Carcere: brochure per accedere a misure alternative alla detenzione di Gianluigi Lombardi gnewsonline.it, 22 marzo 2019 Dal prossimo mese di aprile, saranno a disposizione dei detenuti che scontano la pena in via definitiva negli istituti penitenziari italiani, degli opuscoli informativi che illustrano le modalità per come accedere alle misure alternative alla detenzione e, per i ristretti stranieri, come poter scontare il residuo della pena nello Stato di provenienza. Le brochure, redatte in 26 lingue oltre l’italiano, descrivono in modo dettagliato le opportunità offerte dalla normativa vigente per scontare la pena in modo alternativo/sostitutivo al circuito detentivo classico. Nello specifico, vengono spiegati in modo molto comprensibile i requisiti per avanzare le richieste e le procedure per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale, all’affidamento in prova per tossicodipendenti e alcoldipendenti, alla detenzione domiciliare e alla libertà condizionale. Grazie a questi opuscoli i detenuti stranieri potranno informarsi sulle procedure da seguire per il trasferimento negli Stati di provenienza dove potranno terminare di scontare la pena in base ai regolamenti della Convenzione di Strasburgo del 1983 e agli accordi bilaterali tra l’Italia e alcuni Stati esteri. I piccoli volumi, redatti dal gruppo di lavoro composta da rappresentanti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, del Dipartimento di Giustizia Minorile e Comunità e del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, saranno stampati presso la tipografia della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av) e consegnati ai Provveditorati Regionali per la distribuzione negli istituti penitenziari del territorio. “Giustizia riparativa per i minori: ago e filo tra vittima e reo” di Giulia Merlo Il Dubbio, 22 marzo 2019 Intervista a Filomena Albano, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. “Serve una legge per la mediazione penale nel procedimento minorile”, questo chiede la Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, durante il convegno di ieri alla Camera dei Deputati, dal titolo “Incontrare la giustizia, incontrarsi nella giustizia”. Cosa si intende per giustizia riparativa? La giustizia riparativa è un percorso che valorizza le persone e la dimensione relazionale. La sintetizzo con tre parole: fiducia, incontro e giustizia. Quando si è di fronte a un reato, soprattutto se commesso da un minorenne ai danni di un altro minorenne, la fiducia si rompe. Come si ricostruisce? La via è quella della riparazione e serve sia alla vittima che al reo. Cosa intende? La giustizia riparativa consente alla vittima di veder riconosciuta la sua sofferenza. La vittima, infatti, ha molte domande dopo il reato: perché a me? Si ripeterà? Domande che di solito non ricevono risposte. Lo stesso vale per il minore che ha commesso un reato: si tratta di un ragazzo che ha bisogno di iniziare un processo di responsabilizzazione non solo per qualcosa che ha commesso, ma anche verso qualcuno. Ecco, la giustizia riparativa è la modalità che favorisce l’incontro, anche quello impossibile come quello tra reo e vittima. Le faccio un esempio: pulire il muro imbrattato non è giustizia riparativa ma una condotta riparatoria, incontrare proprietario di quel muro, invece, è giustizia riparativa. Con quali modalità avverrebbe l’incontro? Ovviamente l’incontro deve essere preparato da mediatori formati, accompagnato, valutato nella fattibilità. Ma, se si realizza, dà la possibilità alla vittima di condividere ed elaborare il proprio vissuto, cosa che la giustizia ordinaria non dà. Per l’autore del reato, invece, è l’inizio del processo di responsabilizzazione. Nei casi in cui la giustizia riparativa viene applicata, la recidiva è bassissima se non inesistente. Cosa prevede la proposta dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza? Abbiamo avanzato la proposta che la giustizia riparativa sia applicabile anche per i ragazzi infra quattordicenni e per i non imputabili. Punire di più e prima non serve: per i ragazzi infra quattordicenni occorre ricostruire le reti educative, familiari, sociali, e uno strumento come la mediazione penale li accompagna verso l’acquisizione della consapevolezza di una sofferenza arrecata. Si tratta di un percorso volontario? Certo, nelle nostre raccomandazioni si sottolineano i caratteri imprescindibili e in particolare la volontarietà: è possibile accedere alla mediazione penale solo col consenso di entrambe le parti. Poi vigono i principi della equi-prossimità (deve essere equamente prossima alla vittima e al reo), della riservatezza e confidenzialità e della gratuità. Come è possibile farla convivere con la giustizia penale ordinaria? Anche questo è oggetto di raccomandazioni. Riteniamo che la coesistenza sia possibile, perché una è giustizia della spada e della bilancia, l’altra di ago e filo, che ricuce i vissuti delle persone. Attualmente quale è la situazione a livello normativo? Attualmente non esiste una legge e dunque non è chiaro come avviene l’innesto della giustizia riparativa nell’ambito del procedimento penale. Noi abbiamo avanzato le nostre proposte: riteniamo che l’accesso alla giustizia riparativa debba avvenire già a partire dalle indagini preliminari perché è importante parta dal momento più vicino possibile al fatto. Man mano che ci si allontana dal fatto, infatti, lo stimolo per entrambi si soggetti ad accedervi è inferiore. I tempi sono importanti e sarebbe quindi importante avere una legge che chiarisse quando poter accedere a questo strumento. A normativa invariata, le raccomandazioni dell’Autorità garante sono di natura pratica e operativa come quelle che le ho brevemente accennato. L’avvocatura che ruolo ricopre in questo percorso? Cnf e Agia hanno avviato un’intensa collaborazione su vari campi. Non a caso, al convegno è intervenuto anche il presidente Andrea Mascherin. In particolare, le raccomandazioni che riguardano gli avvocati prevedono la programmazione di incontri di formazione per gli avvocati, in modo da fornire loro strumenti sul significato del percorso e sulla sua incidenza nel procedimento penale. Gli avvocati hanno un ruolo importante nel supportare gli assistiti e i familiari nella fase informativa, per dare il consenso alla mediazione. Quando questa coinvolge ragazzi minori, infatti, bisogna assumere anche la volontà delle famiglie. Cosa dovrebbero sapere gli avvocati? Devono essere formati per informare gli assistiti sugli enormi vantaggi di una giustizia che ricuce le relazioni e i rapporti, una giustizia che non è solo irrogazione di sanzione e pena. Questo è vero soprattutto per i ragazzi giovani, perché sono persone in evoluzione e bisogna evitare che abbiano una percezione cristallizzata di loro stessi. In questo c’è una grande responsabilità anche dei mezzi di informazione, che devono trattare la materia minorile come qualcosa che tocca soggetti non cristallizzati ma in continuo divenire. Non a caso il messaggio finale del convegno è quello di avere speranza nella possibilità di incontrare la giustizia incontrandosi nella giustizia. Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai figli minorenni di Marianna Manduca di Giovanni Gagliardi La Repubblicas, 22 marzo 2019 Due anni fa i giudici di primo grado avevano riconosciuto la responsabilità civile dei magistrati rimasti inerti nonostante le 12 denunce della donna uccisa dal marito nel 2007. La Corte d’appello di Messina ha annullato il risarcimento di 259mila euro che nel giugno del 2017 i giudici di primo grado avevano riconosciuto ai tre figli minorenni di Marianna Manduca, (Carmelo, Salvatore e Stefano, che oggi hanno rispettivamente 17, 16 e 14 anni), dopo avere ammesso la responsabilità civile dei magistrati rimasti inerti nonostante le 12 denunce della donna, poi uccisa nell’ottobre 2007 dal marito, Saverio Nolfo. Lo rende noto la vice presidente della Camera e deputata di Forza Italia, Mara Carfagna, che si dice “incredula e indignata per la sentenza” di secondo grado che impone ai “tre orfani di Marianna Manduca di restituire la già misera somma che il Tribunale di Messina aveva previsto a loro risarcimento”. “La Corte d’Appello - aggiunge Mara Carfagna - dice quindi agli orfani, e a tutti noi, che quel femminicidio non poteva essere evitato, denunciare i violenti è vano”. Secondo la vice presidente della Camera e deputata di Fi è “sconvolgente che i giudici abbiano sentenziato, in nome del popolo italiano, che non vi fu negligenza alcuna da parte di chi, preposto a proteggere la vita di noi tutti e a fare giustizia, ha ignorato le fondate e disperate richieste d’aiuto” della donna. “Non è mio costume mancare di rispetto alla magistratura - sottolinea Mara Carfagna - ma, oggi, non posso astenermi dal dire che