“Il sovraffollamento c’è anche per il ministro e per il Dap” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 marzo 2019 Le parole dell’esponente radicale Rita Bernardini dopo l’incontro di ieri con il Guardasigilli. “C’è stato il riconoscimento sia da parte del ministro Bonafede che da parte del capo del Dap Basentini dell’esistenza di un sovraffollamento nelle carceri”, queste le prime parole rilasciate ieri dall’esponente radicale Rita Bernardini dopo aver incontrato il Guardasigilli nella sede del Ministero a via Arenula. Al tavolo di discussione, durato circa un’ora, c’erano anche il sottosegretario di Stato del ministero della Giustizia, Vittorio Ferraresi, l’avvocato Giuseppe Rossodivita ed Elisabetta Zamparutti, entrambi membri della Presidenza del Partito Radicale e l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. A richiedere l’incontro era stata in primis Bernardini per una “operazione verità sulla portata del sovraffollamento penitenziario in Italia e sulla legalità dell’esecuzione penale”. Al 28 febbraio 2019 i detenuti nelle nostre carceri sono 60.348 rispetto ad una capienza regolamentare di 50.522. Se per gli esponenti del Partito Radicale si tratta chiaramente di una situazione di grave sovraffollamento, il capo del Dap aveva precisato che “quello del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani è un falso problema, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista dimensionale-logistico”. Invece, secondo quanto riportato ieri dalla delegazione radicale, gli esponenti del governo avrebbero concordato con l’esistenza del problema e al contempo con la necessità di superare lo stato attuale per garantire condizioni dignitose di detenzione. Rita Bernardini ha infatti dichiarato: “Sui temi affrontati c’è una divergenza di fondo. Noi riteniamo che l’esecuzione penale sia illegale e abbiamo chiesto di rientrare nella legalità. Loro hanno tutt’altra opinione. Abbiamo discusso a lungo del criterio con cui vengono calcolati gli spazi a disposizione in cella dai singoli detenuti. Ma c’è stato il riconoscimento sia da parte del ministro che da parte del capo del Dap dell’esistenza di un sovraffollamento strutturale. Divergiamo però, come con tutti i precedenti governi, sul fatto che la pena oggi non corrisponde al dettato costituzionale. Per questo abbiamo fatto presente alcune cifre: sono previsti solo 999 educatori, che sono davvero molto pochi rispetto alle esigenze. L’altro dato eclatante, che a mio avviso dimostra che la pena non tende alla rieducazione del condannato, è quello relativo agli assistenti sociali, 400 in meno rispetto al numero previsto in pianta organica. Abbiamo ottenuto una piccola cosa a favore di un monitoraggio serio delle carceri ossia l’impegno dell’aggiornamento delle schede riguardanti i singoli istituti penitenziari”. Per Gianpaolo Catanzariti “permane la visione carcerocentrica. Comunque l’incontro di oggi (ieri, ndr) è stato positivo; pur partendo da posizioni opposte alla fine si è arrivato al riconoscimento oggettivo di un dato - quello del sovraffollamento - che non può essere disconosciuto. Non si tratta solo di un problema numerico ma è una criticità che riguarda l’interno sistema carcerario: sovraffollamento significa anche personale insufficiente, soprattutto quello trattamentale e quello dell’area sanitaria. Avere un medico per 315 detenuti significa non poter garantire un servizio sanitario all’altezza”. Giuseppe Rossodivita ha sottolineato il “confronto importante sulla concezione del sovraffollamento. Il ministro ha rivendicato che questo governo ha una visione carcerocentrica, in particolar modo riferendosi allo Spazza-corrotti. Abbiamo ribadito che più carcere non significa più sicurezza”. Elisabetta Zamparutti conclude: “Abbiamo chiesto di dare continuità a quei laboratori - ad esempio Spes contra Spem - che come Nessuno Tocchi Caino e Partito Radicale portiamo avanti nelle sezioni di alta sicurezza e su questo c’è stata piena condivisione”. Nessun commento ufficiale dell’incontro è invece pervenuto dagli uffici del Ministero e del Dap. Detenuti violenti: in 5 mesi più di 1.800 trasferimenti di Valentina Stella Il Dubbio, 20 marzo 2019 I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si riferiscono al periodo tra il 9 ottobre 2018 al 5 marzo scorso. Sono 1.829 i detenuti trasferiti ad altro istituto per motivi di sicurezza: lo ha reso noto ieri un monitoraggio del Dap a cinque mesi dalla circolare del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che prevede l’immediato trasferimento in altri istituti, anche lontani, per gravi motivi di sicurezza di detenuti responsabili di aggressioni, anche solo tentate, agli agenti di Polizia Penitenziaria, al personale sanitario, agli operatori o ad altri reclusi o che abbiano messo in atto qualsiasi evento a carattere violento o danneggiato beni dell’Amministrazione. I dati raccolti si riferiscono al periodo che va dal 9 ottobre 2018 - quando quindi il capo del Dap Francesco Basentini firmò la nota inviata a tutti gli istituti penitenziari - al 5 marzo scorso. Si tratta di ben 520 soggetti in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando c’era l’altro Governo. In tal modo l’attuale amministrazione penitenziaria ha voluto dare impulso all’applicazione di strumenti normativi già previsti dalla legge 354/ 1975, secondo la quale viene automatizzato un meccanismo di pronta reazione deterrente al frequente ripetersi di eventi critici e violenze. “Il ricorso a tali strumenti - sottolineava la circolare del Dap - di cui deve essere evitata qualsiasi finalità disciplinare, rende perfettamente e reciprocamente complementari il rispetto della pena con una civile e sicura convivenza all’interno delle strutture penitenziarie”. Ricordiamo che la circolare era stata annunciata già il 4 settembre scorso a seguito di diversi incontri del dottor Basentini con i sindacati di polizia penitenziaria durante i quali aveva trovato conferma della tendenza in crescita delle aggressioni soprattutto verso gli agenti. Tornando ai dati diffusi ieri, si legge in particolare che sono stati 279 i provvedimenti emessi dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento nei confronti di detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza (110), media sicurezza (138), collaboratori di giustizia e congiunti di questi (31). Fra i 1.550 disposti dai Provveditorati regionali, i più numerosi sono stati quelli del Prap Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria (341), seguito dai Prap di Lazio, Abruzzo e Molise (232), Sicilia (231) e Puglia e Basilicata (225); pochi infine quelli disposti in Sardegna (36) e Calabria (15). Le conseguenze negative dell’uso e dell’abuso delle misure cautelari di Bruno Ferraro* Libero, 20 marzo 2019 Esiste o no, nel nostro Paese e nell’attuale momento storico, un uso distorto di arresti, sequestri e più in generale di misure preventive da parte dei giudici? Più chiaramente, sussiste la tendenza a farvi ricorso nella delicata fase delle indagini preliminari, in cui il rapporto si instaura tra Pm e Gip in assenza di un confronto con la persona indagata che apprende delle accuse a suo carico inopinatamente, nel momento in cui il provvedimento restrittivo, emesso senza preavviso, viene messo in esecuzione dagli agenti di polizia giudiziaria? Se la risposta fosse affermativa, occorrerebbe porsi una serie di domande: quale valore è possibile attribuire alla presunzione di non colpevolezza sancita dalla nostra Carta costituzionale? Quale spazio residua per il concreto esercizio del diritto di difesa, anch’esso di rango costituzionale, quando viene meno o si riduce la centralità del dibattimento ovvero della sede in cui si formano e raccolgono le prove di poi utilizzate dal giudice a fondamento della propria decisione? Chi risarcisce il cittadino dichiarato successivamente innocente per il danno incalcolabile arrecato alla sua immagine dalla messa in atto della misura cautelare? È giusto, quando si tratta di misure cautelarti reali (esempio sequestri di cantieri e stabilimenti), fermare una produzione e con essa lasciare a casa migliaia di lavoratori? (penso al caso del sequestro dell’Ilva di Taranto e di una parte dei cantieri navali di Monfalcone). Non appaga la risposta basata sulla obbligatorietà dell’azione penale, in quanto l’emissione della misura cautelare avviene nell’esercizio di un potere discrezionale del giudice e dal codice penale è prevista solo come extrema ratio per cui è ipotizzabile nel solo caso di pericolo di reiterazione del reato, rischio di fuga ed inquinamento delle prove. Quanto ai cantieri, la sola necessità di una perizia o di una contro perizia esclude in via di principio l’opportunità di una misura cautelare preventiva, soprattutto per i tempi non brevi e piuttosto lunghi necessari per l’effettuazione degli accertamenti peritali. Si consideri che questi ultimi, con l’instaurazione di un incidente probatorio, acquistano valore come fonti di prova e sono perciò utilizzabili in dibattimento senza bisogno di una reiterazione. Da quanto detto consegue per il giudice un carico di pesante responsabilità nel momento in cui richiede (Pm) od emette (Gip) una misura cautelare. La Costituzione preserva il giudice dal rischio di una responsabilità diretta, salvo dolo o colpa grave, ma garantisce anche gli altri valori che invece vengono conculcati nei casi di superficiale o non ponderata valutazione del quadro indiziario. