Lavoro. I detenuti non hanno diritto alla Naspi di Daniele Cirioli Avvenire, 21 marzo 2019 Possono fruirne solo se lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. I detenuti occupati per il carcere non hanno diritto alla Naspi (l’indennità di disoccupazione). Se lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria, invece, possono fruirne. È quanto precisato dall’Inps (nota messaggio n. 909/2019) sulla base di chiarimenti forniti dal ministero del Lavoro e dal ministero della Giustizia, nonché dei più recenti indirizzi giurisprudenziali in materia. I chiarimenti hanno preso origine dal decreto legislativo n. 124/2018, che reca norme sull’ordinamento penitenziario. Il provvedimento, spiega l’Inps, prevede tra l’altro che negli istituti penitenziari sia favorita in ogni modo la destinazione di detenuti e internati al lavoro, nonché la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Dispone, inoltre, che la durata delle prestazioni lavorative non può superare gli ordinari limiti di lavoro e che sono garantiti il riposo festivo, quello annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale. La corte di cassazione, inoltre, pronunciandosi sui diritti ai detenuti che svolgono lavoro alle dipendenze dell’istituto penitenziario, ha affermato che tale lavoro “non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. L’attività, infatti, ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione” (Cassazione, sez. penale, sentenza n. 18505/2006). Sulla base di queste indicazioni, l’Inps è arrivato alla conclusione che ai detenuti, che svolgano lavoro retribuito all’interno e alle dipendenze della struttura penitenziaria, non può essere riconosciuta la Naspi in occasione di periodi d’inattività; mentre, spetta ai detenuti in caso di rapporto di lavoro svolto con datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. In merito, l’Inps ha ricordato che, secondo quanto disposto dalla legge n. 56/1987, i detenuti che già godevano del diritto all’indennità di disoccupazione prima che iniziasse lo stato di detenzione continuano ad averne diritto anche durante il periodo di detenzione, salvi i casi di revoca giudiziale della prestazione. Sul piano contributivo, infine, l’Inps ha precisato che gli istituti penitenziari sono comunque tenuti al versamento della contribuzione contro la disoccupazione a favore dei detenuti che svolgono attività alle loro dipendenze. E che questa contribuzione tornerà utile nelle ipotesi di cessazione involontaria da un rapporto di lavoro con datori di lavoro diversi dall’istituto penitenziario, ai fini della Naspi (ovviamente qualora rientrante nel periodo di quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione). Sanità. La presa in carico dell’utente detenuto di Luca Amedeo Meani sanitapenitenziaria.org, 21 marzo 2019 Nella moderna evoluzione del sistema sanitario, all’interno della definizione di comunità confinate si possono annoverare anche gli istituti penitenziari. In Italia, dal 14 giugno 2008, le competenze sanitarie in ambito penitenziario, i rapporti di lavoro e le risorse economiche e strumentali, prima di allora in capo al Ministero della Giustizia, sono state trasferite al Sistema Sanitario Nazionale e, quindi, a Regioni e ASL. Il D.P.C.M. 30 maggio 2001, completa il trasferimento di competenze iniziato con il D.Lgs. n. 230/1999, dell’allora ministro della salute Rosi Bindi, attraverso il quale era stata decisa la riconduzione della sanità penitenziaria nel Servizio sanitario Nazionale. Storicamente parlando e non solo per quanto accaduto, si potrebbe definire l’attuale come un momento assai importante, che trae origine da un ampio e lungo dibattito sviluppatosi nel corso degli anni’90. I movimenti di opinione nati al fine di favorire il passaggio delle competenze sanitarie in ambito penitenziario al servizio sanitario nazionale che arrivò a coinvolgere Enti locali, sindacati, autorità politiche, hanno segnato come una pietra miliare la tutela della salute dei detenuti. Perciò, è possibile considerare quanto accaduto un importante passo avanti per la civiltà stessa e per l’ordinamento penitenziario. Un momento importante anche dal punto di vista della ristrutturazione di un rapporto di maggior collaborazione tra gli ambienti detentivi e la società. Già con la L. 354 del 1975 (Ordinamento penitenziario), uno degli argomenti più controversi fu la determinazione delle competenze in materia di salute. I principi espressi nel Consiglio Europe 2, che hanno generato diverse risoluzioni circa la necessità di riservare ai detenuti un trattamento sanitario equivalente alle persone in stato di libertà, hanno fatto si che tutti i paesi dell’Unione considerassero questo problema e programmassero norme di recepimento. L’Italia, insieme alla Francia, alla Germania e altri Paesi sono stati i primi a legiferare in tema di sanità penitenziaria rendendo applicabili all’interno delle carceri tutte le opzioni disponibili sul territorio per i cittadini liberi, anche se in Italia, non tutte le Regioni hanno recepito nello stesso momento ciò che l’Europa ha legiferato in3 merito. La legge 833 del 1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale testualmente recita: “la salute d’ogni individuo (i detenuti non vengono citati, ma neanche espressamente esclusi) deve essere assicurata dai Servizio sanitario nazionale, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”. Il diritto alla salute di coloro che si trovano in condizione di privazione della libertà deve essere, quindi, garantito quale diritto inviolabile dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. L’istituto penitenziario in cui un individuo viene ristretto, assume il contesto in cui lo stesso esplica la propria personalità. Troppo spesso, si dimentica che nel nostro ordinamento il sistema penitenziario è deputato, attraverso l’attuazione della vigente normativa e la predisposizione di un apparato organizzativo, a garantire la tutela della salute della popolazione detenuta, compreso, in caso di necessità, il trasferimento del detenuto in un ambito di cura più idoneo alle esigenze del caso, per esempio, adiacente o all’interno di una qualsiasi unità operativa di un qualsiasi Presidio Ospedaliero. Spetta infatti alla direzione strategica/sanitaria della Struttura Ospedaliera, decidere il luogo più idoneo e/o l’ubicazione dell’utente detenuto nella migliore situazione possibile, che tenga in considerazione anche le esigenze degli altri utenti ricoverati. Le ragioni della rilevanza della tutela non sembrano, a prima vista, così evidenti. Non dobbiamo infatti incanalarci in quella che si può definire una visione dell’immaginario comune. Secondo questo punto di vista, il carcere è interpretato quale istituzione “restrittiva” e non luogo dove ci si attenda di provvedere alla cura delle persone recluse. Gli operatori sanitari all’interno di questi istituti, valutano le migliori soluzioni assistenziali, anche compresa, dove non sia disponibile una struttura adeguata per accoglierlo in ambiente ospedaliero, in accordo con il magistrato, l’eventuale trasferimento dell’utente detenuto, in una unità operativa. Sarà poi la Polizia Penitenziaria ad occuparsi dell’aspetto sicurezza. È possibile comprendere il punto di vista del cittadino comune, infatti è comune pensare e quindi credere che nell’ambiente carcerario, dove quotidiana è la tensione tra i momenti della sicurezza e del trattamento, il problema sanitario rivesta una posizione “marginale/occasionale”. La normativa, però, individua il ruolo degli operatori sanitari che prestano la loro opera in carcere, come coloro che esercitano l’insieme di quelle attività/prestazioni volte al mantenimento e alla conservazione del bene salute. Infatti così come recita l’art. 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La salute è un fondamentale diritto di tutti i cittadini, pertanto è indispensabile e giusto che questo diritto possa essere rispettato anche negli istituti detentivi, quale presupposto indispensabile per una corretta esplicazione dei fini istituzionali dell’amministrazione. In altri termini, l’amministrazione penitenziaria, pur avendo il compito di gestire l’esecuzione penale, ha il dovere, attraverso l’attività di tutela della salute della popolazione detenuta, di garantire il rispetto di quella dimensione personale senza la quale il carcere diverrebbe sempre più luogo di contenimento di semplici corpi ripiegati negli spazi angusti ed infelici della detenzione. Se così fosse, l’esecuzione della pena si risolverebbe illegittimamente in un trattamento contrario al senso di umanità (art. 27 della Costituzione Italiana). Appare chiaro, per tali ragioni, che la risposta sanitaria deve essere efficace ed avvalersi di un modello organizzativo adeguato a fronteggiare le diverse emergenze in un ambiente caratterizzato da una forte variabilità quotidiana. Avendo chiarito quindi gli aspetti legati ai principi secondo i quali un detenuto ha diritto di essere curato nell’ambiente sanitario più idoneo, che l’incombenza di trovare una soluzione che permetta di tutelare i diritti di tutti gli attori coinvolti, quali per esempio gli utenti, detenuti e non, gli operatori nosocomiali, sanitari e non, ricada di fatto tra le responsabilità degli amministratori della struttura sanitaria accogliente, sarà possibile affrontare il problema temuto dal cittadino comune, legato all’incolumità degli operatori. Per ciò che riguarda gli infermieri, il codice deontologico dell’infermiere, che non è da considerare quale semplice elenco di regole promulgate da una categoria professionale al fine di autoregolamentarsi, è invece da considerare quale codice assimilabile ad una norma giuridica per effetto della legge 42 del 1999 che abroga il mansionario dell’infermiere. Non solo, la stessa norma definisce come l’infermiere, ora considerato professionista, di quali strumenti debba avvalersi per poter individuare il campo professionale e deontologico di appartenenza e su quali pilastri fondare il proprio esercizio professionale e nel contempo quali regole deontologiche osservare. Oltre alla formazione di base, che da quel momento è praticabile solo in ambito universitario, frequentando un corso di laurea triennale, con la possibilità di accedere ad una formazione post base di 1° livello, è possibile completare il percorso formativo iscrivendosi alla laurea di 2° livello e conseguendo così una laurea magistrale in scienze infermieristiche ed ostetriche, con la possibilità di accedere alla formazione post laurea di 2° livello. Inoltre il professionista infermiere deve fondare la sua azione professionale nel rispetto del profilo professionale dell’infermiere D.M. 739 del 1994 e del codice deontologico dell’infermiere, che a causa della menzione nella legge n° 42 del 1999, come dicevo prima assume valore di norma giuridica. Infatti l’infermiere non può esercitare la professione se non fonda in modo chiaro il suo esercizio professionale su questi “ pilastri fondanti la professione infermieristica”. È per questo motivo, che se andiamo a leggere il codice deontologico dell’infermiere troviamo qualche articolo che può aiutare a superare i nostri dubbi di cittadini comuni. Nella parte introduttiva, nel capitolo riguardante: “L’infermiere e la relazione con la persona/assistito”, ad un certo punto viene affrontato il problema della responsabilità: “Anche la responsabilità, legata all’autonomia, è intesa come un principio guida dell’agire professionale. L’assunzione di responsabilità pone l’infermiere in una condizione di costante impegno: quando assiste, quando cura e si prende cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo. Quando si richiama ai principi di equità e giustizia nell’assumere decisioni organizzativo gestionali, quando rispetta valori etici, religiosi e culturali oltre che il genere e le condizioni sociali della persona/assistito nell’assumere decisioni assistenziali. L’infermiere è un soggetto attivo, che agisce in prima persona con autonomia di scelta e di responsabilità entro una cornice valoriale in cui il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e i principi etici della professione è condizione essenziale per assistere e perseguire la salute intesa come bene fondamentale del singolo e interesse peculiare della collettività. La mission primaria dell’infermiere è il prendersi cura della persona che assiste in logica olistica considerando le sue relazioni sociali e il contesto ambientale.... Articolo 7: L’infermiere orienta la sua azione al bene dell’assistito di cui attiva le risorse sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile, in particolare quando ci sia disabilità, svantaggio, fragilità…. Articolo 10 : L’infermiere contribuisce a rendere eque le scelte allocative, anche attraverso l’uso ottimale delle risorse disponibili.... Articolo 17; L’infermiere, nell’agire professionale è libero da condizionamenti derivanti da pressioni o interessi di assistiti, familiari, altri operatori, imprese, associazioni, organismi. … Articolo 29: L’infermiere concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari e lo sviluppo della cultura dell’imparare dall’errore. Partecipa alle iniziative per la gestione del rischio clinico.... Articolo 33 : L’infermiere che rilevi maltrattamenti o privazioni a carico dell’assistito mette in opera tutti i mezzi per proteggerlo, segnalando le circostanze ove necessario, all’autorità competente. “Come è possibile osservare, l’infermiere ha gli strumenti per decidere e di fatto non si fa influenzare da situazioni che portino a delle scelte che vadano in contrasto con il bene dell’assistito, o meglio di tutti gli assistiti. Di fatto tutti gli infermieri, avvalendosi della clausola di coscienza rendono trasparenti la loro opposizione a richieste in contrasto con i principi della professione e con i suoi valori, al di fuori delle situazioni in cui l’obiezione è prevista e regolamentata per legge, ma non mi sembra che le situazioni legate all’operare in una comunità confinata, possano rientrare nello specifico in questa ultima fattispecie, pertanto credo che, quello di cui ci si debba preoccupare è il cercare di mettere in condizione gli infermieri e tutti gli operatori sanitari di poter operare con la tranquillità professionale che meritano e per iniziare questo percorso, suggerirei invece, di riflettere circa argomenti che possano indicarci se di fatto, sussistano le condizioni di operare secondo le regole previste per legge. Cosa prevede il Dpcm 12 gennaio 2017? Come garantire i Lea, come monitorarli? L’articolo 58 del Dpcm 12 gennaio 2017 recita: “Ai sensi dell’art. 2, comma 283, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, il Servizio sanitario nazionale garantisce l’assistenza sanitaria alle persone detenute, internate ed ai minorenni sottoposti a provvedimento penale, secondo quanto previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008 recante “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”. Cosa prevede il decreto n° 502 del 1992 ?Il Decreto n° 502 del 1992, prevede che “…le regioni e le unità sanitarie locali per quanto di propria competenza adottano i provvedimenti necessari ……fondati sul criterio dell’accreditamento delle istituzioni, sulla modalità di pagamento a prestazione e sull’adozione del sistema di verifica e revisione della qualità delle attività svolte e delle prestazioni erogate”. Inoltre definisce, “… i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private e la periodicità della verifica.....”