questa è l’ennesima beffa verso chi è vittima di violenza eppure trova il coraggio di denunciare, e soprattutto verso i più fragili, i più indifesi: gli orfani che hanno visto la madre uccisa dal padre. Questo è il risultato del messaggio politico che il Governo ha dato negando un fondo adeguato agli orfani di femminicidio, ma anche il segno che, al di là della propaganda, questo Paese rischia di fare retromarcia su diritti fondamentali e acquisiti. Ci auguriamo - conclude Carfagna - che la Cassazione ripristini legalità e giustizia e che, almeno di fronte a questo, il Governo si muova per sostenere le famiglie che accolgono e crescono bambini e ragazzi così orribilmente feriti”. Occorre una magistratura specializzata per contrastare l’economia illegale di Alberto Cianfarini* Il Dubbio, 22 marzo 2019 La nostra Carta pone al primo articolo il lavoro e al terzo l’eguaglianza dei cittadini, obiettivi alti - ma strettamente connessi - che si perseguono rimuovendo gli ostacoli (anche economici) che ad essi si frappongono. Certamente senza il rispetto della legalità ed il controllo dell’economia illegale, attraverso la repressione dei reati a sfondo economico/ finanziario, questi obiettivi diventano mere speranze. Gli esempi possono essere molteplici: il datore di lavoro che impone buste paga al ribasso, l’evasore fiscale, il bancarottiere, tutta l’area delle truffe comunitarie e nazionali all’erario, il diritto penale industriale, per non parlare dei paradisi fiscali e le mille altre sfumature della complessa criminalità economica e finanziaria tutte purtroppo realtà diffusissime in Italia. E qui, diversamente dal fenomeno della corruzione, non occorre solo fare riferimento al fenomeno percepito quanto piuttosto alle notizie di reato depositate negli Uffici di Procura. Certamente esiste una polizia giudiziaria specializzata (Guardia di Finanza) che sulla scoperta e repressione di tali fenomeni fonda il suo patrimonio genetico. Nella magistratura ordinaria, tuttavia, non sempre ci sono quelle corrispondenti sensibilità culturali per comprendere appieno l’importanza del disvelamento e la conseguente istruttoria di tali delitti. Il problema è più evidente nei piccoli centri e tra questi, in particolare, quelli del sud d’Italia territorio che costituisce, forse non è un caso, la zona economicamente più arretrata del Paese. Certamente il mancato sviluppo del sud dell’Italia non dipende solo da questo ma, probabilmente, quanto descritto è una oggettiva concausa, la cui scarsa percezione contribuisce a rendere il meridione terreno fertile per nuove e complesse forme di “brigantaggio” economico. Al nord e, comunque, nei grandi Uffici giudiziari, anche in assenza di una seria programmazione delle culture, un magistrato appassionato della materia si trova più frequentemente ed esso diventa sovente l’interfaccia della polizia economica finanziaria nello specifico settore di competenza. Questo almeno negli uffici requirenti. Negli uffici giudicanti - quasi sempre monocratici - l’attribuzione di fattispecie giuridicamente complesse determina, a volte, un appesantimento del processo e la frequente morte dello stesso per estinzione da prescrizione. La Guardia di Finanza deve continuare a migliorare le proprie professionalità attraverso sempre maggiori investimenti nell’istruzione dei propri appartenenti, soprattutto in un mondo sempre più competitivo e globalizzato; ma tale sforzo sarà vano se colui il quale è destinatario naturale all’attuazione del frutto delle investigazioni non sarà capace tempestivamente di intenderne il reale disvalore. Molto ha innovato il legislatore e la giurisprudenza di legittimità creando, negli ultimi venti anni, un tessuto normativo astrattamente coerente e potenzialmente efficace nel diritto penale dell’economia, non più apofantica ancella del diritto penale classico, caratterizzato dai più noti e conosciuti delitti a base violenta o associativa. Indubbiamente il legislatore potrebbe ancora migliorare: ad es. evitare il giudizio monocratico per fattispecie complesse del diritto penale dell’economia potrebbe rivelarsi cosa saggia, circostanza di cui ad es. il legislatore della storica legge 7.1.1929 n. 4 era ben conscio e, troppo velocemente, il legislatore del nuovo secolo ha abbandonato in nome di una modernità che non sempre è foriera di efficacia. Ai responsabili della Giustizia e all’Organo di Autogoverno tuttavia, corre l’obbligo di organizzare gli Uffici giudiziari in modo da corrispondere agli Uffici di polizia giudiziaria sempre maggiori professionalità in grado di tradurre tempestivamente indagini preliminari in rapide azioni conseguenti. Utile, ad es., potrebbe rivelarsi la creazione - in ogni Ufficio di Procura - di un referente per il diritto penale dell’economia il quale, in stretto contatto con i colleghi dei grandi uffici delle Città metropolitane, coltivi la passione culturale e le peculiarità di una materia che pretende un costante aggiornamento. Anche la Scuola Superiore della Magistratura non solo potrebbe incrementare l’attuale (non altissimo) numero dei corsi riconducibili al variegato mondo del diritto penale dell’economia, ma ancor più potrebbe consentire la ripetizione e la frequenza degli stessi a coloro i quali sono effettivamente impiegati nella repressioni dei mai semplici fenomeni connessi al caleidoscopico (e silente) mondo dell’economia illegale. Una migliore repressione dell’illegalità economica potrebbe essere portatrice di sviluppo e giustizia oltre, ovviamente, utile a lenire le sofferenze di un erario nazionale sempre in notoria difficoltà. Quanto detto, in fondo, in quell’ottica di redistribuzione sociale delle ricchezze di cui è permeata l’intera Carta. Non vi può essere un’azione efficace se i protagonisti delle scelte strategiche non percepiscono la moderna necessità di sviluppare culture specializzate, approfondimenti e studi scientifici mirati, al passo della complessità dei moderni mercati. *Magistrato Caso Diciotti, il presidente della Consulta Lattanzi: “Ricorso delle toghe possibile” di Liana Milella La Repubblica, 22 marzo 2019 Per il numero uno della Corte costituzionale, i giudici potrebbero sollevare il conflitto di attribuzioni dopo il no del Senato all’autorizzazione a procedere per Salvini. E su dj Fabo: “Il Parlamento legiferi”. “Se l’autorità giudiziaria dovesse ritenere che la decisione è ingiustificata, allora può sollevare un conflitto di attribuzione. Poi, ovviamente, si vedrà se è ammissibile o meno”. Risponde così Giorgio Lattanzi, il presidente della Corte costituzionale, alla domanda su che cosa potrebbe accadere, in via generale, dopo un caso come quello del ministro Matteo Salvini in Senato. Il Parlamento nega l’autorizzazione alle indagini chieste dal tribunale dei ministri di Catania, perché ravvisa un interesse dello Stato sulla decisione presa dal titolare del Viminale sui migranti della nave Diciotti. Ma la strada della contrapposizione non è finita. Ci potrebbe essere un’ulteriore mossa dei giudici, come quella, appunto, di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta. Che riaprirebbe i giochi sulla decisione presa e che Salvini festeggia come liberatoria. Lattanzi, ex presidente della sesta sezione penale della Cassazione, alla Corte da otto anni, misura ogni parola. Non è certo sua intenzione interferire nelle scelte delle Camere. Ma, in via generale e prescindendo dal caso concreto, spiega che sì, quel conflitto, qualora i giudici volessero sollevarlo, sarebbe possibile. Ovviamente non è immaginabile quale sorte potrebbe poi avere di fronte alla Consulta. Tradizionale appuntamento, nel palazzo del Fuga, per il bilancio dell’anno passato, ma con uno sguardo già al futuro. Dove spicca il caso della decisione, presa a settembre, sul caso Dj Fabo-Cappato, quell’aiuto al suicidio che ha spinto i giudici di Milano a rivolgersi alla Corte ravvisando il vuoto legislativo in materia. E la Corte, con una sentenza innovativa, ha dato una chance al Parlamento, perché esiste appunto un vuoto costituzionale che va coperto. Andrebbe sanato in 12 mesi, ma il Parlamento purtroppo langue. Dice Lattanzi: “Con l’ordinanza Cappato, la Corte ha inteso evidentemente riconoscere il primato delle Camere nel definire dettagliatamente la regolamentazione della fattispecie in questione, perciò confido fortemente che il Parlamento dia seguito a questa nuova forma di collaborazione, nel processo di attuazione della Costituzione, e non perda l’occasione di esercitare lo spazio di sovranità che gli compete”. Un messaggio chiarissimo. Perché, prosegue Lattanzi, “la tecnica dell’ordinanza di incostituzionalità prospettata sarebbe anzitutto un successo per la funzione rappresentativa del legislatore, che andrebbe perduto se tale funzione non fosse in concreto esercitata”. Se non è uno