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Dalle morti ai video online, tocca al Parlamento intervenire di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 20 marzo 2019 È davvero colpa dei giudici se ad alcuni imputati, accusati di aver ucciso la propria compagna, è stata inflitta una pena che sembra troppo mite? O non è piuttosto colpa della politica che, se la situazione fosse davvero così grave, non è ancora intervenuta, con leggi apposite, per evitare sentenze che fanno discutere, in modo non sempre tecnicamente ineccepibile? Quando una donna viene uccisa dal suo uomo per un malsano senso di possesso, la negazione stessa dell’uguaglianza nella coppia, si procede pur sempre e solo per omicidio: il femminicidio, termine terribile, ma di grande impatto evocativo, infatti, ancora non esiste per il codice penale, che punisce, però, con l’ergastolo chi uccide il proprio compagno. Se sul piano emozionale solo il carcere a vita e via la chiave, senza sconti né benefici, può sembrare la sanzione più equa, il deterrente per arginare la coazione a ripetere degli uomini che uccidono le donne, chi è chiamato a giudicare non usa il cuore e, se prova empatia per la vittima, deve metterla a tacere. L’imputato va giudicato, infatti, per quel che ha fatto, con una sentenza non esemplare, ma che applichi in modo imparziale le norme vigenti, tenendo conto di tutti gli elementi accertati. È la legge, dunque, la sola cui il giudice sia soggetto, che consente di riconoscergli, anche se ha ucciso la sua donna, le attenuanti generiche, che riducono la pena, azzerando le aggravanti; e di processarlo con il rito abbreviato, che l’abbatte di un terzo ancora, fino ad arrivare, com’è successo per due volte in pochi giorni, ai fatidici e non casuali 16 anni di reclusione. Un mero calcolo matematico, in parte obbligato, che elide, però, ancora un po’ la fiducia nella giustizia, specie se poi qualche giudice indulge nell’uso di parole irrispettose per la vittima, anche se, ma solo alla fine del processo, si dovesse scoprire che ha mentito. Se davvero è il codice ad essere inadeguato - ed io non penso affatto che lo sia - è il Parlamento, al di là delle buone intenzioni, che può metterlo al passo coi tempi, come nel 1981, quando abrogò quel delitto d’onore, citato spesso a sproposito, retaggio di un comune sentire, risalente al diritto romano: a uomini e donne, assassini del coniuge fedifrago, còlto sul fatto, i giudici non potevano dare più di 7 anni di carcere, suscitando anche allora grandi proteste. Se proprio se ne avverte la necessità, si introducano allora limiti ai benefici per il femminicida, se la Costituzione lo permette, ma si intervenga anche e in fretta - Tiziana Cantone è morta da oltre due anni- per tutelare altre donne, diversamente massacrate, quelle che subiscono l’onta permanente della diffusione di loro immagini o video privati, sessualmente espliciti, il cosiddetto revenge porn, sul quale sembra calato di nuovo il silenzio. È certo un chiaro sintomo di regresso storico e culturale, se di questo vogliamo parlare, quando l’ex compagno, spesso per vendetta, sbatte in una piazza virtuale, ma perenne, la vita più intima della sua donna, che continua a vivere, a lavorare, ad incontrare gente, a subire e da viva il pregiudizio - nell’immaginario lui è pur sempre uno sciupafemmine, lei una femmina che si è fatta sciupare - la pena più dura ed immeritata, dovendosi confrontare ogni giorno, se ce la fa e fino a quando ce la fa, a tacer d’altro, con sguardi di riprovazione, di scherno o ammiccanti. Sappiamo che quando si vuole, si legifera in fretta, ma bisogna anche farlo bene, dunque giusta una pena progressiva e proporzionata alle conseguenze che causa, per chi divulga i video - da 5 a 10 anni se la vittima si uccide - purché lo si identifichi, assai meno comprensibile la sostanziale impunità, per chi consente la condivisione perpetua di quelle immagini. Sono i social media e i siti internet che alimentano la gogna, consentendo la circolazione e la condivisione esponenziale di quelle immagini: non prevedere per chi li gestisce - e non per mera filantropia - una sanzione penale, oltre che economica, quando non rimuovono, oscurano o bloccano quelle immagini, vuol dire non aver capito il vero problema o, a pensar male, semplicemente non volerlo risolvere davvero. I magistrati bocciano il “codice rosso”: dannoso sentire le vittime entro 3 giorni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 marzo 2019 L’obbligo nel ddl contro le violenze su donne e minori: boomerang per procure e indagini. La modifica era stata pensata per evitare che le denunce restino nei cassetti degli uffici giudiziari. La riforma che prevede l’obbligo per il pubblico ministero di sentire le vittime di presunti maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, atti persecutori e reati collegati è inutile, difficilmente applicabile e potenzialmente dannosa. Così la pensano i magistrati specializzati nelle indagini sulle violenze contro le donne e i minori, che bocciano in maniera piuttosto netta la norma inserita nel disegno di legge che ha come primo firmatario il ministro della Giustizia Bonafede. Un intervento ribattezzato “codice rosso” e propagandato come una delle principali novità nell’azione governativa in materia, criticato quasi all’unanimità da chi ogni giorno è impegnato nelle indagini. Le differenze - A differenza del progetto presentato dalla deputata Cinque Stelle Stefania Ascari, che riserva l’interrogatorio immediato condotto dal pm ai casi in cui ve ne sia effettiva necessità, la riforma del governo (riprodotta in copia anche da una proposta di Forza Italia) impone che di fronte alle accuse di violenze domestiche o “di genere” l’inquirente abbia l’obbligo di “assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha presentato denuncia entro il termine di tre giorni dalla notizia di reato, salvo imprescindibili esigenze di tutela della riservatezza”. Una modifica pensata per evitare che le denunce restino nei cassetti degli uffici giudiziari, ma che nella realtà potrebbe rivelarsi un boomerang destinato a ingolfare le Procure e creare difficoltà alle indagini. Montoleone: profili critici - “Ci sono profili critici che meritano attenta considerazione”, avverte il procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone, coordinatrice del pool anti violenze, nella relazione consegnata alla commissione Giustizia della Camera dopo l’audizione del 20 febbraio. Nella quale mette in guardia da interventi slegati dalla conoscenza del fenomeno e problematiche connesse. Il suo gruppo, nell’ultimo anno giudiziario, s’è occupato di oltre 4.500 provvedimenti tra violenze sessuali, pedopornografia, lesioni volontarie, maltrattamenti in famiglia e atti persecutori, e ha chiesto 667 misure cautelari tra cui 300 arresti in carcere. Tuttavia, dei 1.545 fascicoli per maltrattamenti, per circa 600 è stata chiesta l’archiviazione: sono altrettanti casi in cui l’adempimento previsto dalla riforma sarebbe stato “del tutto inutile”, con spreco di mezzi ed energie già insufficienti al lavoro quotidiano. Le “maggiori criticità” riguardano i reati contro “i minorenni e le vittime particolarmente vulnerabili, il cui ascolto presenta profili del tutto specifici” su tempi, utilità e modi con cui raccogliere le testimonianze. L’obbligo proposto “è una misura che aggrava il rischio di vittimizzazione secondaria della vittima, perché aumenta il numero di volte in cui viene sentita, peraltro non nel contraddittorio delle parti”. Ogni volta che si costringe una persona a ripercorrere ciò che ha subito si infligge un aggravio di sofferenze che potrebbe essere dannoso non solo alle parti lese, ma pure alle indagini e ai successivi processi, col rischio di introdurre contraddizioni nei racconti e ostacolare la raccolta delle prove. I dubbi di Russo e Roia - Gli “effetti distorsivi e controproducenti rispetto alle finalità perseguite” sono sottolineate anche dal procuratore aggiunto di Bologna Lucia Russo, secondo cui “la necessità di non procedere con immediatezza alla verbalizzazione della vittima potrebbe essere determinata da esigenze investigative e non di riservatezza”. Inoltre capita spesso che la persona offesa, convocata in tutta fretta, neghi o mostri “totale mancanza di collaborazione a causa di una “dissonanza cognitiva” in ordine alla propria condizione di vittima”, come insegna l’esperienza di chi si occupa di questi casi. Se tutto ciò si riversasse in dichiarazioni formalizzate, bisognerebbe poi inquisire le vittime per false dichiarazioni al pm. Il presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Milano Fabio Roia ha segnalato il valore “solo simbolico” del nuovo obbligo, spiegando che ci possono essere molte ragioni per non raccogliere subito le dichiarazioni delle parti offese. Come gli altri magistrati, anche Roia ha sottolineato molti aspetti positivi soprattutto del disegno di legge Ascari che interviene in maniera più strutturale e “sistemica” sull’intera materia, superando la logica dell’intervento a fini di propaganda. Che invece sembra ispirare lo spot governativo sul “codice rosso”. L’aggressore di Lucia Annibali: “Perdona il mio gesto” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 20 marzo 2019 Lei pronta a farlo: “Ma serve più a lui”. Il colpo di scena arriva via lettera dal carcere di Larino, Campobasso. L’italiano è un po’ incerto ma il senso è chiarissimo. “Lucia perdonami” dice la prima riga. “Perdona il mio gesto indegno e brutale e perdona me che lo fatto (...) Ho provato ad essere nei tuoi panni e non posso stare più di qualche secondo nei momenti di dolore e di sofferenza causati da me. Che io sia maledetto per sempre(...) Vorrei abbracciarti e stringere le tue mani con le mie. Puoi essere la mia guida anche se il peccato lo porterò a vita (...) Non posso fare l’indifferente come se non c’è stato niente (...) Allungami la mano, Lucia, perché non sono un mostro ma un grande errore. Se mi perdoni mi aiuti”. Firmato: Rubin Talaban. Una confessione. L’ammissione di un uomo che mai, in tre gradi di giudizio e sei anni di carcere, aveva detto una sola parola per ammettere la sua colpevolezza. Rubin, 37 anni, è l’albanese che la sera del 16 aprile 2013 sfregiò Lucia Annibali. Lei all’epoca aveva 36 anni ed era avvocatessa a Pesaro (oggi è una parlamentare pd). Quella sera stava per aprire la porta di casa sua quando la sagoma scura di un uomo la spalancò dall’interno. Era lui, Rubin detto Ago. “Mi guardò, come a voler memorizzare il mio viso e fu l’ultimo a vederlo com’era” ricorda lei. “Fu preciso, lento, sicuro. L’ho visto prendere la mira e tirarmi il liquido in faccia, dal basso verso l’alto, da destra verso sinistra”. Sono passati sei anni. La giustizia ha presentato il conto definitivo: 20 anni a Luca Varani, l’ex fidanzato di Lucia che ordinò l’agguato, e 12 anni ciascuno a Rubin Talaban e al suo complice - il palo - che è un albanese come lui e si chiama Altistin Precetaj. Per tutto questo tempo ha prevalso il silenzio. Nessuna ammissione nemmeno davanti alle fotografie del volto di Lucia nei giorni più bui. Gli occhi cuciti, gli innesti di pelle, la sofferenza, il rischio di perdere la vista, la fatica di affrontare l’enormità fisica e psicologica di quelle condizioni. Fra allora e oggi ci sono una ventina di interventi chirurgici e una vita ricostruita daccapo, come il viso. Quando la lettera di Rubin è arrivata nello studio legale di suo padre, a Urbino, Lucia l’ha letta una prima volta e l’ha messa da parte. L’ha lasciata in un cassetto cercando di non pensarci. Si è presa del tempo per capire quali emozioni avessero mosso, quelle parole. Rubin, lo sconosciuto che aveva accettato di fare il sicario e fare del male a una ragazza che non aveva mai visto in vita sua, adesso le chiedeva di allungargli la mano... Rubin che aveva abitato nei suoi incubi per notti e notti dopo l’agguato, ora chiedeva “perdono per dare senso alla mia vita”. Rubin il cattivo oggi giura che “sto cercando di migliorarmi perché anche la mia vita è cambiata”. “Se quello che scrive è la sincera verità - riflette lei -, se davvero oggi è consapevole di quello che ha fatto e non è più la sagoma scura che ho visto dentro casa mia, io lo posso anche perdonare. Ma quel perdono serve più a lui che a me. Deve fare i conti con quel che ha fatto come io convivo ogni giorno con quello che mi ha fatto, perdono o non perdono. Se tutto questo non è una carta da giocare per avere permessi o chiedere misure alternative, meglio per lui e per il suo futuro. Ma io dico anche meglio per tutti noi, perché ogni detenuto recuperato è una garanzia di sicurezza per la società intera. Detto questo, non è che ora diventiamo amici o che io abbia intenzione