Misure alternative, arriva il vademecum del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 2019 Da aprile saranno a disposizione dei detenuti gli opuscoli informativi. Tutti i detenuti saranno a conoscenza delle misure alternative e, se hanno i requisiti, sapranno come accedervi. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziario Francesco Basentini lo aveva promesso quando aveva esposto le sue linee guida. Detto, fatto. Da aprile saranno a disposizione dei detenuti che scontano la pena in via definitiva negli istituti penitenziari italiani gli opuscoli informativi che illustrano le modalità per come accedere alle misure alternative alla detenzione e, per i ristretti stranieri, come poter scontare il residuo della pena nello Stato di provenienza. Le brochure, redatte in 26 lingue oltre l’italiano, descrivono in modo dettagliato le opportunità offerte dalla normativa vigente per scontare la pena in modo alternativo/sostitutivo al circuito detentivo classico. Nello specifico, vengono spiegati in modo molto comprensibile i requisiti per avanzare le richieste e le procedure per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale, all’affidamento in prova per tossicodipendenti e alcoldipendenti, alla detenzione domiciliare e alla libertà condizionale. Grazie a questi opuscoli i detenuti stranieri potranno informarsi sulle procedure da seguire per il trasferimento negli Stati di provenienza dove potranno terminare di scontare la pena in base ai regolamenti della Convenzione di Strasburgo del 1983 e agli accordi bilaterali tra l’Italia e alcuni Stati esteri. I piccoli volumi, redatti dal gruppo di lavoro composta da rappresentanti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Dipartimento di Giustizia Minorile e Comunità e del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, saranno stampati presso la tipografia della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av) e consegnati ai Provveditorati Regionali per la distribuzione negli istituti penitenziari del territorio. Le misure alternative sono accompagnate da sempre dal luogo comune che sarebbe un modo per “farla franca”. Niente di più sbagliato. Le misure alternative alla detenzione sono dirette a realizzare la funzione rieducativa della pena, in ottemperanza dell’articolo 27 della Costituzione. Incidono sulla fase esecutiva della pena principale detentiva, in relazione ai presupposti e alle modalità di applicazione sono previste e disciplinate dalla legge 26 luglio 1975, n. 354. Ne sentiamo parlare spesso dalle cronache giornalistiche, come, appunto una maniera per evitare la cosiddetta “certezza della pena”. In realtà è sempre una pena, ma diversa dal carcere. Le misure alternative alla detenzione sono: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare. L’affidamento in prova al servizio sociale è previsto e disciplinato dall’articolo 47 del Dpr n. 354/ 1976 che stabilisce, che se la pena detentiva inflitta non supera i tre anni, il condannato ha la possibilità di essere affidato ai servizi sociali fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. Il provvedimento viene adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi nei quali si può ritenere che lo stesso, anche attraverso le prescrizioni delle quali al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto aiutandolo a reinserirsi nella vita sociale e riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul suo comportamento. I commi 11 e 12 dell’articolo 47 regolano rispettivamente la revoca dell’affidamento in prova e i suoi effetti stabilendo che esso “è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova” e che “l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale”. All’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, deducibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena che consiste in 45 giorni di pena detratta per ciascun semestre di pena scontata. La semilibertà è prevista e disciplinata dagli articoli 48 e seguenti dell’Ordinamento Penitenziario e consiste nella possibilità per il condannato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto. L’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società. La liberazione anticipata è regolata dall’articolo 54 della Legge n. 354/ 1975 che stabilisce la possibilità che venga concessa al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione alla sua rieducazione. Consiste in una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata, valutando anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare, di detenzione domiciliare o di affidamento in prova al servizio sociale. La misura della liberazione anticipata era oggetto di automatica revoca a norma dell’articolo 54, comma 3 in caso di condanna per delitto non colposo commesso durante l’esecuzione della misura. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma in questione nella parte nella quale prevede l’automatismo della revoca. La detenzione domiciliare è prevista dall’art. 47 ter della L. n. 354/ 1975 per particolari casistiche e consiste nella possibilità di espiare la pena della reclusione nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza. Secondo l’articolo 47 ter, la pena della reclusione per qualunque reato, ad eccezione di alcuni compresi quello ostativi, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale. La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di: donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente e persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia. Piano carceri, i costruttori ringraziano di Susanna Ripamonti huffingtonpost.it, 23 marzo 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli hanno firmato il decreto convertito in legge con cui viene approvato il Piano di edilizia penitenziaria 2019. Casualmente, il decreto segue di poche settimane un incontro a Palazzo Chigi con l’Associazione nazionale dei costruttori edili. Due anni di tempo per la realizzazione di nuove carceri riconvertendo in parte caserme dismesse e immobili di proprietà dello Stato e realizzando due nuovi istituti a Forlì e Nola, per una capacità complessiva di circa 6500 posti detentivi. Questa è la strategia del governo per risolvere il problema del sovraffollamento, ma il decreto è vago quando si parla di soldi. Dice che le risorse non utilizzate per la riforma dell’ordinamento penitenziario, possono essere destinate a interventi urgenti di edilizia penitenziaria dunque, gli stanziamenti che avrebbero dovuto migliorare la qualità delle carceri verranno utilizzate per costruire nuove carceri di pessima qualità, fatte rabberciando un patrimonio edilizio malandato. Probabilmente questo Piano carceri farà la stessa fine di quelli che lo hanno preceduto, rimasti sempre allo stadio progettuale, ma le criticità sono altre: celle ammuffite con bagni a vista, infiltrazioni di acqua piovana, carenze igieniche e strutturali che offendono la dignità e la privacy di chi in carcere ci vive e lavora. Soprattutto troppe carceri fatte solo per contenere, sorvegliare e punire, prive di spazi per il lavoro, la socialità, le attività educative, dove non c’è una netta distinzione tra stanze di pernottamento e spazi per la vita diurna, come prevede l’Ordinamento penitenziario inattuato dal 1975. Se si vogliono spendere soldi per l’edilizia carceraria sono queste le priorità, anche perché di nuove carceri non ce n’è proprio bisogno. Quelle esistenti, per quanto malandate, sono piene di persone che potrebbero accedere a misure alternative, se il territorio fosse considerato una risorsa e non solo un limite invalicabile. Attualmente i detenuti presenti nei 190 istituti penitenziari italiani sono 60.348 per una capienza di 50.552 posti. Ma sono circa 20 mila quelli che hanno un residuo pena inferiore a 4 anni, per i quali è dunque ipotizzabile l’affidamento in prova. A questi si aggiungono 800 detenuti ultra settantenni e più di 600 disabili, per non parlare dei tossicodipendenti, che in carcere non ci dovrebbero stare. Le misure alternative non possono essere applicate con automatismi e devono essere attentamente vagliate dal magistrato, ma se solo un quarto delle persone che sono nei termini ne usufruissero, ci sarebbe bisogno semmai di investimenti per l’esecuzione penale esterna (più assistenti sociali, incentivi alle aziende che assumono detenuti, strutture di comunità) e non di nuovi spazi detentivi. Non si tratta solo di una questione numerica o di politiche deflattive, c’è soprattutto un problema di efficacia della pena: il tasso di recidiva tra chi usufruisce di misure alternative è del 28 per cento, contro il 70 per cento di chi resta dietro le sbarre fino a fine pena. E questo dovrebbe essere un argomento sufficiente a placare le ansie securitarie di chi ritiene, a dispetto della Costituzione, che i detenuti debbano marcire in galera. Pensando invece alla qualità della pena, questa osmosi con il territorio consente al carcere di essere parte integrante della società e non un luogo separato, tendenzialmente da isolare e dimenticare. Un carcere aperto incoraggia l’ingresso di volontari, imprenditori, insegnanti, scuole, che portano all’interno lavoro, progetti, cultura, sollecitazioni e occasioni di confronto. Significa anche trasparenza, perché lo sguardo laico dei non addetti ai lavori costituisce una tutela rispetto a tutte le forme di violazione dei diritti e di violenza strutturale. Aprire il carcere in uscita consente invece di abituare il territorio ad accogliere il detenuto, favorendo il suo reinserimento, dandogli opportunità lavorative e di sperimentazione di quella sorta di “libertà in prestito” costituita dall’accesso a misure di comunità. Ridotto all’osso, il tema è quello della laicizzazione del sistema penitenziario, della possibilità che la sua gestione non sia affidata solamente al personale in divisa, ma preveda un coinvolgimento costante della società civile. Questo significa che le sue porte, per quanto sorvegliate e sicure, restino aperte in ingresso e in uscita per favorire il contatto con il territorio. Costruire nuove carceri e buttare la chiave per quelli che già vi abitano, vuol dire andare nella direzione opposta, spacciare per certezza della pena ciò che invece è certezza della recidiva e non da ultimo fare un grosso favore ai costruttori edili. Non è un caso che l’approvazione del Piano carceri sia stata preceduta da un incontro tra governo e una delegazione dell’Ance, l’Associazione nazionale costruttori edili, con fari puntati sul decreto sblocca-cantieri e sul tema delle infrastrutture. E se volete trovare informazioni precise e dettagliate sullo stato dell’edilizia penitenziaria, guarda caso, i siti più aggiornati sono proprio quelli dei costruttori edili, da quello dell’Ance a quelli di AssoImmobiliare e Edilportale. Gli utilizzatori finali del Piano carceri sono loro e non i detenuti. Di Maio all’attacco sulla sicurezza: “Periferie abbandonate, ora basta” di Emilio Pucci Il Messaggero, 23 marzo 2019 Piomba il gelo della Lega sull’offensiva M5S legata al tema della sicurezza. Ma Di Maio tira dritto ed è pronto a rilanciare una nuova battaglia: le periferie sono abbandonate a se stesse, ha osservato con i suoi, serve un cambio di passo, basta violenze. Dunque basta parlare solo di immigrazione e di legittima difesa, bisogna portare la presenza dello Stato dappertutto. “E una vergogna - questo il suo ragionamento - che abbiano rilasciato uno dei tre stupratori della ragazza della circumvesuviana di Napoli. Vi rendete conto dello choc psicologico che può aver subito quella ragazza? Invece si passa il tempo a strumentalizzare Via della Seta”. Di Maio sta studiando con il ministro Bonafede un piano complessivo sul fronte dell’inasprimento delle pene: “Occorre che chi ha distrutto la vita di quella ragazza paghi quel che merita”. Ma è l’episodio di Donato Milanese ha dato il via libera ad una operazione a tutto campo. “Occorre iniziare ad agire a più livelli per aumentare il livello di sicurezza anche nelle zone più difficili del Paese, dobbiamo portare più uomini e più strutture vicino alle scuole e nelle realtà disagiate”, ha spiegato il ministro dello Sviluppo e del Lavoro che ha incontrato non a caso i carabinieri intervenuti sul bus di studenti sequestrato. Una strategia per dare risposte “da vicepremier e da capo di una formazione politica che ha il maggior consenso” ma anche per pescare nell’elettorato dell’alleato di governo. Tuttavia Salvini non ha certo intenzione, spiegano i fedelissimi, di