. Il riordino della disciplina in materia sanitaria che ha introdotto il criterio dell’accreditamento dei soggetti erogatori, prevede inoltre che “…La omologazione ad esercitare può essere acquisita se la struttura o il servizio dispongono effettivamente di dotazioni strumentali, tecniche e professionali corrispondenti ai criteri definiti in sede nazionale”.Ebbene, il discorso sarebbe molto lungo e complicato, ma per iniziare, è possibile ipotizzare che attualmente gli operatori sanitari stiano in qualche modo cercando di tenere in piedi una struttura, che purtroppo manca di fondamenta? Non sarebbe più utile cercare di comprendere perché già dal 1992 in Italia si afferma il principio dell’accreditamento istituzionale, ivi compresi l’individuazione dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private e la periodicità della verifica? Di fatto, se mancano questi criteri, che fissano per legge, per esempio, quali risorse debbono essere previste in una determinata unità operativa e soprattutto come, da chi e con che frequenza debbano essere organizzati i controlli per la verifica del rispetto dei requisiti di accreditamento? Come si potrà definire se il numero di operatori assegnati a quella unità operativa siano adeguati o meno? Vedete, in Italia una alcune leggi promulgate ormai da moltissimi anni non vengono applicate, anzi, quanti sono i contesti dove viene applicata la legge 502 del 1992, nella parte che prevede quale obbligo Nazionale l’accreditamento istituzionale delle strutture sanitarie?Perché non partiamo dalle fondamenta per costruire questo palazzo che viene definito sanità? Infondo non è difficile pensare che se tali leggi non vengono recepite ed applicate, sia molto difficile rispettare i LEA per esempio, perché ogni amministratore utilizzerà le risorse secondo il proprio estro creativo. Credo sia errato concentrare l’attenzione su un aspetto populistico del problema assistenza dell’utente detenuto in carcere = pericolo certo, andando così a trovare il modo discaricare il peso di un problema su qualcun altro. La vera verità è che come al solito l’importante è trovare il modo di rovesciare tale incombenza su qualsiasi altra persona, conseguente sarà poi la scarsa importanza attribuita al trovare un modo o meno di risolvere il problema. Infatti non sarà determinante il fatto che tale cittadino, detenuto o meno trovi il modo di essere assistito, qualche altra persona forse troverà il modo di occuparsene. Spesso però il vero è, che nessuno si preoccuperà di dar seguito ad una soluzione, lasciando come al solito l’utente solo, con un fiammifero acceso tra le dita, che troppo in fretta si spegnerà causando una piccola o grande ustione al nostro malcapitato di turno, la determinante potrà essere individuata nel fatto di ritrovarsi o meno con un’ulteriore lesione sulle sue superstiti due dita funzionanti o meno. Purtroppo però l’ironia della sorte fa si che troppo spesso gli ultimi siano i più coinvolti in problematiche che li vedono quali soggetti nelle cui dita si spengono i fiammiferi che la nostra società non sa come e dove spegnere, una sorta di imposta che a priori i più deboli, si dovranno spesso trovare a pagare, consumando loro malgrado tutte le loro dita disponibili. I1 D.Lgs. 22 giugno 1999, n. 230, “Riordino della medicina penitenziaria a norma dell’art. 5, della legge 30 novembre1998, n. 419” (in G.U. 16 luglio 1999, n. 165, suppl. ord. n. 132).2 Nel 1987, il Consiglio d’Europa, ha adottato le c.d. Regole minime europee in materia penitenziaria, sulla base di un precedente documento del 1976 concernente il trattamento dei detenuti. La finalità è di stabilire una base di regole minime su tutti gli aspetti dell’Amministrazione penitenziaria “che siano essenziali per assicurare delle condizioni umane di detenzione e un trattamento positivo”. Nel Preambolo, si prospetta, inoltre, la possibilità di una evoluzione ditali norme, attraverso l’impegno a “definire criteri di base realistici, che permettano alle amministrazioni penitenziarie di giudicare i risultati ottenuti e di misurare i progressi in funzione di più elevati standard qualitativi” nella dichiarata convinzione che l’ambiente e le condizioni personali sono determinanti nei progetti trattamentali di rieducazione. Nell’art. 1 si legge che “la privazione della libertà deve eseguirsi in condizioni materiali e morali che salvaguardino il rispetto della dignità umana e in conformità con queste regole”. E ancora all’art. 3: “la finalità del trattamento dei detenuti deve essere quella di salvaguardare la salute e la dignità”. Particolare attenzione viene rivolta alle caratteristiche degli istituti, degli ambienti e dei regimi di vita negli stessi e alla tutela della salute del detenuto attraverso una serie di regole sulla prevenzione, sul servizio sanitario generico e specialistico.3 La Riforma sanitaria del 1978 - com’è noto - ha introdotto radicali modifiche istituzionali e di competenza finalizzate alla promozione, al mantenimento e recupero della salute fisica e psichica. Ha innestato ed attivato aspettative, esigenze e nuove necessità, modificando progressivamente la coscienza socio-sanitaria e facendo crescere la domanda di salute, sia in termini di servizi che di assistenza. I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2019 La denuncia della federazione italiana medici di medicina generale e di medicina penitenziaria. “Ce n’è 1 ogni 315 detenuti, la nostra richiesta è di uno ogni 150”. Pochi medici in carcere e il 70 percento di loro sono precari e sottopagati. Il diritto alla salute in carcere, quindi, non è garantito come dovrebbe. La denuncia è arrivata dal coordinatore nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale Fimmg Medicina Penitenziaria Franco Alberti, che avverte: “Mancano medici nelle carceri, nonostante passate circolari del ministero della Giustizia stabilissero la presenza di 1 medico ogni 200 detenuti, e la situazione è grave”. Si parla anche del sovraffollamento come aggravante. “I detenuti sono oggi circa 65.000, ben più dei 40- 45.000 che potrebbero essere ospitati nelle strutture carcerarie. C’è una situazione nota di sovraffollamento alla quale - spiega Alberti - è davvero difficile fare fronte. I medici che lavorano nelle carceri sono infatti 1.000, ma va detto che circa il 70% di questi è rappresentato da medici precari e sottopagati”. Ovviamente, il numero dei medici varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media, sottolinea, “oggi possiamo dire che ci sia un medico per ogni 315 detenuti. La nostra richiesta è che ve ne sia uno almeno ogni 150. I medici di base, che garantiscono l’assistenza ambulatoriale per 3- 4 ore al giorno, secondo il fabbisogno da noi calcolato dovrebbero essere 1.044; i medici di guardia, che fanno assistenza h24 a turno, dovrebbero invece essere 1.588, e va detto che attualmente in varie carceri i medici di guardia mancano del tutto”. Quando si parla di diritto alla salute in carcere bisogna tenere presenti due profili: il diritto a mantenere una buona condizione di salute per coloro che sono sani, e il diritto alla salute per i detenuti malati, come i tossicodipendenti o i sieropositivi, attraverso misure che garantiscano il diritto all’informazione sul proprio stato di salute, sui trattamenti che il medico vuole effettuare e il diritto a cure garantite. Ma sia nell’un senso sia nell’altro siamo sempre di fronte ad un diritto fondamentale, che, per tale motivo, seppure sotto profili diversi, attiene alla dignità della persona umana e sollecita i poteri statuali a garantirlo mediante il massimo degli sforzi possibili. L’Ordinamento penitenziario pertanto contempla alcune disposizioni stabilite con la finalità di salvaguardare il diritto alla salute, tutelato, in via generale e primaria, dall’art. 32 della Costituzione, che implica il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la sua tutela ed è garantito ad ogni persona, e, in via indiretta e con specifico riferimento all’esecuzione penale, dall’art. 27 co. 3 della Costituzione, che vieta l’adozione di pratiche contrarie al senso di umanità nel corso dell’esecuzione delle pene. Purtroppo si muore in cella per mancanza di una adeguata assistenza sanitaria e, non di rado, la colpa cade sugli operatori sanitari che cercano di fare il possibile. Oppure, al contrario, anche per sottovalutazione del problema e, invece di una terapia adeguata. A questo si aggiunge il ricorso al carcere, nonostante l’incompatibilità del detenuto con l’ambiente carcerario. La sfida di Alessandra Abbado: “Porto la musica nelle carceri” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 21 marzo 2019 Il sogno del direttore d’orchestra cresce a Bologna con la figlia (anche negli ospedali). Esistono infiniti contesti in cui la musica ti cambia la vita. È in questi luoghi che si concentra la nostra attività. Nella consapevolezza che senza musica, come diceva Nietzsche, la vita sarebbe un errore”. “È una cosa che Alessandra Abbado ripete ogni volta in cui parla di Mozart 14, l’associazione da lei presieduta e con la quale sta portando avanti e facendo crescere di anno in anno a Bologna il piano voluto dal padre Claudio: portare la musica (facendola cantare e suonare, non solo ascoltare) in carcere come in ospedale, fra i neonati come fra gli adolescenti e insomma a chi ha a che fare con “luoghi in cui bellezza e armonia sembrerebbero essere lontane o sconosciute”. È questa la storia cominciata nel 2006 col progetto “Tamino” (tremila piccoli pazienti di reparti pediatrici come audio del Policlinico Sant’Orsola coinvolti in una infinità di incontri di musicoterapia) e proseguita nel 2011 con la nascita del “Coro Papageno”, composto da detenuti e detenute del carcere “Dozza” di Bologna che si sono esibiti anche a San Pietro e in Senato; e cresciuta ancora nel 2015 con Leporello, laboratorio di musicoterapia e song-writing con i ragazzi dell’Istituto penale minorile; e nel 2017 con “Cherubino”, altra iniziativa musicale rivolta a bambini e adolescenti con disabilità fisiche e percettive. E il tutto è solo un esempio delle veramente tante “buone pratiche” raccontate l’altro ieri a Bologna sul palco del Teatro Antoniano che ha ospitato la seconda tappa del viaggio attraverso l’Italia delle Buone Notizie: iniziativa voluta e promossa dal settimanale del Corriere della Sera in edicola gratis ogni martedì con il quotidiano. Naturalmente non è stata solo una antologia di racconti ma anche l’occasione per fare il punto sulla grande “Impresa del bene” alla cui costruzione partecipano ogni giorno in Italia migliaia tra associazioni, enti, coop sociali, nonché milioni di volontari: tutti uniti, dopo la riforma approvata due anni fa e ancora impantanata ai blocchi di partenza, sotto la nuova definizione collettiva di “Enti del Terzo settore”. È proprio pensando a quei milioni di persone che l’economista Stefano Zamagni, dal palco di Bologna, ha lanciato l’appello più forte della giornata: “II governo - ha detto - deve subito prorogare la scadenza del 2 agosto che impone agli enti del Terzo settore di modificare i loro Statuti. Visto che sarà costretto a dare la proroga, lo faccia subito. La richiesta al governo deve partire da qui”. Dopodiché, come quasi sempre, i fatti non aspettano i tempi della politica e le storie raccontate a Bologna non fanno eccezione. Storie come quella degli “Avvocati di strada”, realtà non profit partita nel 2001 da un’idea di Antonio Mumolo con un suo collega e consistente oggi in circa mille legali che in 51 città italiane assistono a titolo gratuito chi non ha i soldi per difendersi in tribunale: “Siamo il più grande studio legale d’Italia - ha detto Mumolo - ma anche quello che fattura meno. Anzi, proprio nulla”. O storie come il progetto “Working Pink”, appena inserito in un piano più ampio per il reinserimento lavorativo, e che le Acli di Bologna hanno dedicato in particolare alle donne. Esperienze di lavoro ma anche di accoglienza, inserimento di migranti, integrazione di disabili, cooperative di comunità, ripopolamento dei borghi dell’Appennino. Con riflessioni affidate a Buone Notizie come ha fatto l’arcivescovo Matteo Zuppi (“Serve un nuovo Umanesimo”) o portate sul palco come nel caso di Lodo Guenzi, voce de Lo Stato sociale: “Aiutare chi muore in mare è una questione di