di incontrarlo. Tra l’altro la sentenza prevede che, espiata la pena, lui torni nel suo Paese”. Arriverà il giorno in cui i responsabili dell’agguato saranno di nuovo liberi. “Finora il fatto che fossero detenuti e fisicamente distanti mi ha aiutato - ragiona Lucia - perché le vittime hanno bisogno di tempo e distanza per lavorare su se stesse e sul trauma che hanno vissuto. Io non voglio vendetta, sconteranno le loro pene e usciranno, va bene così. Io voglio solo vivere tranquilla”. Caso Diciotti. Si nega l’autorizzazione a chi rivendica il reato di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 20 marzo 2019 Nei populisti, l’assenza dei limiti alla volontà popolare, a sua volta identificata con la loro volontà, è nella negazione della subordinazione della politica ai diritti. L’aspetto più minaccioso dell’ideologia populista, allorquando i populisti, come in Italia, sono al potere, risiede in una concezione elementare e tendenzialmente anti-rappresentativa e anti-costituzionale della democrazia, frutto di due mistificazioni ideologiche. La prima mistificazione è l’identificazione dei vincitori delle elezioni con il popolo, degli eletti con gli elettori, della volontà del ceto politico con la volontà popolare. La seconda è l’idea che la democrazia consista nell’onnipotenza della maggioranza in quanto espressione della sovranità popolare e, quindi, la negazione di quel tratto distintivo della democrazia costituzionale che è l’insieme di limiti e vincoli imposti dalla Costituzione alla legislazione e perciò ai poteri politici di maggioranza. Questa tendenza dei rappresentanti a identificarsi con il popolo rappresentato e perciò a concepire la sovranità popolare come la loro sovranità, benché rifletta una tentazione diffusa in tutto il ceto politico, forma il tratto distintivo soprattutto dei populisti, la cui concezione primitiva della democrazia consiste nell’idea dell’assenza di limiti alla volontà popolare, a sua volta identificata con la loro volontà, e perciò nella rimozione di quella grande conquista del secolo scorso che è stata la subordinazione della politica ai diritti costituzionalmente stabiliti. È precisamente questo il senso e la portata della probabile negazione dell’autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale di Catania contro Matteo Salvini per il sequestro di 177 migranti, privati per lunghi giorni della loro libertà personale sulla nave Diciotti. Il ministro Salvini ha costruito il consenso popolare e la sua fortuna politica mediante l’ostentazione di misure tanto disumane quanto illegali: non solo la privazione della libertà per la quale è stato incriminato, ma anche la preordinata omissione di soccorso, la chiusura dei porti oggi nuovamente ordinata contro la nave Mare Jonio che ha salvato la vita a 49 migranti, la violazione della convenzione di Amburgo sui salvataggi in mare e perfino del nostro Testo unico sull’immigrazione che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo, delle donne incinte e dei minori non accompagnati. Ebbene, la negazione dell’autorizzazione a procedere contro Salvini non viene motivata da questa maggioranza con la supposta esistenza, come nelle comuni autorizzazioni, di un qualche fumus persecutionis o comunque, come nel caso del famoso voto del Parlamento sulla minorenne Ruby nipote di Mubarak, con la tesi dell’inesistenza del reato contestato. In questi casi, con la negazione sia pure non credibile del reato, il vizio rendeva omaggio alla virtù. Al contrario, la proposta di negare l’autorizzazione a procedere avanzata lo scorso febbraio dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato è stata basata sull’aperta rivendicazione del reato - e ovviamente di tutte le altre violazioni dei diritti umani, passate e future - da parte dell’intero governo in nome di un “preminente interesse pubblico”. Non dimentichiamo che Salvini, quando ricevette l’avviso di garanzia, dichiarò che l’avrebbe appeso al muro come una medaglia. Si sta così dando vita a un precedente gravissimo, forse - è sperabile - nell’inconsapevolezza generale. Certamente la probabile negazione dell’autorizzazione a procedere sarebbe formalmente legittima. L’articolo 9, comma 3 della legge costituzionale n.1 del 1989 - una vera mina collocata alla base del nostro assetto costituzionale - prevede infatti che il Parlamento possa negare l’autorizzazione a procedere contro un ministro sulla base della “valutazione insindacabile” da parte della maggioranza, del cui sostegno i ministri godono per definizione, “che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Tuttavia dovrebbe essere chiaro che la legittimità formale di tale negazione nulla toglierebbe alla sua enorme gravità politica. La negazione dell’autorizzazione a procedere - anche con il voto di quanti gridavano “onestà” e “legalità” e che evidentemente considerano assai più grave un fatto di corruzione che l’omissione di soccorso e le stragi in mare di centinaia di migranti - varrebbe ad avallare due tesi, l’una di merito e l’altra di metodo, equivalenti, di fatto, alla negazione dello stato costituzionale di diritto. La prima è che è nell’interesse dello Stato la violazione dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri di solidarietà stabiliti dalla nostra Costituzione; la seconda è l’affermazione dell’insindacabilità della politica e del potere di governo come potere assoluto, e perciò l’archiviazione del sistema di limiti, di vincoli e di controlli di legalità nel quale risiedono la Costituzione e il costituzionalismo. Morti da amianto. Ventuno operai costretti a pagare le spese legali di Libero Red Dolce La Stampa, 20 marzo 2019 Lo hanno chiamato “Davide contro Golia”. È il crowdfunding, la raccolta fondi, lanciata da 21 tra ex operai o eredi di dipendenti del Nuovo Pignone a Carrara per cercare di raccogliere la somma di 90mila euro che l’azienda ha chiesto per le spese legali dopo le sentenze della Cassazione. Ed è la prima volta che un’iniziativa del genere prende corpo in Italia. “Davide” è questa piccola moltitudine di 21 famiglie che dal 2003 hanno iniziato una battaglia legale. Hanno lavorato, tra gli Anni 50 e 80 negli stabilimenti apuani dell’azienda, ora di proprietà degli americani Baker & Hughes. Per anni hanno respirato amianto senza saperlo, lo hanno scoperto soltanto nel 2000: uno di loro si ammalò e nel referto medico si aprì un mondo oscuro: “amianto”. E partirono le cause. Il processo Negli anni ad alcuni dipendenti i giudici riconobbero un danno biologico, quello cioè determinato dalla malattia messa in relazione all’ambiente di lavoro. Ma furono portate avanti cause per il cosiddetto “danno morale”. Un riconoscimento che i lavoratori chiedevano per la loro “vita a rischio”. Gli esiti furono altalenanti: in primo grado ad alcuni il danno viene riconosciuto, ad altri no. E partono ricorsi da entrambe le parti con la vicenda che finisce in Cassazione. Qui la maggioranza dei ricorsi viene respinta, ma fino allo scorso anno senza aggravi. La legge prevedeva che ci fosse una compensazione delle spese del lavoratore. In pratica ciascuna parte si paga le proprie, a tutela della parte debole nel momento in cui decide d’intentare causa. Dal 2014 la normativa cambia, con la modifica dell’articolo 92 del codice civile: dal giudizio si esce o soccombenti o vincenti. E chi perde paga le spese legali. Per gli operai toscani arriva la richiesta di pagamento delle spese legali: 90mila euro. L’avvocato Nicoletta Cervia, che difende gli operai, intervistata da “Il Tirreno”, ha sottolineato “l’incoerenza tra le nostre ultime sentenze e alcune, sempre della Cassazione, sul danno morale dove invece veniva riconosciuto. La Corte Costituzionale nel 2018 dichiarò inoltre la parziale incostituzionalità dell’articolo 92”. Ora questo gruppo di pensionati non ci sta, volevano giustizia e si trovano a pagare 90mila euro con le loro pensioni. “Siamo becchi e bastonati”, commenta il primo di loro a fare causa, Angelo Bertocchi. Con questa raccolta fondi vogliono dimostrare di non essersi ancora piegati. E chiedono solidarietà. Cucchi, inchiesta chiusa: 8 carabinieri a rischio processo di Valentina Stella Il Dubbio, 20 marzo 2019 L’indagine bis riguarda i depistaggi sulla morte del geometra. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni deceduto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri della stazione Appia per detenzione di stupefacenti, la procura di Roma ha chiuso un nuovo filone di indagine sui presunti depistaggi notificando l’avviso di conclusione, passo che solitamente anticipa la richiesta di rinvio a giudizio, a otto militari dell’Arma dei Carabinieri accusati, a vario titolo, di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. A rischiare di finire sotto processo ci sono il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo. Tra gli altri carabinieri a rischio processo figurano Francesco Cavallo, già tenente colonnello nonché a suo tempo ufficiale addetto al comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore e comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza, il capitano Tiziano Testarmata, già comandante del nucleo investigativo, e Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg. Le accuse, contestate dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, si riferiscono a tutte le “manovre” che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all’indomani della morte di Cucchi e riferite allo stato di salute del ragazzo quando la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto - venne portato alla caserma di Tor Sapienza. Inoltre si fa riferimento alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all’inizio della vicenda accusati e finito sotto processo, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. Stando a quanto appurato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio “taroccate” riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe iniziata da Casarsa allo scopo di omettere le responsabilità di quei carabinieri che avrebbero causato a Cucchi “le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso”. In Corte d’Assise è infatti in corso il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm da uno degli imputati (Francesco Tedesco) in diversi interrogatori. Da quelle note fu fatta sparire la circostanza che Cucchi lamentava dolori alla testa, al costato e che non poteva camminare, mentre si attestò falsamente che il dolore alle ossa dipendeva “dalla temperatura fredda/umida e dalla rigidità della tavola del letto dove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza”. E, ancora più gravemente, il malessere generale del ragazzo venne attribuito “al suo stato di tossicodipendenza”. Continuando nella catena, il colonnello Sabatino (ex capo del nucleo operativo) e il capitano Tiziano Testarmata (che guidava la quarta sezione del nucleo investigativo), delegati dalla procura ad acquisire nuove carte nell’ambito dell’indagine bis, ebbero modo di rendersi conto (nel novembre del 2015) della falsità di queste annotazioni del 2009 ma evitarono di segnalare la circostanza all’autorità