farsi commissariare. Dopo la scampata strage dei bambini il Viminale ha diramato una circolare ad hoc. Arriva una stretta sugli accertamenti per la concessione delle patenti per la guida di veicoli “adibiti al trasporto di persone” e più controlli lungo le strade, applicazione stringente delle norme in vigore, stretto raccordo con le Motorizzazioni civili, verifiche accurate. Insomma “chi lavora con il pubblico porti il certificato penale obbligatorio”. “Di Maio-spiega un “big” del partito di via Bellerio - teme che M5s affondi. Vuole spostare l’attenzione da quello che sta succedendo a Roma, perciò pensa di oscurare Matteo ma noi non reagiremo”. Silenzio fitto sul piano “modello Usa” del vicepremier M5s che punta all’interconnessione tra Difesa, Viminale, Mit e altri ministeri, con Chigi e il dipartimento dei servizi segreti. E mirare alla prevenzione piuttosto che alla repressione. Solo un commento lapidario da parte del ministro dell’Interno: “Preferisco parlare di modello italiano perché le forze dell’ordine e di intelligenze italiane vanno a dar lezione nel resto del mondo, quindi tengo ben stretto il modello sicurezza del mio Paese”. Sorprende che non sia arrivata nessuna proposta ufficiale ma la sensazione è che ci sia in atto un assedio al quale il Viminale intende replicare con toni bassi. Su un punto Di Maio e Salvini dimostrano di essere d’accordo. “Lo Ius soli non è nel contratto”, dice il primo. “Lasciamolo alla sinistra”, gli fa eco il secondo. Salvini: sulla sicurezza comando io di Amedeo La Mattina La Stampa, 23 marzo 2019 Il ministro dell’interno contro Di Maio: sorpreso dal suo piano. “Sorpreso, stupito, ma anche comprensivo. Certo, comprensivo fino a un certo punto”. Sì perché Matteo Salvini si rende conto che Luigi Di Maio è nei guai politicamente, in crollo verticale nei sondaggi, prossimo all’ennesima batosta in Basilicata, preoccupato di finire sotto il 20% alle elezioni europee. Per non parlare della vicenda romana che vede uno dei fondatori del Movimento 5 Stelle, Marcello De Vito, in carcere e la sindaca Virginia Raggi sulle montagne russe. Dunque comprensione per un alleato in cui finora ha creduto, ma l’intervista alla Stampa del vicepremier grillino è stata vissuta come un’invasione di campo. “Una reazione disperata”, dicono fonti leghiste. Ha dato fastidio l’annuncio di un documento sulla sicurezza al quale sta lavorando la ministra delle Difesa Elisabetta Trenta per introdurre in Italia una National Security Strategy sul modello Usa per un maggiore coordinamento tra presidenza del Consiglio, Viminale, Difesa, ministero delle Infrastrutture, il dipartimento dei servizi segreti. Un modo per ridurre i poteri del ministro dell’Interno, commissariare Salvini che grazie al suo attivismo sul terreno della sicurezza ha portato la Lega dal 17% a circa 35%, almeno stando ai sondaggi. Il martellamento continuo sull’immigrazione, i porti chiusi, la linea dura sull’ordine pubblico, i giubbotti ostentati della polizia, è stato il lievito delle crescita leghista che ha offuscato tutte e cinque le stelle del Movimento. Ora Di Maio vorrebbe recuperare sul terreno della sicurezza ma Salvini non può accettare questa invasione di campo. Il leader leghista era all’oscuro del documento che sta preparando la ministra Trenta. Non accetta di far passare l’idea che non ci sia coordinamento tra le forze dell’ordine. Così, tanto per mettere in chiaro le cose, Salvini ha detto che “il modello italiano” funziona egregiamente. E ha fatto scrivere dai vertici della Polizia che sono passati poco meno di 20 minuti tra la chiamata al Numero Unico Emergenza (Nue) 112 e la soluzione del sequestro degli studenti a San Donato Milanese. Con i giornalisti che lo hanno seguito nella sua giornata elettorale in Basilicata il responsabile del Viminale ha minimizzato, ha spiegato di non essere “geloso”. Ma ha ricordato che il modello americano non è tra i migliori: “Purtroppo negli Stati Uniti nelle scuole e nelle università le stragi sono all’ordine del giorno. Ma ogni consiglio è benvenuto. Si può sempre migliorare”. A taccuini chiusi e microfoni spenti le affermazioni del leghista hanno tutto un altro tono, anche nei confronti della ministra della Difesa. “Salvini - dice la Trenta - non si prenda i meriti dei nostri miliari e delle nostre forze dell’ordine che prescindono da me o da qualsiasi altro ministro di ieri e di oggi, incluso Salvini. Credo piuttosto che la politica debba dare una visione e questo documento strategico (quello di cui parla Di Maio alla Stampa ndr) serve proprio a dare una visione futura per le nuove minacce”. La risposta al responsabile della Difesa è contenuta nelle ultime righe della nota informale del Viminale dove si ricordano due cose. La prima: per il Numero Unico Emergenza (Nue) 112, attraverso il quale è stato possibile l’intervento dei carabinieri, nell’ultima manovra economica su proposta del ministero dell’Interno sono stati stanziati 5,8 milioni di euro per il 2029, 14,7 milioni per il 2020 e 20,6 milioni per il 2021. La seconda: “C’è particolare soddisfazione, al Viminale, perché la soluzione del dirottamento dell’autobus è stata possibile grazie all’efficacia del Nue e alla professionalità dei carabinieri. Carabinieri che, con le altre Forze di Polizia, costituiscono un elemento di orgoglio del sistema di sicurezza italiano coordinato dal ministero dell’Interno”. In altre parole, anche i carabinieri che fanno capo al ministero della Difesa, vengono coordinati dal Viminale per quanto riguarda la sicurezza. Dunque, è il messaggio di Salvini, caro Di Maio, cara Trenta state calmi e al vostro posto. Separazione delle carriere: il sì trasversale dal Pd ai Cinque stelle di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 marzo 2019 Alla Camera è nato un inter-gruppo parlamentare per trattare il tema della separazione delle carriere dei magistrati. L’iniziativa, che prende piede dal disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalle Camere Penali, ha registrato un’inedita trasversalità: tra i promotori figurano, infatti, esponenti della minoranza (Forza Italia, Pd, Fratelli d’Italia, Più Europa) ma anche del governo, con il leghista Luca Paolini e il grillino Roberto Cataldi. Il presidente dell’Ucpi, Caiazza: “È la strada giusta, la terzietà del giudice è nel dettato costituzionale, non un capriccio degli avvocati”. Da Fratelli d’Italia al Pd, passando per Forza Italia, Lega e (dato inaspettato) Movimento 5 Stelle. Ci sono esponenti di tutti i gruppi tranne la sinistra nel gruppo di Leu - nell’inter-gruppo parlamentare alla Camera “che tratta il tema della separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero, secondo i modelli di ordinamento giudiziario attualmente operanti in molti Paesi europei”. L’iniziativa, che ha come primo firmatario l’azzurro Enrico Costa, muove dalla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare promossa l’anno scorso dall’Unione Camere Penali. La proposta, corredata da 72 mila firme e incardinata in commissione Affari Costituzionali, punta proprio a dividere i percorsi professionali di magistrati giudicanti e requirenti e adesso conta un sostegno inaspettatamente trasversale, anche tra i rappresentanti della maggioranza. Tra i nomi dei promotori, infatti, figurano quelli dei parlamentari ed avvocati Luca Paolini (Lega) e Roberto Cataldi (Movimento 5 Stelle), oltre che dell’ex grillino Catello Vitiello. Per le opposizioni, invece, ad aderire al progetto di Costa ci sono il suo compagno di partito, Francesco Paolo Sisto (che è anche il relatore del ddl); i dem Roberto Giachetti, Franco Vazio e Stefano Ceccanti; l’esponente radicale di Più Europa, Riccardo Magi e la deputata di Fratelli d’Italia, Maria Carolina Varchi. I nomi, tuttavia, sono destinati ad aumentare, come ha confermato Costa, soprattutto tra i parlamentari che di professione sono avvocati. Per quanto riguarda il Pd, dove il tema della separazione delle carriere è sempre stato tenuto ai margini, lo scenario è cambiato proprio durante lo scorso congresso, dove due candidati alla segreteria su tre - i “renziani” Giachetti e Martina - avevano nel loro programma la separazione. Il vincitore, Zingaretti, nulla ha detto sul tema ma la folta presenza di parlamentari dem della minoranza interna nell’inter-gruppo mostra come la questione rimanga un pallino di quella componente. Per quanto riguarda i componenti di maggioranza, il nome del leghista Paolini non stupisce, considerando che il partito di Salvini (firmatario della proposta di legge di iniziativa popolare dell’Ucpi) aveva nel suo programma elettorale la separazione della magistratura requirente da quella giudicante. Molto meno scontato, invece, quello del collega grillino Cataldi, direttore della rivista giuridica online studiocataldi.it, che si è mosso su posizioni almeno formalmente non condivise in modo esplicito dal Movimento. Nonostante questo, tuttavia, il tema rimane delicato e fuori dall’agenda del governo gialloverde. La separazione delle carriere, infatti, non rientra nel contratto tra Lega e 5 Stelle e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede è sempre stato cauto al punto da escludere nettamente l’ipotesi di imbarcarsi in una riforma dall’iter complesso, che tocca interessi delicati come quelli della magistratura. L’Associazione Nazionale Magistrati ha già ribadito la sua netta contrarietà alla proposta di legge, ma l’inusuale convergenza nell’inter-gruppo fa presagire inediti scenari. Tanto per cominciare, il fatto che la proposta potrebbe non arenarsi inutilmente in Commissione. I penalisti, dal canto loro, rivendicano la bontà dell’iniziativa e puntano, se non al placet, almeno alla neutralità del ministro Bonafede. Già arrivare ad una discussione d’aula in Parlamento, infatti, sarebbe un successo. Giustizia, gli stereotipi danneggiano le donne di sofia ventura La Stampa, 23 marzo 2019 Nel 1979 veniva trasmesso dalla Rai “Processo per stupro”, che documentava il processo contro quattro quarantenni per violenza su una diciottenne. L’avvocato Tina Lagostena Bassi, “l’avvocato delle donne”, era il difensore di parte civile. Nella sua arringa di allora si coglie il dramma di una cultura arretrata e violenta, diffusa sin nelle aule dei tribunali, che relegava la donna in un mondo arcaico di stereotipi che le negavano la piena dignità di persona. Intervenendo dopo l’avvocato difensore, Lagostena Bassi affermava: “Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non si rivolgono alla giustizia”. E denunciava la pretesa che l’assenza o l’incapacità di reazione potesse trasformare la vittima in colpevole, come se tutte le vittime dovessero trasformarsi in tante Maria Goretti. È passato molto tempo da allora e quel film-documentario ebbe l’effetto di scuotere molte coscienze. Anche se in un’intervista a Enzo Biagi del 2007 Tina Lagostena Bassi denunciava la permanenza di tanti stereotipi. D’altro canto, ancora nel 2017, due studentesse americane violentate da due carabinieri, poi condannati, avevano dovuto subire domande “intime” dall’avvocato difensore degli accusati. E altri esempi contemporanei di pregiudizi su chi subisce violenza, spesso amplificati dalla Rete, si sprecano. Il lavoro della giudice Paola Di Nicola, che ha studiato circa duecento sentenze in materia di violenza sulle donne, conferma che il trascorrere del tempo non ha distrutto i pregiudizi che sono alla base, in tanti processi, di una tendenza al negazionismo o alla sottovalutazione e che ancora appaiono condizionare gli operatori del diritto. Ma, come ha scritto Di Nicola nel recente libro che ha dedicato al tema, “Ciò che nella sentenza viene scritto sulla vittima e sull’imputato diventerà il modello del rapporto di un uomo e di una donna, del loro reciproco posizionamento sotto il profilo sociale; il giudizio stabilirà una relazione di potere, fissando una volta per tutte ciò che è conforme o contrario alla natura delle cose, normale o anormale, consentito”. Le sentenze hanno dunque un potere enorme nel definire la realtà e nel confermare o superare pregiudizi. Nei confronti delle donne pregiudizi e stereotipi di ruolo continuano ad essere diffusi - come dimostra una vasta letteratura - in tutti gli ambiti sociali, dalla politica alle professioni, dai luoghi di lavoro ai media. Sarebbe auspicabile che la denuncia (e la dimostrazione) del fatto che essi ancora operino in un contesto sensibile come quello della giustizia e soprattutto in relazione alla violenza contro