umanità”. “Ma se usiamo solo l’occhiale del funzionalismo - chiude Zamagni - il nuovo Umanesimo non ci sarà. È la motivazione ideale che spinge le persone a mobilitarsi. Ci hanno indotto a credere che una società possa vivere in stato di felicità solo con i beni di giustizia forniti dallo Stato, ma non è vero. I beni di gratuità che ci legano l’uno all’altro sono indispensabili. I nostri politici non riescono a capirlo”. Intanto Alessandra Abbado ha annunciato il prossimo appuntamento del Coro Papageno: che il 4 maggio si esibirà per la prima volta a Bologna fuori dalle mura del carcere, al Teatro Manzoni, insieme con il Trio del grandissimo jazzista americano Uni Caine. Memoria come dovere civile: l’Italia ricorda le vittime di tutte le mafie di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 21 marzo 2019 La memoria e la conoscenza come antidoto alla rassegnazione e all’indifferenza: come ogni anno, a partire dal 1996, il 21 marzo, equinozio di primavera, l’Italia ricorda e onora le tantissime vite stroncate dalla carica d’odio e distruzione delle mafie. Magistrati, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine, sindacalisti, rappresentanti istituzionali, sacerdoti, cittadini comuni: i nomi delle circa mille vittime innocenti della criminalità organizzata verranno elencati, evocati, scanditi, per sottrarli dal pericolo dell’oblio causato dallo scorrere del tempo. “Recitare i nomi e i cognomi come un interminabile rosario civile, per farli vivere ancora, per non farli morire mai. Per farli esistere nella loro dignità”: con queste parole Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti chiarisce il senso di un progetto che ormai va avanti da oltre vent’anni. La giornata, promossa dalle associazioni Libera e Avviso Pubblico, ha tratto origine dall’iniziativa di una madre che ha perso il figlio nella strage di Capaci costata la vita al giudice Giovanni Falcone. Il suo dolore era diventato insopportabile perché accanto allo strazio della perdita aveva trovato posto la rabbia per l’incapacità di una parte del Paese di ricordare e valorizzare il sacrificio dei tanti caduti in difesa dei valori di legalità e giustizia. “Sono la mamma di Antonino Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone. Perché il nome di mio figlio non lo dicono mai? È morto come gli altri”. Così Carmela si rivolse a don Ciotti in occasione del primo anniversario della strage di Capaci proprio nel tratto di autostrada siciliana sventrato dal tritolo di Cosa nostra. Da qui la decisione di istituire la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Quest’anno il fulcro delle iniziative sarà Padova, dove si svolgerà la manifestazione nazionale dal titolo “Passaggio a Nord Est, orizzonti di giustizia sociale”. La scelta della città veneta, anche alle luce di recenti inchieste, testimonia la necessità di non circoscrivere l’impegno civico e culturale contro la mafia alle sole regioni del Meridione e vuole essere un segno tangibile di vicinanza e sostegno a chi si trova, nei territori del Nordest, a fronteggiare il germe della violenza mafiosa, della corruzione, della sopraffazione e degli abusi di potere. Cortei, momenti di riflessione, dibattiti e iniziative culturali si svolgeranno in tutta Italia (qui l’elenco completo delle iniziative). In molte città saranno presenti anche i familiari delle vittime e tanti degli appuntamenti in programma saranno animati dagli studenti. Alcune piazze della memoria si raduneranno anche al di fuori dei confini nazionali, in città europee, africane e sudamericane. La scommessa di don Ciotti: “L’antimafia metta radici nel Nord Est” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 marzo 2019 Se la mafia ha già conquistato il cuore del nordest, penetrando non solo il tessuto imprenditoriale ma anche quello sociale e politico, allora è nel nordest che deve mettere radici anche l’antimafia. È questa la nuova scommessa di Libera e don Luigi Ciotti che non per caso hanno scelto Padova come piazza principale della 24esima giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie. Ventuno i pullman arrivati da tutta Italia, migliaia le persone giunte in treno per partecipare al grande corteo che, attraversando il cuore della città, confluirà a Prato della Valle dove verranno letti tutti i nomi delle circa mille vittime della mafia e dove don Luigi Ciotti, presidente di Libera, concluderà la manifestazione. “Se le mafie oggi sparano meno è perché i mafiosi sono diventati imprenditori. Una mafia imprenditoriale che si è insediata nel tessuto sociale senza trovare opposizione. Le mafie non sono un mondo a parte, gridiamo da vent’anni, ma è un grido finito troppo spesso nel vuoto”, dice Don Ciotti che ieri sera, nella basilica di Sant’Antonio da Padova, ha celebrato una veglia alla presenza di centinaia di familiari delle vittime arrivati da tutta Italia. C’è un dato che fa sensazione. Ed è quello dell’altissimo numero di delitti di mafia rimasti irrisolti, quasi l’80 per cento. Anche per questo, molti di loro ormai da più di vent’anni, padri, madri, figli, sorelle, fratelli scendono in piazza continuando a chiedere giustizia. “È certamente un dato che fa pensare - dice don Ciotti - e che induce a chiedersi quanto nel nostro Paese si sia andati a fondo nel contrasto del fenomeno mafioso, colpendo i legami - comprovati, nel corso di decenni, da svariate indagini - tra mafie e parti del mondo politico e economico. Per questo Libera ha deciso sin dalla fondazione di stare accanto ai famigliari delle vittime e di legare la memoria dei loro cari all’impegno: quella delle vittime innocenti delle mafie deve essere una “memoria viva”, una memoria che si assume l’impegno e la responsabilità di realizzare gli ideali di chi è stato ucciso perché non ha voluto piegarsi alla violenza, al sopruso, alla corruzione. Ma credo che la vera svolta avverrà quando, nel nostro Paese, “vittime di mafia” si reputeranno anche persone che non hanno subito direttamente la violenza e l’intimidazione mafiose, ma che si ribellano all’idea di convivere con un sistema parassita, che deruba il bene comune e la speranza di tutti”. Questa mattina corteo per le strade della città, con in testa don Ciotti, il sindaco di Padova Sergio Giordani, il vescovo Claudio Cipolla, il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho e il segretario della Cgil Maurizio Landini: partenza alle 9 da piazzale Boschetti e arrivo in Prato della Valle, dove verranno letti i nomi delle mille vittime innocenti delle mafie. Ciotti: “Le mafie crescono se mancano democrazia e giustizia sociale” di Giampiero Maggio La Stampa, 21 marzo 2019 Sono passati più di due decenni da quel primo 21 marzo in cui in piazza del Campidoglio a Roma furono ricordati i nomi delle tante, troppe vittime innocenti morte per mano mafiosa. A distanza di tanti anni oggi la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime di mafia è un’iniziativa diffusa in tutta Italia. Ne parliamo con don Luigi Ciotti, attivista e fondatore di “Libera”. Orizzonti di giustizia sodale: qual è il significato del convegno e perché a Padova? “La “Giornata della memoria e dell’impegno” risponde a un doppio proposito: risvegliare e valorizzare. Scuotere le coscienze dormienti o indifferenti e sostenere chi si pone il problema delle mafie e di ciò che permette loro di esserci e di espandersi: i vuoti di democrazia e di giustizia sociale. A Padova, e più in generale nel Triveneto, sono tante le realtà di valore che vogliamo sostenere”. Ci sono stati arresti in Veneto, Valle d’Aosta, in Lombardia e Toscana e ancora in Piemonte. La mafia quanto è radicata anche al Nord? “Libera sin dalla nascita ha posto il problema della presenza delle mafie al Nord, quando era una presenza per lo più negata e a denunciarla si rischiava di passare per visionari. Le mafie hanno capito prima di altri le opportunità della globalizzazione finanziaria, i vantaggi di un “mercato” economico sempre più deregolamentato e sempre meno animato da un’etica del bene comune. Da qui il loro progressivo insediarsi nei territori dove il grande flusso di capitali avrebbe garantito maggiori profitti, cioè nel Nord del nostro Paese”. Roma e mafia capitale. Pignatone e Prestipino, nel loro libro “C’è la mafia a Roma”, descrivono proprio quel “mondo di mezzo”, quella zona grigia che diventa terra di conquista per il metodo, il sistema mafioso. Che ne pensa? “L’area grigia, cioè la commistione di legale e illegale, è il frutto avvelenato di una progressiva “mafiosizzazione” della società. Il punto è questo: si sono creati molteplici punti di contatto e convergenza tra le logiche del profitto finanziario e il metodo mafioso. Le nuove mafie sparano di meno non per sopraggiunti scrupoli di coscienza, ma perché, non gli conviene più: col denaro e la corruzione ottengono quello che prima ottenevano con violenza e armi”. Libera ha aperto un varco nel sistema incoraggiando le vittime di mafia a denunciare. C’è ancora molto da fare visti i dati sul fenomeno? “La vicinanza alle vittime e ai famigliari nasce dall’empatia, dalla condivisione del dolore, ma anche dal comune desiderio di realizzare una società libera dalle mafie e da tutto ciò che permette loro di esistere. La vera svolta ci sarà quando nel nostro Paese si sentiranno e dichiareranno vittime delle mafie anche i milioni di persone che quella violenza non l’hanno subita in modo diretto”. Nel suo ultimo libro cita razzismo, populismo e fascismo come elementi che esercitano un fascino sulle masse. Come si affronta questa fase? “Con la ricerca di verità e l’analisi onesta delle cose. Il populismo si fonda sulla propaganda, sulle manipolazione e sulle menzogne. Dire che l’immigrato è la minaccia, il nemico per eccellenza è falso. La minaccia è quel sistema politico-economico che ormai da decenni depreda intere regioni del mondo producendo disuguaglianze spaventose. Le migrazioni sono deportazioni indotte”. Il presidente del Tar di Brescia che giudica i diritti umani “una penosa litania” di Andrea Tornago La Repubblica, 21 marzo 2019 I diritti fondamentali dell’uomo? “Una penosa litania”. Il governo gialloverde? “Un esecutivo finalmente non più pavido” che saprà riscrivere il testo unico sull’immigrazione. La legalità? Un valore che offre tutela “alla tradizione socio- culturale e all’appartenenza identitaria del nostro popolo”. È bufera sul presidente del Tar di Brescia, Roberto Politi, per il discorso pronunciato in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario la scorsa settimana. Per il magistrato, arrivato a presiedere la sezione distaccata del Tar di Brescia a luglio 2017, è “giunta la stagione” in cui i diritti possono essere declinati “anche in favore dei cittadini italiani, nati in Italia da cittadini a loro volta italiani”. Elogiato dai deputati bresciani della Lega e dall’ex presidente del Senato Roberto Calderoli, Politi è finito nel mirino delle critiche degli avvocati della Camera penale di Brescia, che giudicano le sue parole “offensive”, e dei colleghi magistrati ai massimi livelli. Poche ore dopo gli ha risposto da Bologna il presidente del Consiglio di Stato: “L’affermazione dei diritti fondamentali, convinta e costante, non costituisce una “litania”, come pure ho sentito dire”, ha precisato Fabrizio Patroni Griffi. Giudizio ripreso ieri dall’Associazione magistrati del Consiglio di Stato, l’organo superiore della giustizia amministrativa: “La tutela dei diritti, segnatamente di quelli fondamentali, è parte integrante della Costituzione repubblicana” - scrivono i togati di Palazzo Spada - pertanto l’affermazione di Politi è “inopportuna, grave e giuridicamente sbagliata”. Poi ricordano che ogni magistrato “è soggetto alla legge, e deve apparire scevro da pregiudizi che possano in qualche modo incrinare, o appannare, l’immagine di terzietà del giudice”. Non solo nelle sentenze, ma anche “nei discorsi e negli interventi pubblici, in particolare se svolti nell’ambito di occasioni così importanti e seguite quali le inaugurazioni dell’anno giudiziario”. Ma il magistrato Roberto Politi non teme le polemiche. Dopo gli anni nelle sedi del Tar di Lecce, Catanzaro, Parma, Firenze, Roma e Reggio Calabria, con la città di Brescia è entrato subito in sintonia: “Bella, ordinata, pulita”, ha dichiarato appena insediato. Sulla copertina del suo discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario, ora al centro di furiose critiche, campeggia la fotografia dell’arengario di Piazza Vittoria, la piazza bresciana progettata dall’architetto Marcello Piacentini e voluta da Benito Mussolini, che proprio da quel pulpito pronunciò il suo discorso d’inaugurazione nel 1932. Particolare che non è sfuggito alla sezione locale dell’Anpi, che ha dedicato a Politi un duro comunicato ricordando la “medaglia d’argento della Resistenza” della città e stigmatizzando la scelta “del simbolo tra i più riconoscibili dell’età fascista in Brescia”. Di sicuro, quel pezzo d’architettura del Ventennio non è mai stato il simbolo della seconda città lombarda. E il Tar di Brescia non ha sede nemmeno nei dintorni di quella piazza. Caso Diciotti, i ministri ora possono ledere i diritti fondamentali di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 marzo 2019 Questa è la conseguenza paradossale del testo della relazione della Giunta approvata dal Senato per negare l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini. Un ministro potrebbe ordinare la tortura? Ma sì, se per un preminente interesse pubblico nell’esercizio di governo, a certe condizioni un po’ sì: è la conseguenza paradossale - se le parole conservano un significato - del testo della relazione della Giunta approvata ieri dal Senato per negare l’autorizzazione a procedere contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini per l’ipotesi di sequestro dei migranti sulla nave Diciotti. Nel proclamare che “la configurazione di ministerialità di un reato si arresta alle