warning davvero poco ci manca. Perché ormai mancano solo sei mesi allo scadere dell’anno concesso, un tempo che già di per sé rende difficile la possibilità di scrivere una legge complessa come quello sul fine vita, con il passaggio tra Camera e Senato. Conclude Lattanzi: “La Corte sarà chiamata a decidere in un senso o nell’altro. Se non dovesse farlo, nel sistema resterebbe una norma illegittima”. Ma Lattanzi insiste molto sul rapporto innovativo tra Corte e Parlamento. Una Corte che rispetta le prerogative di chi fa le leggi, ma certo non può abdicare al suo ruolo di garantire il rispetto della Costituzione. Una Carta che, per il presidente della Corte, va lasciata tranquilla. Dice Lattanzi: “Dovremmo tenercela così com’è, visto che anche due leggi per cambiarla, sottoposte a referendum, sono abortite. Credo che le stesse persone che le hanno proposte oggi sono ben contente”. Dice ancora Lattanzi: “La Costituzione non può essere cambiata a ogni piè sospinto. Essa è frutto della guerra. È un orologio ben congegnato. Ci vorrebbero una situazione analoga e un accordo analogo per modificarla. Gli italiani l’hanno capito più delle forze politiche. Se ne svilisce il valore se si cambia di volta in volta”. Conclude Lattanzi nel suo elogio alla Carta: “La Costituzione è lì, è fondamentale, altrimenti viene meno il suo valore profondo”. La Consulta diventa una sorta di sacerdote della Costituzione. Questo spiega i viaggi per raccontarla fatti l’anno scorso nelle scuole e nelle carceri che stanno proseguendo anche quest’anno. Perché “la Corte ha maturato la consapevolezza che deve uscire dal “Palazzo”, deve farsi conoscere e deve conoscere, deve farsi capire e deve capire, anche perché farsi conoscere e farsi capire significa far conoscere e far capire la Costituzione”. Padova: in cinquantamila per dire no alle mafie di Michela Nicolussi Moro Corriere Veneto, 22 marzo 2019 Il ricordo di tutte le vittime innocenti. Le lacrime dei familiari presenti. Don Ciotti: “Ci uccidono dentro”. Un corteo di 50mila persone accorse da tutta Italia ha celebrato ieri a Padova la “Giornata in memoria delle vittime delle mafie”, organizzata da Libera. Scanditi i nomi di 1.011 innocenti ammazzati. “Carlo Alberto Dalla Chiesa, Domenico Russo, Peppino Impastato, Giuseppe Montalbano, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin...”. Una voce gentile scandisce dalla testa del corteo un elenco infinito: 1.011 nomi, 1.011 tragedie, famiglie distrutte, colpi inferti allo Stato di diritto. Sono le vittime delle mafie, ieri ricordate dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti nella 24esima edizione della “Giornata della memoria e dell’impegno”, organizzata a Padova insieme ad “Avviso Pubblico”. “Un cammino insieme” a 50 mila persone (30 mila per la questura) accorse da tutta Italia (tra i gonfaloni dei Comuni quelli di Roma, Bologna, Castellaneta, Buccinasco, solo per citarne alcuni), a gridare ancora una volta “no” alla criminalità organizzata. Stavolta dal ricco e operoso Nordest, ferito e sconvolto dalle tre maxi operazioni contro ‘ndrangheta e Camorra che in un mese hanno portato dietro le sbarre oltre cento persone. “A testimonianza che nessun territorio è esente da questi parassiti - ha detto don Ciotti stringendo mani, ricevendo abbracci e consolando parenti in lacrime - ci uccidono dentro, creando pericolose commistioni con la società civile. Vogliamo che i 1.011 nomi non restino appiccicati sui cartelli delle strade, ma siano scritti dentro di noi. Se non capiamo che quei proiettili hanno colpito anche le nostre coscienze, diventa tutto solo retorica. La prima riforma da fare è delle nostre coscienze. Anche sul tema migranti, rappresentati come colpevoli quando sono vittime dell’occidente che ha depredato le loro terre”. La città si è fermata per lasciare il passo al “rispetto della dignità umana”, applaudendo dalle finestre, gridando “bravi!” a un serpentone senza fine e pacifico, protetto ai lati dal cordone degli scout legati mano nella mano e colorato all’interno da tante facce. Dai parenti delle vittime messicane alle mamme con i passeggini, dai 40 detenuti minorenni in permesso alle scolaresche, fino ai volti famosi di Nando Dalla Chiesa, Rosy Bindi (“questa regione è rimasta scossa e forse anche meravigliata dell’accertata presenza delle mafie ed è importante che ci sia un risveglio della coscienza civile. Il Veneto ha tutte le energie per reagire e deve farlo”), Giancarlo Caselli, Maurizio Landini. Per arrivare al procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, che ha ammonito gli imprenditori: “Le mafie si mangiano la nostra economia, oltre a condizionare la politica. Hanno imprese che non consentono a quelle sane di svilupparsi e tutto questo a danno dei cittadini onesti. L’imprenditore che opera nel settore da anni ha la capacità di individuare i soggetti economici mafiosi: non vestono e non parlano più in modo riconoscibile, ma sono laureati, sono professionisti in grado di entrare in contatto con chiunque. L’imprenditore deve capire che segnalarli può consentirci di intervenire prima che il danno diventi irreparabile. Altrimenti il rischio è che le mafie governino l’economia”. Economia e lavoro sono le parole chiave della ribellione al malaffare. “La criminalità organizzata va dove ci sono più soldi - ha avvertito Landini, segretario della Cgil - ma si insinua anche dove non c’è lavoro. Il primo punto della battaglia alle mafie è il diritto all’occupazione, che rende la gente libera e non ricattabile. È la base della giustizia sociale”. Concetti sottolineati da cori “uno-due-tre-quattro-cinque-dieci-cento passi”, a ricordo del giornalista Peppino Impastato fatto ammazzare da Tano Badalamenti, alternati a momenti di riflessione e silenzio, a cartelli di “Verità e giustizia”, alla sfilata delle foto delle vittime applaudite dalla folla, che ha omaggiato allo stesso modo i nomi di Falcone e Borsellino. “È importante sentirci parte di un Paese che è più grande di Padova, del Veneto - ha dichiarato il vescovo di Padova, Claudio Cipolla - dobbiamo essere forti e uniti nel combattere la mafia”. Cuore dell’evento la staffetta tra politici(in testa il sindaco di Padova, Sergio Giordani), forze dell’ordine, magistrati, sindacalisti e familiari che dal palco allestito in Prato della Valle hanno ripetuto i nomi degli innocenti uccisi. Il prefetto Renato Franceschelli si è commosso leggendo il messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il cui fratello Piersanti, freddato nel 1980, compare nell’elenco delle vittime. “Vogliamo liberare la società dalle mafie - ha scritto il capo dello Stato - è un traguardo doveroso e possibile, che richiede a tutti impegno e piena coscienza delle nostre responsabilità”. Il primo a rispondere “presente” è stato Giancarlo Caselli, ex procuratore di Torino: “A tutti questi innocenti vanno la nostra memoria e il nostro impegno”. Napoli: sovraffollamento carceri, questione irrisolta di Erica Gigante linkabile.it, 22 marzo 2019 Visione carcero-centrica del governo. Avvocati in sciopero. Si è tenuto ieri presso la Camera Penale del Palazzo di Giustizia di Napoli, una tavola rotonda dal titolo “Il carcere: un’esperienza ancora irrisolta, alla quale hanno partecipato, il Presidente della camera penale di Napoli Ermanno Carnevale, il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, il Presidente del Consiglio Comunale di Napoli Alessandro Fucito, il Prof. Sergio Moccia di Diritto penale presso l’Università Federico II di Napoli, il Prof. Giuseppe Riccio di Diritto Processuale Penale, il Presidente della Sezione distrettuale di Napoli dell’ANm, il Presidente dell’Associazione Antigone Luigi Romano, il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli Antonio Tafuri e il Presidente del “il carcere possibile Onlus”. Purtroppo, il sovraffollamento delle carceri italiane appare, ancora oggi, un problema del tutto irrisolto. A darne l’allarme sono stati gli operatori del diritto che hanno puntato il dito contro la visione carcero-centrica del Governo in relazione non solo alla mancata attuazione della legge delega per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, ma anche contro la legge anticorruzione la cosiddetta “spazza-corrotti” in riferimento all’introduzione di una nuova causa di sospensione del termine di prescrizione destinata a introdurre la figura dell’eterno imputato che, come ribadito dallo stesso Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, è del tutto inaccettabile e quasi imbarazzante che il reato di corruzione rientri tra quelli “ostativi” escludendo le misure alternative al carcere. Insomma una situazione di vera emergenza che diventa sempre più angosciante se si fa riferimento agli ultimi dati disponibili del Ministero della Giustizia che registra 7797 detenuti