giudiziaria. In questo modo avrebbero favorito gli autori degli stessi falsi. Testarmata poi, scoperto che era stato alterato il registro di fotosegnalamento dell’epoca con il nome di Cucchi “sbianchettato”, non solo non acquisì il documento originale ma neppure riportò l’accaduto nella relazione di servizio. Da parte della famiglia Cucchi, arriva il commento della sorella Ilaria: ‘ La procura di Roma ha indicato chi sono i responsabili di una catena di falsi sullo stato di salute di mio fratello Stefano. Costoro hanno fatto danni enormi nel processo sbagliato e continuano a farne. Dire che Stefano era malato prima del suo arresto era falso e strumentale. Noi lo sappiano bene, come decine di testimoni hanno riferito. È ora che si vergognino. In questi momenti di difficoltà emotiva per la nostra famiglia è di conforto sapere che coloro che ci hanno provocato questi anni di sofferenza in processi sbagliati verranno chiamati a rispondere delle loro responsabilità. È un’enorme vittoria per la nostra famiglia e la nostra giustizia”. Corte Ue. “Richiedenti asilo trasferibili, ma non verso situazioni di degrado” Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2019 Un richiedente asilo può essere trasferito verso lo Stato membro che sarebbe di regola competente per il trattamento della sua domanda o che gli ha già concesso una protezione sussidiaria, salvo che risulti che le prevedibili condizioni di vita dei beneficiari di protezione internazionale lo esporrebbero a una situazione di estrema deprivazione materiale, contraria al divieto di trattamenti inumani o degradanti. Questo l’esito delle sentenze nella causa C-163/17, Jawo e nelle cause riunite C-297/17, C-318/17 Ibrahim, C-319/17 Sharqawi e a. e C-438/17 Magamadov. Carenze nel sistema sociale dello Stato membro interessato non consentono, da sole, di pervenire alla conclusione dell’esistenza di un rischio di tali trattamenti. La causa Jawo concerne principalmente la questione se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la “Carta”) osti a che un richiedente protezione internazionale sia trasferito, in applicazione del regolamento Dublino III, verso lo Stato membro che sarebbe di regola competente per il trattamento della sua domanda, nell’ipotesi in cui, a causa delle prevedibili condizioni di vita in cui si verrebbe a trovare in quanto beneficiario di protezione internazionale (sempreché tale protezione gli venga riconosciuta), egli sarebbe esposto a un grave rischio di subire un trattamento inumano o degradante. I fatti - Una persona originaria del Gambia ha presentato una prima domanda di asilo in Italia, che aveva raggiunto via mare. Egli ha proseguito il suo viaggio e ha presentato un’altra domanda di asilo in Germania. Le autorità tedesche hanno respinto tale ultima domanda in quanto inammissibile e hanno disposto il suo allontanamento. Tuttavia, il tentativo, nel giugno 2015, di trasferirlo verso l’Italia non è riuscito a causa del fatto che egli non si trovava presso la struttura di accoglienza collettiva in cui alloggiava. Una volta fatto ritorno in tale struttura, l’uomo ha dichiarato che si era recato a trovare un amico in un’altra città tedesca e che nessuno lo aveva informato di dover avvisare in caso di assenza. Dinanzi al Verwaltungsgerichtshof Baden-Württemberg (tribunale amministrativo superiore del Land Baden-Württemberg, Germania), l’uomo ha fatto valere che la Germania è divenuta lo Stato membro competente a causa della scadenza del termine di 6 mesi previsto dal regolamento Dublino III per il trasferimento verso lo Stato membro di regola competente, ossia l’Italia. Poiché il sig. Jawo non era fuggito al momento del tentativo di trasferimento, tale termine non avrebbe potuto essere prorogato fino a un massimo di 18 mesi. Inoltre, il suo trasferimento verso l’Italia sarebbe illegittimo perché in tale Stato membro sussisterebbero carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nonché nelle condizioni di vita dei beneficiari di protezione internazionale. Il Verwaltungsgerichtshof Baden-Württemberg chiede alla Corte di giustizia di interpretare il regolamento Dublino III nonché il divieto di trattamenti inumani o degradanti contenuto nella Carta. Detto giudice remittente richiama all’uopo la relazione di un’organizzazione svizzera d’aiuto ai rifugiati dell’agosto 2016, che conterrebbe indicazioni concrete che permettono di pervenire alla conclusione secondo cui i beneficiari di protezione internazionale in Italia sarebbero esposti al rischio di una vita ai margini della società, nell’indigenza e senza fissa dimora. Secondo tale relazione, l’insufficienza del sistema sociale italiano è, per quanto riguarda la popolazione italiana, compensata dalla solidarietà delle strutture familiari, la quale però non gioverebbe ai beneficiari di protezione internazionale. Tale relazione indicherebbe anche le insufficienze nei sistemi di integrazione in Italia. Queste cause vertono sulla possibilità, prevista dalla “direttiva procedure”, di respingere le domande di asilo in quanto inammissibili a causa della precedente concessione di una protezione sussidiaria in un altro Stato membro. In un caso, alcuni palestinesi apolidi che avevano risieduto in Siria hanno ottenuto una protezione sussidiaria in Bulgaria. Nell’altro caso, una protezione sussidiaria è stata riconosciuta in Polonia a un cittadino russo che dichiarava di essere ceceno. Dopo che le nuove domande di asilo che queste stesse persone avevano ulteriormente presentato in Germania sono state respinte, esse si sono rivolte agli organi giurisdizionali tedeschi. Nelle cause riguardanti i palestinesi apolidi, il Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale, Germania) intende segnatamente sapere se la facoltà di respingere una domanda in quanto inammissibile venga meno quando le condizioni di vita dei beneficiari di protezione sussidiaria nello Stato membro che ha concesso tale protezione devono essere considerate come un trattamento inumano o degradante, o quando detti beneficiari, in tale Stato membro, non ricevano alcuna prestazione di sussistenza, oppure essi siano destinatari di siffatte prestazioni in una misura molto inferiore che in altri Stati membri, pur non essendo trattati diversamente, sotto questo profilo, dai cittadini dello Stato membro. Con le sue sentenze odierne, la Corte ricorda che, nell’ambito del sistema europeo comune d’asilo che si fonda sul principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri, si deve presumere che il trattamento riservato da uno Stato membro ai richiedenti protezione internazionale e alle persone che hanno ottenuto una protezione sussidiaria sia conforme a quanto prescritto dalla Carta, dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Tuttavia, non si può escludere che tale sistema incontri, nella pratica, gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, cosicché sussiste un rischio serio che taluni richiedenti protezione internazionale siano trattati, in tale Stato membro, in modo incompatibile con i loro diritti fondamentali e, segnatamente, con il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti. Così, quando il giudice investito di un ricorso avverso una decisione di trasferimento o avverso una decisione che respinge una nuova domanda di protezione internazionale come inammissibile dispone di elementi prodotti dal richiedente per dimostrare l’esistenza del rischio di un trattamento inumano o degradante nell’altro Stato membro, detto giudice è tenuto a valutare l’esistenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone. Tuttavia, carenze del genere sono contrarie al divieto di trattamenti inumani o degradanti soltanto qualora raggiungano una soglia particolarmente elevata di gravità che dipende dall’insieme delle circostanze concrete del caso. In tal senso, tale soglia sarebbe raggiunta quando l’indifferenza delle autorità di uno Stato membro comporta che una persona completamente dipendente dall’assistenza pubblica si venga a trovare, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale che non le consenta di far fronte ai suoi bisogni più elementari quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudichi la sua salute fisica o psichica o che la ponga in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana. Condizioni di vita caratterizzate da un elevato grado di precarietà o da un forte degrado non raggiungono detta soglia quando non implicano un’estrema deprivazione materiale che ponga detto soggetto in una situazione di gravità tale da poter essere assimilata a un trattamento inumano o degradante. Inoltre, la circostanza che i beneficiari di una protezione sussidiaria non ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione al richiedente, nessuna prestazione di sussistenza, o siano destinatari di prestazioni di sussistenza in misura molto inferiore che in altri Stati membri, pur non essendo trattati diversamente dai cittadini di tale Stato membro, può indurre a dichiarare che tale richiedente sarebbe ivi esposto a un rischio effettivo di subire un trattamento inumano o degradante solo se detta circostanza comporta la conseguenza che quest’ultimo si troverebbe, in considerazione della sua particolare vulnerabilità, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale. In ogni caso, la mera circostanza che la protezione sociale e/o le condizioni di vita siano più favorevoli nello Stato membro in cui la nuova domanda di protezione internazionale è stata introdotta rispetto allo Stato membro di regola competente o che ha già concesso la protezione sussidiaria non è idonea a suffragare la conclusione secondo cui l’interessato verrebbe esposto, in caso di trasferimento in quest’ultimo Stato membro, a un rischio effettivo di subire un trattamento inumano o degradante. La Corte perviene alla conclusione secondo cui il diritto dell’Unione non osta a che un richiedente protezione internazionale sia trasferito verso lo Stato membro competente o che una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato sia respinta in quanto inammissibile per il motivo che il richiedente ha già ottenuto una protezione sussidiaria da un altro Stato membro, a meno che non si accerti che il richiedente si verrebbe a trovare, in tale altro Stato membro, in una situazione di estrema deprivazione materiale, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue scelte personali. Nelle cause in oggetto la Corte aggiunge che la circostanza che lo Stato membro che ha concesso la protezione sussidiaria a un richiedente protezione internazionale rifiuti sistematicamente, senza un esame effettivo, il riconoscimento dello status di rifugiato non osta a che gli altri Stati membri respingano come inammissibile una nuova domanda che l’interessato ha presentato loro. In un caso del genere, incombe allo Stato membro che ha concesso la protezione sussidiaria riprendere la procedura intesa all’ottenimento dello status di rifugiato. Solo se, a seguito di una valutazione individuale, si accerti che un richiedente protezione internazionale non soddisfa le condizioni per ottenere lo status di rifugiato è