soglie della lesione irreversibile di diritti fondamentali”, e che perciò la categoria del reato ministeriale non varrebbe “in relazione a fattispecie criminose che ledano in modo irreversibile determinati diritti fondamentali”, la relazione votata aggiunge infatti che “i diritti compressi” sulla nave, cioè quelli di circolazione delle persone, “non possono annoverarsi tra i diritti fondamentali per così dire “incomprimibili”, quali la vita o la salute”. Ciò significherebbe che un ministro, per “il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”, non potrebbe arrivare a ordinare un “omicidio di Stato” (come già notava una nota del professor Luca Masera), ma potrebbe invece ledere “diritti fondamentali”, a condizione che siano diversi da quelli “incomprimibili” di “vita o salute”, e che la “lesione” non sia “irreversibile”. Dunque potrebbe ordinare la tortura, giacché ogni buon manuale di supplizi è ideato proprio per non lasciare conseguenze permanenti: e la stessa conseguenza potrebbe trarsi per i trattamenti inumani e degradanti, per la compressione della libertà morale, persino per la schiavitù. Chissà se in Parlamento, tutti concentrati sulla sorte politica del ministro dell’Interno, e con un voto dai riverberi istituzionali perfino più insidiosi di quello otto anni fa su Ruby “nipote di Mubarak”, abbiano fatto caso alle parole che stavano sottoscrivendo. Femminicidio e “follia”, quel codice che giudica è degli anni Trenta di Massimo Cozza* La Repubblica, 21 marzo 2019 Alla luce dell’orientamento della magistratura tendente ad ampliare il concetto di “infermità mentale” correlato all’incapacità d’intendere o di volere in ambito penale, diventa attuale il ripensamento del rapporto tra psicopatologia e imputabilità. La normativa risale al codice penale Rocco del 1930, emanato nel periodo fascista e influenzato dalla cultura psichiatrica dell’epoca per la quale la malattia mentale era sostanzialmente genetica, incurabile e pericolosa. E che considerava il folle irresponsabile, inaffidabile e da custodire nel manicomio. Una visione che considerava il folle incapace di intendere e di volere, da prosciogliere e da rinchiudere nell’ospedale psichiatrico giudiziario. Oggi chi soffre di disturbi psichiatrici, anche gravi, è considerato una persona con la sua dignità, la sua biografia, con fattori biologici, psicologi e sociali che influenzano il suo stato mentale. Non più da rinchiudere, ma da curare, riconoscendo la possibilità di una autonoma vita sociale, in un percorso di recovery, con una sua responsabilizzazione e capacità di autodeterminazione dei comportamenti. Ma se è ormai patrimonio comune del mondo della salute mentale l’obbiettivo di un pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza per chi soffre di disturbi psicopatologici, questi andrebbero accompagnati dal dover rispondere anche penalmente delle azioni compiute. La responsabilizzazione di chi commette un delitto, seppure in uno stato mentale alterato, dovrebbe vedere la stessa pena come per tutti con il diritto alla cura, però, sia in carcere che sul territorio. E questo assume un significato maggiore alla luce di recenti sentenze che sembrerebbero affermare la possibilità di una riduzione della responsabilità penale in caso di femminicidio. *Direttore del Dipartimento salute mentale -Asl Roma 2 Sono passati 25 anni dall’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin di Andrea Palladino La Stampa, 21 marzo 2019 Il super testimone della commissione Taormina rivela: “Mi sono inventato tutto”. Abbiamo incontrato Ali Mohamed Bashir vicino alla stazione Termini. Cade la teoria dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin uccisi per una rapina dalla criminalità comune. È tardo pomeriggio in via Marsala, zona stazione Termini. Ali Mohamed Bashir saluta il gruppo di amici somali. Alto, giacca scura, una sciarpa à la mode. Da qualche giorno è a Roma, lontano dalla sua Mogadiscio. “Ero la scorta di Giancarlo Marocchino e ancora oggi ogni tanto lo sento”, spiega sorridendo. Ilaria Alpi la ricorda morta riversa sul sedile della jeep crivellata di colpi. “Questo sono io”. Indica un ragazzo di spalle, giubbetto jeans senza maniche, in un gruppo di somali che nell’immagine sta estraendo i corpi dei due italiani dall’automobile. È la ripresa di una telecamera del canale Abc, subito dopo l’agguato mortale del 20 marzo 1994. Bashir è insieme al gruppo armato che accompagnava l’imprenditore italiano Marocchino, originario di Borgosesia, logista in Somalia per due decenni. Fu il primo ad accorrere all’incrocio tra via Alto Giuba e corso della Repubblica (oggi corso Somalia), pochi minuti dopo l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Presero i corpi e li portarono al porto vecchio di Mogadiscio, dove era in attesa un elicottero militare italiano, inviato dal contingente. Il testimone sotto protezione - Bashir è stato un testimone chiave. Portato in Italia dalla commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Carlo Taormina e messo sotto protezione, in tre audizioni confermò la lista di sei nomi di presunti componenti del gruppo di fuoco aprendo le porte alla tesi della maggioranza uscita dalla commissione: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono uccisi in un tentativo di rapina finito male. “Sono loro” assicurò Bashir. “Questi due erano i più pericolosi” aggiunse durante l’ultima deposizione, desecretata negli anni scorsi. Era il 26 ottobre 2005, poco dopo lasciò l’Italia. Quando nel 2016 venne chiamato per deporre davanti al Tribunale di Perugia nel corso del processo di revisione della condanna di Hashi Omar Hassan - il somalo che ha scontato 17 anni di carcere da innocente, accusato falsamente da uno dei testimoni chiave del caso, Ahmed Ali Rage, detto “Gelle” - non si fece vivo. Eppure, di cose da raccontare, ne aveva. Oggi le rivela a La Stampa. “È vero, sono come Gelle, ho detto delle bugie”, racconta adesso Bashir. Quei nomi, quella lista - assicura - l’ha inventata. Ma aggiunge: “Hashi Omar Hassan non c’era, non era presente”. Un dettaglio che rivela come in realtà sappia molto di più di quel che racconta. È l’unica parte della sua deposizione in commissione parlamentare che confermerà nell’intervista. I motivi della falsa testimonianza? Oltre non va, il suo sorriso diventa una sorta di limite invalicabile. Bashir non era un somalo qualunque nel 1994. Era a capo della scorta di uno dei logisti italiani più importanti di Mogadiscio. Ed era originario di Mogadiscio nord, la zona controllata dal signore della guerra Ali Mahdi dove è avvenuto l’agguato contro la giornalista di Rai 3 e il suo operatore. Un dettaglio che nella società somala strutturata in clan pesa molto. Ecco perché oggi, questa sua testimonianza, assume un peso ancora maggiore. Il gioco delle ombre - La morte di Ilaria e Miran a distanza di 25 anni, con la terza richiesta di archiviazione da parte della Procura di Roma (la prima nel 2007, la seconda nel 2017 e l’ultima un mese fa, sulla quale il Gip dovrà decidere nei prossimi mesi), è ancora oggi un gioco di ombre, bugie, testimonianze false, indagini incomplete. Con un sospetto, messo nero su bianco nella sentenza di Perugia, di un possibile depistaggio. Le indagini hanno prodotto fino ad oggi due indagati poi archiviati definitivamente: il sultano di Bosaso, Moussa Bogor, e il signore della guerra, Ali Mahdi. Un innocente, Hashi Omar Hassan, è finito in carcere, scagionato dopo l’intervista al suo accusatore “Gelle” del febbraio 2015 realizzata in Gran Bretagna dall’inviata di Chi l’ha visto? Chiara Cazzaniga. Tutti sapevano che aveva mentito, ma il processo per calunnia, che lo aveva visto imputato, si era concluso con un’assoluzione nel 2012. Già nel luglio 2002 “Gelle” aveva chiamato il giornalista somalo Aden Sabrie dicendo di aver mentito. Bugie, come Bashir. Era stato interrogato prima dalla Digos romana e poi dal pm Franco Ionta, senza essere registrato. Subito dopo, alla fine del dicembre 1997, era sparito. Quando Sabrie presentò l’audio della telefonata del 2002 non fu possibile confrontare la sua voce e così quella testimonianza preziosa cadde nel nulla. L’altro accusatore di Hashi, Ali Abdi, l’autista di Ilaria e Miran, era stato interrogato nel luglio 1997. “Non conosco gli autori”, disse. Venne riportato in Italia a gennaio e di nuovo interrogato. Cambiò versione solo dopo alcune ore e dopo un’interruzione del verbale per la cena. Anni dopo, tornato in Somalia, è morto in circostanze mai chiarite. Chiedergli oggi perché, dopo aver ripetutamente dichiarato di non conoscere gli autori, fece gli stessi nomi di “Gelle” è impossibile: nessuno potrà mai più chiederglielo. Birmingham, il testimone chiave e il suo doppio - Si torna dunque a “Gelle”, il primo testimone ad aver prima accusato e poi ritrattato. Un testimone che l’Interpol non riusciva a trovare, ma scovato da una giornalista aprendo di fatto la strada alla revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Assan, assolto dopo 17 anni di carcere. A Birmingham c’è una delle comunità somale più grandi della Gran Bretagna. Dal centro ci voglio quasi trenta minuti per entrare nel quartiere enclave. Dietro i mattoncini rossi ci sono locali tradizionali, moschee, centri culturali. Senti gli odori delle spezie, mentre nei pub si festeggiano matrimoni e compleanni di bambini. Qui vive da anni Ahmed Ali Rage, detto “Gelle”, il testimone del caso Alpi sparito per anni. Una nota dell’ufficio di collegamento italiano dell’Interpol a Londra dava dettagli minuziosi nel gennaio 2006: quattro figli, sposato con una donna di nome Kadro, con una nuova identità, abitante a Birmingham. La commissione guidata da Taormina aveva avviato indagini mirate, e quella è la risposta rimasta agli atti del Parlamento. Eppure nonostante quei dettagli precisi nessuno lo trovava, mentre Hashi continuava a rimanere in carcere da innocente, con la prescrizione dell’isolamento diurno. Incredibile a dirsi, i dati erano errati. Un omonimo, un’altra persona. Basso, mentre il testimone era alto e magro. Un aspetto quasi da pakistano e non da somalo, che ha tratti caratteristici, inconfondibili. “Non so chi stiate cercando” spiegava l’incredula ex moglie del falso Gelle nel febbraio 2014 intervistata sulla soglia di casa. E aveva ragione. Durante i lavori della Commissione guidata da Taormina un giovane capitano della Finanza, Gianluca Trezza, aveva capito che Gelle andava trovato con i vecchi metodi investigativi, non fidandosi dei dati ufficiali. In una relazione di servizio spiegava che occorreva contattare “la comunità somala internazionale”. Di fronte ad una cultura dove forte è la presenza del clan, basata sulla tradizione orale, sul passaparola, serviva ben altro sforzo investigativo. Quella sua indicazione rimase lettera morta. I lavori della commissione parlamentare si conclusero con una relazione di maggioranza che attribuiva la morte dei due giornalisti ad una rapina finita male o a un tentativo di rapimento. Insomma, criminalità comune, nessun agguato mirato alla persona. Ovvero la tesi sostenuta dal testimone Bashir, chiamato “teste B.”, “apparso spontaneo e libero da condizionamenti”, si legge nel documento finale della commissione. “Bugie, mi ero inventato tutto”, dice oggi, aggiungendo il suo nome alla lunga lista dei testimoni falsi, vero leit-motiv del caso Alpi. Un altro anello di un possibile depistaggio. I mandanti delle menzogne? Attorno alla stazione Termini scende ancora una volta una virtuale, fitta, impenetrabile nebbia. Cammina senza voltarsi Bashir. Per lui il caso finisce così. Andare oltre vuol dire aprire quel vaso di Pandora tenuto ermeticamente chiuso per un quarto di secolo. Legge “spazza-corrotti” a rischio di incostituzionalità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2019 Legge “spazza-corrotti” a rischio di incostituzionalità. La stretta sulla concessione dei benefici penitenziari, oltretutto senza disciplina della fase transitoria, si espone a più di un rischio di illegittimità. A lasciarlo capire è la Corte di cassazione con la sentenza 12541 della Sesta sezione penale depositata ieri. Nell’ambito di un procedimento relativo a una condanna concordata con patteggiamento per corruzione e corruzione in atti giudiziari, la difesa aveva chiesto alla Cassazione di sollevare la questione di legittimità costituzionale con riferimento all’assenza di regole per la fase transitoria e all’inserimento dei reati contro la pubblica amministrazione tra quelli che impediscono la concessione di alcuni benefici penitenziari. La Cassazione sul punto sottolinea l’esistenza di una frizione tra il diritto italiano e quello internazionale. Infatti, da un parte è vero che per il “diritto vivente” nazionale e la sua applicazione data anche dalla Cassazione nel 2006 a Sezioni unite, le disposizioni sull’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione sono considerate norme penali processuali e non sostanziali. E questo perché non riguardano l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma solo le sue modalità esecutive. La conseguenza è che si applica il principio tempus regit actum e non quello sulla successione delle norme penali con il favor rei. D’altra parte, è indubitabile, riconosce la sentenza, che nella più recente giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, i concetti di illecito penale e di pena “hanno assunto una connotazione “anti-formalista” e “sostanzialista”, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall’ordinamento (all’”etichetta” assegnata), la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta”. E allora, per la Cassazione, non apparirebbe manifestamente infondata la tesi della difesa, per la quale il legislatore avrebbe “cambiato le carte in tavola” senza prevedere una norma transitoria, in contrasto con l’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, quindi, con l’articolo 117 della