in tutta la Campania di cui 387 sono donne e 1.008 sono stranieri. Poggioreale ha 156% di sovraffollamento. Il sovraffollamento regionale è al 132%. Non dimentichiamo che solo qualche anno fa l’Italia è stata sanzionata con la nota sentenza pilota “sentenza Torreggiani” per le condizioni detentive davvero degradanti e inumane all’interno delle nostre carceri. Fra l’altro, soluzioni come la costituzione di nuovi istituti penitenziari, non sarebbero realizzabili in tempi brevi, e ciò causerebbe altri suicidi e morti. Si corre il rischio che il lavoro svolto per migliorare il sistema carcerario finisca in un vero e proprio baratro! Ecco perché gli avvocati penalisti, insieme al Consiglio forense della Regione Campania, al Garante dei detenuti e all’Associazione Antigone, chiedono di andare avanti nelle battaglie per i diritti dei detenuti auspicando un intervento del Governo rapido e proficuo. Per il Garante Ciambriello: In una situazione di ripresa, crescente, rapida e non casuale di quel sovraffollamento che mortifica la dignità del mondo interno delle carceri, recentemente ho messo diversi confronti in campo con la Magistratura di Sorveglianza per l’implementazione di quelle misure alternative alla detenzione che, comunque, rappresenterebbero una strategia diversificata del contrasto della criminalità. Riflettori puntati anche sul rapporto città e sicurezza e sulle prassi di inclusione sociale, per evitare la recidiva. Riflettori puntati sulla legge “spazza-corrotti” approvata dal nuovo Governo che ha tradotto centinaia di persone in carcere, anche se incensurate, con più di 70 anni e con pene al si sotto di tre anni, Una legge che equipara i reati di pubblica amministrazione a quelli di mafia! Non più quindi uno Stato fantasma proteso solo verso la carcerizzazione e meno misure alternative, ma uno Stato che crei sempre più un sistema penale di politica trattamentale che miri a valorizzare non solo la funzione rieducativa della pena ma ad assicurare il reinserimento sociale del condannato. Roma: Rebibbia, uccise i due figli gettandoli dalle scale, “non doveva stare in carcere” di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 22 marzo 2019 Il carcere non è adatto per lei. Dovrà essere assistita in una Rems, una struttura sanitaria di accoglienza per autori di reati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Alice Sebesta, la detenuta tedesca che il 6 settembre ha ucciso a Rebibbia i figlioletti dil9 e 6 mesi gettandoli dalle scale, a giorni potrà lasciare il carcere. Assolta e scarcerata: la svolta giudiziaria è di ieri. Il giudice Emanuela Attura chiamata a decidere se condannare o meno la detenuta per traffico di sostanze stupefacenti - ossia l’accusa che due settimane prima del duplice omicidio dei figli, da incensurata l’aveva portata in carcere per la detenzione di dieci chili di marijuana - ha deciso di assolverla per l’incapacità di intendere. La perizia stilata dallo psichiatra Fabrizio Iecher nell’ambito del procedimento parallelo aperto dopo l’uccisione dei piccoli, Faith 6 mesi, e Divine 19, è stata, infatti, depositata dalla difesa anche nel processo per droga. Ed il giudice ne ha tenuto conto. Mentre l’accusa, che riteneva Sebesta lucida al momento dell’arresto, aveva chiesto 4 anni di carcere. Una assoluzione che fa riflettere. Se effettivamente Alice Sebesta già al momento dell’arresto poteva essere ritenuta incapace come mai è stata arrestata, portata in carcere assieme ai suoi bambini, e mai più liberata? Proprio qualche giorno prima (all’insaputa dell’imputata) un giudice ne aveva respinto la liberazione trattenendola così in carcere assieme ai piccoli. “Giustizia è stata fatta ha detto il difensore, l’avvocato Andrea Palmiero. È una ragazza che non può stare in un istituto carcerario e che ha bisogno di un lungo percorso di recupero”. Finora resta indagata per il caso con l’accusa di omissione di atti d’ufficio solo una psichiatra della Asl territoriale che, nonostante i solleciti del personale di Rebibbia, non si sarebbe recata a visitarla. La detenuta invece aveva necessità di essere curata essendo risultata poi “affetta da un disturbo schizo-affettivo bipolare e paranoico che si associa a un disturbo da uso di cannabis”. A breve la donna potrebbe ritrovarsi in aula per rispondere del duplice omicidio, a questo punto con una posizione alleggerita dall’assoluzione riconosciuta dalla totale infermità di mente. La donna aveva gettato i piccoli dalle scale del braccio femminile di Rebibbia per salvarli “dalla mafia e dalla pedofilia”. E ancora, pur rendendosi conto del gesto, si autogiustifica. Asti: Berutti (Fi) “necessario un piano strategico per le carceri” Gazzetta di Asti, 22 marzo 2019 Dopo la serie di episodi di violenza da parte dei detenuti a danno degli Agenti di Polizia penitenziaria avvenuti nel carcere di Asti, il senatore di Forza Italia Massimo Berutti ha chiesto al Governo di illustrare in aula al Senato le azioni implementate a sostegno del personale di Polizia penitenziaria in forza nella casa di reclusione e più in generale nel sistema carcerario. La risposta del Governo all’interrogazione del senatore Berutti ha evidenziato una presenza nel carcere di Asti di 216 detenuti, rispetto a una capienza regolamentare di 205 posti, con un indice di affollamento pari al 105,37 per cento, e un organico di 168 unità rispetto ad una previsione di 186, con una percentuale di scopertura complessiva pari al 9,7 per cento. Una carenza rispetto alla quale nel 2018 le unità di personale in forza al carcere di Asti sono state aumentate, ma non a sufficienza per raggiungere le 186 previste. “Quello che si coglie - dichiara il senatore Berutti - è il fatto che qualche piccolo sforzo è stato fatto. Le criticità in termini di esubero di detenuti e di carenza di personale però rimangono. Abbiamo sentito - prosegue Berutti - grandi proclami in merito alla costruzione di nuovi carceri, ma sostanzialmente non si è visto nulla e il sistema nazionale è in grande deficit. Una sola iniezione di Polizia penitenziaria, pur sempre lodevole e ben accetta, non può dunque sopperire a una carenza strutturale. La necessità è di implementare un piano strategico a livello nazionale anche sulle carceri, ma la visione e i programmi strategici sono proprio quello che manca a questo Governo”. Monza: le lettere dei detenuti al direttore mandate al macero di Marco Galvani Il Giorno, 22 marzo 2019 Denuncia di un sindacalista Cobas: errore in carcere. Senza bollo e intestazione sono distrutte. “Il sottoscritto chiede alla direttrice di questo istituto di detenzione di potere se possibile effettuare quattro telefonate mensili alla mia famiglia in Marocco. Non faccio colloqui e il telefono è l’unico mezzo per sentire i miei familiari. Ringrazio anticipatamente per la cortese attenzione”. Attenzione che non avrà mai. Perché la direttrice, la sua richiesta scritta non la riceverà mai. Finita al macero insieme ad altre decine di “comunicazioni interne” alle carceri lombarde che, per errore, arrivano al centro meccanizzazione postale di Peschiera Borromeo, insieme alla posta ordinaria. Sono buste bianche che i detenuti utilizzano per avanzare specifiche richieste o comunicazioni personali alla direzione del carcere in cui si trovano. E per questo non riportano indirizzi né tantomeno timbri o francobolli. Una corrispondenza che quotidianamente viene portata - come tutte le lettere che i reclusi vogliono spedire all’esterno dell’istituto e che quindi devono avere indirizzo del destinatario e francobollo - in un apposito ufficio del carcere che si occupa dello smistamento e del controllo della posta sia in entrata sia in uscita. Ma nel sacco consegnato al portalettere ci finiscono pure le buste interne. E vengono portate al centro di Peschiera, il più grande d’Italia dove viene smistato il 40 per cento della corrispondenza che circola nel nostro Paese con 2 miliardi di “pezzi” all’anno tra lettere, cartoline e pacchi. Novecento addetti (compresi quelli della succursale all’aeroporto di Linate) che hanno competenza sui prodotti postali delle province di Milano, Lodi, Monza e Brianza, Brescia, Cremona, Mantova, Pavia e Piacenza per un bacino di oltre sette milioni di residenti. Compresi i detenuti ospiti nelle carceri di quelle otto province. Ma “quando ci capita tra le mani una busta senza intestazione, finisce al macero - chiarisce Stefano Ancona, sindacalista dell’esecutivo nazionale del Cobas Poste -. Comprese quelle del carcere che erroneamente finiscono a Peschiera Borromeo. A volte sulla busta c’è la scritta “posta interna”, ma se è chiusa non possiamo certo aprirla per capire da quale istituto di pena arriva e rispedirla indietro. Quindi viene distrutta. Casi di questo tipo capitano quotidianamente, anche dieci in un solo giorno, la maggior