liberata. La vittoria militare contro Daesh (l’acronimo arabo dell’Isis) è completa”, ha scritto ieri mattina su Twitter Mustafa Bali, capo dell’ufficio stampa delle forze militari curde in Siria riferendosi al villaggio sull’Eufrate, non lontano dal confine iracheno, dove si erano rifugiati gli ultimi combattenti dell’Isis organizzati in coerenti unità armate. Bali aggiunge tuttavia che i comandi curdi “rinnovano il loro impegno a continuare la guerra e perseguire le ultime sacche di resistenza jihadista sino alla loro completa eliminazione”. Questo per specificare che comunque esistono ancora isolati gruppi di irriducibili nascosti nell’intricato e infido dedalo di gallerie sotto le case di Baghouz. Ieri a metà giornata si udivano ancora sporadici spari tra le macerie, ci sono cecchini ben appostati e protetti da campi minati, oltre a trappole esplosive un po’ ovunque azionate da kamikaze pronti a tutto. Ma soprattutto resistono cellule di fanatici sparsi nelle zone desertiche difficili da individuare e colpire persino con i droni e le osservazioni satellitari. Ancora più elusive sono quelle nascoste nei grandi centri urbani siriani e iracheni. In effetti, i curdi hanno tutto l’interesse a protrarre nel tempo il loro ruolo nella battaglia contro il Califfato al fine di garantirsi il sostegno militare ed economico americano, ma anche per fare fronte alle pressioni sia turche che del regime di Bashar Assad. Già in queste ore appare ovvia la maggior preoccupazione della dirigenza di Rojava (come viene chiamata la zona autonoma curda siriana): la caduta nell’irrilevanza e la scomparsa dai riflettori della politica internazionale. Già due giorni fa dal Pentagono un portavoce aveva affermato che la battaglia contro l’Isis era praticamente vinta, dichiarazioni che del resto aveva rilasciato lo stesso presidente Donald Trump a fine febbraio e ieri, quando ha constatato la “fine” del Califfato anche se gli Usa “resteranno vigili contro l’Isis fino a quando non sarà sconfitto in qualsiasi area operi”. Il dato centrale è che in queste ore collassa definitivamente la dimensione territoriale del Califfato, elemento questo che sin dal periodo 2013-2014, con il suo allargamento nelle zone di confine tra Siria e Iraq assieme alla nascita di un’entità transnazionale fondata sul radicalismo sunnita, aveva caratterizzato le sue specificità rispetto ad Al Qaeda e agli altri gruppi dell’estremismo jihadista. Tuttavia, ciò non comporta affatto la fine politica e soprattutto ideologica dell’Isis sulla scena internazionale. I suoi slogan e la sua organizzazione terroristica restano infatti minacciosi, in grado di attirare militanti e costituire un pericolo su scala mondiale. Sono inoltre decine di migliaia i civili, forse oltre 65 mila (in maggioranza donne e bambini), usciti nelle ultime sei settimane dalle macerie di Baghouz, che non hanno affatto rinnegato la loro ideologia e anzi minacciano apertamente di voler costruire “un nuovo Califfato”. Tante tra le vedove velate dei “martiri” dell’Isis, pur dopo mesi di infinite privazioni, sono tutt’ora pronte a dichiarare ad alta voce ai giornalisti stranieri tutta la loro fede nell’utopia violenta jihadista e l’odio per i “kafiri”, i non credenti (o infedeli) nella loro versione dell’Islam militante. Hanno con sé nei campi di tende per sfollati migliaia di orfani, i cui padri sono caduti a Kobane, Sinjar, Mosul, Raqqa, nella valle dell’Eufrate, e che potrebbero davvero costituire la prossima generazione di combattenti nutriti a latte e jihad (la guerra santa). A ciò va aggiunto che non è affatto chiaro quale sia la sorte di Abu Bakr Al Baghdadi, il loro massimo leader, e degli altri dirigenti dell’Isis. Secondo fonti dell’intelligence americana, molti di loro e lo stesso Al Baghdadi (la cui morte più volte annunciata non è mai stata verificata) potrebbero essere fuggiti da tempo in Iraq, specie nelle province sunnite di Al Anbar tra Qaiim, Falluja e Ramadi, dove godono di protezioni e ampie simpatie popolari. Un tema difficile questo della popolarità dell’Isis: sino a quando le masse sunnite di Iraq e Siria si sentiranno oppresse da uno Stato confessionale dominato