Costituzione, conducendo, nel caso esaminato, da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” a una sanzione con carcerazione necessaria. In passato, ricorda ancora la Cassazione, il legislatore si era comportato diversamente adottando disposizioni transitorie per smussare l’immediata applicazione delle modifiche all’ordinamento penitenziario (il riferimento è al 2002 e a quanto venne previsto per i reati di tratta di persona e riduzione in schiavitù). La Corte tuttavia non ritiene di potere sollevare la questione di legittimità perché non attinente alla sentenza di patteggiamento, oggetto del ricorso, ma alla sua esecuzione. In un certo senso, però, suggerisce alla difesa di tornare a porle in sede di incidente di esecuzione. Smentito il decreto sicurezza: “Per l’anagrafe è sufficiente la richiesta di asilo” di Riccardo Chiari Il Manifesto, 21 marzo 2019 Il tribunale di Firenze accoglie il ricorso presentato da un cittadino somalo. Ai ricorsi alla Consulta contro il decreto sicurezza, da parte di un gruppo consistente di Regioni, si aggiunge ora la decisione del giudice Carlo Carvisiglia del tribunale di Firenze, che ha accolto il ricorso di un cittadino somalo a cui il comune di Scandicci aveva rifiutato l’iscrizione all’anagrafe, spiegando che le amministrazioni comunali non possono rifiutare l’iscrizione dei richiedenti asilo. La notizia pone le basi per una ulteriore decisione della Corte Costituzionale su uno degli articoli più contestati del decreto voluto dal titolare del Viminale, Matteo Salvini. Si tratta dell’articolo 13, che per i critici del decreto, eliminando l’iscrizione anagrafica, rende di fatto invisibili i richiedenti asilo. Con tutti gli effetti collaterali del caso, dalla reperibilità all’assistenza. Per finire con la vaccinazione dei più piccoli, che pure riguarda il diritto fondamentale alla salute, già sancito dalla Consulta come diritto che non appartiene al cittadino ma alla persona, e che è al tempo stesso interesse della collettività. Assistito dall’avvocato Noris Morandi dell’Asgi (l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) il cittadino somalo, arrivato in Italia per sfuggire dalla guerra civile nel suo paese, ha ora più chance per ricongiungersi con la moglie e i tre figli che vivono in Svezia. “La decisione dal giudice dovrebbe essere la prima in questa direzione - osserva in proposito Morandi - contraria a quanto sancito nell’articolo 13 del decreto sicurezza, che dice, tra l’altro, che “per i richiedenti asilo, il permesso di soggiorno non è più un documento valido per chiedere la residenza”. Il giudice Carvisiglia mette nero su bianco: “Ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale, deve intendersi comunque regolarmente soggiornante, in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di asilo”. Quindi è autorizzato a presentare domanda di iscrizione all’anagrafe. Iscrizione che i comuni non possono rifiutare perché il diniego “sarebbe discriminatorio”, come specificato dalla Consulta, per i cittadini stranieri. Annota ancora il giudice: “La regolarità del soggiorno non si dimostra soltanto con il classico permesso di soggiorno, è sufficiente anche il verbale che viene rilasciato ai migranti in questura al momento della domanda di asilo, il cosiddetto modello C3”. Quanto infine alla discriminazione che viene operata con il decreto sicurezza e la mancata iscrizione all’anagrafe, Carvisiglia appunto osserva: “Sul versante del principio di eguaglianza, la parità di trattamento tra stranieri e regolarmente soggiornanti e cittadini è considerata fondamentale dalla Corte Costituzionale”. La sentenza del tribunale di Firenze di fatto dà ragione non solo alle Regioni che hanno fatto ricorso alla Consulta, ma anche ai sindaci di Palermo, Leoluca Orlando, e di Napoli, Luigi De Magistris, che all’inizio dell’anno per primi hanno deciso di disobbedire al “decreto Salvini”, a partire dall’articolo 1, quello che elimina la protezione umanitaria. Sul punto specifico, solo in Toscana sono state stimate 5.000 persone costrette all’irregolarità dal decreto sicurezza, con una proiezione che ipotizza decine e decine di migliaia di donne, uomini e bambini “irregolari” nella penisola. Quanto infine alla decisione della Corte Costituzionale, secondo gli addetti ai lavori dovrebbe pronunciarsi alla fine dell’anno in corso, o nei primi mesi del 2020. Droga, revoca patente ko. La sanzione automatica? È ormai esclusa di Dario Ferrara Italia Oggi, 21 marzo 2019 Il Tar Campania: dopo la Consulta il prefetto motivi la decisione. Addio revoca della patente anche se il titolare è stato condannato per reati di stupefacenti. La sanzione amministrativa automatica risulta ormai esclusa: dopo la sentenza costituzionale 22/2018 il prefetto deve motivare il provvedimento, considerando la gravità degli episodi criminosi e la condotta tenuta dal reo dopo i fatti. Conta dunque la vita che fa l’interessato, se ha un’occupazione o frequenta persone pericolose. E prima di far scattare lo stop bisogna verificare se la licenza di guida gli serve ad esempio per lavorare. È quanto emerge dalla sentenza 1357/19, pubblicata dalla quinta sezione del Tar Campania. Natura discrezionale Il ricorso del condannato per detenzione di droghe leggere è accolto perché il provvedimento dell’amministrazione ha un vizio di motivazione. La revoca automatica della patente è stata bocciata dalla Consulta perché contraria ai principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza ex articolo 3 della Costituzione: lo stop potrebbe scattare per reati di lieve entità o molto risalenti nel tempo rispetto a quando si è chiuso il processo, come nel caso di specie; contano invece i requisiti attuali per il mantenimento del titolo di abilitazione. Insomma: dopo l’intervento del giudice delle leggi la revoca della licenza di guida è un provvedimento che implica l’esercizio di una potestà amministrativa di natura discrezionale. Requisiti morali - Conta la ratio del provvedimento di cui all’articolo 120 Cds, vale a dire garantire la sicurezza pubblica, escludendo dalla conduzione dei veicoli chi è ritenuto pericoloso. E non si può presumere sia pericoloso, ad esempio, chi viene condannato per un fatto di droga di lieve entità: il prefetto, allora, non può limitarsi a disporre la revoca della patente senza svolgere alcuna autonoma valutazione sulla sussistenza dei relativi presupposti normativi. L’amministrazione, in particolare, deve valutare il venir meno dei requisiti morali richiesti per il rilascio della patente di guida, da accertarsi sulla base della specificità dei fatti contestati, anche in termini di gravità. Rapporti sociali - Il prefetto, in soldoni, deve verificare se l’interessato ha avuto nuove denunce e se in passato ha avuto ad esempio incidenti alla guida. Pesano infine i rapporti personali e sociali e la presenza di una famiglia che può sostenere il percorso di riabilitazione. Spese di giudizio compensate per la novità della questione, ma il ministero dell’Interno paga il contributo unificato, laddove il ricorrente ha ottenuto il patrocinio a spese dello Stato. Medici penitenziari, liti al giudice ordinario anche se riguardano selezione e recesso di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2019 L’impugnazione dell’iter di selezione per l’incarico professionale di medico penitenziario va fatta davanti al giudice ordinario e non al Tar. E anche se la selezione si svolge nella forma del concorso, a cura di una commissione esaminatrice. Le sezioni Unite civili della Corte di cassazione con l’ordinanza n. 7929 di ieri hanno risolto così il regolamento di giurisdizione in relazione a un giudizio che era pendente davanti ai giudici amministrativi di primo grado della Lombardia. Il caso riguardava l’impugnazione anche dell’atto di recesso dell’amministrazione a seguito dell’accertata mancanza - a conclusione della selezione - del possesso dei requisiti. Il sanitario, che già aveva svolto l’incarico di medico assegnato a strutture carcerarie, aveva impugnato - ma davanti al Tar - la deliberazione con la quale a seguito di apposita procedura selettiva veniva dichiarato non idoneo a svolgere l’attività di medico penitenziario. L’impugnazione si estendeva non solo alla dichiarazione di inidoneità, ma anche agli atti prodromici alla selezione e al provvedimento amministrativo di recesso dell’azienda socio-sanitaria regionale dal contratto di collaborazione in atto. Natura dell’assunzione di parasubordinati - La Cassazione spiega che le ragioni portate davanti ai giudici dal medico riguardano diritti soggettivi, su cui è competente il giudice ordinario. Ma la natura di diritto soggettivo a un caso come questo di para-subordinazione si estende a tutti i rapporti che intercorrono con l’amministrazione: compresa la fase di selezione “concorsuale”. Questa la differenza con i dipendenti pubblici che, dalla contrattualizzazione del rapporto di lavoro nella Pa, portano le loro controversie davanti al giudice ordinario, ma non quelle relative alla fase di selezione che resta ancorata alla cognizione del giudice amministrativo. Ma non è il carattere della para-subordinazione del professionista incaricato a distinguere le due vie per le tutele. Infatti, in base alla giurisprudenza delle stesse sezioni Unite, le assunzioni di personale parasubordinato nella Pa sono equiparate, ma solo se rispondono alle stesse esigenze cui sono ordinariamente preordinate quelle del personale subordinato. Come dice la Cassazione è quindi la natura delle esigenze “presidiate” dall’assunzione a far la differenza. Nella selezione dei medici penitenziari l’amministrazione accerta unicamente il possesso di requisiti in base a un’attività vincolata dalla legge. Ciò che rileva è dunque la specifica normativa contenuta nella legge 740/1970 e che non è stata “toccata” dalla contrattualizzazione del pubblico impiego: la norma del Dlgs 165/2001 che devolve le controversie di lavoro all’interno della Pa al giudice ordinario lascia ferma la competenza di quello amministrativo quando si ricorre contro le procedure concorsuali. Quest’ultima deroga alla competenza del giudice del lavoro non riguarda però le selezioni dei medici penitenziari dipendenti parasubordinati, come precisato dalle stesse sezioni Unite. Coordinamento e non subordinazione - Che i professionisti in questione appartengano a una categoria di parasubordinati non equiparabile a quella della subordinazione è cosa che emerge specificatamente da norme speciali. Cioè è la stessa legge (del ‘70) che, per questa categoria di medici, esplicitamente esclude l’applicazione di incompatibilità, divieti di cumulo e limitazioni ad hoc previste dal rapporto contrattuale o convenzionale col Servizio sanitario nazionale. Turni di lavoro e rispetto delle direttive impartite dal direttore del carcere sono tratti di un necessario coordinamento dell’attività prestata e non indici di subordinazione pari a quella degli impiegati civili dello Stato. Blogger colpevole in concorso con il diffamatore di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 12546/2019. La responsabilità del blogger per i commenti diffamatori postati da utenti della rete - e non rimossi nonostante la segnalazione - è di natura concorsuale. La Corte di Cassazione - sentenza 12546/19 depositata ieri - fissa i presupposti di imputabilità dei gestori di siti/diari on line (blog, appunto), nel solco della giurisprudenza italiana ed europea maturata sul punto negli ultimi anni. La Quinta penale ha respinto il ricorso del gestore di un blog siciliano condannato per diffamazione aggravata (dal “mezzo di pubblicità”, comma 3 dell’articolo 595 del Codice penale), ripercorrendo le tappe dell’imputabilità per i reati commessi in rete. La Corte ha innanzitutto escluso che la responsabilità del blogger per il fatto altrui sia assimilabile a quella del direttore di testate giornalistiche (manca sostanzialmente il requisito della professionalità dell’attività svolta, Sezioni Unite 31022/15), ma ha anche levato dal campo per gli stessi motivi l’ipotesi di culpa in vigilando (articolo 57 del codice penale). Se da un lato ciò toglie le garanzie costituzionali sul mezzo virtuale - non essendo protetto dall’articolo 21 della Costituzione in materia di sequestro, per esempio - dall’altro rende più difficile l’inquadramento della responsabilità del blogger, che non è direttore ma non ha nemmeno una posizione di garanzia in senso tecnico-giuridico. Quest’ultima circostanza non permette di applicargli neppure la responsabilità commissiva per omissione (articolo 40 capoverso del codice penale), non avendo il blogger alcun dovere giuridico di impedire l’evento lesivo. E poiché la diffamazione è un reato istantaneo - che si consuma cioè nel momento della divulgazione della notizia lesiva dell’altrui reputazione - secondo la Cassazione l’unico modo di uscirne è di contestare al blogger “inerte” nella rimozione dei commenti insultanti una “riappropriazione” della condotta diffamatoria altrui, a titolo pertanto concorsuale. In sostanza, scrive la Quinta, siamo di fronte a una “pluralità di reati integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio”. A monte di questa decisione, il relatore ripercorre l’inquadramento della figura dell’Internet service provider/fornitore dei servizi di rete (mere condui t) non responsabile dei contenuti forniti fino all’avvenuta consapevolezza dell’illecito che si sta consumando attraverso il servizio digitale. Interessante il passaggio sul caching (memorizzazione automatica dei dati) che rimane neutrale solo se “non interferisce con le informazioni memorizzate”. Pare di leggere qui la linea di demarcazione con le più moderne (rispetto ai blog) piattaforme di social networking. Veneto: scuola in carcere; intesa tra Regione, Ufficio Scolastico e Dap regione.veneto.it, 21 marzo 2019 Per favorire percorsi di istruzione e formazione negli istituti penitenziari. L’assessore