parte dal carcere di Monza”. E intanto dietro le sbarre, i detenuti continuano ad aspettare, invano, la “cortese attenzione”. Volterra (Pi): i detenuti fanno l’orto dentro al carcere Redattore Sociale, 22 marzo 2019 Un orto curato da detenuti per coltivare ortaggi da consumare all’interno del carcere. È il progetto che si è concretizzato a Volterra grazie anche a un finanziamento della Regione Toscana. Un orto curato da detenuti per coltivare ortaggi da consumare all’interno del carcere. È il progetto che si è concretizzato a Volterra. Il progetto è stato sviluppato dentro i confini della Casa di Reclusione grazie a un intervento di 40.000 euro (28.000 di finanziamento regionale) che ha coinvolto il Comune e la direzione del carcere. Alcuni detenuti hanno usufruito di un regime più attenuato, potendo uscire quotidianamente per recarsi negli spazi aperti extra-murari dell’Istituto al fine di curare le aree adibite ad orto e coltivare zucchine, pomodori, fagiolini, insalata. Il progetto ha offerto la possibilità ai detenuti interessati di praticare volontariamente un’attività che li rende ‘temporaneamente liberi’, liberi di pensare e curare la natura, produrre ortaggi che poi consumeranno assieme ai propri compagni nelle loro camere. Si tratta di un’esperienza speciale resa possibile anche dalla presenza di una realtà carceraria modello come quella di Volterra. E proprio nell’orto del carcere di Volterra, giovedì mattina è stata la Guida per un’orticoltura pratica realizzata dall’Accademia dei Georgofili, che si pone come vero e proprio strumento di lavoro per tutte le Amministrazioni comunali che intendono realizzare nuovi “Complessi di orti”, per le Associazioni, di tutti i tipi, che sono chiamate a gestirli in un ottica di condivisione, di salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, di apertura alle famiglie ed ai cittadini e, ovviamente, per tutti gli orticoltori che si mettono in gioco per utilizzare nel modo migliore il terreno a loro assegnato. Una parte della guida è dedicata a tutte le questioni pratiche: l’organizzazione della superficie, i tempi della semina, la modalità di lavorazione, le caratteristiche dei principali ortaggi. “Questo orto nel carcere di Volterra - ha commentato l’assessore regionale all’agricoltura Marco Remaschi intervenendo all’iniziativa - racchiude pienamente lo spirito dei “Centomila orti in Toscana”: questo spazio permette il recupero e l’utilizzo virtuoso di una porzione del centro storico, offre l’occasione di sperimentare l’amore per la terra, e, in questa fattispecie, permette ai detenuti di cimentarsi in attività ricreative e manuali e ne favorisce l’integrazione con la comunità. In questo orto già molto ben lavorato e che fa presagire ottimi frutti nei mesi a venire, presentiamo un prodotto rivolto a tutti quegli orticoltori che vogliono mettere a buon frutto il loro terreno: una guida che abbiamo affidato alle competentissime mani dell’Accademia dei Georgofili e che sarà utile a tutti coloro che vorranno migliorare la resa del loro orto e farlo nello spirito della rete realizzata grazie al nostro progetto”. Parma: bando per tutorato in favore di studenti detenuti informagiovani.parma.it, 22 marzo 2019 L’Università di Parma propone ai propri studenti di laurea magistrale e ai dottorandi di ricerca l’attività di tutor in favore di studenti detenuti presso l’Istituto Penitenziario di Parma e iscritti al nostro Ateneo. L’attività è finalizzata al miglioramento della didattica degli studenti detenuti attraverso una comunicazione costante e la facilitazione delle interazioni con i docenti titolari dei corsi. Il tutorato didattico prevede un massimo di massimo di 80 ore di attività per ogni tutor e un compenso orario di € 20,00. Fermo restando l’interesse per tutte le discipline insegnate nell’Ateneo, si sottolinea che gli ambiti di maggiore interesse per gli studenti detenuti sono: umanistico, psico-socio-politologico ed economico. Possono presentare domanda per partecipare alla selezione: gli studenti iscritti nell’A.A. 2018/2019 ai corsi di laurea magistrale dell’Ateneo di Parma la cui ultima laurea conseguita abbia votazione pari o superiore a 100/110 e gli iscritti nell’A.A. 2018/2019 agli ultimi due anni di corso di laurea magistrale a ciclo unico dell’Ateneo di Parma; i dottorandi di ricerca iscritti nell’A.A. 2018/2019 provenienti da tutte le aree di studio dell’Ateneo. ù La domanda dovrà essere inviata dal proprio indirizzo e-mail istituzionale a protocollo@unipr.it oppure tramite posta elettronica certificata personale (allegando fotocopia della carta d’identità) a protocollo@pec.unipr.it, entro le ore 13 del giorno 1 aprile 2019. Cesenatico (Fc): convegno sul tema “le detenute nel sistema carcerario” romagnauno.it, 22 marzo 2019 Giovedì 28 marzo al Museo della Marineria, organizzato dall’Università per gli Adulti, incontro con Gloria Manzelli. Giovedì 28 marzo, alle ore 16,00, presso il Museo della Marineria, ultimo appuntamento del ciclo “Il Mondo Donna: Amore, Diritti, Violenza”, organizzato dall’Università per gli Adulti. La dottoressa Gloria Manzelli, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria - Responsabile delle Regioni Emilia Romagna e Marche, parlerà di “Le Donne detenute nel sistema carcerario femminile”. “Saranno affrontati - dice la Dirigente Generale Gloria Manzelli - i grandi temi della detenzione al femminile: tipologia della popolazione detenuta femminile, relazioni affettive con familiari e figli, percorsi di recupero”. Secondo i più recenti dati su un totale di circa 58.000 detenuti presenti nelle carceri italiane, le donne sono circa 2.400. Negli anni il numero delle detenute ha seguito sostanzialmente di pari passo quello dei detenuti, per tornare ad aumentare invece negli ultimi anni. I reati per cui le donne finiscono maggiormente in carcere sono quelli contro il patrimonio, contro la persona e in materia di stupefacenti, seguiti da quelli contro l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica e la pubblica amministrazione. Per associazione di stampo mafioso la percentuale femminile è di circa il 2% del totale. Per reati di prostituzione la quasi totalità è rappresentata da straniere provenienti da Romania e Nigeria, seguite a grande distanza da Bosnia, Marocco, Brasile e Bulgaria. Trieste: incontro letterario alla Casa circondariale con Leandro Lucchetti di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2019 Il 23 marzo 2019 ad ore 10.00 Leandro Lucchetti presenterà il suo libro “Il canto dell’Orinoco” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. Si tratta di un graditissimo ritorno dell’Autore che già nel 2018 fece ingresso per presentare un altro suo romanzo: “Bora scura” molto apprezzato. Il nuovo libro si avventura sul corso dell’Orinoco il maestoso fiume amazzonico considerato per secoli da conquistadores, avventurieri e pirati la via d’accesso per l’Eldorado. Ma il fiume s’inoltra anche nell’inaccessibile territorio degli Indios Yanomami, che rifiutano ogni contatto con l’uomo bianco. Questo territorio nonostante sia protetto dal governo venezuelano e nel quale è permesso l’ingresso solo a spedizioni scientifiche dotate di speciale autorizzazione è spesso “invaso” dai garimpeiros - cercatori d’oro provenienti illegalmente dal Brasile - che nel loro agire illegale e irrispettoso devastano il territorio e contaminano i nativi privi di difese immunitarie. Per attestare questo aspetto una troupe di documentaristi italiani s’avventura in questo territorio venendo a scoprire un altro “giallo”: gli Yanomami, trent’anni prima, avevano rapito una suora italiana che riporta ad un episodio del passato riconducibile alla città di Trieste e alla sua particolare situazione negli anni della guerra e del primo dopoguerra. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Palermo: il carro di Santa Rosalia all’interno dell’Ucciardone, verrà allestito dai detenuti dire.it, 22 marzo 2019 Barbera: “Straordinario questo contatto della città con il carcere che così diventa una risorsa per la città”. Collocato all’interno dell’area parcheggio del carcere Ucciardone ‘Calogero di Bona’ di Palermo il carro trionfale di Santa Rosalia che verrà allestito dai detenuti in vista del 395esimo Festino. I detenuti lavoreranno sulle direttive dello scenografo Fabrizio Lupo. Il carro trasportato ieri sera misura 10 metri per 5 e pesa cinque quintali. Per lo spostamento sono state impegnate più di 40 persone tra forze dell’ordine, protezione civile e comparto dell’organizzazione: otto i mezzi coinvolti, tra cui due pesanti, una gru e mezzi di staffetta. Giunto intorno alle 23.30 davanti all’area dell’Ucciardone, debitamente illuminata per l’occasione, il carro è stato sollevato da una gru e posizionato all’interno del carcere. I componenti del carro verranno costruiti dai detenuti all’interno della casa di reclusione e assemblati nel cantiere allestito nel parcheggio esterno, che sarà visibile ai passanti per i prossimi quattro mesi. Al termine dei lavori il carro sarà nuovamente spostato, questa volta nell’area parcheggio di piazza del Parlamento, per la rifinitura, gli assemblaggi definitivi e gli impianti audio e luci in vista del 14 luglio. All’appuntamento di ieri sera erano presenti, tra gli altri, il sindaco, Leoluca Orlando, Rita Barbera, direttrice del carcere, Adham Darawsha, assessore alle Culture del Comune di Palermo, Francesco Bertolino, presidente della quinta commissione consiliare Cultura del Comune di Palermo, Lollo Franco, direttore artistico del Festino, e Vincenzo Montanelli, direttore organizzativo. “Ancora una volta la conferma che la Santuzza è di tutta Palermo e di tutti i palermitani - ha affermato Orlando. Dentro e fuori l’Ucciardone, dentro e fuori la Zisa. Quest’anno per la prima volta saranno i palermitani dell’Ucciardone, e non quelli dei Cantieri, ad allestire il carro di Santa Rosalia”. Secondo Barbera “è straordinario questo contatto della città con il carcere che così diventa una risorsa per la città, perché il carro sarà fatto dai detenuti con un importante coinvolgimento religioso e spirituale”. Dossier di Legambiente: la “nuova terra dei fuochi” è il Triveneto di Nicolò Boschetti Il Manifesto, 22 marzo 2019 Le mafie portano al nord tonnellate di rifiuti tossici stoccati in capannoni o nascosti sotto le strade. Ma l’assessore del Veneto all’Ambiente nega l’emergenza: dati del tutto fuorvianti. In quello stesso Triveneto dove ancora si sente dire “qui la mafia non esiste” molte teste si sono alzate per mostrare a tutti che le narrazioni fiabesche sulla legalità e sulla sicurezza di regioni come Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino sono, per l’appunto, narrazioni fiabesche. Alle frasi rassicuranti di un Nordest libero dalla mafia, spesso colpevolmente riprese dagli amministratori locali, si oppongono le parole di poche settimane fa del Procuratore della Repubblica di Vicenza Antonino Cappelleri che, commentando il ritrovamento di novecento tonnellate di rifiuti tossici provenienti dalla Campania in un capannone abbandonato ad Asigliano Veneto, ha detto: “Ho il timore che questa provincia stia diventando il magazzino delle mafie”. Le diverse mafie presenti nel Triveneto operano nell’ombra senza quella violenza che, anche solo nell’immaginario comune, le contraddistingue. In questi territori le mafie si sono lentamente imposte come operatrici di mercato, prosperando in quella sempre più larga linea d’ombra tra legalità ed illegalità. Regioni dove il fenomeno mafioso è drammaticamente poco percepito e che costituiscono il motore economico dell’Italia rendono particolarmente ampio il ventaglio di opportunità per le diverse cosche. Il recente dossier di Libera, dal titolo “Passaggio a Nordest”, ci parla di migliaia di operazioni antidroga e centinaia di beni confiscati solo nell’ultimo anno, ma sono proprio le attività più incuneate nell’economia legale che preoccupano. Numerose operazioni della Direzione distrettuale antimafia veneta, le ultime poche settimane fa, hanno dimostrato come l’attività mafiosa ormai stia conquistando la gestione di appalti pubblici, soprattutto quelli riguardanti lo smaltimento dei rifiuti, e stia intrecciando rapporti sempre più fitti con il tessuto imprenditoriale del Nordest. Se da una parte i giornali locali si riempiono sempre più dei racconti delle denunce degli imprenditori o di gravissimi reati ambientali, dall’altra si assiste ad una sostanziale passività delle amministrazioni locali. Solo un mese fa, l’assessore all’ambiente della Regione Veneto Gianpaolo Bottaccin, rispondendo a chi ormai chiama il Veneto “la seconda terra dei fuochi”, ha detto: “Le dichiarazioni con cui si vorrebbe far apparire il Veneto come una delle realtà tra le più critiche in Italia sono del tutto fuorvianti”. Eppure il Rapporto sulle Ecomafie di Legambiente 2018 parla di migliaia di tonnellate di rifiuti, spesso tossici, stoccati illegalmente in capannoni più o meno abbandonati, dati alle fiamme o nascosti sotto le strade. Si parla di materiali tossici sotto l’asfalto della Valdastico Sud, rifiuti pericolosi interrati nel parcheggio P5 dell’aeroporto di Venezia e di migliaia di tonnellate di sostanze velenose disperse nelle campagne del Polesine. Il fatturato delle ecomafie a livello nazionale è stimato essere di oltre 14 miliardi di euro e non deve sorprendere che proprio dove gli occhi dell’opinione pubblica sono più chiusi vengano scaricati di nascosto innumerevoli camion di spazzatura. I numeri di Libera e Legambiente, però, ci parlano di un Nordest che, forse troppo, silenziosamente reagisce. Il numero di azioni investigative e di denunce tanto spaventa quanto conforta, dimostrando che lo Stato e i cittadini stanno lentamente prendendo coscienza di un male che riguarda tutti. La mafia, come una gangrena, si è estesa in tutto il paese e da qui verso l’estero. Per questo nessun cittadino, elettore o eletto, può concedersi il lusso di sentirsi al sicuro da una criminalità parassita di vite, attività e ambiente. La criminalità organizzata prospera sull’omertà, sul silenzio e sulla paura. È dunque a partire da manifestazioni come quella di ieri che deve costruirsi una consapevolezza che le ricerche demografiche ci presentano ancora troppo ristretta in queste zone. La narrazione della mafia come di un fenomeno esclusivamente meridionale o di un fenomeno necessariamente palpabile nel quotidiano è superata ed è solo spingendo le persone ad osservare il proprio territorio e a denunciare che la lotta potrà crescere e vincere. Apprendisti stregoni del razzismo di Norma Rangeri Il Manifesto, 22 marzo 2019 Si respira un brutto clima, e adesso, dopo il folle, criminale gesto del cittadino italiano di origine senegalese, sarà più difficile placare l’onda nera del razzismo alimentata dalla Lega. “Senegalese emulo di Erode”, “Terrorismo buonista”, “Una vendetta per i migranti” è l’armamentario dei giornali della destra il giorno dopo la sventata strage di bambini, è il linguaggio pronto all’uso per incendiare le micce dell’odio razziale. In Italia abbiamo autobus che bruciano pieni di ragazzini, e autobus dove quotidianamente i passeggeri di pelle scura sono a rischio, come ovunque nel Belpaese. Naturalmente a dare man forte a Salvini c’è la straordinaria ammirazione di cui gode il ministro degli interni, uno che non si fa processare rivendicando il reato, l’apprendista stregone che spopola in televisione, dove se lo contendono come una star, una gallina dalle uova d’oro che sanno di marcio. Vuole togliere la cittadinanza all’attentatore Ousseynou Sy, dovrà invece darla al ragazzino egiziano, Ramy Shehata, il tredicenne che ha nascosto il cellulare e ha chiamato i soccorsi, un adolescente, senza la cittadinanza, nato in Italia da genitori che vivono nel nostro paese dal 2001. Immediatamente la coppia Di Maio-Salvini gliela regala nella grande fiera dell’ipocrisia. Proprio per svelare la grande finzione, la nave italiana Mare Jonio, con il salvataggio dei naufraghi, mostra a tutti come stanno le cose: ai migranti non si lascia scelta, o affogare o finire nei lager libici. Persino nel Pd, adesso, si svegliano le anime belle che impugnano la bandiera dei diritti umani, scomunicando la politica verso la Libia dell’ex ministro Minniti. Per contrastare l’onda nera in campo c’è un’opinione pubblica forte che risponde con le manifestazioni antirazziste di Milano, con i 50mila che ieri hanno sfilato a Padova con don Ciotti contro le mafie e contro la caccia all’immigrato. Battere la carta del razzismo, in Italia e in Europa, non è facile perché è la peggiore del mazzo fascistoide. Quel che può succedere è sotto gli occhi di tutti, compreso il cerino pronto a dar fuoco alla benzina. Bus dirottato. Di Maio: “Lo ius soli non è in agenda di governo” La Repubblica, 22 marzo 2019 “È giusto però dare la dare la cittadinanza al bambino di origine egiziana che ha chiamato i soccorsi”. È d’accordo sul dare la cittadinanza italiana a Rami, il ragazzo egiziano nato a Milano che ha salvato i compagni del bus dirottato a San Donato milanese. Ma lo ius soli, la legge sulla cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia rimasta al palo nella scorsa legislatura, “non è nel contratto né nell’agenda di governo”. A ribadirlo è il vicepremier Luigi Di Maio, ospite di Agorà su RaiTre che aggiunge: “Questi temi vanno affrontati a livello di cittadinanza europea”. Per Di Maio il modello italiano di sicurezza è da migliorare, coordinando di più le forze di polizia. “C’è un progetto di sicurezza nazionale che presto sarà presentato - aggiunge il capo politico del M5S - occorre iniziare a muoverci sulla prevenzione, non solo sulla repressione. L’Italia deve iniziare a dotarsi di una National Security Strategy sul modello Usa. Ci sta lavorando il ministro Trenta, dietro la guida di Palazzo Chigi”. L’obiettivo è “mettere in rete i ministeri degli Interni, della Difesa e dei Trasporti con i nostri servizi della sicurezza”. E, precisa, che “non si tratta di un affronto a Salvini”. Quanto al tema migranti, secondo il ministro dello Sviluppo economico l’Italia è diventata “il palcoscenico dell’immigrazione”. Il riferimento è quanto è accaduto con la ultima ong della nave Mare Jonio: “Un potere dello Stato, la magistratura, ha riconosciuto che c’erano le condizioni per sequestrare l’imbarcazione”, aggiunge. Sull’arresto del presidente del consiglio comunale di Roma Marcello De Vito, Di Maio taglia corto: “Non vedo il caso Roma, vedo il caso De Vito. La Giunta deve andare avanti per portare a casa una missione difficilissima, mettere a posto la città di Roma”. E rivendica: “Il Movimento può continuare a camminare a a testa alta. Noi 30 secondi dopo mettiamo fuori le persone. Le altre forze politiche in parlamento non fanno così. In 10 anni è l’unico caso di corruzione ed è uno shock. Appena abbiamo appreso che è stato arrestato l’ho cancellato per sempre dal M5S”. Alla domanda se il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti sia meglio di Matteo Renzi, Di Maio poi risponde: “Per me tutti sono meglio di Renzi, ma questo non vuol dire che superino la sufficienza. Mi aspetto che dal Pd con Zingaretti ci sia un cambio di rotta sul reddito di cittadinanza e sul salario minimo orario”. Infine, sul tema della maggioranza in bilico al Senato - come si è potuto verificare ieri in occasione del voto di sfiducia al ministro Toninelli - il vicepremier rassicura: “Non c’è nessuna preoccupazione”. I numeri di Salvini sui migranti morti in mare di Alberto Abburrà La Stampa, 22 marzo 2019 Il fact checking della settimana: “Le vittime sono calate”, ecco perché l’affermazione è falsa. “Meno partenze, meno sbarchi, meno morti”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini lo ripete come un mantra, insieme all’avvertimento che “i porti sono e resteranno chiusi” ai migranti. Il risultato - a suo dire - è quello di aver azzerato le stragi in mare, passando dalle centinaia di vittime degli anni scorsi (1279 nel 2018, fonte Unhcr) a una soltanto in questa prima parte del 2019. Ma la realtà è davvero questa? I calcoli forniti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati raccontano un’altra storia e cioè che nel Mediterraneo dal primo gennaio hanno perso la vita o sono disperse 283 persone, di cui 149 seguendo la rotta che porta in Italia. Stime confermate dall’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Italia) che parla di 153 morti durante i viaggi verso il nostro Paese. Salvini citando le “vittime recuperate in mare” ignora i dispersi e offre così stime distorte del fenomeno. Il ministro ha ragione invece quando sostiene che gli sbarchi si sono ridotti “del 95% rispetto allo stesso periodo del 2018”, ma per completezza bisogna osservare che il trend era iniziato sotto la gestione del suo predecessore Marco Minniti quando si passò da una media di 532 migranti sbarcati al giorno nel periodo luglio 2016-luglio 2017 ai 117 di luglio 2017-maggio 2018 (elaborazione Ispi di dati Unhcr). Da quando governano Lega e M5S la media è scesa ancora, arrivando a 35 sbarchi-giorno. Ma nonostante il calo di partenze e arrivi, attraversare il Mediterraneo è sempre più pericoloso. Leggendo i database dell’Ispi, da settembre a oggi l’8% di chi è partito è morto. Secondo l’Oim nel 2017 era il 2,6%, nel 2018 il 3,5% e nel 2019 siamo arrivati addirittura al 10%. Dunque si parte meno, ma si muore di più. Incendio nella nuova tendopoli di San Ferdinando, muore un migrante La Stampa, 22 marzo 2019 La struttura si trova a poche centinaia di metri dalla vecchia baraccopoli - smantellata nelle scorse settimane - nella quale, in un anno, 3 persone sono morte a causa di roghi. Un migrante di cui non sono ancora note le generalità è morto la notte scorsa in un incendio divampato nella nuova tendopoli di San Ferdinando gestita prima dal Comune ed ora dalla Caritas. La tendopoli si trova a poche centinaia di metri dalla vecchia baraccopoli - smantellata nelle scorse settimane - nella quale, in un anno, 3 migranti sono morti a causa di incendi divampati nelle strutture fatiscenti di cui era fatta. L’incendio, secondo una prima ricostruzione, si è sviluppato in un angolo della tenda da sei posti, dove erano posizionati alcuni cavi elettrici. Sul posto sono subito intervenuti i vigili del fuoco che hanno domato le fiamme. Nell’incendio è andata distrutta solo una tenda. La tendopoli, realizzata alcuni anni fa dalla Protezione civile, è attrezzata, con presenza di servizi igienici e presidi sanitari, ed è vigilata. All’inizio di marzo, la struttura è stata ampliata per consentire il trasferimento di una parte dei migranti che viveva nella baraccopoli - una struttura fatiscente fatta di baracche in lamiera, plastica e cartone - sorta a poche centinaia di metri e che è arrivata ad ospitare, nel periodo invernale della raccolta degli agrumi, anche 3.000 persone. Baraccopoli che è stata definitivamente abbattuta il 7 marzo scorso. “Speravamo di non dover più raccontare episodi come questi ma purtroppo è accaduto ancora”, dice il sindaco di San Ferdinando. “Le cause del rogo, che ha interessato una tenda, non sono ancora chiare - spiega il sindaco - e sono al lavoro i vigili del fuoco e la polizia Scientifica. Ora siamo in attesa di capire come sono andati i fatti. Certo è che è accaduto quello che non doveva accadere”. Sri Lanka. Un appello al governo per il caso di Antonio Consalvo, da 10 mesi in carcere antigone.it, 22 marzo 2019 Da circa 10 mesi Antonio Consalvo, 33enne di Pordenone, si trova nel carcere di Colombo, la capitale dello Sri Lanka. Nel maggio scorso, mentre faceva scalo all’aeroporto di Colombo, di ritorno in Italia dopo un soggiorno in Tailandia, è stato arrestato perché in possesso di una dose di marijuana. Da allora, stando a quanto riferito dalla madre e da vari quotidiani, non è stato sottoposto ad alcun processo ed è detenuto in condizioni disumane, in una cella condivisa con circa 80 detenuti che fanno i turni per dormire. È tramite il suo avvocato, Ahmed Munasudeen, che la madre riceve informazioni. A febbraio 2019, le autorità consolari lo avevano visitato due volte. Pare che durante la detenzione abbia contratto una bronchite e un’altra non precisata infezione. Dopo un appello rivolto a febbraio alle istituzioni affinché si mobilitassero per ristabilire i diritti del figlio, la madre, Lucia Catania, il 5 marzo si è recata nel carcere di Colombo, dove ha potuto incontrare il figlio, il quale le ha chiesto un cuscino e un sapone antibatterico. Aveva irritazioni cutanee sparse e lamentava il mancato avvio del processo. A fronte della evidente fragilità delle garanzie processuali, della frequenza con cui hanno luogo casi di tortura e detenzioni arbitrarie nello Sri Lanka, oltreché della disumanità delle condizioni detentive denunciate da autorevoli organizzazioni internazionali impegnate nella promozione dei diritti umani, auspichiamo che il Governo presti al caso tutta l’attenzione che esso richiede. Noi continueremo a seguirlo, qualora serva anche giudiziariamente, affinché si arrivi a una rapida scarcerazione e un altrettanto rapido rientro in Italia. Turchia. Erdogan e i missili russi, una nuova crisi con gli Usa è possibile di Franco Venturini Corriere della Sera, 22 marzo 2019 La Turchia, membro della Nato, ha acquistato nel 2017 da Mosca gli avanzatissimi S-400. Ora la consegna è imminente, e Trump ha intimato ad Ankara di cancellare l’ordine e acquistare invece i Patriot americani. Più che mai Sultano ora che dispone di superpoteri costituzionali, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non ha per questo trovato la pace politica. Per la prima volta nell’ultimo decennio la Turchia è virtualmente in recessione essendo cresciuta del 2,6 nel 2018 in paragone al 7,4 del 2017. Brutta notizia, che diventa orribile se si pensa che a fine mese si terranno elezioni locali decisive per il controllo delle grandi città. Gli esperti sostengono che Erdogan non ha sbagliato politica economica, si tratta piuttosto delle ripercussioni della crisi nei rapporti tra Turchia e Usa verificatasi l’estate scorsa. Diagnosi che vorrebbe essere amichevole e invece è catastrofica, perché una nuova crisi turco-americana è alle porte e promette di essere assai più grave di quella precedente. La Turchia, membro della Nato, ha acquistato nel 2017 missili antiaerei di fabbricazione russa, gli avanzatissimi S-400. Ora la consegna è