dagli sciiti il consenso per i gruppi radicali e la rivolta violenta resterà diffuso e ragione di proselitismo jihadista in tutte le sue forme, compreso il terrorismo in Occidente. Da qui l’incognita sulla sorte delle migliaia di volontari arrivati dall’estero: tra loro numerosi francesi, ceceni, afghani, tunisini, libici, palestinesi, algerini. Due anni fa, durante la battaglia di Raqqa, si ipotizzò potessero sfiorare quota 30 mila. Nelle ultime settimane si parlava ancora di almeno 5 mila. Molti sono morti. Ma tanti sono riusciti a nascondersi, sono in fuga, alcuni hanno raggiunto la Libia, la Tunisia, cercano di andare in Europa (un grattacapo per i servizi di intelligence occidentali), oppure si stanno unendo ai “fratelli” in Afghanistan, ai jihadisti africani come Boko Haram, si stanno espandendo in Sudan, in Niger. Che fare di loro, come eliminarli? Parigi, per esempio, tende a non intervenire per rimpatriare quelli catturati in Iraq con passaporto francese, nonostante siano destinati all’impiccagione secondo la legge irachena. Tra le rovine di Baghouz c’è infine da cercare di capire cosa sia avvenuto ai prigionieri dell’Isis. Negli ultimi tempi si parlava di circa 300 persone ancora in vita, in prevalenza curdi, da scambiare come ostaggi. Forse tra loro alcune decine di occidentali. Si era anche accennato alla possibilità che fosse ancora in vita il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, sebbene sin dal suo rapimento a Raqqa il 29 luglio 2013 tutte le fonti abbastanza credibili dal posto ripetessero che era stato ucciso quasi subito. Tra le donne nei campi si trovano anche tante yazide catturate nel 2014 e diventate “schiave sessuali”. Circa 3 mila non rispondono all’appello, oltre a 5 mila uomini e ragazzi yazidi uccisi subito e sepolti in decine di fosse comuni ancora da scoprire e scavare. Ovvio che i curdi approfitteranno delle cerimonie della vittoria nei prossimi giorni per enfatizzare il loro operato. Nel 2014 l’Isis era giunto a controllare quasi un terzo del territorio siriano e larghe parti dell’Iraq. Da dopo la battaglia di Kobane nel settembre-dicembre 2014 e grazie ai vitali aiuti militari americani, i curdi sono stati fondamentali per sconfiggere l’Isis. Quindi hanno espanso le loro zone autonome a spese delle regioni controllate da quest’ultimo. Oggi chiedono di essere ascoltati dalla comunità internazionale, proprio mentre Bashar Assad sostenuto da Russia e Iran cerca un’intesa con Ankara per riprendere il pieno controllo della Siria, inclusa la zona curda. L’America Latina si ferma per ricordare 30mila desaparecidos di Lucio Luca La Repubblica, 24 marzo 2019 Si celebra oggi il Giorno della memoria per la verità e la giustizia per commemorare le vittime della Guerra Sporca. In Argentina è anche l’anniversario del colpo di Stato che instaurò la dittatura militare. Ottantamila oppositori politici inghiottiti nei lager. Almeno 30 mila di essi scomparsi dopo torture e sevizie nei Centri clandestini di detenzione. Dal 1964, la data del golpe della giunta militare in Brasile, al 1990, la fine del regime di Augusto Pinochet in Cile, le dittature latinoamericane hanno scritto le pagine più nere della loro storia. L’Argentina guida la triste graduatoria delle morti accertate, ma anche Ecuador, Messico, Uruguay sono i Paesi nelle quali la lotta contro chi la pensava contro il regime finiva sempre nello stesso modo: rastrellamenti, processi sommari, stupri e violenze di ogni tipo, bambini strappati alle loro madri. Il 24 marzo in Argentina - ma ormai in tutta l’America del Sud - è il Giorno della memoria per la verità e la giustizia (Dia de la Memoria por la Verdad y la Justicia) per commemorare le vittime della Guerra Sporca. È anche l’anniversario del colpo di Stato del 1976 con il quale fu rovesciato il governo di Isabel Peron e instaurata la dittatura militare che avrebbe guidato il Paese sudamericano fino al 1983. Un giorno dedicato al ricordo di quegli inferni nei quali si sono spente le migliori intelligenze di quel continente. Centri di reclusione dai nomi insospettabili, Club Atlético, Campo de Mayo, Garage Olimpo. Luoghi solo dopo tanti anni portati alla