Donazzan: “investiamo in cultura come via di riscatto e reinserimento”. La scuola come “arma” di riscatto e di reinserimento sociale. Questo l’obiettivo dell’”alleanza educativa” che Regione Veneto, Ufficio scolastico regionale del Miur, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Dipartimento per la giustizia minorile del Nordest hanno siglato per assicurare a tutti i detenuti, adulti e minori, la possibilità di accedere, in qualsiasi momento dell’anno, ad un percorso scolastico o formativo e di conseguire un diploma. “Con il protocollo di intesa istituzionale - sottolinea l’assessore all’istruzione e alla formazione del Veneto, Elena Donazzan - diamo copertura istituzionale e territoriale alla numerose esperienze avviate negli istituti penitenziari del Veneto dai Centri provinciali per l’educazione degli adulti. Sono esperienze pluridecennali che hanno portato la scuola in carcere, o che hanno favorito la frequenza e l’inserimento scolastico o di formazione professionale di persone sottoposte a misure cautelari fuori dal carcere. L’intesa tra Regione, autorità scolastiche e sistema penitenziario prevede l’istituzione di un tavolo tecnico inter-istituzionale, che dovrà favorire il dialogo e la collaborazione tra istituzioni diverse, monitorare le esperienze in atto e consentire ad ogni persona sottoposta a misure penali di ricevere una proposta su misura per ritornare a studiare e acquisire nuove conoscenze e nuove competenze. I dati ci dicono che istruzione e formazione sono strumenti di prevenzione e di reinserimento sociale”. Il cuore dell’intesa tra Regione, Ufficio scolastico, Amministrazione penitenziaria e Dipartimento di Giustizia minorile del Nordest sono gli interventi per gli adulti, sia detenuti, sia un uscita dal sistema penitenziario. Le direzioni carcerarie si impegnano a favorire interventi di orientamento scolastico per i detenuti e a coinvolgere i centri per l’educazione degli adulti nell’attivare corsi di istruzione o di formazione all’interno degli istituti penitenziari o nel costruire percorsi formativi per i detenuti in uscita, avvalendosi della collaborazione delle scuole e degli organismi di formazione professionale del territorio veneto, in modo di poter offrire continuità alla esperienze iniziate nel periodo di detenzione. “Ogni volta che una persona sottoposta a misure penali - conclude l’assessore - si riavvicina ai libri e all’impegno di apprendere e allargare le proprie conoscenze, è un successo per l’intera società: lo studio rende consapevoli, nutre lo spirito critico, sostiene i percorsi di cambiamento e offre una opportunità vera per trovare lavoro e reinserirsi nella comunità civile. L’impegno di Regione, Ufficio scolastico, Dap e Dipartimento per la giustizia minorile è quello di sfruttare al meglio tutte le risorse le sinergie possibili per favorire l’accesso al diritto allo studio a tutta la popolazione carceraria”. Reggio Calabria: “Ad un anno dalla morte di Saladino ancora niente verità e giustizia” ildispaccio.it, 21 marzo 2019 La nota del Garante dei detenuti, Agostino Siviglia. “Ad un anno esatto del decesso del detenuto Antonino Saladino, avvenuto la sera del 18 marzo 2018 nel carcere di “Arghillà”, ancora restano sconosciute le cause della sua morte. Nelle scorse settimane, nella mia qualità di Garante Comunale dei diritti dei detenuti, ho depositato una memoria presso l’Ufficio del Sostituto Procuratore della Repubblica del Tribunale di Reggio Calabria, al fine di fornire tutte le informazioni utili che ho potuto assumere nell’esercizio del mie funzioni istituzionali”. Lo si legge in una nota del Garante dei detenuti, Agostino Siviglia. “Per vero, dopo aver appreso del decesso in carcere del giovane detenuto Antonino Saladino la mattina del 21 marzo 2018, mi recai presso l’istituto penitenziario di Reggio Calabria-Arghillà, per assumere informazioni circa la dinamica dei fatti che avevano condotto alla morte del detenuto, di appena trent’anni. Appresi, pertanto, che durante la giornata del 18 marzo 2018, Saladino, fin dal mattino, aveva lamentato di stare male e per tale motivo era stato sottoposto a visita medica già alle ore 11:00 e, essendosi aggravate le sue condizioni di salute, successivamente, le visite mediche di erano ripetute alle ore 15:30 ed alle ore 19:15. In particolare, proprio durante la visita delle ore 19:15, come risulta dal diario clinico del detenuto, emerse che Saladino non riusciva ad alimentarsi e che era a digiuno da almeno 25 ore”. “Subito mi chiesi e chiesi spiegazioni del perché non fosse stato immediatamente chiamato il 118 per il ricovero in Ospedale, considerato che il ragazzo durante tutto l’arco della giornata aveva avuto continui episodi di vomitato; che non riusciva ad alimentarsi, giustappunto, da almeno 25 ore; che, evidentemente, era fortemente debilitato nel fisico; che, come risulterà ad un più attento esame (peraltro effettuato dai suoi compagni di cella), semplicemente alzando la tuta che indossava, risultava pieno di chiazze di colore viola sulle gambe ed anche sulle altre parti del corpo; che, da ultimo, come risulta dal diario clinico e come riferirono fin da subito all’unisono i suoi stessi compagni di cella e di sezione, Saladino era stato male già a partire dal 5 marzo 2018, quindi, da almeno dodici giorni prima dell’evento morte, palesando una progressiva diminuzione di peso ed una evidente spossatezza che, con il senno di poi, risulteranno letali! Per vero, va segnalato, che proprio dal diario clinico del detenuto, risulta un inspiegabile “vuoto” (dal 5/3/2018 al 18/3/2018) che, considerato l’evolversi degenerativo del perdurante malore di Saladino, confermato dalla circostanza che il ragazzo non riusciva ad alimentarsi da “almeno 25 ore” prima del decesso, ma probabilmente anche da più tempo, risulta dirimente ai fini della più compiuta diagnosi circa l’effettività del malessere che lo avevo colpito, anche e soprattutto, in funzione di un possibile e tempestivo intervento sanitario, che magari avrebbe potuto salvarlo. Restano, in effetti, senza risposta domande cruciali: 1) Poteva essere salvato Saladino se si fosse intervenuto per tempo nella giornata del 18 marzo 2018 (giorno del decesso), chiamando cioè il 118 nel pomeriggio (alle 15:30 o alle 19:30, quando fu visitato e le sue condizioni di salute risultavano già preoccupanti, anziché aspettare le ore 23:26 per allertare il 118, quando oramai la situazione era definitivamente compromessa ? 2) Poteva essere salvato Saladino se si fosse diagnosticato per tempo il suo malessere fisico, considerato che già diversi giorni prima del decesso aveva accusato perduranti malori, a partire almeno dal 5 marzo 2018 ? 3) Poteva, ancora, effettivamente, essere diagnosticato tempestivamente il malessere o la patologia (sulla quale peraltro l’autopsia non pare fare chiarezza in mancanza di dati sanitari certi relativi agli ultimi 12 giorni di vita del detenuto) che ha poi condotto al decesso di Saladino? 4) Da ultimo, come mai, nonostante i compagni di cella di Saladini ed altri compagni di sezione dichiarino all’unisono che il ragazzo stava male da diversi giorni e che era stato sottoposto a diverse visite mediche durante i giorni e le settimane precedenti il decesso, di ciò, non vi è traccia alcuna nel diario clinico ? Domande che ancora oggi, a distanza di un anno esatto dalla morte del ragazzo, rimangono tutte senza risposta. Domande che, come detto, nella mia qualità di Garante, ho tutte rassegnato all’attenzione Pubblico Ministero che sta coordinando le indagini e che, per vero, sta continuando, scrupolosamente, a disporre ulteriori accertamenti nell’affannosa ricerca della verità. Confido, pertanto, che si possa arrivare ad un doveroso approfondimento processuale, sia ben chiaro, non per “dare la caccia alle streghe” o inseguire colpevoli a tutti i costi, ma esclusivamente nel tentativo coscienzioso di tentare di dare risposte compiute alla madre ed alla sorella di Antonino, che ancora oggi non conoscono le effettive cause della morte del proprio congiunto, ancor più, perché si tratta di una morte consumatasi oltre le mura di un carcere dove, evidentemente, lo Stato, che si incarica di custodire i reclusi, non può smettere di garantire verità e giustizia”. Cagliari: Mario Trudu resta all’ergastolo, la malattia si può curare in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2019 Mario Trudu, da 40 anni in ergastolo ostativo, nonostante abbia gravi problemi di salute deve rimanere in carcere. Questo è il responso del tribunale di sorveglianza di Cagliari, sottolineando che il suo stato di salute è gestibile in carcere e quindi non “sussistono i presupposti per il differimento di pena”. Respinta quindi l’istanza presentata - e sollecitata più volte - dall’avvocata Monica Murru del foro di Nuoro dove si evidenziava ulteriori gravi patologie certificate come incompatibili con il regime carcerario. Tramonta quindi la speranza per Trudu, nato ad Arzana nel 1950, in carcere dal 1979, diplomato all’Istituto d’Arte di Spoleto e autore di due libri. Finora, a causa dell’ergastolo ostativo, infatti non ha potuto fruire di alcun beneficio e con il passare del tempo vive una condizione di salute difficile - se non impossibile - da gestire in carcere. Attualmente ristretto presso la Casa Circondariale di Oristano (Massama), è affetto da sclerosi sistemica complicata da interstiziopatia polmonare e da ulteriori gravi patologie. Nell’istanza presentata dall’avvocata Murru era in allegato la relazione della dottoressa Patrizia Fadda che non lascia spazio a dubbi ed interpretazioni e descrive nel dettaglio sintomi ed effetti della sclerodermia riscontrata su Trudu, paventando un’evoluzione imprevedibile della stessa con un possibile andamento catastrofico a seguito del fatto che l’ergastolano ne risulta affetto fin dal lontano 1985 con progressiva degenerazione fino all’attualità. La perizia parla chiaro e fa comprendere la gravità della patologia accertata e la necessità di terapie incompatibili con il regime carcerario. “La malattia in questione - si legge nella perizia - è complessa e di non facile gestione in un laboratorio di medicina generale né tantomeno in quello carcerario, richiedendo controlli clinici, laboratoristici, radiologici, cardiologici frequenti e trattamenti prolungati sotto visione medica non compatibili col regime carcerario”. Il diritto alla salute è previsto dall’articolo 32 della Costituzione e viene prima di ogni altra esigenza di giustizia. Non a caso, in una sentenza del 2010, la Cassazione ha chiarito la necessità di tener sempre presente “indipendentemente dalla compatibilità o meno dell’infermità del detenuto con le possibilità di assistenza e cura offerte dal sistema carcerario” anche l’esigenza di “non ledere comunque il fondamentale diritto alla salute ed il divieto di trattamenti contrari all’umanità”, posto che essere malati in carcere “porta ad una sofferenza aggiuntiva, derivante proprio dalla privazione dello stato di libertà in sé e per sé considerato e questo nonostante la fruibilità di adeguate cure in stato di detenzione”. Ma per Mario Trudu, la Costituzione finisce quando inizia l’ostatività che preclude ogni beneficio e perfino il diritto alla salute viene meno. Per il tribunale di sorveglianza le sue patologie sono gestibili in carcere. Eppure da quasi un anno, Trudu non è curato adeguatamente perché il carcere non ne è in grado. La soluzione del tribunale si sorveglianza? Se la direzione del carcere non è in grado garantire tutte le terapie e i trattamenti necessari, può attivarsi per il trasferimento dei detenuti in un istituto penitenziario più idoneo. Mario Trudu non chiedeva di essere rimesso in libertà, ma semplicemente di essere curato in un ambiente idoneo, curabile nelle mura domestiche dove sarebbe stato accudito dai suoi familiari, in particolare dalla sorella Antonietta, già nominata sua tutrice legale, e dal fratello. Ma il suo avvocato difensore Monica Murru non ci sta e ha detto che presenterà subito ricorso. Enna: al via il laboratorio di lettura guidata per i detenuti ed i loro figli dedalomultimedia.it, 21 marzo 2019 Da oggi, 21 marzo, nell’ambito del progetto “Educazione alla legalità e benessere psicofisico”, promosso dall’Ong Luciano Lama e sostenuto dalla Chiesa Evangelica Valdese, avrà inizio presso la casa circondariale di Enna “Il laboratorio di lettura guidata” condotto dalla psicologa Valentina Gargano, esperta e partner del movimento difesa del cittadino. Il laboratorio nasce con l’obiettivo di creare “momenti speciali” di incontro tra genitori e figli piccoli durante le visite in carcere. “Dal momento che - spiega l’Avv. Filippa Tirrito, presidente del movimento difesa del cittadino - il contesto carcerario può creare, specialmente nei bambini piccoli, sentimenti di disagio e ansia, l’occasione di leggere insieme delle fiabe consentirà di creare un clima più familiare, sereno e vicino alla realtà ordinaria e domestica dei bambini, permettendo al genitore detenuto di avvicinarsi al mondo quotidiano dei bambini, anche dal punto di vista linguistico”. La lettura di storie, fiabe, racconti, appositamente scelti per le particolari caratteristiche dei personaggi e degli eventi, rappresenteranno lo sfondo per la condivisione di momenti piacevoli e per facilitare l’emersione di sentimenti non espressi. “Questa attività - conclude l’avv. Tirrito - vedrà il coinvolgimento di otto bambini, con una fascia variegata d’età che va dai 2 ai 13 anni, e dei loro genitori, che per l’occasione avranno modo di vivere momenti di vita quotidiana, difficili da realizzarsi nel corso degli ordinari colloqui fra i detenuti e i loro familiari”. Autista dirotta bus di studenti e gli dà fuoco “per i morti nel Mediterraneo” di Roberto Maggioni Il Manifesto, 21 marzo 2019 Gesto di follia di un 47enne senegalese. I 51 ragazzi, alcuni legati ai pali del mezzo, riescono a scendere per