le donne divenisse oggetto di un diffuso dibattito pubblico. Specie in una fase in cui lo stesso discorso politico-culturale sembra orientarsi verso inquietanti “richiami della foresta” che legittimano arcaiche divisioni dei ruoli e noti pregiudizi verso le diversità. Una regressione culturale alla quale assistiamo da tempo e che certo non può che essere aggravata se sostenuta anche nelle aule dei tribunali. Il “codice rosso” per le donne maltrattate, addio allo Stato che abbandona le vittime di Sara Manfuso Il Dubbio, 23 marzo 2019 In questi giorni la Camera sta discutendo il disegno di legge del governo sul “Codice Rosso” per le denunce di violenza contro le donne. La proposta, firmata dai ministri Giulia Bongiorno e Alfonso Bonafede, ha finalità assolutamente condivisibili. L’obiettivo dichiarato è infatti quello di accelerare le indagini su violenze sessuali, maltrattamenti, violenza sui minori, stalking e altre situazioni di abusi in contesto familiare. Alcune delle previsioni della proposta sono sicuramente condivisibili. In particolare, l’obbligo della polizia giudiziaria di dare la priorità sempre e comunque alle indagini su questi reati, informando subito il pm delle denunce ricevute e poi attuando immediatamente le indagini delegate dal pm stesso. Imporre azioni immediate della polizia potrà infatti evitare le situazioni, che abbiamo visto troppe volte, in cui i ritardi nell’intervento dell’Autorità hanno portato a fatti ancora più gravi di quelli denunciati. Più polemiche ha sollevato un’altra norma cardine del provvedimento, in base alla quale la persona che denuncia il reato deve obbligatoriamente essere sentita dal pm entro tre giorni. La finalità, anche in questo caso, è sicuramente condivisibile: non lasciare “sola” la donna che denuncia violenze e maltrattamenti. Farle sentire la presenza dello Stato e l’attenzione alla sua situazione. Alcuni, però, nel corso delle audizioni sul provvedimento, hanno sollevato una perplessità: che questa audizione immediata possa essere controproducente e far percepire alla donna una sorta di diffidenza nei suoi confronti. Come se la cosa più urgente non fosse l’intervento diretto dell’Autorità a sua tutela, ma verificare che la denuncia sia fondata e non sia magari un’invenzione di una mitomane. Sinceramente, penso che, tra due rischi fondamentalmente psicologici, quello della sensazione di abbandono e quello della sensazione di diffidenza, sia molto più grave il primo. Sapere che il pubblico ministero è pronto ad ascoltarti subito, è sicuramente un fatto importante, che rafforzerebbe la determinazione della donna nel liberarsi di una condizione familiare violenta e pericolosa. Penso però che una buona soluzione per evitare l’”effetto diffidenza” esista, e sia quella proposta da alcune associazioni in sede di audizione, e cioè che l’obbligo di sentire la denunciante scatti solo se questa lo richiede. In questo modo, la donna denunciante saprebbe che l’audizione del pm serve a proteggerla, e non a metterla sotto la lente d’ingrandimento. In ogni caso, quale che sia la soluzione, le proposte di “codice rosso” sono sicuramente un passaggio positivo. Mi convincono molto meno, invece, alcune proposte che il Movimento Cinquestelle ha annunciato di voler inserire con alcuni emendamenti, che prevedono la creazione di nuovi reati e ulteriori aumenti delle pene. Io non credo che aumentare le pene sia la soluzione. Non credo che un inasprimento delle pene sia un vero disincentivo per un tipo di reati che ha radici culturali da un lato e familiari dall’altro. Il problema è intervenire subito quando i reati vengono commessi, assicurare la certezza della pena, e soprattutto intervenire sul substrato culturale che porta alle violenze su donne e minori. Su questo a me sembra che dovrebbero concentrarsi i partiti, piuttosto che sull’innalzamento delle pene. Caso Manduca, il femminicidio era inevitabile. In appello una sentenza shock di Shendi Veli Il Manifesto, 23 marzo 2019 La donna aveva denunciato, ma i figli della vittima devono restituire il risarcimento allo Stato. I figli di Marianna Manduca, la donna uccisa a coltellate dal marito nel 2007, dovranno restituire il risarcimento per danni ricevuto dallo stato. A stabilirlo è stata la Corte d’appello di Messina che ha rovesciato l’esito del processo di primo grado che aveva sancito il diritto dei tre orfani a ricevere una compensazione economica per la “grave negligenza” delle pubbliche autorità nel trattamento del caso di Marianna. La donna aveva sporto denuncia per maltrattamenti ben 12 volte, riferendo di aver ricevuto minacce di morte da parte del marito, eppure nulla si era mosso sul fronte giudiziario. La sentenza di ieri stabilisce invece che il risarcimento deve essere restituito. Le motivazioni gettano un’ombra sulla questione già drammatica della violenza di genere in Italia. La corte di fatto assolve la magistratura da ogni responsabilità nella vicenda tragica, affermando che eventuali interventi a carico di Saverio Nolfo, marito e carnefice di Marianna, non avrebbero comunque evitato il decesso. “L’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato” si legge nella motivazione della sentenza. L’Italia era già stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani in un caso di tentato femminicidio, il caso Talpis, nel quale erano emerse lacune e ritardi degli organi giudiziari, in violazione della Convenzione di Istanbul, il testo di diritto internazionale che regola la violenza di genere e domestica. Marzo è stato un mese nefasto per le donne. Sono già tre i casi di donne uccise per mano del partner dall’inizio di questo mese. Ma è soprattutto nelle aule di tribunale che la battaglia contro i femminicidi ha visto le più pesanti battute d’arresto. Dalla corte di Bologna che ha quasi dimezzato la pena all’omicida di Olga Matei scrivendo nelle motivazioni che l’assassino avrebbe agito nel pieno di una “tempesta emotiva”. Fino alla sentenza di Genova dove tra le attenuanti è annoverata la “profonda delusione” dell’uomo tradito. “Si conferma il quadro agghiacciante della violenza istituzionale che si accanisce contro le donne vittime di violenza” si legge nel comunicato stampa di DiRe, rete dei centri anti-violenza. Critiche anche dal mondo della politica, mentre si attendono i risultati del rapporto Grevio (gruppo di esperti del Consiglio d’Europa) che proprio ieri ha concluso il monitoraggio sul livello di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Il caso di Marianna Manduca e del risarcimento tolto ai figli di Giusi Fasano Corriere della Sera, 23 marzo 2019 L’uomo che li cresce: “Quei soldi sono loro, non li rendo”. Dopo l’amarezza, la rabbia. Carmelo Calì non prova nemmeno a nasconderlo. “Sono arrabbiato, sì. E indietro non ci torno per nessun motivo. Quindi che lo sappiano: io non restituisco un bel niente. Devono passare sul mio cadavere”. Non è una questione di soldi. Piuttosto di umanità. È che ci sono tre orfani ai quali una sentenza d’appello chiede di restituire il risarcimento avuto dallo Stato perché la loro mamma non era stata protetta come avrebbe dovuto. Lei, Marianna Manduca, 32 anni, aveva firmato dodici denunce contro il marito che la tormentava e minacciava continuamente. Dodici. Finché non l’ha uccisa davvero, a coltellate, il 3 ottobre del 2007 a Palagonia, il paese in cui vivevano entrambi vicino a Catania. Due anni fa la sentenza di primo grado: la Procura di Caltagirone si comportò con “negligenza inescusabile”, scrissero i magistrati, “non disponendo atti d’indagine” e “non adottando misure per neutralizzare l’uomo”. “Ci accordarono 259 mila euro più gli interessi di dieci anni. In totale circa 300 mila euro”, spiega il cugino di Marianna, Carmelo Calì, padre adottivo dei tre orfani. “E invece adesso la Corte d’appello ha ribaltato tutto e dice che dobbiamo restituire ogni centesimo più gli interessi maturati in questi due anni...”. Quando Marianna fu uccisa, Carmelo e sua moglie Paola avevano già due figli piccoli e lui ne aveva un altro da un precedente matrimonio, nessuno dei due aveva mai nemmeno visto i figli di Marianna, “ma ci siamo detti: non possiamo abbandonarli al loro destino. Siamo andati in Sicilia a prenderli e li abbiamo portati via così com’erano. Sono arrivati nella nostra casa, a Senigallia, che avevano soltanto lo zainetto della scuola. Oggi hanno 14, 16 e 17 anni e noi sappiamo che avevamo ragione, abbiamo fatto la cosa giusta. Siamo una famiglia bellissima e i nostri figli meritano un futuro sereno, anche dal punto di vista economico. Con i soldi del risarcimento abbiamo comprato una casa, l’abbiamo ristrutturata e ne abbiamo fatto un bed & breakfast. Io mi occupo di quello e Paola aiuta una sua amica in un negozio: non navighiamo nell’oro ma ce la facciamo. Se dovessimo restituire tutto invece... non voglio nemmeno pensarci. Ci resta da sperare nella Cassazione ma lo ripeto ancora una volta: indietro non si torna”. Paolo l’altra sera ha messo i ragazzi (tutti) attorno al tavolo e ha spiegato cosa sta succedendo. “Mi hanno chiesto: papà vincerai tu, vero? Riccardo, il mio primo figlio che ha 22 anni, invece è più arrabbiato di me. Mi ha detto: “Spero che tu non ti arrenda”. Certo che non mi arrendo, ma non è facile, questa storia mi sta togliendo il sonno”. E da tutto il pensare notturno riemerge un ricordo “che fa male perché è una promessa mancata”, come dice Carmelo: una nota ufficiale di Palazzo Chigi datata 2 agosto 2017 (governo Gentiloni). Diceva che la presidenza del Consiglio aveva “chiesto all’avvocatura dello Stato di valutare ogni possibile soluzione, compresa la ricerca di una definizione consensuale della vicenda giudiziaria di Marianna (...), fino ad arrivare alla ipotesi della desistenza da qualsiasi azione giudiziaria”. Dilemma di governo: continuare la causa con i figli di Marianna di Errico Novi Il Dubbio, 23 marzo 2019 Gli orfani della donna uccisa dal marito ricorreranno contro lo Stato per le colpe dei Pm. Con la nuova legge non sarebbe successo. Se il “Codice rosso” di Giulia Bongiorno e Alfonso Bonafede fosse stato in vigore all’epoca dei fatti, la Corte d’appello di Messina non avrebbe comunque potuto partorire un mostro giuridico qual è la sentenza che nega la responsabilità civile dei magistrati nella morte di Marianna Manduca. Un rovesciamento della pronuncia che in primo grado aveva condannato la presidenza del Consiglio (organo che “risponde” per tutti i magistrati italiani) a pagare circa 300mila euro di risarcimento ai 3 figli di Marianna, rimasti orfani e tuttora minorenni. Con le norme ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio i pm di Caltagirone non avrebbero potuto interpretare come “non gravi” i comportamenti del marito femminicida, Saverio Nolfo, processato e condannato a 21 anni solo dopo aver ucciso la donna a coltellate, solo dopo che 12 denunce della vittima avevano lasciato indifferente la Procura di Caltagirone. Soprattutto, non avrebbero potuto tralasciare di ricevere la vittima già dopo la prima delle sue 12 inutili denunce. Quegli appelli disperati erano forse apparsi eccessivi ai pm siciliani. Ma con le norme sul “Codice rosso” per i casi di maltrattamenti in famiglia, quegli stessi magistrati avrebbero avuto l’obbligo di ricevere Marianna entro 72 ore dalla prima denuncia. La polizia giudiziaria, a propria volta, avrebbe dovuto trasmettere immediatamente la notizia di reato al magistrato di turno, e ancora, il Tribunale sarebbe stato obbligato a tenere Marianna informata sulle misure cautelari che fossero eventualmente state adottate o meno nei confronti dell’aguzzino, suo marito. Non sarebbe andata così, se quella legge già ci fosse stata quando Marianna Manduca fu uccisa il 3 ottobre del 2007 a Palagonia, in provincia di Catania. Il motivo è semplice: nel momento in cui i pm di Caltagirone si fossero trovati costretti dalla legge ad ascoltare la donna entro 72 ore, due erano i casi: o l’avrebbero ascoltata sul serio, e probabilmente sarebbero così riusciti a comprendere la pericolosità del marito e a chiedere misure cautelari per impedirgli di nuocere; oppure se avessero violato la legge, se cioè non avessero subito ricevuto Marianna, l’azione civile promossa nei loro confronti dai tre figli orfani sarebbe andata inesorabilmente a segno. La Corte d’appello non avrebbe potuto che condannare i pm per “negligenza inescusabile e grave violazione di legge”, come pure aveva fatto il Tribunale in primo grado. C’è ancora la Cassazione, certo. Gli