infatti possibile, se del caso, concedergli la protezione sussidiaria. Nella causa Jawo, la Corte precisa anche che un richiedente “[è] fuggito” allorché si sottragga deliberatamente alle autorità nazionali competenti per l’esecuzione del suo trasferimento, al fine di scongiurare quest’ultimo. Si può presumere che ciò si verifichi quando tale trasferimento non può essere eseguito a causa del fatto che il suddetto richiedente ha lasciato il luogo di residenza assegnatogli senza aver informato le autorità nazionali competenti della sua assenza, a condizione che egli sia stato informato dei suoi obblighi al riguardo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Detto richiedente conserva la possibilità di dimostrare che il fatto che egli non abbia avvisato le suddette autorità della sua assenza è giustificato da valide ragioni e non dall’intenzione di sottrarsi a tali autorità. Inoltre, nell’ambito di un procedimento diretto contro una decisione di trasferimento secondo il regolamento Dublino III, il richiedente protezione internazionale può far valere che, poiché non era fuggito, il termine di sei mesi era scaduto e che, a causa di tale scadenza, lo Stato membro che ha deciso il suo trasferimento è divenuto competente per l’esame della sua domanda. Infine, la Corte sottolinea che, al fine di prorogare il termine di trasferimento a un massimo di 18 mesi, è sufficiente che lo Stato membro richiedente informi, prima della scadenza del termine di trasferimento di sei mesi, lo Stato membro di regola competente del fatto che la persona di cui trattasi è fuggita e contestualmente indichi il nuovo termine di trasferimento. Napoli: carceri sovraffollate e spazza-corrotti; penalisti in trincea, al via l’astensione di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 20 marzo 2019 Tre giorni di sciopero, a partire da questa mattina, per sollevare l’attenzione sull’emergenza delle carceri, specie qui nel nostro distretto. È il primo sciopero varato dalla camera penale di Napoli, sotto la guida del presidente Ermanno Carnevale, per sollevare l’attenzione sulle condizioni di vita all’interno delle celle delle case circondariali nostrane, all’indomani della cosiddetta spazza-corrotti. Dito puntato, da parte dei penalisti, contro la visione “carcerocentrica” del Governo, in relazione alla mancata attuazione della legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, la cosiddetta “spazza- ladri”, “nella parte volta a facilitare l’accesso alle misure alternative alla detenzione ed alla eliminazione di automatismi preclusivi”. Tra i motivi dell’astensione c’è anche il decreto di legge in materia di contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, la cosiddetta “spazza-corrotti”, in relazione all’introduzione di una nuova causa di “sospensione” del termine di prescrizione destinata a creare l’inaccettabile figura “dell’eterno imputato”. Questa mattina è in programma una tavola rotonda, moderata dal consigliere della Camera Penale Roberto Giovene di Girasole, dal titolo “Il carcere: un’emergenza (ancora) irrisolta”, alla quale prenderanno parte, tra gli altri, il presidente della Camera Penale di Napoli Carnevale, il garante dei detenuti Samuele Ciambriello, il presidente del Consiglio comunale di Napoli Alessandro Fucito, il docente emerito di Diritto penale alla Federico II Giuseppe Riccio, il presidente di Antigone Campania Luigi Romano, il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati Antonio Tafuri e il presidente della Onlus Il Carcere Possibile. Tre giorni di astensione da tutte le udienze (con la sola eccezione della sede distaccata di Ischia), per un dibattito che ha assunto anche toni polemici, nei rapporti tra Napoli e i vertici nazionali di Unione camere penali. Come è noto, dopo il varo dell’astensione dalle udienze da parte dei napoletani, il presidente Caiazza ha firmato una lettera (indirizzata alle altre Camere penali) nella quale stigmatizzava l’iniziativa presa da parte del direttivo partenopeo in modo isolato rispetto ai vertici nazionali, per altro in un momento in cui è in corso una dialettica con le forze politiche per dare vita a interventi legislativi. Immediata la risposta da parte della Camera penale di Napoli, che ha ricordato il carattere eccezionale delle condizioni di vita all’interno dei penitenziari che ricadono nel distretto di corte di appello di Napoli. Poggioreale e Secondigliano, dunque, restano il terreno di confronto (e di scontro) sul quale si misurano giuristi e forze politiche. Trend di reclusi in aumento, difficoltà di dare corso a un efficace progetto di riabilitazione secondo il dettato costituzionale, mentre colletti bianchi ultrasettantenni vanno in cella a scontare condanne (o residui di pena) per vicende concluse diversi anni fa. Uno scenario che alimenta tensione dentro e fuori le celle, anche all’indomani della pubblicazione di notizie relative alla difficoltà da parte delle istituzioni di fornire assistenza sanitaria a rischio. È di queste settimane la polemica sulla difficoltà dei reparti sanitari (e dell’Asl napoletana) di curare per tempo i tanti ospiti che lamentano malattie più o meno croniche. Sono gli effetti del sovraffollamento, sono le conseguenze della crescita della popolazione carceraria, che ricorda il clima che si creò una quindicina di anni fa. Ricordate l’indulto del 2006? Tredici anni dopo, stesso malessere, stessa sofferenza all’interno delle celle, con una richiesta di riforme in grado di imporre un punto di rottura, un nuovo trend. Oggi la tavola rotonda, prevista un’astensione massiccia dalle udienze, mentre il rapporto tra gli organi di rappresentanza, sul cosiddetto strappo napoletano, resta dialettico. Viterbo: “Tu muori qua!”, le lettere dei detenuti pestati al Garante di Laura Bonasera tpi.it, 20 marzo 2019 Le lettere scritte dai detenuti al Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Decine le denunce su presunti casi di abusi e violenze da parte di un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria. Un’inchiesta giornalistica realizzata per “Popolo Sovrano”, il programma in prima serata su Rai2, ha aperto le porte del carcere “Mammagialla” di Viterbo con testimonianze e documenti inediti su casi di suicidi sospetti e su presunte violenze ai detenuti da parte di agenti di Polizia penitenziaria. Uno scenario inquietante, quello descritto dai detenuti. Alcuni hanno rotto il silenzio e hanno messo tutto nero su bianco. Infatti, sono decine le lettere in cui si raccontano tra il terrore e la disperazione, descrivono presunti episodi di violenza vissuta sulla propria pelle tra pestaggi e minacce di morte da parte di uomini in divisa. Lettere che sono riuscite a oltrepassare le sbarre grazie alle collaboratrici del Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. È stato lui stesso a raccoglierle e poi a spedire tutto alla Procura di Viterbo, l’8 giugno 2018, informando tra l’altro anche il direttore dell’istituto, Paolo D’Andria. Un esposto di 32 pagine con oggetto: “Asseriti episodi di violenza/urgente/Casa circondariale di Viterbo/richiesta incontro”. Oggi la magistratura ha aperto un fascicolo e indaga, al momento, contro ignoti. “Seppure quei casi non fossero stati tutti fondati - spiega Stefano Anastasia - erano comunque indice di un clima difficile su cui era necessario intervenire”. Sono grida di paura e richiesta di aiuto le frasi scritte su quei fogli. In esclusiva per TPI alcuni estratti dalle lettere, che vi proponiamo in forma anonima, tutte scritte a mano dai detenuti del carcere di Viterbo. “Sono stato mal menato dalle guardie, picchiato talmente forte da farmi perdere la vista all’occhio destro. Avevo soltanto chiesto di andare a scuola per 3 o 4 volte. Mi hanno portato per le scale centrali e hanno cominciato a picchiarmi: calci, schiaffi e pugni. Poi ne sono arrivati altri con il viso coperto. Vedevo solo i loro occhi. Erano in 8/9 mentre mi menavano dicevano: “Noi lavoriamo per lo stato italiano, negro di merda! Perché non ritorni al Paese tuo?” E io pregavo e continuavo a piangere. Se sei uno straniero sei finito, o muori o esci tutto rotto da qui, a Viterbo. Vi prego, vi scongiuro, aiutatemi. Ho paura di morire. La mia famiglia non sa nulla”. “Usano parole offensive contro me e la mia famiglia, e io sto zitto per forza perché se dico qualcosa mi menano come fanno sempre”. “L’ispettore mi ha minacciato: “Tu qua muori!”. E infatti alle ore 7.40 sono entrati 11 agenti di polizia penitenziaria armati di bastoni per la fare la perquisizione e sono stato picchiato, torturato e minacciato di morte”. “Qui hanno quasi 3 squadrette solo per menare i detenuti. Io ne ho prese tante da loro. Da quando sono venuto qui, sono morte delle persone. Non so il motivo però credetemi, sto dicendo la verità. Aiutatemi, mandatemi via da questo carcere”. “Ho paura che mi fanno morire. Vogliono portarmi in isolamento ma non sono stato punito, “nessuna sanzione” mi hanno risposto. Moralmente e fisicamente sto a pezzi. Per favore mi serve il vostro aiuto, mandatemi via da questo carcere il più presto possibile”. “Senza motivo ritorno in isolamento. La guardia mi dice: “Hai qualche problema?” Io rispondo: “Che vorresti fa?”. “Se ti metto le mani addosso, sei finito, hai il colore della merda, buttati a dormire”, risponde. Io gli dico che voglio parlare con la sorveglianza. La guardia mi risponde: “Ti faccio fare una brutta fine, merda!” “Le violenze contro i detenuti sono continue, ve lo assicuro. Lo faccio presente anche grazie al mio avvocato di fiducia”. “I dottori e gli infermieri sapevano che avevo contusioni perché gli agenti di polizia penitenziaria mi ha ammazzato di botte tra pizze e schiaffi”. “Mi hanno sottoposto a continue vessazioni, fisiche e mentali, che ho dovuto subire dagli agenti. Mi hanno provocato fino a spingermi in errore per poi aggredirmi con una ferocia inaudita, tanto da riportare traumi al corpo e tumefazioni al viso”. “Sogno ogni sera Hassan Sharaf (il detenuto egiziano di 21 anni che ha tentato il suicidio in una cella di isolamento a 40 giorni dalla libertà, morto all’ospedale Belcolle di Viterbo dopo una settimana di agonia, ndr) e mi sveglio nel panico. Ricordo il mio bambino, ha 13 anni e io trattavo la buon anima di Hassan come mio figlio. Adesso anche un altro detenuto sta in paranoia perché l’assistente ha detto: “Ci pensiamo anche a te”. Adesso ho capito che loro vogliono ammazzarmi”. La moglie di un detenuto poi, riferisce al Garante per i detenuti del Lazio, testuali parole: “Se mi succede qualcosa o mi ammazzano, sappi che non è colpa mia. Sappi che mi vogliono far del male”. Così le avrebbe detto il marito durante un colloquio telefonico. Alcuni degli autori delle lettere “avevano segni evidenti di contusioni e lacerazioni sul loro corpo - scrive nell’esposto il Garante, Anastasia - e tutti hanno riferito modalità analoghe di violenze commesse nei loro confronti: sarebbero stati portati da più agenti di polizia penitenziaria nei locali delle docce o in stanze in uso alla sorveglianza e lì sarebbero stati picchiati”. Dalle lettere emerge, inoltre, che molti fanno