l’intervento dei carabinieri. I pm: azione pianificata, è accusato di strage, aveva precedenti penali per guida in stato d’ebrezza e violenza sessuale. È stata una mia scelta personale, non ne potevo più di vedere bambini sbranati da squali nel Mediterraneo, donne incinte e uomini che fuggivano dall’Africa”. Sono queste le prime che ha detto ai pm Ousseynou Sy durante l’interrogatorio. Poteva essere una strage ieri a San Donato. L’uomo, un autista di Crema di 47 anni, ha dirottato l’autobus di cui era il conducente poco prima di mezzogiorno. A bordo c’erano 51 studenti della scuola media Vailati con alcuni docenti accompagnatori. Dovevano tornare a scuola dopo essere stati in palestra per l’ora di ginnastica ma l’autista ha cambiato strada e ha imboccato la strada provinciale Paullese. “Urlava di voler andare a Linate” hanno raccontato gli studenti. Particolare confermato anche dal procuratore capo dell’antiterrorismo milanese Alberto Nobili: “Ha cercato di sminuire la sua azione dicendo che non voleva fare male a nessuno e voleva arrivare a Linate e da lì prendere un aereo e scappare in Senegal” ha spiegato Nobili in conferenza stampa. “Ha detto di averlo fatto perché esasperato dall’attuale situazione migratoria”. All’altezza di San Donato il bus è stato speronato e bloccato dai carabinieri, gli agenti sono riusciti a far scendere gli studenti dalla porta posteriore rompendo i finestrini del mezzo. L’uomo è sceso dalla porta anteriore, aveva un accendino in mano. Prima di scendere aveva rovesciato della benzina da una tanica che aveva portato con sé. Quando ha dato fuoco al bus i ragazzi e le ragazze erano già in salvo e non ci sono stati feriti. “L’intento stragista era partito e l’uomo stava per dare fuoco, come poi ha fatto, al pullman” ha detto il procuratore capo della Repubblica di Milano Francesco Greco. “Se non stiamo a piangere 52 bambini è grazie a loro” ha detto riferendosi ai carabinieri di San Donato. Durante il primo interrogatorio l’uomo ha ammesso la premeditazione, l’azione era stata pensata da giorni. Ousseynou Sy “aveva già registrato un video fatto arrivare in Senegal” ha detto il procuratore Alberto Nobili “in preparazione del suo gesto eclatante”. Secondo Nobili la sua azione aveva l’intento di “mandare il messaggio “Africa Sollevati”, dire agli africani di non venire più in Europa e punire l’Europa per le politiche a suo dire inaccettabili contro i migranti”. L’uomo non è legato all’Isis o ad altre organizzazioni terroristiche, “la vicenda non va inquadrata nel terrorismo islamico” ha spiegato Nobili e l’uomo “non è inquadrabile per conoscenze investigative pregresse in nessun contesto radicalizzato”. “Voleva che tutto il mondo potesse parlare della sua vicenda” ha detto il procuratore Nobili e paradossalmente lui che “ha chiesto di fermare le stragi in mare ora è accusato di strage”. Quanto successo racconta qualcosa di ancora inedito in Italia: un uomo esasperato dalle morti dei migranti in mare ha tentato un gesto eclatante. Appena fermato agli agenti che gli chiedevano “perché lo hai fatto” ha risposto “per i morti nel Mediterraneo”. Gli studenti a bordo dell’autobus hanno raccontato che urlava di voler andare a Linate e che le persone muoiono in Africa e nel Mediterraneo “per colpa di Salvini e Di Maio”. In quei quaranta minuti di follia alla guida l’uomo - sempre secondo il racconto di studenti e docenti - ha costretto un’accompagnatrice a legare con delle fascette da elettricista quattro o cinque bambini ai pali interni del bus e ad altri ha sequestrato il telefono cellulare. Non a tutti, decisiva è stata infatti la telefonata di un ragazzo ai genitori e al 112. Di Ousseynou Sy si sa che era cittadino italiano dal 2004 e lavorava come autista per Autoguidovie di Crema da almeno 15 anni. Avrebbe due precedenti per guida in stato di ebbrezza e molestie sessuali risalenti al 2007 e al 2011, la Procura dovrà capire anche come potesse svolgere il lavoro di autista con precedenti di questo tipo. “La persona risulta essere residente a Crema e non è nota ai servizi sociali” ha detto la sindaca della cittadina Stefania Bonaldi. “Chiederemo conto ad Autoguidovie di quanto successe, su questo territorio svolgono loro questo servizio per il Comune. L’autista lavorava da loro da oltre quindici anni”. Terrorismo interno, il debutto di una nuova minaccia di Maurizio Molinari La Stampa, 21 marzo 2019 Il sequestro dell’autobus con i 51 bambini della scuola di Crema è un campanello d’allarme per l’Italia per le caratteristiche che somma: ha le modalità dell’atto terroristico, è stato compiuto da un immigrato naturalizzato che si proponeva di vendicarsi contro una specifica politica del nostro governo, sui migranti. Le modalità adoperate dal senegalese Ousseynou Sy nascono dall’emulazione di tecniche jihadiste: mettere dentro una vettura liquido infiammabile per lanciarla contro un edificio - l’obiettivo era l’aeroporto di Linate - al fine di innescare effetti devastanti è un metodo più volte usato - con e senza esplosivi - da gruppi islamici in Iraq, Afghanistan e Somalia così come il sequestro di bus civili è stato più volte firmato da terroristi palestinesi per ferire Israele. Non è un’operazione semplice perché richiede una certa pianificazione nella scelta dei tempi e dell’obiettivo finale da colpire senza contare che bisogna anche saper scegliere le vittime perché più i civili sono inermi - come nel caso dei bambini - più sono facili da soggiogare. Il fatto che Ousseynou abbia fatto legare ad un insegnante dei bambini minacciandoli con liquido infiammabile lascia intendere quanto tempo ha dedicato ai dettagli. A ciò bisogna aggiungere che il terrorista senegalese è un immigrato naturalizzato ovvero appartiene ad una tipologia di individui che in Europa, negli ultimi anni, sono stati a volte protagonisti di attentati oppure sono divenuti “foreign fighten) scegliendo di andare a combattere da volontari nelle fila dello Stato Islamico. Hanno passaporti europei ma, per le ragioni più diverse, odiano la patria acquisita e si affidano alla violenza più estrema. Se queste caratteristiche fanno rientrare Ousseynou Sy nella casistica delle modalità operative del terrorismo che sta insanguinando l’Europa dall’inizio di questo secolo, la terza invece è un’assoluta novità. Si tratta del movente perché, secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti, il killer “non è mosso da motivi religiosi” ma voleva “vendicare i morti in mare” e “in Africa” causati dalle “politiche di Salvini e Di Maio” sull’immigrazione. Ovvero, la scelta del terrore è un’arma per “punire” il governo a causa di politiche percepite come “omicide” contro individui simili. Ousseynou Sy è un cittadino italiano, è protetto dalla Costituzione e può esercitare liberamente i suoi diritti ma per protestare contro “le politiche Salvini-Di Maio” non sceglie il voto o il sostegno ad un partito, non organizza un’assemblea, una protesta e non scrive un testo diretto al pubblico bensì progetta una strage. Facendo capire che voleva portare la morte al prossimo per modificare una politica da lui avversata. È questo il precedente più allarmante - non solo per l’Italia ma per l’Europa - perché pone il rischio di individui violenti che si auto-attivano ricorrendo ai metodi del terrorismo per tentare di fermare specifiche politiche di singoli governi. Come anche presenta il rischio che la questione migratoria diventi motivo di violenza da parte degli elementi più estremi, emarginati, criminali o ribelli fra gli immigrati. Da qui la necessità di una duplice risposta. Anzitutto sul fronte della sicurezza perché i responsabili della prevenzione nel nostro Paese sono ora chiamati a prendere in esame nuove tipologie di minacce ed attentatori, assai differenti dalle categorie note dei jihadisti o dei suprematisti bianchi. Ma anche sul fronte della politica perché la tolleranza-zero nei confronti del terrorismo per essere efficace deve essere accompagnata da azioni programmatiche tese a ostacolarne la genesi e, nel caso dell’immigrazione, ciò significa darsi modelli di integrazione talmente efficienti da rafforzare, e non indebolire, la sicurezza collettiva. Davanti a quanto avvenuto ieri - un’intera scolaresca ha rischiato di perire incenerita per mano di un terrorista fai-da-te - l’errore più grave sarebbe ignorare che una linea rossa è stata superata. Obbligandoci a considerare la gestione dei migranti come un tema di sicurezza nazionale che non può essere lasciato in balìa di aspri scontri fra ong e leader politici, accomunati solo dall’intento di rafforzarsi a dispetto del rivale. Ora sappiamo che il tema dei migranti può attivare terroristi autodidatti e deve dunque essere affrontato tenendo bene in mente che è diventato un tassello del mosaico della nostra sicurezza nazionale. La diffusione del seme dell’odio può spingere le menti labili a colpire di Lorenzo Vidino La Stampa, 21 marzo 2019 Non esiste una definizione universalmente accettata di terrorismo, ma tra le più comuni è quella che ritiene terroristico un atto di violenza contro civili motivato da scopi o rimostranze politiche. Seguendo questa definizione, quanto avvenuto ieri alle porte di Milano pare essere terrorismo bello e buono. Informazioni più dettagliate affioreranno nei giorni e mesi a venire, ma Ousseynou Sy sembrava chiaramente intenzionato a compiere un atto di violenza raccapricciante contro civili e, secondo quanto da lui stesso proclamato, per “fermare le morti nel Mediterraneo”. Innanzitutto, vanno fatti i complimenti sia al ragazzino che ha avuto il coraggio e la lucidità di prendere il cellulare e avvertire dell’accaduto, sia alle forze dell’ordine, che hanno sventato una tragedia inenarrabile. Come giusto, bisogna poi porsi delle domande. Giusto chiedersi come sia possibile che un soggetto con precedenti penali (pare per guida in stato di ubriachezza e violenza sessuale su un minore) possa essere stato assunto come autista per bambini. E a livello investigativo è automatico capire come prima cosa se Sy abbia agito da solo, come sembra probabile, o se avesse complici. Quanto avvenuto va però analizzato dal punto di vista del profilo motivazionale, perché ci potrebbe portare a capire dinamiche che vanno ben al di là dell’atroce tentativo di Sy. Cosa lo ha spinto? La prima motivazione da prendere in considerazione è, logicamente, quella data dallo stesso Sy quando ha preso in ostaggio i bambini. Sy probabilmente pensava, in maniera deviata, che uccidendo bambini italiani avrebbe “vendicato” i migranti morti nel Mediterraneo. Sy è un cittadino italiano di origine senegalese e il suo background migratorio lo avrebbe apparentemente reso particolarmente sensibile alle drammatiche dinamiche relative ai flussi migratori nei nostri mari ed alle relative tensioni politiche che tutti conosciamo. Meno plausibile pare invece, almeno al momento, la pista della motivazione jihadista. Nei prossimi giorni gli investigatori setacceranno la vita di Sy, sia nel mondo fisico che in quello virtuale, per capire se avesse interessi e contatti nel mondo dell’estremismo islamista, ma al momento non pare fosse noto per essere religioso né tantomeno radicalizzato. Rimane il fatto che certi aspetti dell’azione di Sy - in primis il voler colpire soggetti inermi per antonomasia, i bambini - ricordano la spietatezza del terrorismo jihadista che abbiamo tristemente conosciuto negli ultimi anni. Fondamentale è al tempo stesso capire il profilo psicologico dell’attentatore. Dalle prime informazioni si parla di un soggetto con problemi comportamentali, con una serie di precedenti penali. Non è quindi da escludere che le molle che lo facciano scattare e compiere azioni violente siano molte, siano esse legate alla sua vita quotidiana (uno screzio, dei problemi familiari) o ad aspetti della politica che lo toccano particolarmente. Si può quindi ipotizzare - e solo questo si può fare al momento, quando i riscontri oggettivi sono molto limitati -ad un gesto che tocca i tre livelli di analisi sovra-citati. Sy sarebbe un soggetto dalla personalità problematica, che mosso da motivi personali e politici, decide di “farla finita” e di “vendicare” morti di soggetti nei quali si identifica. Nel fare ciò sceglie delle modalità non solo ben al di là della protesta politica (finora anche le ali più accese di chi si oppone alle politiche migratorie di questo o del precedente governo, tipo i centri sociali, hanno al massimo compiuto atti di vandalismo o hanno ingaggiato la polizia in scontri di piazza - nulla a che vedere con cercare di ardere viva una scolaresca), ma che non stupirebbero se adottate dai soldati del Califfato. A tal riguardo non si può certo escludere che l’ispirazione per un tale gesto venga da anni di immagini di attentati perpetrati contro civili nei modi più barbari e disparati e regolarmente amplificati dai media e da Internet (e, va detto, gli eventi in Nuova Zelanda ci mostrano che l’ultra-violenza non è certo un’esclusiva islamista). Ieri è andata, tutto sommato, bene (anche se il trauma per i bambini coinvolti e le loro famiglie è inimmaginabile). Come era andata bene dieci anni fa, l’ultima volta che si era andati così vicini a una strage terroristica in Italia. Ottobre 2009, sempre a Milano, Mohamed Game, ingegnere libico sposato con un’italiana, con mille problemi personali e di lavoro, aveva cercato di farsi saltare in aria all’interno della caserma Santa Barbara ma per un difetto dell’ordigno ferì solo leggermente il piantone. Motivazioni dichiaratamente jihadiste in quel caso, ma anche Game aveva un profilo personale problematico e aveva parlato di questioni politiche italiane nelle proprie conversazioni su Internet. Ne sapremo di più, ma è chiaro che, se questo è, il gesto isolato di una persona dalla personalità labile è per natura imprevedibile e si fatica a pensare quale politica, repressiva o preventiva, avrebbe potuto sventare quanto