avvocati Licia D’Amico e Alfredo Galasso, difensori dei 3 ragazzi, sono determinati a fare ricorso. Proveranno a dimostrare l’illogicità della sentenza di secondo grado, che ha revocato il risarcimento civile da 300mila euro dovuto dallo Stato per le colpe dei magistrati. Ma il vero quesito è: l’avvocatura dello Stato resisterà di nuovo? La decisione di ricorrere in appello fu assunta, nel 2017 da Paolo Gentiloni. Adesso a Palazzo Chigi c’è Giuseppe Conte, un avvocato. Nel suo esecutivo siedono i due ministri che hanno proposto la legge sul “Codice rosso”: la titolare della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno e il guardasigilli Alfonso Bonafede. Davvero da un simile Consiglio dei ministri partirà per l’avvocatura dello Stato l’ordine di andare a togliere i soldi ai ragazzini resi orfani dalla furia omicida del padre- aguzzino? Difficile, anche perché sarebbe una sconfessione dell’iniziativa assunta con il disegno di legge, ora gravato peraltro da altre norme che innalzano le pene per i reati di genere e rischiano di rallentare l’approvazione delle parti davvero utili. Resta però un dato: la legge sulla responsabilità civile dei magistrati continua a fare acqua da tutte le parti. Nonostante le modifiche introdotte dall’allora ministro Andrea Orlando. A giudicare le toghe sono altre toghe. Ne viene fuori quello che l’associazione Dire Donne in rete contro la violenza definisce “il quadro agghiacciante della violenza istituzionale”. Tendenza alla “autoassoluzione”, come dicono gli avvocati degli orfani di Marianna, tanto più inspiegabile se si pemsa che anche quando la colpa di un magistrato viene riconosciuta, a pagare non è né lui né la presidenza del Consiglio che lo rappresenta in giudizio ma un’assicurazione. Costo annuo della polizza per il singolo pm: intorno ai 400 euro. La vita di Marianna non li valeva? Non c’era il reato di stalking. Pertanto l’indignazione, in questo caso, è fuori luogo di Bruno Tinti Italia Oggi, 23 marzo 2019 Nell’agosto del 2017 il tribunale di Messina condannò due pubblici ministeri di Caltagirone a risarcire i danni agli eredi di Marianna Manduca, uccisa dal marito, Saverio Nolfo, con un coltello. I giudici ritennero che non aver perquisito l’abitazione del Nolfo alla ricerca di un coltello che la Manduca aveva sostenuto essere in possesso del marito, era stata grave omissione dei pm che conducevano le indagini: se avessero effettuato una perquisizione e se avessero trovato il coltello avrebbero potuto sequestrarlo, e Nolfo sarebbe rimasto privo dell’arma con cui, in seguito, aveva ucciso la moglie. Ravvisarono anche, a carico dei due pm, una negligenza inammissibile: la Manduca aveva in precedenza presentato undici denunce contro il marito per vari episodi di aggressione, violenza e minacce; circostanza che avrebbe obbligato i magistrati a intervenire in sua difesa con provvedimenti che avrebbero potuto evitare l’insorgere nell’uomo di un senso di impunità e un conseguente incremento dell’aggressività, poi sfociata nell’omicidio. Ora la Corte d’Appello di Messina ha riformato la sentenza di primo grado, evidenziandone gli errori giuridici e fattuali e annullando la sentenza di condanna dei pm al risarcimento dei danni a favore degli eredi della Manduca. La reazione del popolo di Internet non si è fatta attendere: sentenza vergognosa, tolto il risarcimento agli orfani, femminicidio impunito, sentenza corporativa, i magistrati non si discutono e non sbagliano mai. Mara Carfagna dice di essere incredula e indignata e parla di sentenza sconvolgente. Non uno che sappia quello che dice. L’equazione niente coltello, niente omicidio è una stupidaggine. Nolfo certamente non aveva solo quel coltello (con che tagliava la carne, la frutta e il pane?). E comunque avrebbe potuto uccidere la Manduca in molti altri modi: con un bastone (ne aveva uno proprio in occasione dell’omicidio, lo usò per colpire il padre della donna presente al fatto), con il cric dell’auto, con un qualsiasi altro oggetto contundente. Per dirla giuridicamente, non vi fu alcun rapporto causale tra il mancato sequestro del coltello e la morte della donna. Inoltre non è affatto detto che la perquisizione avrebbe consentito di rinvenire il coltello in questione; e comunque, se proprio si fosse pensato di prevenire a mezzo di essa una condotta omicidiaria, si sarebbe dovuto sequestrare ogni coltello o altro strumento idoneo a cagionare la morte che fosse stato presente nella casa: da un martello a un pesante portacenere. Insomma, effettuare una perquisizione era all’evidenza privo di senso. Ma l’indignazione popolare si è esercitata in particolare sulla presunta inerzia dei pm pur dopo le denunce (in gran parte querele) presentate dalla Manduca per fatti di ingiurie, danneggiamenti, minacce, percosse e porto di coltello. Avrebbero potuto risparmiarsela. Alcune querele erano state valutate e archiviate: per gli stessi fatti, Nolfo aveva anche lui sporto querela, asserendo che era stata la Manduca, aiutata dai suoi genitori, a minacciarlo e percuoterlo: credere acriticamente alla donna e non all’uomo è ovviamente un pregiudizio. D’altra parte le indagini avevano dimostrato che effettivamente vi erano state liti che avevano coinvolto anche i genitori di lei. Il quadro che ne emergeva era quello di un rapporto conflittuale tra persone rozze e violente, con il coinvolgimento dei familiari. Con chi prendersela? Ma la cosa più importante, ovviamente trascurata dagli indignati, è che la legge non consentiva (e non consente) l’adozione di misure cautelari per questi reati: le uniche pene possibili erano (e sono) multe e pochi giorni di arresto da scontare (eventualmente) a sentenza definitiva. Le denunce non archiviate non furono affatto trascurate: vennero emessi un decreto penale di condanna e decreti di rinvio a giustizio a carico del Nolfo; altro che inerzia, più di questo non si poteva fare. Il problema, in allora, era che il reato di stalking, che avrebbe potuto essere ravvisato nei fatti in questione e che avrebbe consentito di arrestare Nolfo, venne introdotto con decreto legge n. 11 del 23/2/2009; dunque un anno e sette mesi dopo l’assassinio della Manduca, che avvenne il 3/10/2007. Insomma, quando Nolfo perseguitava la Manduca, la legge non prevedeva alcuna concreta possibilità di intervento; a parte una convocazione in Procura per essere interrogati; convocazione che può benissimo essere ignorata. Il che, fidatevi, di questi processi me ne sono capitati tanti, fa più danno che altro perché alimenta nel molestatore la certezza dell’impunità: visto?, non mi hanno fatto niente. Per finire, non uno che dia un minimo di rilevanza al fatto che il Tribunale di Messina (civile, sezione famiglia, niente a che fare con i pm) giudicando della separazione tra i due coniugi, affidò i bambini al padre. Non alla madre, al padre. Potrebbe anche trarsene qualche idea sulla non esclusività maschile di aggressività e violenza all’interno della coppia. Io lo capisco che, in un mondo che concede diritto di cittadinanza alle opinioni dei terra-piattisti, dei no vax e degli assertori delle scie chimiche, lo strabismo ideologico che assegna al maschio, sempre e comunque, il ruolo del carnefice è praticamente inevitabile. Però capire non vuol dire perdonare. Gratuito patrocinio: al detenuto extra Ue basta l’autocertificazione altalex.com, 23 marzo 2019 Cassazione penale, sez. IV, sentenza 20/03/2019 n° 12418. In tema di ammissione al gratuito patrocinio, l’art. 79 del D.P.R. 115/2002 stabilisce (comma 2) che per i redditi prodotti all’estero, “il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione Europea correda l’istanza con una certificazione dell’autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato”. In caso di richiesta di ammissione da parte di detenuto extracomunitario, la certificazione consolare può essere sostituita da una autocertificazione? A questa domanda risponde la Corte di Cassazione, Sezione Quarta penale, con la sentenza 20 marzo 2019, n. 12418. Se il detenuto ai domiciliari non risponde al citofono torna in carcere quotidianogiuridico.it, 23 marzo 2019 Cassazione penale, sezione III, sentenza 1 marzo 2019, n. 8975. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva sostituito la custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari nei confronti di un indagato, in riforma dell’ordinanza della Corte di appello, la Corte di Cassazione (sentenza 1 marzo 2019, n. 8975) - nell’accogliere la tesi del Procuratore Generale, che aveva impugnato la ordinanza, secondo cui erroneamente era stata sostituita la misura, atteso che la Polizia giudiziaria, quindi, aveva impiegato una particolare accuratezza nel controllo, al contrario di quanto aveva sostenuto il Tribunale nell’ordinanza impugnata - ha diversamente affermato che il detenuto agli arresti domiciliari deve porre in essere tutte le cautele necessarie affinché gli strumenti che consentono di effettuare i controlli della polizia giudiziaria, come il campanello e il citofono dell’abitazione in cui è ristretto, siano sempre efficienti, essendo la sua posizione equiparata a quella di chi si trova in carcere, con la conseguenza che è ragionevole desumere la prova della trasgressione della misura da parte di chi non si rende contattabile mediante l’uso di tali apparecchi. Lo “spazza-corrotti” spazza via la Costituzione Il Foglio, 23 marzo 2019 La Cassazione ricorda ai gialloverdi che la non retroattività è sacra. La legge “spazza-corrotti”, tanto celebrata dai grillini anche in queste ore di scandali romani, rischia seriamente di essere dichiarata incostituzionale. A suggerirlo è stata la Sesta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 12541 depositata mercoledì. Nel mirino le disposizioni che hanno inserito i reati contro la Pubblica amministrazione nell’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario, quindi tra i reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, peraltro non prevedendo alcuna regolamentazione della fase transitoria. Quest’ultimo aspetto ha consentito nei primi tre mesi del nuovo anno di applicare la legge anche ai procedimenti riguardanti reati commessi prima della sua entrata in vigore, con buona pace dei princìpi di irretroattività della legge penale e del favor rei. Il caso più celebre riguarda l’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione e sbattuto nel carcere milanese di Bollate nonostante abbia più di 70 anni e quindi, prima della riforma, avrebbe potuto espiare la pena ai domiciliari. Pur non potendo sollevare la questione di legittimità costituzionale per ragioni tecniche, i giudici di Cassazione notano che “non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le carte in tavola senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 della Cedu e, quindi, con l’art. 117 della Costituzione”, e ciò soprattutto alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ormai orientata a riconoscere la natura “sostanziale” delle norme che riguardano l’esecuzione della pena. Se la questione di incostituzionalità venisse riproposta in sede di incidente di esecuzione, la legge spazza-corrotti rischierebbe dunque con alta probabilità di essere bocciata dalla Consulta. In quel caso, Formigoni e tanti altri potrebbero ottenere una misura alternativa al carcere. Resterebbe la vergogna, per il governo gialloverde, di aver varato una riforma che, cambiando in corso d’opera le regole del diritto, ha provocato conseguenze devastanti sulla vita di tanti imputati. Lombardia: scrittori dietro alle sbarre, tra storie di vita e poesia di Simone Finotti Il Giornale, 23 marzo 2019 Da Biondillo a Lupo, in 5 istituti penitenziari lombardi incontrano i detenuti: lezioni e tante domande. La letteratura di ogni tempo è costellata di “capolavori dal carcere”: dalla “Consolazione della filosofia” di Severino Boezio al “Lungo cammino” di Mandola, dalle “120 giornate” di De Sade al “De profundis” di Wilde, dall’“Età della ragione” di Paine alla “Filosofia matematica” di Russell. Senza scomodare il Pellico de “Le mie prigioni”, il Casanova dei Piombi o persino i primi capitoli del Don Chisciotte, scritti da un Cervantes prigioniero dei pirati. La cosa non sorprende, perché ogni libro, in fondo, cerca risposte alle grandi domande. E di domande, nella solitudine di quelle quattro mura, te ne vengono parecchie. Forse sta qui il segreto del successo de “I detenuti domandano perché”, alla seconda edizione dopo l’esordio, lo scorso anno, in occasione