riferimento alla sezione d’isolamento come il luogo in cui accadono le violenze, in modo particolare ad una scala dove non ci sarebbero le telecamere di sorveglianza e che porterebbe alla sezione di isolamento, dove quindi eventuali abusi sarebbero facilmente perpetrati da agenti con il volto coperto da un passamontagna. “I detenuti”, prosegue il Garante nell’esposto, “hanno raccontato di non essere stati visitati da medici se non dopo diversi giorni, o in altri casi, neanche dopo diversi mesi”. Questo terrore per la sezione d’isolamento, per la possibilità di subire violenze è un racconto che torna frequentemente anche nei colloqui settimanali delle collaboratrici del Garante con i detenuti. L’istituto penitenziario di Viterbo, di fatto, non è come tutti gli altri del nostro Paese. Un carcere “punitivo”, il più duro d’Italia. Così viene definito dagli addetti ai lavori e, come riferiscono fonti interne, anche dallo stesso direttore della casa circondariale. “A Viterbo c’è una particolarità”, racconta Stefano Anastasia, Garante per i diritti dei detenuti del Lazio. “Molti detenuti arrivano al Mammagialla con provvedimenti disciplinari da altri istituti della regione e si ritiene, a torto a ragione, che quello di Viterbo sia un istituto dove i detenuti più indisciplinati possano essere messi in riga e per questo verrebbero trasferiti lì”. Su 548 detenuti presenti, un centinaio corrispondono esattamente alla tipologia di detenuto descritta dal Garante: “È una presenza molto significativa”, continua Anastasia, “e del resto, anche lo stesso direttore dell’istituto a me la rappresentava come una anomalia, come un problema che rende difficile la gestione di quell’istituto”. Trento: la “terza nascita” dei detenuti tra emancipazione e affettività di Ugo Morelli Corriere del Trentino, 20 marzo 2019 Bisogna evitare di dare alla pena una connotazione vendicativa. Esistono opportunità emancipative in ogni esperienza critica come il carcere. Quali siano le condizioni per un’emancipazione da un’esperienza traumatica è una questione abbastanza esplorata in letteratura psicologica e psicoanalitica, ma per nulla definita in maniera sufficientemente condivisa. Esistono opportunità emancipative in ogni esperienza critica che, per sua stessa natura, pone chi è coinvolto su un crinale che da un lato può condurre a un baratro ancora più profondo e dall’altro può essere l’origine di una nuova nascita. Per chi vive esperienze di restrizione della libertà, uno dei traumi più acuti, una nuova nascita è la terza nella storia della propria vita. Di essa dovrebbe occuparsi e ad essa dovrebbe mirare ogni forma di pena inflitta, carcere compreso. Giurisprudenza penale e Antigone se ne occupano, con particolare riguardo al Trentino, in un’importante ricerca a più voci, con la cura delle avvocatesse Lucilla Amerio e Veronica Manca, dal titolo: “Affettività e carcere. Un binomio (im)possibile?”. Di cosa stiamo parlando? Non della nascita dal corpo materno, ovviamente. Quell’evento originario, oltre ad essere tale, è anche un evento originale. L’originario rimane con noi tutta la vita e, per molti aspetti, è la base sicura, la fonte di attaccamento, su cui si fondano le possibilità successive di esprimere, tirandole fuori da noi, esperienze originali. Ne deriva che ogni attaccamento di vita successiva, da cui possono dipendere svolte rilevanti nella vita di una persona, è direttamente connesso alle possibilità affettive di richiamo, evocazione e attivazione dell’attaccamento primario. Ricrearsi, ridefinire i propri orientamenti, attivare parti di sé non attivate e indirizzarle in altre e inedite forme di individuazione e riconoscimento di se stessi, non può dipendere dalla mortificazione, dall’esclusione, dalla negazione, dalla vergogna, a livello della vita affettiva, se sono proprio le componenti attivabili dell’affettività rivolta a se stessi e agli altri e, almeno in una certa misura reciproca, a rendere possibile ogni forma di emancipazione e di trasformazione affettiva e comportamentale. Siamo esseri, noi umani, che si generano nell’intersoggettività e nelle relazioni si evolvono o regrediscono. Seppur da un punto di vista giuridico la responsabilità è ricondotta a un livello individuale, è importante considerare che le stesse devianze dalle regole e dalle norme si generano nelle relazioni. È comunque soprattutto nelle relazioni che si possono generare i possibili percorsi di ristrutturazione degli orientamenti e dei comportamenti e, in particolare, su esperienze più o meno significative di base sicura che solo da attaccamenti affettivi diretti e sostitutivi possono derivare. È evidente che chi si è offeso offendendo, può ridefinire se stesso e emanciparsi se arriva a coniugare in modo più efficace per sé e per gli altri il verbo amare nella forma riflessiva, se cioè arriva ad amarsi almeno un poco di più. Perché ciò accada è necessario che egli possa sentire coniugato in modo più efficace per sé anche la forma passiva del verbo amare: deve almeno in una certa misura, essere amato e sentirsi amato. Parlare di seconda nascita può voler dire perciò riferirsi ai processi affettivi di individuazione mediante i quali ognuno diventa se stesso. Quei processi sono fatti di luci e ombre, di successi e fallimenti, di opportunità e problemi. In quei processi possono prodursi incidenti di percorso, traumi, difficoltà. È con la seconda nascita che le cose cambiano e le nostre responsabilità, soprattutto e prima di tutto quelle verso noi stessi, diventano decisive. Se la dimensione giuridica agisce in termini di controllo e sanzioni, l’individuazione e la ristrutturazione dei percorsi di individuazione dipendono principalmente dalle relazioni affettive. Di sicuro vi sono soglie oltre le quali si violano le norme e le regole sociali e la giustizia, come si dice, deve fare il suo corso. Anche la giustizia ha però delle regole e prima di tutto è tenuta a realizzare il dettato della regola delle regole che, nel nostro caso, è la Costituzione. È qui che entra in gioco la “terza nascita” in quanto, se la pena è da intendersi come una via per la redenzione e per l’emancipazione, essa dovrebbe essere comminata e eseguita con lo scopo di porre al centro la persona, a partire da un adeguato significato da attribuire a che cosa è e cosa significa essere umani. La “terza nascita” allora si configura come la possibilità di elaborare esperienze traumatiche o svolte particolarmente critiche della propria esistenza. Le esperienze traumatiche e i vincoli possono essere anche all’origine di una nuova generatività, se si creano le condizioni per orientare le capacità individuali verso un’inedita progettualità. Firenze: il Consiglio comunale chiede miglioramento condizioni di Sollicciano gonews.it, 20 marzo 2019 “La relazione del Garante e amico Cruccolini ha un taglio più positivo rispetto al solito, un punto di vista che pur non nascondendo le criticità, mette in primo piano il lavoro fatto e gli obiettivi raggiunti, ma che evidenzia anche e soprattutto, la volontà di portarli a termine, nonostante le enormi difficoltà e il vento che ci soffia contrario. Il lavoro svolto dal garante in questi anni è stato tanto, un lavoro che parte da lontano, che ci ha visto spesso battagliare fianco a fianco qui da questi banchi, e poi per me, è continuato nella vita civile, da imprenditore, per quello che ho potuto. Oggi posso confermare il sostegno all’impegno profuso da Cruccolini che ha fatto al meglio quello che per lui è più congeniale: tessere relazioni, far parlare fra loro le istituzioni, le associazioni di volontariato le cooperative sociali, andando spesso, con la tenacia che lo contraddistingue, a tirare per la giacca chi di dovere. Ma tutto ciò, per quanto positivo, risulterà vano se non adeguatamente sostenuto dall’istituzione che noi rappresentiamo. Per questo l’applicazione puntuale dei punti dell’ordine del giorno approvato dal Consiglio comunale sarà cruciale per il reale miglioramento delle condizioni di vita all’interno del carcere di Sollicciano”. Questo il commento del consigliere PD Stefano Di Puccio, promotore con il gruppo PD di un ordine del giorno approvato dal consiglio comunale nella seduta di ieri, e firmato anche da Articolo 1-Mdp e Firenze riparte a sinistra, a seguito della relazione del Garante dei diritti dei detenuti Eros Cruccolini. Segue il testo dell’ordine del giorno Ordine del giorno “Per garantire un miglioramento delle condizioni strutturali del carcere di Sollicciano e per il recupero sociale dei detenuti”, collegato alla comunicazione del Garante dei Detenuti, in data 18 marzo 2019. Il Consiglio Comunale, sentita nella seduta odierna la comunicazione del Garante dei diritti dei detenuti del carcere di Sollicciano, Gozzini e istituto minorile Meucci che ha evidenziato l’impegno delle istituzioni sia all’interno che all’esterno degli istituti carcerari per garantire condizioni civili e per favorire il recupero sociale di quanti si trovino a scontare una pena carceraria, secondo quanto affermato nell’art 27 della Costituzione, comma 3; Ricordato che in questi anni il Comune di Firenze si è costantemente impegnato per sollecitare investimenti necessari per la ristrutturazione e riqualificazione edilizia ed energetica di Sollicciano, per il coinvolgimento di tutte le istituzioni e vari soggetti sociali, culturali ed economici per dar vita ad iniziative rivolte al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti; Constatato che dalla Relazione emergono diverse e importanti iniziative in corso o comunque allo stato progettuale; Evidenziato, tuttavia, che rimangono preoccupanti anche per il 2018 i dati relativi agli eventi di autolesionismo e quelli della recidiva; Ritenuto che sia indispensabile migliorare i rapporti tra le persone all’interno e all’esterno del carcere sottolineando la necessità di colmare le gravi carenze relative all’organico delle poliziotti carcerari e degli educatori; Ritenuto, inoltre, che per rimuovere ed alleviare situazioni di disagio e conflitto sia opportuno avviare un progetto sperimentale sulla parte trattamentale delle persone detenute recuperando i punti qualificanti contenuti nei relativi decreti governativi e nella relazione del capo dipartimento; Ribadita le necessità, già evidenziata negli anni passati e necessariamente da condividere da tutte le istituzioni coinvolte, di reperire una sede da destinare alla residenza di persone in semilibertà; Preso atto e ribaditi gli impegni assunti nella mozione 789/2018 approvata il 2/7/2018 Richiamata la propria mozione n. 389 del 2016 “Per promuovere la pratica e la qualificazione sportiva nel carcere di Sollicciano” e constatato che alcuni lavori relativi agli impianti sportivi del complesso penitenziario risultano incompiuti e sospesi; Invita il Sindaco a promuovere le azioni necessarie, in attiva sinergia con altre Istituzioni, per raggiungere gli obiettivi indicati come prioritari dal Garante ed in particolare: - reperire una sede da destinare alla residenza di persone in semilibertà, scelta da condividere con tutte le altre Istituzioni coinvolte; - vigilare