luce dal coraggio di centinaia di donne, le mamme, le sorelle, le nonne dei desaparecidos che ancora oggi continuano a incontrarsi ogni settimana nella Plaza de Mayo di Buenos Aires per chiedere verità e giustizia sui loro cari spariti. Ci si ferma anche in Cile, dove sulle cifre delle vittime continuano a divampare le polemiche. L’inchiesta post-regime, registrò 3.508 assassinati, e quasi 30mila torturati. Osservatori esterni parlano invece di 17 mila morti e oltre 40 mila persone sottoposte a tortura. In ogni caso, una strage senza fine. Iran. La donna che fa paura agli ayatollah di Roberto Saviano L’Espresso, 24 marzo 2019 Nasrin Sotoudeh, avvocato, si batte contro le violazioni dei diritti umani. Il regime iraniano l’ha condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate. Buonismo. Mi sono interrogato spesso sul significato di questa parola che viene utilizzata per degradare qualsiasi comportamento si fondi su ragionevolezza, rispetto, comprensione, compassione. La parola “buonismo” oggi è usata per descrivere e insinuare un comportamento ipocrita, come se dal bene e dal fare il bene, dal compiere una buona azione e dal pronunciare parole di vicinanza si possa guadagnare qualcosa. Buonismo degrada il bene insinuando che dietro un comportamento giusto o empatico ci sia soltanto guadagno monetario o di consenso. Dal praticare il “bene”, vale invece la pena ricordarlo, non si guadagna nulla, se non isolamento, diffidenza, insulti. Quando ho saputo che l’avvocatessa iraniana Nasrin Sotoudeh, che da sempre difende i diritti umani, è stata condannata per la sua attività da un tribunale di Teheran a 33 anni di carcere e a 148 frustate, mi sono chiesto se anche lei venga accusata di buonismo. Ho immaginato che il suo fosse, per alcuni, l’identikit della buonista iraniana: una donna pericolosa, tanto pericolosa da dover essere fermata. Ed è pericolosa Nasrin Sotoudeh, dal momento che si specializza nella difesa delle madri e dei bambini maltrattati, che si impegna affinché si investa di più in psicologi, sull’assunto che chi abusa spesso è stato abusato e che quindi curare è fondamentale per evitare violenze. Nasrin si impegna per la difesa dei minori arrestati in Iran. Tra il 2005 e il 2015 in Iran vengono messi a morte 73 bambini accusati dei crimini più svariati: dalla violenza, alla droga, all’omicidio. Nasrin lotta per impedire che dei minori siano condannati a morte. Il suo impegno per i diritti umani la porta a difendere i dissidenti politici e così inizia la collaborazione con Shirin Ebadi (Premio Nobel per la Pace nel 2003). Entrambe sono geniali studiose del diritto e costringono i tribunali iraniani a dare delle risposte legate ai singoli casi e non ideologiche. Da avvocato difende Zahra Bahrami, una cittadina iraniana che aveva anche passaporto olandese. Era stata arrestata durante le manifestazioni contro il governo del 2009. Nella sua casa vennero trovati 450 grammi di cocaina e 420 grammi di oppio. La figlia di Zahra Bahrami dichiarò che la droga era stata messa lì per incastrarla, perché sua madre non aveva mai fumato nemmeno le sigarette. Nasrin Sotoudeh stava riuscendo a dimostrare l’innocenza di Zahra, ma venne condannata a 6 anni di carcere per “aver agito contro la sicurezza nazionale”. Inoltre, le fu vietato di lavorare come avvocato per 10 anni e di lasciare il Paese. Zahara venne condannata a morte e impiccata il 29 gennaio 2011. Nonostante tutto questo, la “buonista” iraniana Nasrin ha continuato a difendere i dissidenti, dalle donne che protestano contro il velo obbligatorio, agli intellettuali che manifestano contro il regime. Shirin Ebadi ha detto di Nasrin: “È uno dei pochi coraggiosi avvocati difensori dei diritti umani rimasti, che ha accettato qualsiasi rischio per difendere le vittime delle violazioni di diritti umani in Iran”. Nel 2010 Nasrin viene arrestata. In carcere fu costretta a intraprendere uno sciopero della fame per poter vedere i suoi familiari. Al quarantasettesimo giorno di sciopero, suo marito disse: “Le sue condizioni di salute sono così drastiche che non credo che arriverà al nostro prossimo incontro”. Nasrin interruppe lo sciopero dopo 49 