di Tempo di Libri. L’iniziativa, organizzata da Mediobanca, L’Arte del vivere con Lentezza e Kasa dei Libri, porta fino a settembre scrittori e poeti in 5 carceri lombarde: Pavia (dove gli incontri sono partiti il 19 marzo), Bollate, Vigevano e, a Milano, San Vittore e l’Istituto Beccarla. “Funziona così: un gruppo di educatori incontra i circa 200 detenuti coinvolti e raccoglie le loro domande più profonde. Queste vengono condivise con narratori e poeti che poi si recano nei vari penitenziari, accompagnati da volontari Mediobanca, incontrano i detenuti e ne discutono insieme a loro”, spiega Andrea Kerbaker, fondatore della Kasa dei Libri e anima dell’iniziativa. Sono domande che a volte hanno a che fare con la loro esperienza in carcere, ma più spesso sono quelle di tutti: perché esistono i pregiudizi? Perché la realtà non è come appare? Perché abbracciare un bambino rende felici? “Quest’anno gli scrittori che hanno aderito sono sette: oltre a me ci sono Marco Balzano, Gianni Biondillo, Isabella Bossi Fedrigotti, Umberto Galimberti, Giuseppe Lupo e Pier Luigi Verce si. Nessuno mi ha detto di no”. Ognuno porta se stesso: c’è chi, come ha fatto lo scorso anno il raffinato Mario Santagostini, è riuscito a parlare di alta poesia, e chi, come Gianni Biondillo a Bollate, ha condiviso i ricordi della sua infanzia a Quarto Oggiaro. Tutti danno e ricevono: offrono il loro tempo e la loro esperienza, per un giorno assumono un ruolo di guida, a metà fra il confidente e il “prof”, che a molti ragazzi è mancato. In cambio ricevono emozioni, a volte sorprese. Confida Kerbaker: “L’anno scorso decisi di parlare del “Primo uomo” di Albert Camus, romanzo autobiografico dedicato al suo maestro e uscito postumo. Non una lettura facile, eppure un ragazzo lo aveva letto, e ne parlammo insieme: al di là di tutti gli stereotipi, in carcere si incontra anche la normalità, ed è forse questo ciò che sorprende di più”. Ci sono anche storie forti, con cui è difficile venire a contatto, e che per chi scrive sono fonte di ispirazione. Ma i veri protagonisti sono i detenuti, aiutati a ritrovare un legame con la società: “Le statistiche dicono che per chi è coinvolto in iniziative di inclusione sociale cala drasticamente la possibilità di recidiva. È un tema imprescindibile”. Torino: la polizia carica i ciclisti in piazza, “picchiati manifestanti pacifici” di Federica Cravero La Repubblica, 23 marzo 2019 Corteo in bici per la mobilità sostenibile. Le forze dell’ordine: “Pensavamo che ci fosse un agente in pericolo”. L’immagine di ciclisti atterrati da poliziotti in tenuta antisommossa, durante una manifestazione per la mobilità sostenibile, è stata così forte e inedita da non lasciare nessuno indifferente. Né gli attivisti delle due ruote, scatenati contro l’operato delle forze dell’ordine durante una critical mass di giovedì sera, né gli irriducibili dell’auto a tutti i costi, agguerriti contro chi stava bloccando l’incrocio tra due dei corsi più trafficati di Torino. Tanto meno è rimasta indifferente la politica: mentre i 5Stelle torinesi hanno criticato ferocemente la gestione dell’ordine pubblico, Forza Italia ha difeso la polizia dagli attacchi arrivati anche dai partiti della sinistra. A chiarire le ragioni dell’intervento degli agenti durante quella che doveva essere una pacifica pedalata per il centro della città, è stato il questore Francesco Messina: “La nostra azione è stata irruente e ruvida perché si pensava che un poliziotto fosse in pericolo. Tutto è durato 8 secondi e nessuno si è fatto male”. All’origine delle tensioni c’è stato, secondo la versione della questura, la richiesta di esibire i documenti rivolta a uno dei manifestanti, che però si è rifiutato. Subito sarebbero arrivati altri ciclisti, una quindicina in tutto, a circondare il poliziotto. Tutti sono stati identificati: tra loro un rider del food delivery, che è stato accompagnato in questura per accertamenti ed è stato rilasciato nella notte. Per lui, che era stato protagonista della storica causa contro Foodora, e per altri tre ciclisti è stata formalizzata una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale. I funzionari della Digos stanno visionando i filmati dei momenti più concitati per valutare la posizione di altri manifestanti. “Seguivamo con attenzione la protesta - continua il questore - perché tra il centinaio di partecipanti c’erano anche persone legate ai centri sociali con pesanti precedenti penali. Ma non c’è alcuna repressione nei confronti di chi manifesta pacificamente in bicicletta né c’è un cambio di passo nella gestione dell’ordine pubblico”. L’episodio di giovedì sera sarebbe da leggere piuttosto come un effetto del clima che si respira a Torino dal 7 febbraio, quando è stato sgomberato dopo 24 anni il centro sociale L’Asilo, punto di riferimento in città della galassia anarchica. Pochi giorni dopo il blitz e l’arresto di sei occupanti con l’accusa di associazione sovversiva, un corteo era degenerato in guerriglia urbana e per questo c’è grande attenzione in vista della manifestazione internazionale del 30 marzo. “Sono comunque stupita della reazione spropositata che c’è stata da parte delle forze dell’ordine”, dice Elisa Gallo, attivista del Bike Pride, l’organizzazione legata alla Fiab che da sempre organizza manifestazioni ed eventi per sostenere la mobilità a due ruote. Lei c’era l’altra sera e con i suoi video ha reso pubblico l’accaduto. “Le critical mass - spiega - sono manifestazioni pacifiche da sempre, nate per rivendicare lo spazio nelle strade da parte delle persone. Anche l’altra sera non ho visto nulla di violento nel comportamento dei ciclisti”. E già per giovedì prossimo è stata organizzata una nuova pedalata che partirà dalla piazza del municipio. Su quanto accaduto la sindaca Chiara Appendino per ora tace. Ieri ha incontrato il questore Messina e anche il successore Giuseppe De Matteis che si insedierà il 3 aprile. La prima cittadina però già lunedì dovrà rispondere in consiglio comunale alla richiesta di comunicazioni sull’episodio, avanzata sia dalla sua maggioranza che dalle opposizioni. “La mia impressione è che l’altra sera qualcosa sia stato sbagliato da parte delle forze dell’ordine - insiste la capogruppo pentastellata Valentina Sganga. La gestione dell’ordine pubblico a Torino va rivista”. Posizione condivisa da Marco Grimaldi, consigliere regionale di Leu, ma criticata aspramente dai deputati di Forza Italia Roberto Rosso e Paolo Zangrillo: “Certe dichiarazioni dimostrano come esistano pericolose connivenze tra M5S e centri sociali”. Cagliari: la Caritas “ridare fiducia alle persone che hanno scontato la pena” di Maria Chiara Cugusi ilporticocagliari.it, 23 marzo 2019 Sono circa una ventina i volontari coinvolti nelle diverse attività portate avanti dalla Caritas diocesana nel carcere di Uta: i colloqui di sostegno, l’impegno nella biblioteca, il supporto didattico agli studenti, lo sportello/magazzino per la distribuzione di beni di igiene personale e indumenti per gli indigenti, il sostegno ed il coordinamento con il cappellano, per dare risposte alle richieste dei detenuti, l’organizzazione di eventi culturali, il Cineforum. “Il nostro ruolo - spiegano Giampaolo Bernardini (referente area carcere) e Silvia Piras (volontaria area carcere) referenti del servizio affidati alle misure alternative della Caritas diocesana - è quello di essere presenti, ascoltare, offrire empatia, dialogo, momenti in cui i detenuti possano “evadere” mentalmente dalla loro condizione di detenzione. Attività che vengono portate avanti in sinergia e confronto costante con l’amministrazione penitenziaria, in una continua ricerca di collaborazione”. Un’azione fondamentale anche da un punto di vista preventivo e rieducativo: “La nostra convinzione - continuano - è che, se esiste anche una sola possibilità di cambiamento dello stile di vita di una persona che ha commesso degli errori, ciò può essere possibile solo dandole fiducia, dignità e l’opportunità di ricominciare. L’accompagnamento dentro e fuori dal carcere è fondamentale, ed è indispensabile accogliere persone che saranno così più motivate e non delinqueranno più”. I detenuti mostrano gratitudine. “Si diventa per loro un punto di riferimento, una valvola di sfogo, e si riesce talvolta a instaurare con loro un rapporto familiare”. Un’esperienza toccante, anche da un punto di vista personale: “Significa entrare in un luogo che si immagina chiuso, e che, invece, costituisce una sorta di apertura al mondo. Colpisce la loro tenacia, speranza, voglia di reagire, andare avanti e riscattarsi”. La Caritas è impegnata anche nel “servizio affidati alle misure alternative”, in collaborazione con il tribunale, l’Ufficio inter-distrettuale esecuzione penale esterna di Cagliari, per dare esecuzione anche alla normativa sui lavori di pubblica utilità. Gli”affidati” svolgono servizio, tra gli altri, nella cucina per la mensa Caritas, nello studio medico, nel Centro diocesano di assistenza, nel parco di Villa Asquer (servizio giardinaggio), nel centro polivalente Papa Francesco a Santa Croce. “Cerchiamo con tutte le forze - continuano - di infondere fiducia, soprattutto nelle prime fasi. Chi esce dal carcere, infatti (normalmente) è più povero di quando vi è entrato, ha perso il lavoro e talvolta gli affetti. Poi, il supporto deve proseguire creando opportunità di promozione sociale. In quest’ottica, se è fattibile, l’esecuzione penale esterna diventa un’opportunità e uno strumento di riscatto sociale: opportunità per la persona e per l’intera società”. Massa Marittima (Gr): “Riciclarsi riciclando”, l’arte dei detenuti La Nazione, 23 marzo 2019 Apre oggi a Massa Marittima la mostra itinerante “Riciclarsi Riciclando” realizzata in collaborazione fra la direzione del locale carcere circondariale e l’amministrazione Comunale, presentata ieri in anteprima alla biblioteca comunale “Gaetano Badi” con una conferenza stampa. Presenti nell’occasione, accanto all’artista piombinese Eraldo Ridi curatore materiale del lavoro svolto con una grossa parte dei detenuti al termine di un laboratorio avviato due anni orsono finalizzato al loro recupero in vista del loro rientro in libertà, la direttrice del carcere stesso Maria Cristina Morrone, l’educatrice professionale Marilena Rinaldi, l’assessore all’ambiente Maurizio Giovannetti e quello alle politiche sociali Tiziana Goffo, oltre ovviamente alla direttrice della Biblioteca Roberta Pieraccioli nelle vesti di padrona di casa. È toccato a Landi il compito di fare da cicerone illustrando il percorso che ha caratterizzato lo svolgimento del laboratorio riassumibile, ha detto, “con quattro parole magiche: spazio, rapporto con i tempi, suoni, futuro”. Un accostamento non casuale quello fra i termini “riciclarsi riciclando”, come ricordato dalla Morrone con un concetto che collima appieno, ossia l’impegno a “investire sul detenuto come sul rifiuto”. La mostra si compone di diversi oggetti, dalle forme più svariate, tutti realizzati con materiali di scarto. L’interessante sinergia avviata con la biblioteca anche attraverso altre forme di collaborazione ha permesso stavolta di utilizzare i libri vecchi diretti al macero per l’esecuzione dei lavori creati da Landi assieme a ben diciassette detenuti riconducibili a Alessio, Francesco, Gaetano, Pier Luigi, Pietro, Abdelhafid, Adil, Alessandro, Carlo, Claudio, Giovanni, Marco, Mariano, Riccardo, Ruggiero e Khaled. L’esposizione dei lavori parte dal Museo Archeologico proseguendo per l’atrio del Palazzo Comunale, via Moncini, Corso Diaz per concludersi alla Biblioteca. La mostra rimarrà in funzione fino alla fine del mese per terminare sabato 30 con un incontro pubblico alla Sala dell’Abbondanza. Torino: “Il Re di zucchero”, il teatro entra in carcere di Marina Lomunno vocetempo.it, 23 marzo 2019 Uno spettacolo messo in scena dai detenuti del penitenziario cittadino: sul palcoscenico per superare i propri limiti, guardare avanti, chiedere aiuto. Perché anche dietro le sbarre non si è da soli. “Non potrai essere libero se non terrai conto degli altri… Hai bisogno di smettere di parlare soltanto a te stesso. Hai bisogno di essere ascoltato. Fai un solo passo verso il mondo: possa finalmente conoscere qualcuno, oltre te stesso”. Parole che interrogano nel profondo ciascuno di noi, quando prigionieri nel labirinto del nostro individualismo non abbiamo il coraggio di chiedere aiuto. Parole che risuonano ancora più pesanti se a pronunciarle è chi fisicamente non