affinché siano assicurate tutte le risorse necessarie per compiere i necessari lavori di riqualificazione degli istituti carcerari, anche con riferimento alla realizzazione di alcuni impianti sportivi; - farsi portavoce per un immediato adeguamento degli organici della Polizia Penitenziaria e degli educatori; - sollecitare il Ministero e gli organi competenti ad avviare un progetto sperimentale sulla parte trattamentale delle persone detenute; - proseguire le attività che vedono protagonista l’Amministrazione Comunale, anche in sinergia con le altre istituzioni ed I soggetti sociali e culturali del territorio. Pisa: Garante dei detenuti, l’appello “si provveda alla nomina” pisatoday.it, 20 marzo 2019 Lettera aperta della consigliera Pd Scognamiglio: “Sono passati ormai più di sei mesi, una questione così importante non è prioritaria per l’amministrazione? “Il garante dei diritti delle persone private della libertà personale - scrive la Scognamiglio - svolge molti compiti, tra cui, ad esempio, promuovere iniziative per sensibilizzare la cittadinanza su i problemi della reclusione e al reinserimento dei detenuti nella società civile. Compiti questi che consentono d’inquadrate questa istituzione in un più ampio mosaico che rende le condizioni di vita nel carcere più umano contribuendo ad innalzare a più alti livelli la logica della legalità, ad ostacolare fenomeni di crescita della criminalità, a impedire la diffusione di forme di radicalizzazione all’interno dello stesso carcere. Il Garante è così un elemento fondamentale per la diffusione della sicurezza a tutti i livelli”. “Per questi motivi - prosegue - mi sono preoccupata di coinvolgere nella nomina del Garante la Commissione politiche sociali del Comune, che ha ascoltato nei mesi passati: il direttore della Casa Circondariale Don Bosco Ruello, la direttrice sanitaria della stessa Casa Circondariale Melis, il passato garante Dr. Di Martino e Giazzico, direttrice dell’Ufficio Distrettuale di esecuzione penitenziale di Pisa. Come conseguenza il 13 dicembre scorso è stato pubblicato l’avviso pubblico per la nomina del Garante con scadenza il 31 dicembre successivo. Ad oggi, passati sei mesi dalla elezione per arrivare alla pubblicazione dell’avviso e 75 giorni dalla scadenza dello stesso avviso, non se ne conoscono gli esiti. Tutto questo finisce per alimentare un sospetto: una questione di così grande rilevanza non è ritenuta prioritaria da questa amministrazione”. Venezia: Sissy, il giallo della pistola senza tracce di Nicola Munaro Il Gazzettino, 20 marzo 2019 In passato era stata fatta un’altra perizia sul dna che però potrebbe avere cancellato ogni segno. Sulla parte finale della pistola d’ordinanza di Sissy non sono state trovate tracce biologiche. La stessa pistola che aveva sparato quel colpo diventato fatale due anni dopo. In anticipo rispetto alle date fissate, sono arrivate nei giorni scorsi sul tavolo del sostituto procuratore di Venezia, Elisabetta Spigarelli, le consulenze disposte dalla magistratura sulla pistola e sul computer di Maria Teresa Trovato Mazza, per tutti Sissy, l’agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere femminile di Venezia, alla Giudecca, morta il 12 gennaio dopo due anni di coma dovuti ad un colpo di pistola esploso mentre si trovava in un ascensore dell’ospedale Civile di Venezia, domenica 1 novembre 2016. Gli incartamenti che ora verranno passati al setaccio dal pm - titolare di un fascicolo per induzione al suicidio contro ignoti - parlano di grandi assenze. E per la prima volta confermano in maniera ufficiale (le consulenze sono state disposte su ordine del giudice per le indagini preliminari Barbara Lancieri) quanto era stato ventilato nei mesi scorsi. Su tutte, la mancanza delle tracce biologiche sul vivo di volata, cioè la parte ultima dell’arma. Le conclusioni sull’assenza di tracce biologiche in quel punto finale della canna della pistola sono state condivise tanto dalla biologa Luciana Caenazzo (consulente del pm) quanto dalla dottoressa Anna Barbaro, perito per conto della famiglia di Sissy Trovato Mazza. Una mancanza, questa, che ha aspetti capaci di lasciare aperto qualsiasi spettro d’indagine: è molto difficile infatti che nei casi di un colpo esploso a poca distanza dal corpo della vittima (come potrebbe essere quello del suicidio) non ci siano tracce biologiche della vittima all’altezza del punto in cui è fuoriuscito il proiettile. Lo stesso vale, però, nel caso di un’esecuzione: se qualcuno avesse sparato a Sissy dall’interno dell’ascensore dell’ospedale, sarebbe impossibile - vista la distanza ravvicinata - che sulla pistola non ci fossero sue tracce ematiche. La risposta definitiva potrebbe arrivare dalla lettura che i consulenti e la procura daranno degli esiti di alcune tracce sospette prelevate dalla pistola con dei tamponi. Tenendo ben presente però che la perizia fatta anni fa per evidenziare la presenza di Dna (l’esito era stato negativo, ndr) possa aver interferito con le ultime analisi di laboratorio. In quell’indagine infatti era stato usato un reagente, il cianoacrilato, che a contatto con tracce biologiche, potrebbe degradarle. Insomma, la pistola considerata come una delle chiavi di volta del mistero di Sissy, non era nelle condizioni ottimali per una seconda perizia.IL Assieme agli esiti dell’indagine tecnica sulla pistola, sono stati depositati anche quelli sul computer dell’agente originaria della provincia di Reggio Calabria. A firmarli, l’ingegner Nicola Chemello (per conto della magistratura) e il dottor Angelo La Marca, consulente di parte. Ciò che emerge da una prima lettura veloce della consulenza è che il computer della ventinovenne agente della Giudecca non è mai stato aperto da nessuno. Non ci sono state manomissioni delle viti dell’hard disk (ognuna era al proprio posto) né erano visibili tentativi di apertura dall’esterno andati, o meno, a buon fine. Il resto, sarà dato dalla valutazione e dall’analisi depositata (ma al momento top secret) sui 91 giga di file estratti dai consulenti su richiesta della stessa procura veneziana. Verona: Maso, nuova vita via dall’Italia “cameriere in Andalusia” di Andrea Priante Corriere di Verona, 20 marzo 2019 Le sorelle di Pietro hanno perdonato Carbognin. E intanto lui, che nel 1991 uccise i genitori, lascia l’Italia. Pietro Maso non vuole più saperne dell’Italia. “È deluso, scocciato per come l’hanno trattato. Così, ora trascorre gran parte dell’anno in Andalusia, nel sud della Spagna”, confida l’avvocato Marco De Giorgio, che ha difeso il 47enne che la notte del 17 aprile del 1991 uccise i suoi genitori nella loro casa a Montecchia di Crosara (Verona) per intascare i soldi dell’eredità. Un delitto che ha fatto la storia della cronaca nera italiana. Anche per questo colpisce la notizia, pubblicata ieri dal Corriere, che le sorelle di Pietro hanno concesso il loro “perdono” a Giorgio Carbognin, uno dei tre complici con i quali il fratello compì la mattanza. Alcuni mesi fa, Nadia e Laura Maso hanno accettato di firmare il documento che ha consentito all’uomo (all’epoca del duplice omicidio aveva appena 18 anni) di ottenere la cosiddetta “riabilitazione penale”. E se Carbognin - dopo una condanna a 21 anni dei quali soltanto sette scontati in carcere - oggi può continuare la sua vita all’estero, lo stesso sta facendo Pietro Maso, tornato libero nel 2015. Dopo essersi sposato e aver vissuto per alcuni anni a Milano, oggi “il mostro di Montecchia” si mantiene facendo lavori umili, lontano dall’Italia. “L’ho sentito una decina di giorni fa al telefono - ricorda l’avvocato De Giorgio - ora si è definitivamente disintossicato dalla cocaina ed è finalmente sereno”. Abita nel Sud della Spagna, in una località balneare. “Ha fatto diversi lavoretti, attualmente fa il cameriere nei locali della zona. Lì, nessuno conosce il suo passato e può finalmente liberarsi dalla pressione, anche mediatica, che l’ha sempre perseguitato in Italia”. Una scelta, quella di trasferirsi nella Penisola Iberica, maturata anche in seguito al clamore sollevato dalla lettera che Pietro inviò nel 2016 a Manuel Foffo, il giovane che ha massacrato Luca Varani al termine di un festino a base di droga e sesso. “Sono tra i pochi a comprendere i terribili momenti che stai vivendo”, gli scrisse. “La lettera - spiega De Giorgio - finì in pasto ai giornali che ne stravolsero completamente il senso. Pietro voleva dare sollievo a Foffo, spiegargli che avrebbe dovuto fare i conti per sempre con ciò che aveva fatto. Esattamente come è capitato a lui negli ultimi ventotto anni. Ma in nessun modo intendeva sminuire la gravità di ciò che quel ragazzo aveva combinato. Invece passò il messaggio opposto. E questo perché Pietro Maso per gli italiani deve rimanere per sempre “il mostro di Montecchia”. Anche se ha pagato il suo conto con la Giustizia e continua a confrontarsi, giorno dopo giorno, con la colpa terribile che si porta dentro”. De Giorgio è l’avvocato che due anni fa ha ottenuto l’assoluzione di Pietro Maso dall’accusa di voler uccidere anche le sorelle. Era stato intercettato mentre diceva: “Faccio quello che dovevo finire nel 1991… Faccio il lavoro che so fare meglio e poi mi ammazzo”. Ma il giudice di Milano, nell’ottobre del 2017 ha accolto la tesi del difensore: “Era molto agitato, con sbalzi di umore, in una situazione psicologica alterata che certamente può averlo portato a esprimere minacce che tuttavia non corrispondevano a un effettivo progetto”. È partendo da quella assoluzione che Maso avrebbe riportato la sua vita sul binario giusto. “Oggi - conclude De Giorgio - Pietro chiede solo di essere dimenticato”. Porto Azzurro (Li): “Messaggi dal Forte”, le email per i detenuti di Valentina Caffieri quinewselba.it, 20 marzo 2019 I detenuti del carcere elbano potranno comunicare con i familiari grazie ad un progetto della cooperativa Beniamino in accordo con la direzione. Si chiama “Messaggi d@al Forte” il nuovo servizio di invio email, realizzato e gestito per la Casa di reclusione di Porto Azzurro dalla cooperativa Beniamino Scs Onlus in collaborazione con la direzione del carcere elbano. Anche nel carcere elbano arriva quindi un progetto che è stato attivato in alcuni dei più grandi carceri d’Italia, come per esempio a Rebibbia, a Roma o al carcere di Opera, a Milano. Il progetto è stato presentato questa mattina all’interno del carcere elbano in una conferenza stampa alla presenza di un gruppo di detenuti, del direttore della struttura penitenziaria Francesco D’Anselmo e di Guido Ricci e Rachele Neri della cooperativa Beniamino. Si tratta di uno strumento di cui potranno usufruire i detenuti del carcere elbano e che permetterà loro di comunicare più velocemente, soprattutto con familiari e con il proprio avvocato. Non si tratta di un accesso diretto all’utilizzo della posta elettronica da parte dei detenuti ma di un accesso filtrato nel senso che le persone potranno acquistare un plico al cui interno ci sono alcuni numeri di fogli che danno diritto all’invio di un certo numero di email. Sono due i tipi di plichi: uno da 12 foglio (12 email, al costo