successo ieri. La ultra-mediaticità del terrorismo moderno e il suo conseguente aspetto emulativo, anche da parte di soggetti con diverse motivazioni politiche o spinti da follia pura, è però un aspetto da tenere in considerazione, dovendo generare un dibattito tra il dovere di informare ed il pericolo di fornire lo spunto al pazzo di turno. Migranti. Caso Mare Jonio, indagato il comandante e nave sequestrata di Alfredo Marsala Il Manifesto, 21 marzo 2019 È andata in porto. Contestato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rifiuto dell’obbedienza a nave militare per non aver spento i motori come chiesto dalla Finanza. Per almeno una decina di giorni la nave resterà ferma. “È il loro vero obiettivo”, accusa il capo missione di Mediterranea Luca Casarini. Con i migranti portati nel centro di accoglienza in attesa di capire quale sarà il loro destino, la partita si sposta tutta sul piano giudiziario. Da un lato Mediterranea, dall’altro la guardia di finanza delegata dalla Procura a indagare sul salvataggio avvenuto al largo della Libia e poi perfezionato con l’approdo di nave Jonio a Lampedusa. La lunga giornata di passione, vissuta in attesa degli interrogatori, si è aperta con il sequestro dell’imbarcazione ma soprattutto con l’iscrizione nel registro degli indagati del comandante della Jonio, Pietro Marrone. Gli contestano il favoreggiamento all’immigrazione clandestina per avere soccorso i 50 migranti al largo della Libia e, a sorpresa, anche il rifiuto di obbedienza a nave militare, previsto dal codice della navigazione, per non avere spento i motori come avevano chiesto i finanzieri quando con i pattugliatori hanno affiancato la Jonio in navigazione verso il porto di Lampedusa. Sull’isola arrivano gli avvocati Fabio Lanfranca e Serena Romano, legali del comandante che viene nuovamente convocato nel comando Brigata della Gdf per l’interrogatorio; questa volta alla presenza dei magistrati arrivati da Agrigento, l’aggiunto Salvatore Vella e la pm Cecilia Baravelli, titolari dell’inchiesta aperta dalla Procura, diretta da Luigi Patronaggio, che intanto convalida il sequestro probatorio, perché “serve ad accertare i fatti”. Prima di entrare in caserma, dove rimarrà per quasi cinque ore, il comandante Marrone si difende: “Sono tranquillo, ho fatto il mio dovere. Avrei dovuto lasciarli morire? Rifarei tutto per salvare le persone”. Anche i legali si mostrano fiduciosi. “Non conoscendo gli atti stiamo ricostruendo i fatti - aggiunge l’avvocato Lanfranca - Il comandante si è comportato in modo estremamente corretto, ha salvato vite umane, il favoreggiamento a mio giudizio non sta né in cielo né in terra”. E annuncia che “il sequestro sarà impugnato”. Per almeno una decina di giorni, però, la nave rimarrà ferma in porto. “È il loro vero obiettivo”, attacca Luca Casarini, capo missione della Jonio. Per l’armatore “il sequestro della nave è illegittimo”. “Il comandante ha agito nella totale legalità e nel rispetto del diritto internazionale - sostiene Beppe Caccia - Abbiamo fornito ai magistrati ogni elemento a nostra disposizione tra cui mail e filmati. Non siamo noi che ci nascondiamo dietro all’immunità e allo scudo parlamentare per evitare il processo per sequestro di persona, anzi siamo convinti che l’inchiesta della magistratura faccia chiarezza. Presto la nave Jonio sarà libera, torneremo in mare a salvare vite umane”. Oltre al comandante, sono stati sentiti anche il primo ufficiale e due ospiti della Jonio: un video-maker e il cronista di La Repubblica, Giorgio Ruta, ai quali i finanzieri hanno chiesto i filmati girati nel momento del salvataggio in mare. Agenti della mobile di Agrigento, invece, hanno cominciato a raccogliere le testimonianze dei migranti che si trovano nel centro di accoglienza di contrada Imbriacola. Si tratta di 35 uomini e 15 minori non accompagnati. La maggior parte proviene dalla Guinea (17, di cui 9 minori); quattordici arrivano dal Senegal (due i minori), nove dalla Nigeria, sette dal Gambia (tra cui due minori), due dal Camerun tra cui un minore e uno dal Benin. Giunti nel centro sono stati rifocillati, alcuni hanno pregato. Agli operatori hanno raccontato storie di violenze e torture; uno di loro ha riferito di avere attraversato con i barconi il Canale di Sicilia ben cinque volte e ogni volta è stato rispedito in Libia e ha mostrato i segni sul corpo per i maltrattamenti subiti nei campi libici. “Pensare che la Libia sia un porto sicuro e riconosciuto dall’Italia e dall’Ue è un’ipocrisia” afferma il medico Pietro Bartolo, che ha verificato le condizioni di salute dei migranti. “Abbiamo visto come la Guardia costiera libica tratta queste persone quando le ricupera - aggiunge il medico - Una parte li lascia in mare, una parte li scuote in mare come se fossero cimici e poi li picchia quando li mette a bordo. Questo non è rispettoso dei diritti umani”. Per Bartolo i migranti “vogliono solo sopravvivere e noi glielo dobbiamo permettere, il Mediterraneo deve tornare ad essere mare di vita non un cimitero”. Non si sa quando i 50 naufraghi potranno lasciare il centro. Migranti. Msf: “Stipati e senza cibo nel carcere di Tripoli” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2019 Manca il cibo nei centri di detenzione di Tripoli, centinaia di migranti sono alla fame. L’allarme di Medici Senza Frontiere arriva da uno degli ultimi centri creati nella Capitale, nel quartiere centrale al-Judeida, ribattezzato Sabaa, ossia “settimo”. Secondo lo studio, ripetuto nel gennaio e nel febbraio scorsi, aumentano i casi di malnutrizione tra le oltre 300 persone rinchiuse lì dentro, un terzo dei quali minorenni: il 2% si trova in condizioni severe, ma crescono anche le percentuali di malnutrizione moderata (dal 4 al 5%) e lieve (dal 12 al 16%). Il 24% degli adulti è sottopeso, tra i minorenni sono aumentati dal 21 al 26% in un mese. E sono in forte aumento i casi di tubercolosi a causa della carenza di medicinali. Il sovraffollamento dei centri gestiti dal Dcim - il ministero per il contrasto all’immigrazione clandestina del governo di Concordia nazionale guidato da al-Sarraj - ha costretto le istituzioni a reperire nuovi spazi dove spostare rifugiati e profughi. Sabaa è uno di questi e dal giugno scorso sono iniziati i lavori di ripristino di un’ex caserma attiva ai tempi di Gheddafi. Non sono ancora terminati, ma nel frattempo, secondo Msf, nel compound cercano di sopravvivere in 300. Stipati come bestie a volte: il 21 febbraio scorso l’équipe di Msf ha trovato 31 persone chiuse a chiave in una cella di pochi metri quadrati: uno spazio di 0,7 metri a persona. Il centro è attivo da otto mesi e ospita soprattutto eritrei, ma anche nigeriani, camerunensi, sudanesi e ghanesi. Parte di loro è stata ripescata in mare, anche grazie alle motovedette fornite dal governo italiano. E lì dovrebbe finire anche chi viene soccorso nel Mediterraneo dalle Ong e riportato in Libia. L’organizzazione internazionale ha accesso a cinque centri di detenzione “ufficiali”, cioè governativi. Nel Paese ce ne sarebbero una settantina, la maggior parte dei quali gestiti dalle milizie; si stima la presenza in Libia di 670 mila tra rifugiati, richiedenti asilo e migranti, tra cui 5.700 reclusi in centri del governo. A Sabaa come altrove Msf svolge visite settimanali con équipe mediche. Nel centro di al-Judeida gli alimenti vengono consegnati con estrema difficoltà. Dall’autunno scorso, la somministrazione del cibo avviene una volta ogni due o addirittura tre giorni. Spesso, inoltre, i migranti sono costretti a pagare. Tutto ciò ha spinto Msf a intervenire fornendo due settimane di approvvigionamenti alimentari. “Per la prima volta in questi giorni il governo italiano ha scritto nero su bianco che la Libia rappresenta un porto sicuro - commenta Marco Bertotto, responsabile advocacy di Msf. Eppure le leggi internazionali e marittime, numerosi rapporti delle Nazioni Unite e quanto testimoniano ogni giorno i nostri medici nei centri di detenzione in Libia, affermano esattamente il contrario”. Romania. Il Consiglio d’Europa denuncia condizioni precarie nelle carceri Nova, 21 marzo 2019 Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti disumani e degradanti del Consiglio d’Europa si è dichiarato “preoccupato” per quelli che definisce “abusi” e “condizioni precarie” esistenti nei carceri della Romania. In un rapporto citato dall’agenzia di stampa romena “Agerpres”, in seguito alla visita effettuata a febbraio 2018 in dieci centri di reclusione del paese, i membri del Comitato lmentano gli abusi commessi dal personale nei confronti dei detenuti, le violenze tra gli stessi detenuti, nonché i trattamenti degradanti applicati dalla polizia. Il Comitato del Consiglio d’Europa raccomanda al ministero dell’Interno di Bucarest e all’Ispettorato generale della polizia romena di trasmettere un messaggio chiaro sul fatto che i trattamenti degradanti nei confronti dei detenuti sono illegali, e dimostrano mancanza di professionalità e saranno puniti su misura. Il Comitato approva le azioni avviate nel 2014 per una riforma del sistema penitenziario di Romania, soprattutto lo sviluppo del servizio di liberazione condizionale, la diminuzione del numero dei detenuti di circa il 30 per cento, nonché l’introduzione di misure compensatorie per i detenuti reclusi in condizioni di sovrappopolazione. Bosnia-Erzegovina. Karadzic condannato all’ergastolo all’Aja di Ester Nemo Il Manifesto, 21 marzo 2019 Guerra interetnica 1992-1995: pena aumentata per l’ex leader serbo-bosniaco. Karadzic colpevole del massacro di Srebrenica e dell’assedio di Sarajevo, è stato condannato al’ergastolo dalla nuova Corte dell’Aja, che ha però ribadito, come nella sentenza di primo grado, che l’ex leader dei serbi di Bosnia non è responsabile di “genocidio” in altri sette Comuni bosniaci. Il leader serbo-bosniaco era ricorso in appello contro la precedente condanna, ma il tribunale ha aumentato la pena per i crimini commessi. L’ex capo politico dei serbi di Bosnia era stato condannato in primo grado tre anni f a 40 anni per i crimini compiuti a a Srebrenica, a Sarajevo e nel resto della Bosnia-Erzegovina, durante il conflitto armato inter-etnico del 1992-1995. A pronunciare la sentenza di appello, i giudici del Meccanismo residuale per i Tribunali criminali, l’organismo che ha preso il posto del Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (Tpi), che nel 2018 ha chiuso le attività. Karadzic fu arrestato a Belgrado nel 2008 al termine di una latitanza lunga e avventurosa condotta sotto falso nome e grazie a una catena di appoggi. Il processo a suo carico davanti al Tpi cominciò nell’ottobre 2009. All’Aja. Per la sentenza, è arrivata anche una delegazione delle Madri di Srebrenicà All’Aja è in attesa di giudizio anche il responsabile diretto dell’eccidio, il generale Ratko Mladic. “La sentenza - è la prima reazione di Karadzic - non ha alcun legame con giustizia”, secondo quanto riferito dal difensore Goran Petronjevic. Non sono ancora arrivate - ma non tarderanno - le reazioni dell’Entità Serba di Bosnia che ha sempre ribadito la necessità di processare figure, come quella di Naser Oric, comandante musulmano di Srbrenica, per le sue responsabilità in crimini contro i serbi. La guerra nascosta degli Usa in Somalia: oltre 100 attacchi aerei in due anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 marzo 2019 Secondo un rapporto diffuso questa mattina da Amnesty International, negli ultimi nove mesi del 2017 gli Usa hanno compiuto 34 attacchi aerei in Somalia, più del totale del periodo tra il 2012 e il 2016. L’aumento è proseguito nel 2018 con 47 attacchi e pare confermato anche nel 2019, con 24 attacchi nei soli due primi mesi dell’anno. Di questi oltre 100 attacchi aerei, l’organizzazione per i diritti umani ne ha analizzati cinque, in cui sono stati uccisi 14 civili e altri otto sono rimasti feriti, che potrebbero costituire veri e propri crimini di guerra. I cinque attacchi aerei sono stati portati a termine con droni Reaper e aerei con equipaggio a bordo nel Basso Shabelle, una regione che circonda la capitale Mogadiscio e che è controllata pressoché totalmente dal gruppo armato al-Shabaab. Il Comando Usa in Africa (Africom), cui Amnesty International ha sottoposto le proprie conclusioni, ha smentito che nelle sue operazioni in Somalia siano stati uccisi civili. Ma il numero di vittime civili scoperto in solo una manciata di attacchi aerei lascia pensare che il totale sia ben più alto. Basti considerare che dal 2016 gli Usa hanno triplicato i loro attacchi aerei in Somalia, superando il totale di quelli in Libia e Yemen. Il numero degli attacchi è andato crescendo dal 30 marzo 2017, quando il presidente Trump ha firmato un decreto per dichiarare la Somalia “area di ostilità attive”. Secondo un generale statunitense in pensione intervistato da Amnesty International, il decreto ha diminuito l’onere per le forze armate Usa di garantire che negli attacchi aerei non verranno uccisi civili. A suo giudizio, e ciò è molto preoccupante, il decreto ha ampliato il numero dei potenziali bersagli fino a comprendere praticamente qualsiasi maschio adulto che viva nei villaggi che simpatizzano per al-Shabaab e che si trovi nelle vicinanze di persone conosciute come combattenti. Questo mandato così esteso potrebbe violare il diritto internazionale umanitario e causare l’uccisione illegale di civili. Le testimonianze, le immagini satellitari e l’analisi dei frammenti ritrovati sul posto fanno ritenere che l’attacco della notte tra l’11 e il 12 novembre 2017 nei pressi del villaggio di Darusalaam, nel quale sono stati uccisi tre civili, sia stato portato a termine mediante una bomba GBU-69/B Small Glide Munition, che può essere lanciata solo da un aereo AC-130. L’impiego di questo aereo, che non si vedeva in Somalia da oltre 10 anni, è purtroppo un altro segnale dell’escalation di questa guerra nascosta e oscurata.