è libero perché sta scontando una pena in carcere. Parole riecheggiate per 5 sere consecutive, dall’11 al 15 marzo, presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino dove è stato messo in scena dai detenuti lo spettacolo teatrale “Il Re di zucchero. Suggerimenti per un nichilista sull’idea di libertà”. La rappresentazione, a cui hanno assistito quasi un migliaio di torinesi (180 per serata) e un folto gruppo di reclusi che hanno sostenuti i compagni di cella “attori”, ha concluso la “Scuola sui mestieri del teatro” un laboratorio che ha impegnato per sei mesi una quarantina di detenuti italiani e stranieri. Si tratta del progetto “Per aspera ad astra, come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso da Acri (l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio) nelle carceri di Volterra, Modena, Castelfranco Emilia, Milano Opera, La Spezia e Torino. Al “Lorusso e Cutugno” la messa in scena dello spettacolo è stata possibile grazie alla realizzazione dell’Associazione Teatro e Società di Claudio Montagna, il sostegno della Compagnia di San Paolo e la collaborazione del Teatro Stabile di Torino che ha messo a disposizione maestranze e competenze. Sul palco del teatro del penitenziario un gruppo di 25 detenuti del Padiglione B e per la seconda volta (è accaduto anche lo scorso anno) le detenute del Padiglione femminile e dietro le quinte 12 ristretti del Padiglione B che frequentano in carcere l’Istituto Plana che hanno costruito e allestito le scenografie tra cui il labirinto di legno che imprigionava il protagonista. È “Il re di zucchero, sovrano delle sue illusioni, sovrano di un regno in cui vive solo lui, un re fatto di zucchero, destinato a sciogliersi, alla prima goccia di verità”: così il testo di Claudio Montagna che con Luca Scaglia ha diretto lo spettacolo. Il re di zucchero è un uomo che pensa di non aver bisogno di nessuno. Si innamora di una donna impossibile ma non se ne rende conto, autocentrato com’è. E si chiude nel suo labirinto di lamentele e vittimismo, non ascolta la verità di chi gli tende una mano e lo vuole riportare alla realtà. Alla fine saranno i compagni e le compagne di strada - per i “liberi” i famigliari, i colleghi, i vicini di casa, gli amici - per i detenuti i compagni di cella - a distruggere pezzo per pezzo il labirinto in cui si è rinchiuso “il re di zucchero” sciogliendo il “grande nulla del suo egoismo”. Liberato dal labirinto in cui si era imprigionato, il Re di zucchero si accorge che se tende la mano, se accetta l’abbraccio dei suoi compagni di strada, l’amore vero (e non quello immaginato) si incontra. Basta accorgersi degli altri così si sconfigge la tentazione nichilista che è in ciascuno di noi. “È sempre difficile mettere a nudo i propri sentimenti soprattutto quando sei su un palco di fronte a sconosciuti” ha commentato la termine dello spettacolo Simona Massola, l’educatrice del carcere che ha seguito le fasi del progetto “ma per chi è detenuto, chi è imprigionato nella propria colpa riflettere ed esternare il proprio senso di solitudine, di vuoto che spesso assale chi è dietro le sbarre è molto più complicato. Il teatro aiuta a superare i propri limiti, a guardare avanti, a chiedere aiuto perché anche in carcere non si è soli”. Claudio Montagna, da 25 anni impegnato nel progetto permanente di laboratorio teatrale, da sempre sostenuto dalla Direzione del carcere torinese, evidenzia come in 57 minuti di spettacolo ci sia “una macchina fatta di tanti ingranaggi, di attori che finiscono la pena mentre le prove sono in corso e vengono sostituiti in corner, della difficoltà di spiegare cos’è il nichilismo - concetto occidentale - ai reclusi africani che partecipano al laboratorio e che allora viene meglio mettere in scena un testo sulla solitudine attraverso un rap”. E poi la disponibilità della Polizia penitenziaria non “solo custodi ma partecipi delle emozioni recitate dai ristretti”. Così nell’applauso finale il Re di zucchero si scioglie nell’abbraccio del pubblico “libero” e degli attori che tornano in cella forse meno soli. “Dritto al cuore”, il libro anti-armi scritto dal figlio di Di Bartolomei di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 marzo 2019 Il padre, ex capitano della Roma, si sparò nel 1994. Il figlio: “Italia insicura? Una bugia”. C’è una pistola che ha sparato un colpo soltanto, venticinque anni fa, ma continua a tenere in ostaggio un uomo. Il quale non sa dire se riuscirà mai a liberarsi, ma sa che non vuole restare prigioniero di altre paure e di altre armi. Quell’uomo è Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, ex calciatore ed ex capitano della Roma campione d’Italia e vicecampione d’Europa, che la mattina del 30 maggio 1994 si suicidò con la sua Smith & Wesson calibro 38. Luca, che all’epoca era un bambino di 11 anni, fu l’ultimo a vederlo vivo; oggi è un affermato analista aziendale, oltre che un appassionato osservatore di fenomeni sociali, e nella premessa al libro-pamphlet Dritto al cuore (Baldini+Castoldi, pagg. 108, euro 16) spiega: “Nelle occasioni in cui si parla, come puntualmente avviene da molti anni, di ampliare le maglie della detenzione e del porto d’armi con la scusa della legittima difesa, io ripenso sempre a quel bagliore, la canna lucida che dopo il suicidio di mio padre ho rivisto diverse volte. Di quell’arma non abbiamo mai avuto né la forza né il coraggio di disfarcene”. Divenuto a sua volta padre, Luca ha iniziato a pensare ai suoi bambini, alle incertezze dentro le quali lui stesso sta crescendo insieme a loro (dal lavoro ormai precario quasi per definizione, al traballante destino del Pianeta), e non vuole aggiungerne altre. Peraltro basate su dati falsi. Che l’Italia sia un Paese insicuro è una bugia, lo dicono le statistiche, a cominciare dalla percentuale di omicidi tra le più basse d’Europa. E l’aumento degli immigrati, per citare un altro capitolo dei timori collettivi, non ha portato con sé alcun incremento di reati, a dispetto di “un luogo comune molto diffuso e alimentato da una certa politica che parte da destra ma ha fatto proseliti anche a sinistra”. Eppure si registra, o si diffonde a grande velocità come fosse un dato acquisito e incontrovertibile, una generale percezione d’insicurezza che spinge le persone ad armarsi. Se però un uomo con la pistola è vittima di una percezione sbagliata, i danni che ne derivano possono essere incalcolabili. E i pericoli sono destinati ad aumentare se di fronte all’incremento di eventi gravi e folli, la reazione dei governanti non è di invertire la rotta invitando a una maggiore cautela nell’uso delle armi, bensì di aumentarne la diffusione; magari ipotizzando, come Trump, di addestrare gli insegnanti a contrastare le stragi nei campus. Di Bartolomei cita l’ultimo rapporto del Censis sulle condizioni della società italiana per sostenere che “si sta verificando una sorta di “sovranismo psichico” che spinge gli italiani oltre il rancore e in direzione di una cattiveria diffusa, che sorge principalmente dalla paura di perdere e di perdersi”. Viene anche da lì la spinta ad armarsi, perché non ci si fida della difesa affidata allo Stato e alle sue strutture: l’uomo con la pistola si sente più sicuro. Ma questo non è un fattore che produce tranquillità, è un pericolo: “Più armi in circolazione significano solo più sangue”, senza che ciò abbassi il tasso di criminalità. Sempre le statistiche dicono che è del tutto “irrazionale” la mancanza di fiducia nei confronti delle forze dell’ordine come garanti della sicurezza collettiva; una deriva che rischia di mettere in discussione uno dei capisaldi della convivenza civile, quello secondo cui solo dei “soggetti terzi” rispetto alle parti in causa possono usare la forza e infliggere condanne. “Se abdicheremo a questi principi, se ognuno di noi, da armato, preferirà la percezione personale all’oggettività del reale e considererà superiore a quella di un tribunale la propria idea di giustizia, questo nel prossimo futuro rischierà di non essere un Paese per vecchi”, avverte il figlio dell’ex campione che un giorno, a 39 anni d’età, decise di sparare a sé stesso con la calibro 38 che teneva in casa per difendersi dagli altri. Con un proiettile puntato dritto al cuore, come il libro scritto oggi dal bambino di venticinque anni fa. Usiamo le leggi per mettere in stato d’accusa chi avvelena l’acqua di Riccardo Petrella* Il Manifesto, 23 marzo 2019 Beni comuni. Mettiamo fuori legge le produzioni e i prodotti tossici come il glifosato e Pfas, all’origine di inquinamenti, contaminazioni e causa del dissesto idrogeologico. Approvare un piano, di ordine non solo italiano ma internazionale, per la messa in sicurezza dei beni comuni essenziali alla vita: acqua, semi, conoscenza, lavoro. Il degrado della qualità dell’acqua a livelli pericolosi è uno dei casi gravi di legittima messa in stato di accusa da parte dei cittadini dei poteri pubblici e dei soggetti privati implicati per crimini di non assistenza a persone in pericolo. Da decenni è stato denunciato il grave dissesto idrogeologico del Paese. A più riprese, la Commissione europea ha suonato il campanello di allarme ed anche multato l’Italia per non rispetto delle regole relative alla qualità delle acque. Ma niente è cambiato. Siamo altresì di fronte ad un caso evidente di comportamento criminale per non assistenza alle persone quello perpetrato non solo in Italia ma quasi dappertutto per effetto di non volontà di agire con le misure necessarie ed indispensabili per contrastare i fenomeni estremi (inondazioni, uragani, tifoni, siccità…) legati al disastroso cambiamento climatico in corso. Si potrebbero ancora criticare o ridurre se a livello mondiale si prendessero le misure appropriate. Ma questa volontà non sembra essere di casa nei “palazzi” del potere.. In occasione della “celebrazione” annuale (proprio ieri) della Giornata Internazionale dell’Acqua, proclamata dall’Onu nel 1993 e rivelatasi, in 25 anni, un rituale autoreferenziale di “propaganda” in favore delle concezioni e delle scelte dominanti (mercificazione dell’acqua, marketizzazione e privatizzazione dei servizi idrici, monetizzazione e finanziarizzazione speculativa delle acque, gestione estrattiva e produttivista a corto termine delle risorse), ed in sostegno della manifestazione nazionale di lotta, il 23 marzo, contro le grandi opere, la proposta è la seguente: agiamo come cittadini utilizzando le leggi e gli strumenti democratici esistenti. 1) Occorre a tal fine mettere fuori legge le produzioni ed i prodotti tossici tipo glifosato e Pfas all’origine degli inquinamenti e delle contaminazioni delle acque e del dissesto idrogeologico. Stop effettivo della cementificazione e della distruzione del ciclo idrico. Occorre liberare le istanze di decisioni dai lobbies industriali e commerciali che spendono somme ingenti per far produrre delle valutazioni d’impatto favorevoli ai loro interessi di profitto e di potenza dietro l’alibi dell’incertezza scientifica e delle controversie tra esperti. Cessiamo di intervenire a rischio certificato, quando è troppo ardi, ma imponiamo la prevenzione, “precauzione first”. 2) Adottare i provvedimenti immediati di lotta contro il cambiamento climatico e l’ingiustizia sociale, quali la messa fuori legge della finanza criminale (paradisi fiscali, evasione fiscale, prodotti derivati, libertà dei fondi predatori e speculativi mondiali) e delle opere gigantesche senza senso (le grandi dighe, i programmi di deforestazione, i costosissimi progetti militari, programmi spaziali inclusi, sostanzialmente non sostenibili sul piano umano ed ambientale. Le guerre in Iraq, Siria, Yemen, Libia sono state ancora una volta un atto di pura distruzione della vita. Le spese militari non risolvono alcun problema. Le guerre non sono innocenti rispetto al cambiamento climatico. I giovani l’hanno capito e per questo hanno associato la lotta contro il cambiamento climatico con la lotta per la pace. 3) Approvare d’urgenza un piano (nazionale, europeo e mondiale) di messa in sicurezza dei beni comuni essenziali ed insostituibili per la vita di tutti gli abitanti della Terra (acqua, semi, conoscenza/lavoro). 