giorni, in seguito a una visita in prigione di alcuni membri del Parlamento che accolsero la richiesta di revoca del divieto di viaggio a sua figlia. Negli ultimi anni Nasrin è stata più volte arrestata per reati contro la sicurezza dello Stato, locuzione generica che il governo iraniano attribuisce a chiunque osi esprimere dissenso. Pochi giorni fa il tribunale islamico di Teheran le ha inferto una nuova condanna a 33 anni di carcere e 148 frustate per “propaganda contro lo Stato”, “collusione contro la sicurezza nazionale”, “istigazione alla corruzione e alla prostituzione”. Se la pena verrà attuata, Nasrin, che oggi ha 55 anni, potrebbe non uscire mai dal carcere. La sua voce libera e democratica, che tanto fa paura al regime, rischia di essere messa a tacere per sempre. Turchia. Morire per il Kurdistan: Ayten, Zulkuf, Ugur... di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2019 Per il momento sono tre. Ma, continuando con il clima che avviluppa la tragica vicenda (sono ormai migliaia i curdi in sciopero della fame) esiste il fondato timore che la lista sia desinata ad allungarsi. La notizia è del 23 marzo. Ayten Becet (di 24 anni, in prigione da sei) si è data volontariamente la morte nel carcere di Gezbe per protestare contro l’isolamento imposto a Ocalan. Le autorità turche hanno già provveduto a portar fuori dalla prigione il corpo della prigioniera politica trasportandolo in una località sconosciuta dove, presumibilmente, verrà sepolta di nascosto. Il regime infatti vuole assolutamente evitare che ai funerali possano presenziare migliaia, decine di migliaia di curdi per esprimere solidarietà ai prigionieri e severa condanna per lo Stato turco che assiste impassibile al mortale stillicidio. Del resto è quanto è accaduto anche dopo la recente morte di un altro prigioniero (ancora un suicidio di protesta per lo stesso motivo: fine dell’isolamento e liberazione dei prigionieri politici), Zulkuf Gezen. Anche i suoi funerali (già si preannunciavano ampie mobilitazioni) si sono svolti privatamente e vi hanno potuto partecipare solo pochi familiari. Come dicevo, al momento sono già tre i militanti curdi deceduti per aver messo in pratica il suicidio di protesta dall’inizio dello sciopero della fame. Infatti il 22 marzo è deceduto anche Ugur Sakar che il 20 febbraio si era immolato con il fuoco davanti al tribunale di Krefeld, in Germania. Ugur, attivista curdo di 43 anni, è deceduto in una clinica di Duisburg - dopo un mese di agonia - per le gravi ustioni riportate. Oltre che per l’isolamento imposto al fondatore del PKK, intendeva protestare per la repressione subita dal movimento curdo in Germania e per l’indifferenza - sorda e cieca - sinora dimostrata dall’opinione pubblica. Egitto. Lo scrittore al-Aswani denunciato per offesa alle istituzioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 marzo 2019 Il grande scrittore egiziano Alaa al-Aswani, autore di capolavori come “Palazzo Yacubian”, “Cairo Automobil Club” e “Sono corso verso il Nilo”, ha dichiarato di essere stato denunciato presso la procura militare per offesa a varie istituzioni, tra cui le forze armate e il potere giudiziario, e incitamento all’odio. Al-Aswani non è mai stato tenero verso il potere. L’ultimo romanzo, “Sono corso verso il Nilo”, bandito in Egitto, è un generoso e partecipato abbraccio alla rivoluzione del gennaio 2011 e una feroce critica alla repressione che nei mesi successivi scatenarono i militari. Una critica che oggi si dirige contro il presidente al-Sisi e il suo circolo di potere che, dopo il colpo di stato del luglio 2013, hanno impedito ad al-Aswani di partecipare a programmi televisivi e scrivere per le testate locali. A far scattare la denuncia, ha detto lo scrittore dagli Usa dove attualmente vive, sono stati i suoi editoriali per Deutsche Welle. Nell’ultimo suo contributo, datato 19 marzo, al-Aswani ha preso di mira una serie di progetti infrastrutturali ordinati dal presidente egiziano. Quello contro al-Aswani è l’ennesimo atto di persecuzione giudiziaria nei confronti di chi esercita la libertà d’espressione e di opinione, garantita peraltro dall’articolo 65 della Costituzione egiziana.