imminente, e Trump ha intimato ad Ankara di cancellare l’ordine e acquistare invece i Patriot americani. Erdogan rifiuta. E Trump, come prima mossa, ha eliminato il regime preferenziale riservato fino a ieri agli esportatori turchi. Se non basterà arriveranno vere e proprie sanzioni economiche e non saranno consegnati i controversi aerei F-35. Brutta aria, alla vigilia di elezioni. E poi c’è la Siria. Cioè la regione di Idlib dove sono ammassati jihadisti e civili fuggiti da altri fronti. Assad minaccia di fare una strage. Erdogan e Putin lo hanno fermato mettendosi d’accordo per “ripulire” Idlib e creare una zona smilitarizzata, compito affidato ai turchi. Ma ora Mosca e Damasco accusano Erdogan di aver fatto troppo poco, torna la minaccia di un attacco delle forze di Assad e torna lo spauracchio di un esodo di civili che potrebbe riguardare un milione di persone. Dirette in Europa, se la Turchia non li fermerà in base all’accordo concluso con la Ue. E anche questo è un problema, alla vigilia del voto. Se non fosse per le sue ripetute violazioni dei diritti civili, verrebbe quasi da solidarizzare con questo Sultano pieno di debolezze. Medio Oriente. Gaza, la repressione contro manifestanti e difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 marzo 2019 Nelle ultime settimane la Striscia di Gaza è interessata da massicce proteste contro l’aumento del costo della vita e la sempre peggiore situazione economica. Il bersaglio è diretto e chiaro: l’amministrazione di Hamas. Hamas ha reagito col pugno di ferro, come non si vedeva da anni: numerosi manifestanti, attivisti, difensori dei diritti umani e giornalisti sono stati fermati, interrogati, pesantemente maltrattati e torturati. Il giro di vite è iniziato il 10 marzo, con l’arresto di 13 persone riunite nell’abitazione dell’attivista Jihad Salem al-Arabeed, a Jabalya. Il gruppo stava discutendo i dettagli della protesta programmata per il 14, primo atto della campagna “La rivolta degli affamati” lanciata sui social media alcuni giorni prima. Dopo due giorni di interrogatori e torture, i 13 sono stati rilasciati con il “suggerimento” di desistere dai loro piani. Il 14 le forze di sicurezza sono passate all’azione, attaccando centinaia di manifestanti pacifici nei campi di Jabalya, Deir al-Balah, al-Boreij e Rafah con manganelli, granate, sostanze urticanti e proiettili veri. Il giorno dopo hanno fatto irruzione nella casa del giornalista Osamah al-Kahlout, nel campo di Deir al-Balah. Con lui si trovavano Jamil Sarhan e Baker al-Turkmani, rispettivamente direttore ed esperto legale della Commissione indipendente per i diritti umani, che in quei giorni stava seguendo le proteste. Entrambi sono stati picchiati così duramente da finire in ospedale. Il 16 è stata la volta di un gruppo di difensori dei diritti umani di al-Shujayya: Samir al-Mana’ama, avvocato del Centro per i diritti umani “al Mezan”; Khaled Abu Isbetan, ricercatore di “al Mezan”; Sabreen al-Tartour, ricercatrice del Centro palestinese per i diritti umani; e Fadi Abu Ghunaima, ricercatore dell’Associazione per i diritti umani di Haza “al Dameer”. È stata fermata anche, il 18 marzo, una ricercatrice che collabora con Amnesty International, Hind Khoudary (nella foto). Funzionari del ministero dell’Interno l’hanno interrogata per tre ore, tra un insulto sessista e un altro, ammonendola a non svolgere ulteriori ricerche sui diritti umani altrimenti sarebbe stata accusata di essere una spia e un agente straniero. Il messaggio che le autorità di Gaza stanno dando a giornalisti e difensori dei diritti umani è che l’operato delle forze di sicurezza di Hamas non può essere osservato, testimoniato e denunciato. Cina. Esperti Onu: 1 milione musulmani in campi di “rieducazione” askanews.it, 22 marzo 2019 Per Pechino sono dei “campus” di formazione. La Cina ha confinato in campi di “rieducazione” e “formazione” nella regione dello Xinjiang circa un milione di musulmani, secondo gli esperti delle Nazioni Unite. Nello Xinjiang vive la principale minoranza di religione islamica, quella degli uiguri. Secondo un ex detenuto, adesso in esilio, che ha parlato con Afp, l’indottrinamento inizia la mattina presto con sessioni di autocritica e canzoni patriottiche, nel corso della giornata gli “studenti” possono parlare soltanto cinese e la giornata si conclude con pasti a base di maiale, carne proibita dalla religione musulmana, in particolare il venerdì, giorno sacro per l’Islam. Il viceministro degli Esteri cinese, Le Yucheng, ha definito le aree come dei “campus”, ma per Omir Bekali, di etnia kazaka, che ha passato alcune settimane a Karamay prima di essere liberato e essere andato in Turchia, i campi hanno l’unico obiettivo di privare i detenuti della loro religione. Brasile. Dopo Lula anche Temer arrestato per corruzione di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 22 marzo 2019 L’ex presidente di centrodestra fermato perché sospettato di essere a “capo di una organizzazione criminale che opera da 40 anni”. Cade nella polvere un altro ex presidente brasiliano, il secondo in un anno, sotto i colpi della giustizia anticorruzione. Michel Temer, 78 anni è stato arrestato a San Paolo, mentre era in automobile non lontano da casa. Su di lui pendono accuse molto pesanti. Le indagini riguardano le commesse di ampliamento di una centrale nucleare, ma un documento della procura federale parla di Temer come “capo di una organizzazione criminale che opera da 40 anni”, una sorta di sistema di mazzette a vita, che finanziano le campagne elettorali e lo stile di vita di un gruppo di potenti del Pmdb, uno dei grandi partiti del Brasile, al quale l’ex presidente è iscritto. L’arresto di Temer non è del tutto inatteso, perché varie indagini erano di pubblico dominio e la misura era considerata probabile da tempo. Ma fino allo scorso 31 dicembre il politico era protetto dalla carica e il Congresso, lo scorso anno, aveva respinto varie richieste di autorizzazione a procedere per le indagini. Temer ha passato la prima notte da detenuto in una sede della polizia militare a Niteroi, città prossima a Rio, e nelle prossime ore si saprà - anche in considerazione dell’età avanzata - se la richiesta di carcere preventivo verrà confermata, e come questo avverrà. Nel caso dell’altra prigione eccellente, quella di Lula, la polizia allestì lo scorso anno a Curitiba una cella speciale lontana da un carcere. Ma in quel caso si tratta di una pena definitiva da scontare dopo un giudizio di secondo grado, sempre per corruzione. Stavolta è un fermo reso necessario, sostengono i giudici, dal fatto che l’organizzazione “è in piena operazione e coinvolta in atti concreti di evidente gravità”. Secondo i calcoli dei magistrati, nel sistema Temer sono stati promesse o pagate mazzette per 1,8 miliardi di reais, l’equivalente di 400 milioni di euro. La principale accusa contro Temer riguarda un contratto milionario assegnato alla società Eletronuclear per l’ampliamento dell’unica centrale nucleare brasiliana, che si trova sul litorale atlantico tra San Paolo e Rio de Janeiro. Una delle aziende subappaltatrici sarebbe di proprietà occulta di Temer, attraverso un militare amico come prestanome. Ma ci sono altre quattro indagini che riguardano l’ex presidente, che vanno da tangenti sulla costruzione di un Tribunale a San Paolo, a un contratto fittizio nel porto di Santos e c’è persino l’accusa di riciclaggio per la ristrutturazione con denaro sporco della casa della figlia Maristela. L’operazione Lava Jato, la Mani pulite brasiliana, va avanti da ormai quattro anni e non accenna a fermarsi. Partita dalla procura di Curitiba, ha avuto a lungo come protagonista assoluto il giudice Sergio Moro, che oggi è ministro della Giustizia nel governo Bolsonaro. Questo filone fa capo invece ai magistrati di Rio e ha devastato completamente la politica locale. Nella stessa operazione è stato arrestato l’ex governatore dello Stato, Moreira Franco: si tratta del quinto ad essere caduto nelle maglie della giustizia. Il penultimo, Sergio Cabral, è in carcere con pene accumulate per centinaia di anni; l’ultimo, Luiz Fernando Pezão, è in attesa di giudizio. A causa soprattutto dell’arresto di Lula, la sinistra brasiliana ha spesso accusato i giudici di muoversi con finalità politiche e di aver agito per agevolare il recente successo elettorale di Bolsonaro. Ma la svolta di ieri fa cadere un altro argomento del complotto contro il Pt, il partito di Lula. Fu Temer infatti ad aver usufruito del polemico impeachment che nel 2016 porto alla estromissione dalla guida del Paese di Dilma Rousseff, della quale era vicepresidente. E in galera ci sono molti più big del partito considerato “golpista” che dello stesso Partito dei lavoratori che è rimasto al potere per tutti gli anni finiti sotto la lente dei giudici.