4) Dare forza e sicurezza alle istituzioni pubbliche fondate sulla partecipazione diretta dei cittadini, scelti anche a sorte se altrimenti impossibile, incaricate di far rispettare i modi e tempi di attuazione delle misure adottate e dei progetti messi in esecuzione. Lungi da noi il pensare che quanto proposto, seppur limitato, possa essere realizzato subito e senza difficoltà. È evidente, però, che oramai è venuto il tempo di ricorrere agli strumenti offerti dalla legge, dalla giustizia, per iniziare delle mass actions nei confronti dei responsabili politici e privati per crimini di non assistenza a persone in pericolo. Usiamo la forza del diritto per far rispettare i diritti di ed alla vita di tutti. Non aspettiamo di essere sopraffatti dalla forza della violenza sia essa dello Stato poliziesco o quella dei “casseurs”, sovente manipolata dai potenti, non solo nei paesi dell’America latina. *Promotore insieme ad altre persone d’Europa, d’Africa, d’America latina e d’Asia dell’Associazione “L’audacia nel nome dell’umanità. L’Agorà degli abitanti della terra”. Migranti. “I caporali sfruttano la disperazione. E le leggi di Salvini li aiutano” di Bruno Perini Il Manifesto, 23 marzo 2019 “Se non si spezza la malefica catena che parte dalle multinazionali del settore alimentare, passa dagli imprenditori agricoli e arriva fino ai caporali, per poi scaricarsi sui lavoratori italiani e stranieri, questo drammatico fenomeno del caporalato non morirà mai. Noi vogliamo in primo luogo spezzare questa lunga catena. Certo, le recenti leggi sull’immigrazione volute dal governo in carica e in particolare dal ministro Salvini non aiutano ma alimentano il fenomeno”. Ivan Sagnet ha 33 anni, è nato nel Camerun, ma da anni svolge attività politica in Italia. È stato insignito dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per aver combattuto il caporalato e il lavoro nero. Ha militato nella Cgil, poi ha fondato NoCap, un’associazione che ha come unica mission denunciare tutte le forme di sfruttamento del lavoro in agricoltura e monitorare le aziende virtuose. Di questo parlerà a Nobilita, il convegno organizzato da Fiordirisorse e Informazione senza filtro sulla cultura del lavoro che si tiene a Bologna nella sede dell’opificio Golinelli. Partiamo dalle inchieste giudiziarie della Basilicata e della provincia di Salerno che hanno portato all’arresto di decine di persone accusate di sfruttamento organizzato del lavoro. In questi casi i caporali svolgevano un ruolo chiave, di intermediazione illegale del lavoro. Non ti sembra una buona cosa che finalmente lo Stato intervenga? Quando la magistratura interviene per colpire fenomeni di illegalità e sfruttamento del lavoro come nei casi a cui fai riferimento non c’è che da essere contenti. Significa che lo Stato c’è e che il fenomeno può essere combattuto. Ma è bene dirlo chiaramente: la repressione non basta e da sola non è in grado di fermare la piaga del caporalato. Questo lo sanno anche i magistrati anche se è bene ripeterlo il loro lavoro è prezioso per cominciare a scardinare l’illegalità diffusa. Non ti sembra che ancora una volta, in assenza della politica, i magistrati stiano svolgendo il ruolo di supplenti? È proprio quello a cui stavo pensando. La politica non può affidare tutto alla magistratura, deve fare la sua parte senza reticenze e timidezze nei confronti dei poteri economici. I controlli ad esempio sono molto scarsi, manca in Italia una riforma dell’ispettorato del lavoro. E soprattutto serve una vera riforma dei centri per l’impiego di cui si parla tanto in questi giorni. Se i centri di collocamento, ovvero l’intermediazione legale di manodopera, non funzionano, è evidente che i caporali si insinuano nel mercato del lavoro soprattutto agricolo, come terminali dell’intermediazione illegale di manodopera. A tutto ciò si aggiunge un aggravante: la drammatica situazione dei lavoratori stranieri che sono i più sfruttati e i più vulnerabili. Quanto le leggi recenti sull’immigrazione decise dal governo Lega-M5S pesano sul fenomeno di cui stiamo parlando? Diciamo che il caporalato attinge manodopera nei luoghi della disperazione. La legge Salvini, ad esempio, abolendo i permessi di soggiorno per motivi umanitari ha come effetto immediato e grave l’interruzione dell’integrazione e come effetto collaterale spinge i lavoratori stranieri che prima vivevano nei centri di accoglienza nelle mani del caporalato. Le grinfie degli sfruttatori sono pronte a colpire dove c’è disoccupazione. In questa catena dello sfruttamento di manodopera non c’è anche una responsabilità degli imprenditori? Il caporalato è un sistema che vede ai vertici gli imprenditori agricoli. Sono loro i responsabili diretti, sono loro che si affidano ai caporali e che decidono dunque di attingere manodopera in modo illegale. Ma se vogliamo davvero spezzare questa catena dobbiamo sapere che c’è un livello ancora più alto di responsabilità rappresentato dalla Grande Distribuzione Organizzata, (Gdo). L’oligopolio rappresentato dalle multinazionali del settore alimentare ha il potere di imporre ai produttori prezzi incredibilmente bassi e dunque costi elevati che si scaricano come sempre sul lavoro meno protetto. Hai presente le proteste dei pastori sardi? Nel settore agricolo la dinamica è la stessa. È il modello di sviluppo economico che non funziona. Oltre all’attività svolta dal sindacato, quali altri strumenti devono essere messi in campo per fermare questo fenomeno così endogeno al sistema? Noi abbiamo messo in campo l’associazione NoCap. Ritengo che le proteste siano cruciali per ottenere cambiamenti ma non basta. Io ho contribuito ad esempio alla legge sul caporalato fatta dal governo Renzi ma poi mi sono accorto che quando si è arrivato dover mettere in discussione gli interessi dei giganti dell’alimentare, il governo non ha avuto coraggio. Come NoCap abbiamo proposto di creare una certificazione della filiera, un bollino che promuova e premi le aziende virtuose, quelle che non utilizzano i caporali per procurarsi la manodopera. Questa strumento diventerà un elemento di forza se e quando i consumatori diventeranno consapevoli del fenomeno così diffuso in agricoltura. Migranti. Caso Mare Jonio, indagato anche Luca Casarini di Simona Musco Il Dubbio, 23 marzo 2019 L’accoglienza finisce nel mirino dei pm. Mentre la tendopoli brucia, l’accoglienza finisce in tribunale. Ad Agrigento, dove il procuratore aggiunto Salvatore Vella e il sostituto Cecilia Baravelli hanno iscritto sul registro degli indagati il capo missione della Ong Mediterranea, Luca Casarini, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e l’ordine disatteso di spegnere i motori della nave, gli stessi reati contestati al comandante della Mare Jonio, Pietro Marrone. E a Locri, dove la Procura vuole processare il sindaco dell’accoglienza, Domenico Lucano. Casarini ieri è comparso davanti ai magistrati per un interrogatorio come persone informata dei fatti. Interrogatorio interrotto dopo sette ore, nel momento in cui i magistrati hanno deciso di indagare l’ex leader dei No Global, e rimandato alla prossima settimana, quando verrà risentito in presenza del proprio legale. A Locri, invece, la richiesta di rinvio a giudizio è stata notificata giovedì sera ai 30 imputati, tra i quali il primo cittadino sospeso di Riace, ai quali vengono contestati, a vario titolo, l’associazione a delinquere, truffa con danno patrimoniale per lo Stato per oltre 350mila euro, abuso d’ufficio ottenendo un ingiusto vantaggio patrimoniale per oltre 2 milioni di euro, peculato distraendo fondi pubblici per oltre 2.400.000 euro, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per loro l’udienza preliminare davanti al gup Amalia Monteleone è stata fissata il primo d’aprile. Una notizia che arriva nello stesso giorno in cui la Cassazione ha annullato senza rinvio l’obbligo di dimora imposto a Lemlem Tesfhaun, difesa dagli avvocati Andrea Daqua e Lorenzo trucco. Secondo l’accusa, il sindaco sospeso e Tesfhaun avrebbero organizzato un finto matrimonio tra la donna e il fratello di lei, in Etiopia, grazie a certificati falsi, prodotti “per sfruttare lo status di coniugio con la donna, cittadina italiana, per ottenere l’ingresso in Italia”. Certificati, ribadisce Lucano, veri, in quanto Tesfhaun solo erroneamente era stata registrata come coniugata. Il 27 febbraio scorso, inoltre, la Cassazione aveva accolto in parte il ricorso presentato dagli avvocati Antonio Mazzone e Andrea Daqua contro il divieto di dimora a Riace imposto a Lucano dal Riesame, annullando con rinvio l’ordinanza in merito alle esigenze cautelari e al reato di turbata libertà degli incanti. “Non ho paura di farmi processare - dice al Dubbio Lucano Il mio è un caso politico, ma sono tranquillo. Si tenta di dimostrare l’impossibile, perché io non ho toccato nemmeno un euro e anche il gip lo ha scritto. In 18 mesi d’indagine è emerso solo che vivo in una condizione di semi povertà. Il sistema che avevamo costruito in maniera spontanea aveva dimostrato ciò che sembrava impossibile, cioè che con i cittadini stranieri arrivano opportunità, non problemi. Abbiamo creato prospettive per il futuro, lavoro. Ora a Riace rimane il silenzio”. In tanti, in questi mesi, gli hanno chiesto di candidarsi alle europee, invito che Lucano ha sempre rifiutato. “Posso continuare a fare ciò che faccio anche dal basso. Mi batterò sempre, magari come consigliere comunale, per dare continuità a quel che abbiamo fatto, ma non è importante, perché quando ho iniziato non ero nulla”. E sull’annullamento della misura a Tesfhaun si dice soddisfatto. “È importante, perché indebolisce l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - conclude - Le hanno fatto passare tutto questo, per cinque mesi, solo per un documento. E lo stesso a me”. Libia. La denuncia di Msf: nei centri di detenzione condizioni disumane Vita, 23 marzo 2019 Rifugiati e migranti detenuti arbitrariamente nel centro di detenzione di Sabaa a Tripoli soffrono di allarmanti livelli di malnutrizione acuta - più di 100 sono minori, su un totale di 300. Alcuni di loro sono stati rinchiusi per giorni in uno spazio angusto, con meno di un metro quadrato per persona. In un nuovo rapporto, Medici senza Frontiere chiede alle autorità libiche e alla comunità internazionale di affrontare al più presto le inumane e pericolose condizioni all’interno dei centri di detenzione libici. Il rapporto contiene i risultati di due cicli di screening nutrizionali che abbiamo condotto, secondo i quali circa un quarto delle persone detenute a Sabaa sono malnutrite o sottopeso, con i bambini significativamente più a rischio di sviluppare una malnutrizione severa o moderata. Queste evidenze supportano numerose testimonianze individuali, secondo cui le persone detenute nel centro ricevono solo un pasto ogni due o tre giorni, mentre i nuovi arrivi possono aspettare fino a quattro giorni prima di ricevere del cibo. “Il 21 febbraio, è scritto nel Rapporto, abbiamo iniziato a distribuire razioni di cibo d’emergenza a Sabaa per rispondere alle gravi carenze di cibo e migliorare le condizioni generali di salute. Lo stesso giorno, abbiamo scoperto 31 persone chiuse a chiave in una stanza di 4,5 metri per 5, con uno spazio a persona di appena 0,7 metri quadri. Le persone non avevano spazio per sdraiarsi né latrine ed erano costrette a urinare in secchi e bottiglie di plastica. Nonostante le nostre ripetute richieste che fossero trasferite in uno spazio più appropriato, sono rimaste in queste condizioni per più di una settimana”. Secondo gli screening nutrizionali, condotti a febbraio da MsF, circa una persona su quattro a Sabaa mostra sintomi dovuti alla fornitura non costante e alla scarsa qualità del cibo. Il 2 per cento soffre di malnutrizione severa acuta, il 5 per cento di malnutrizione acuta moderata, un ulteriore 16% è sottopeso. I minori sotto i 18 anni, che rappresentano più di un terzo della popolazione complessiva del centro, hanno il doppio delle probabilità di sviluppare una malnutrizione severa e tre volte le probabilità di sviluppare una malnutrizione moderata rispetto agli adulti. Nessun minore deve essere detenuto in questo modo. L’Unhcr ha chiaramente affermato che i minori non dovrebbero essere detenuti per motivi legati alla migrazione, perché è una violazione dei loro diritti e perché è stato documentato che danneggia la loro salute fisica e mentale. Msf esprime contrarietà alla detenzione arbitraria di rifugiati, migranti e richiedenti asilo in Libia, e denuncia ancora una volta le politiche degli Stati membri dell’UE che consentono il ritorno forzato di persone vulnerabili a condizioni degradanti e pericolose per la loro salute fisica e mentale. Si chiede alle autorità libiche e alla comunità internazionale di affrontare immediatamente la situazione in Libia, attraverso quattro azioni principali: Garantire a tutte le persone detenute a Sabaa e negli altri centri di detenzione in Libia un’adeguata quantità di cibo per rispondere ai loro bisogni nutrizionali di base. Liberare dalla detenzione tutti i minori di 18 anni e fornire loro il supporto di cui hanno bisogno. Sospendere i nuovi arrivi nel centro di Sabaa se non sarà possibile fornire cibo e spazio adeguato, garantendo il rilascio o il trasferimento delle persone attualmente detenute. Garantire che le condizioni nei centri di detenzione rispettino gli standard definiti a livello nazionale, regionale e internazionale. Da oltre due anni vengono fornite cure mediche a rifugiati, migranti e richiedenti asilo bloccati nei centri di detenzione a Tripoli, Khoms, Zliten e Misurata che sono nominalmente sotto l’autorità del Ministero dell’Interno libico e del suo Dipartimento per combattere l’immigrazione illegale (Dcim). Alle persone detenute in questi centri non viene garantito accesso alle cure mediche, che sono fornite da poche organizzazioni come Msf o da agenzie Onu che riescono ad avere una limitata presenza nel paese nonostante la diffusa violenza e insicurezza. Oltre a fornire trasferimenti salvavita in ospedale, MSF tratta problemi medici causati o aggravati in larga parte dalla mancanza di un’assistenza medica adeguata e dalle condizioni inumane all’interno dei centri. Tra questi, infezioni del tratto respiratorio, diarrea acquosa acuta, scabbia e tubercolosi. Molti pazienti soffrono di ansia e depressione o mostrano sintomi di disordine da stress post-traumatico. Incontrando spesso pazienti con disturbi psichiatrici che necessitano di cure ospedaliere, causate o aggravate dalle drammatiche condizioni di detenzione. Libia. La lingua inventata che svela gli orrori nei lager di Tripoli di Fabio Tonacci La Repubblica, 23 marzo 2019 Da “Asma boys” in giù: così i migranti arrivati da tutta l’Africa comunicano tra loro. Hanno incontrato i loro aguzzini, e gli hanno dato un nome. Hanno visto dove potevano rimediare un lavoro, e a quel posto hanno dato un nome. Hanno scoperto dove le mogli erano costrette a prostituirsi, e a quei tuguri lerci hanno dato un nome. Hanno conosciuto l’orrore, e gli hanno dato un nome. Nella tratta dei migranti, che dal centro dell’Africa conduce prima in Libia e poi in Italia, è nata una nuova lingua. Partorita dalla paura. Un glossario di poche, ma universali, parole. “Asma boys”, “chad place”, “aunty” e “cocseur”, “connection house”, “gari”, per citarne alcune: chiunque si sia messo in cammino, non importa se anglofono o francofono, istruito o ignorante, ne conosce il significato. Sa che gli asma boys vanno evitati come la peste, che le connection house sono luoghi di passaggio ma anche prigioni del sesso, che nel deserto l’unico cibo disponibile è la farina di cassava e i trafficanti la chiamano gari, che di una aunty (la zietta), non bisogna fidarsi mai perché dice di proteggerti e invece ti vende. Come una sorta di nuovo Esperanto, la lingua globale e artificiale creata alla fine del diciannovesimo secolo. Ora lo si intravede nelle centinaia di testimonianze di uomini, donne e adolescenti raccolte e catalogate a bordo della Aquarius dagli operatori di Medici Senza Frontiere a partire dal luglio di tre anni fa. Storie atroci che all’Occidente fa assai comodo dimenticare, soprattutto quando la guardia costiera intercetta e riporta indietro chi fugge. E indietro ci sono gli asma boys. Asma boys - Con la schiettezza della rassegnazione, i migranti dicono cose del tipo “gli asma boys mi hanno sequestrato”, “gli asma boys mi hanno violentato a turno”, “gli asma boys mi hanno rubato i soldi”. Quelli di Medici senza frontiere non riuscivano a capire chi fossero, questi asma boys. “Il nome non corrispondeva a nessuna delle milizie libiche, né a gruppi criminali conosciuti”, spiega Giorgia Linardi, che sull’Aquarius tra il 2016 e il 2017 ha passato mesi a intervistare persone recuperate in mare. “In realtà chiamano così tutti coloro che vogliono far loro del male. Asmar in arabo significa scuro... ma l’etimologia non è chiara”. Chiara invece è la minaccia che individua: stupratori, rapitori, carcerieri, miliziani, criminali. I cattivi, in ogni declinazione e a ogni latitudine, nel deserto, in Libia, in mare. Gli asma boys. Madhi, 17enne, gambiano, li descrive così: “Arrivano in gruppi di 8-9 persone. Sono ubriachi e drogati. Vogliono le nostre donne, se provi a protestare ti accoltellano”. Un diciottenne che era con lui: “Sono stato tenuto dagli asma boys in una stanza con 100 persone e una finestra sola. Il bagno era un recipiente di plastica nel mezzo alla stanza”. Yusuf, 19enne della Sierra Leone, il ricordo degli asma boys ce l’ha ancora inciso sulle mani. “A Bani Walid mi davano scosse elettriche sulle dita con i cavi elettrici”. Connection house e Miya Miya - La tortura, in Libia, può non essere il peggiore dei destini. Puoi finire anche nelle connection house, prigioni-bordello spuntate sulla rotta della tratta. “Sono gestite da uomini nigeriani insieme ad alcuni arabi”, spiega Fortunate, 25enne nigeriana. “All’inizio mi rifiutavo, ma mi pestarono e mi fecero quasi morire di fame. Ho accettato di fare sesso coi clienti, per 10-20 dinari all’ora (6-12 euro circa, ndr). Mi hanno messo incinta, mi sono ammalata e ho abortito”. Il sadismo dei lenoni oltrepassa l’umiliazione del corpo. I mariti spesso vengono forzati ad assistere allo stupro di gruppo delle mogli, e costretti a urlare “Miya miya!”. Ecco un’altra espressione che si impara lungo il cammino: in dialetto arabo significa “cento per cento” e si usa per dire che tutto va bene. Anche quando niente va bene, come nelle connection house. Chad place e Lapa Lapa - Raccontano anche di un non luogo, il chad place. Letteralmente, il posto chad. “Geograficamente cambia di volta in volta”, spiega Giorgia Linardi, oggi portavoce della ong tedesca Sea-Watch. “Corrisponde al punto dove si radunano i migranti che offrono manodopera”. Oggi è una rotonda, domani una strada trafficata, dopodomani chissà: Chad è una coordinata urbana, dove si incontrano offerta e domanda di lavoro da quattro soldi. Se ti va molto male, non ci trovi i padroni che ti fanno pulire casa, ci trovi gli asma boys. Oppure incontri i cocseur, i facilitatori che con circa 1.200 dinari organizzano la traversata del Mediterraneo a bordo dei lapa lapa, cioè i gommoni. E non vai in mare, ti ci spingono. Dicono proprio così. “Mi hanno spinto (“pushed”) in mare”. Nell’Esperanto dei profughi, anche i verbi cambiano. Germania. Il piano di Dirk Behrendt contro l’odio antiebraico di Paolo Lepri Corriere della Sera, 23 marzo 2019 È un progetto importante quello presentato nei giorni scorsi da Dirk Behrendt, responsabile della Giustizia e della lotta alle discriminazioni nel governo del Land di Berlino. Si tratta di un piano molto dettagliato per combattere l’odio contro gli ebrei. Ce n’è bisogno? Sicuramente sì, se ci ricordiamo (verbo da usare sempre, parlando di questi argomenti) che l’”Ufficio di ricerca e informazione sull’antisemitismo” ha registrato nella capitale tedesca durante la prima metà dell’anno scorso 527 episodi legati ad una realtà che sarebbe profondamente sbagliato sottovalutare. Molti sono maturati (ma non vanno certo dimenticati l’estremismo di destra e l’ambiente degli ultrà calcistici) tra i giovani che hanno radici familiari islamiche. “Sono proprio i giovani il nostro principale obiettivo, perché più facilmente influenzabili”, ha detto Behrendt a Deutsche Welle. Quarantasette anni, cresciuto nel distretto di Reinickendorf, dottorato in giurisprudenza alla Frei Universität, eletto con i Verdi nel collegio di Friedrichschein-Kreuzberg, Behring è uno degli uomini di punta dell’amministrazione guidata dal sindaco socialdemocratico Michael Müller. A condividere con lui la responsabilità del progetto (il primo a livello regionale) è stata la segretaria di Stato Sawsan Chebli, esponente dell’Spd, ex portavoce del ministero degli Esteri, figlia di rifugiati provenienti dalla Palestina, che ha recentemente sottolineato che nelle scuole “quattro alunni su dieci non sanno niente di Auschwitz”. “La nostra iniziativa è necessaria perché l’odio contro gli ebrei è purtroppo in crescita a Berlino”, dice Behrendt, che lavorerà in stretto contatto con il diplomatico Felix Klein, responsabile della commissione federale per la lotta all’antisemitismo costituita poco meno di un anno fa dal governo Merkel. Oltre a puntare sull’educazione dei giovani, il progetto berlinese si occuperà poi di sicurezza, protezione delle vittime e prevenzione. Molto impegno verrà dedicato inoltre al lavoro di formazione degli insegnanti e degli agenti di polizia. Alla fine, una sola domanda. Perché in Italia tutto questo non si fa? Cina. “Libertà per gli uiguri”, l’appello internazionale nel giorno di Xi a Roma La Repubblica, 23 marzo 2019 “L’Europa e la comunità internazionale facciano pressioni su Pechino” perché ponga fine alle persecuzioni contro la minoranza musulmana e chiuda “immediatamente tutti i campi di internamento”: decine di adesioni all’iniziativa dello European grassroots antiracist movement. Libertà per gli uiguri in Cina e stop alle violazioni dei diritti umani. Mentre è in corso la visita del presidente Xi Jingping a Roma, lo European grassroots antiracist movement e altre associazioni per i diritti umani lanciano un appello all’Europa e alla comunità internazionale perché facciano pressioni sul governo di Pechino per difendere i diritti della minoranza musulmana nella Repubblica popolare e per la “chiusura immediata di tutti i campi” di internamento dove sono detenuti gli uiguri. “Per diversi mesi, in un’indifferenza quasi generale, il popolo uiguro ha sofferto persecuzioni di massa”, si legge nell’appello firmato da decine di personalità del mondo della politica, della cultura, della diplomazia, dal premio Nobel Mario Vargas LLosa all’ex minstro degli esteri francese e fondatore di Medici senza frontiere Bernard Kouchner. Oltre undici milioni di persone di lingua turca e prevalentemente di religione islamica vivono nella regione dello Xinjiang, nella Cina nord-occidentale. I loro rapporti con il governo centrale cinese, che nega loro l’autonomia richiesta, sono da tempo caratterizzati da tensioni e discriminazioni. Secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di uiguri e di persone appartenenti ad altre minoranze turcofone sono detenute arbitrariamente nei centri dello Xinjiang. “Diverse persone che sono state deportate parlano di torture fisiche e psicologiche. Il Comitato delle Nazioni Unite contro le discriminazioni razziali ha detto che c’è un’elevata probabilità che esistano campi di internamento di massa messi sotto il sigillo di segretezza”, scrivono i firmatari. La Cina ha sempre respinto le accuse di persecuzione, sostenendo che i campi in realtà migliorano le vita degli internati e di recente sono apparsi online anche video di propaganda di uiguri “internati” che raccontano su Youtube quanto la loro vita sia cambiata in meglio. Le “persecuzioni” nei confronti degli uguiri, sottoliena l’appello, si sono fatte ancora più violente e “senza precedenti in conseguenza del rafforzamento del regime di Xi Jinping, che sta dispiegando il suo progetto totalitario a livello nazionale e internazionale, usando la crescente brutalità contro gli individui e le comunità che si oppongono al suo potere, come i tibetani o membri del Falun Gong”. Queste persecuzioni, proseguono gli attivisti, “devono anche essere collegate al desiderio di Pechino di controllare appieno le “nuove strade della seta”, un territorio chiave per lo sviluppo del progetto economico internazionale” di Pechino, “poiché molte infrastrutture legate a questo progetto devono passare attraverso la regione dello Xinjiang”. ù +Le personalità che hanno sottoscritto l’appello chiedono alla comunità internazionale di rompere il silenzio, di impegnarsi per “la chiusura immediata di tutti i campi” e per l’adozione anche in Europa di una legislazione simile alla “Legge sulla politica dei diritti umani uiguri” presentata al Congresso degli Stati Uniti dai senatori Marco Rubio e Bob Menendez. Questa mattina a Roma una protesta pacifica è stata messa in atto anche da una decine di esponenti della comunità tibetana in Italia e della minoranza musulmana uigura per chiedere al governo italiano di dare voce e sostegno al governo tibetano in esilio.