complessivo di 10 euro), l’altro da 30 fogli (al costo di 20 euro). Ogni foglio ha un codice univoco che verrà associato alla persona e che non potrà essere riutilizzato. In teoria ogni foglio corrisponde all’invio di una email ma è possibile anche usare più fogli da inviare in una stessa email. Per accedere al servizio i detenuti dovranno compilare una domanda con i propri dati e comunicare la scelta del plico da 10 o da 30 fogli. L’importo per l’acquisto del sevizio sarà scalato dal conto da parte dell’amministrazione penitenziaria. Una volta ottenuto il plico sarà possibile scrivere sul foglio o sui fogli, in cui sarà indicato sia il nome della persona che l’email del destinatario. Una volta scritte le comunicazioni saranno inserite in un’apposita cassetta. I fogli saranno poi ritirati dalla cassetta da personale della cooperativa, scansionati ed inviati ai destinatari. La cassetta, chiusa a chiave per la privacy, sarà collocata presso la sede del centralino. Chi riceverà la mail dal carcere vedrà come mittente la mail messaggidalforte@cooperativabeniamino.it e nell’oggetto della mail il nome del mittente reale. Ogni email inviata da diritto a ricevere una risposta insieme alla ricevuta dell’invio. Il servizio in questa prima fase sarà attivo tre giorni a settimana. “Ringrazio la cooperativa Beniamino per il bellissimo progetto realizzato sia con la testa che con il cuore; - ha dichiarato Francesco D’Anselmo, direttore del carcere di Porto Azzurro - questo consentirà ai detenuti di poter risparmiare nella messaggistica, perché i costi sono più contenuti rispetto ai telegrammi o alla posta ordinaria e c’è una maggiore velocità nella comunicazione che permette loro di mantenere i contatti con i familiari e con il proprio avvocato. Ci siamo adeguati a quella che è la realtà attuale, è giusto che la tecnologia entri nel carcere”. “Come cooperativa - ha detto Guido Ricci, presidente della cooperativa Beniamino - lavoriamo sia sul reinserimento lavorativo sia sulla progettazione e spesso ci capita di collaborare con il carcere anche su progetti europei. Il nostra lavoro si muove su due direzioni; quella dell’integrazione con il territorio e quella della qualità della vita delle persone che sono private della libertà. Questo progetto per noi è in una fase sperimentale ed è nato guardando ad altre esperienze, dopo che ci siamo confrontati in varie riunioni su come gestire le varie esigenze”. Per spiegare a tutti i detenuti come funziona il servizio sono inoltre state realizzate delle brochure in tre lingue, italiano, inglese e francese, dato che molti dei detenuti sono stranieri. La cooperativa è già pronta e il servizio partirà già dalla prossima settimana, per avere il tempo di informare tutti i detenuti sul funzionamento e per dare loro il tempo di compilare le domande per accedere al servizio. Napoli: il giudice costituzionale Morelli in carcere a Secondigliano ottopagine.it, 20 marzo 2019 Incontrerà i detenuti nell’ambito del progetto “Viaggio in italia: la Corte nelle carceri”. Mercoledì 27 marzo, a partire dalle ore 14.00, a Napoli, presso il carcere di Secondigliano (Via Roma verso Scampia, n. 350), il Giudice della Corte costituzionale Rosario Morelli incontrerà i detenuti nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Nella Sala della palestra dell’Istituto, dopo una lezione che prenderà spunto dal frammento di Costituzione “effettiva partecipazione”, il Giudice risponderà alle domande che i detenuti vorranno rivolgergli. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018 e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri in diverse carceri italiane. Il primo si è svolto il 4 ottobre 2018 a Rebibbia Nuovo complesso. Sono seguiti, sempre nel 2018, San Vittore, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Nel 2019, dopo Sollicciano, Potenza, Padova e Napoli seguirà Bologna. Piacenza: fragole, ortaggi e miele prodotti in carcere con la coop L’Orto Botanico piacenzasera.it, 20 marzo 2019 Che sapore ha la dignità? Forse quello zuccherino e fresco delle fragole appena colte, frutto simbolo della primavera, stagione delle nuove opportunità. È proprio questo l’obiettivo del progetto Ex Novo, promosso dalla cooperativa sociale L’Orto Botanico, all’interno della casa circondariale delle Novate di Piacenza. Dal 2016 la cooperativa ha avviato dei percorsi di lavoro all’interno del carcere, come la coltivazione di fragole e ortaggi, la produzione di miele e un laboratorio di falegnameria e restauro. Piccole attività, che hanno visto coinvolti detenuti scelti dalla direzione penitenziaria, con piccole produzioni, consumate direttamente dagli ospiti delle Novate. Il progetto ora, però, verrà esteso e ampliato, coinvolgendo un numero maggiore di detenuti, che potranno così imparare un mestiere, percepire uno stipendio e iniziare un percorso di cambiamento e riabilitazione. “Nel 2018 abbiamo deciso di rendere le attività già avviate più solide e in grado di sostenersi economicamente - spiega Consuelo Sartori de L’Orto Botanico. Tra i progetti che abbiamo deciso di ampliare c’è quello della coltivazione di fragole, scelto perché richiede un grande fabbisogno di manodopera, coinvolgendo quindi un maggior numero di detenuti”. “Non solo, si tratta infatti di un ritorno al passato dell’agricoltura piacentina: una volta questa coltivazione era molto diffusa, per essere poi soppiantata nel corso degli anni da altre produzioni a maggior rendimento. Per questo tipo di attività ci siamo avvalsi della collaborazione della facoltà di Agraria dell’università Cattolica e di quella della ditta Geoponica”. Due le tipologie di fragole coltivate, Clery Unifera e Murano Rifiorenti, sia in serra che in pieno campo. La produzione stimata, per quest’anno, è di 35 quintali. I detenuti saranno quindi coinvolti nella fase successiva di preparazione e confezionamento delle vaschette, che saranno distribuite in alcuni punti di vendita della città nelle prossime settimane. Ma accanto al progetto “fragole”, prenderanno nuovo slancio anche quello dell’orto, della produzione di miele e il laboratorio di falegnameria. “L’idea è quella di realizzare delle cassette con prodotti di stagione e metterle in vendita. Le cassette stesse e i contenitori dei vasetti di miele saranno realizzati dai partecipanti al laboratorio di falegnameria. Tutte le produzioni realizzate in carcere avranno lo stesso logo “Ex Novo”, con colori diversi: rosso per le fragole, giallo per il miele, verde per gli ortaggi e marrone per la falegnameria” continua ancora Sartori. “La cosa per noi importante, essendo una cooperativa sociale, non è il lucro ma il poter agevolare l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Con “Ex Novo”- sottolinea Sartori - consentiamo alle persone detenute di imparare un mestiere, di percepire una retribuzione quando si trovano ancora all’interno del carcere, cosa importantissima perché consente loro di dare un piccolo aiuto ai familiari, dà loro dignità”. “Forse per Piacenza progetti come questo possono rappresentare una novità, ma in altre realtà in cui sono stati attivati si sono dimostrati il migliore strumento per abbattere il tasso di recidiva del 10%, perché consentono di acquisire competenze necessarie per trovare un lavoro”. Una scommessa in cui ha creduto anche Fondazione Cattolica Assicurazioni, con un contributo di 25mila euro che saranno utilizzati per l’acquisto di nuove serre e per far crescere le capacità produttive di “Ex Novo”. Modena: lezioni di cucina e creazione di un ricettario, il progetto per le detenute modenatoday.it, 20 marzo 2019 Prende il via un progetto dedicato al cibo come condivisione e percorso di formazione per acquisire nuove competenze. Promosso dal Comune con le associazioni femminili e il consorzio Modena a tavola. È il cibo, come strumento di conoscenza e condivisione e come oggetto di un percorso di formazione per acquisire nuove competenze professionali, il centro del progetto che coinvolge le detenute della sezione femminile della Casa circondariale di Sant’Anna e che sarà attivo a partire dal mese di aprile. Promosso dal Comune di Modena in collaborazione con l’associazione Casa delle donne contro la violenza, il Centro documentazione donna, l’associazione Carcere città e il Consorzio Modena a tavola, il progetto si è classificato ai primi posti del bando promosso dal dipartimento alle Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri rivolto alla prevenzione e al contrasto alla violenza alle donne nell’ambito del quale ha ottenuto un finanziamento di 73 mila euro. Le attività, che coinvolgeranno a rotazione le donne detenute a Sant’Anna, attualmente una trentina di diverse nazionalità, sono state presentate questa mattina, martedì 19 marzo, con una conferenza stampa all’interno del carcere alla quale hanno partecipato l’assessora alle Pari opportunità Irene Guadagnini, la direttrice del carcere Federica Dallari, Vittorina Maestroni del Centro documentazione donna, Paola Cigarini, dell’associazione Carcere città, Paola Santoro, della Casa delle donne contro la violenza, Ermanno Casari e Stefano Corghi del consorzio Modena a tavola. Il cibo è un linguaggio comune e un argomento che tocca trasversalmente tutte le culture e le nazionalità, da qui la scelta di metterlo al centro di un progetto che ha un duplice obiettivo: da un lato, creare le condizioni per una migliore integrazione delle donne detenute e migliorare la loro capacità comunicativa, dall’altro acquisire nuove abilità e competenze tecniche che possano costituire un valido supporto nella fase di reinserimento sociale delle detenute e diventare il punto di partenza per modificare il proprio percorso di vita. Il percorso, che proseguirà per tutto il 2019, prevede due incontri ogni settimana, uno più pratico, dedicato alla formazione sulle tecniche di cucina tenuto dagli chef di Modena a tavola, e l’altro più teorico che tratta i temi della salute, del rispetto del proprio corpo, delle relazioni interculturali e che sarà tenuto dalle operatrici delle associazioni femminili. Tra le attività in programma anche animazione teatrale e la realizzazione di un libro di ricette per nazionalità. Il corso di cucina proposto da Modena a tavola ha l’obiettivo principale di fornire le competenze di base sulle diverse professionalità che possono operare in una cucina oltre agli insegnamenti fondamentali, propedeutici a una successiva formazione professionale. Divisi in piccoli gruppi, le partecipanti lavoreranno nella cucina del carcere con materiali e prodotti portati dai docenti. Al termine di ogni lezione monotematica (la carne, il pesce, l’orto, la pasticceria ma anche l’utilizzo degli scarti, l’igiene in cucina, il servizio del vino e delle bevande), i piatti preparati verranno consumati insieme. Fermo: cinque detenuti diventano barbieri del carcere, corso con docenti d’eccezione Cronache Fermane, 20 marzo 2019 Nella Casa di reclusione un percorso formativo curato da Roberto Acquaroli e Emmanuel Vecchioli, per conquistare un diploma da acconciatori per uomini Hanno scoperto un talento naturale e una grande voglia di imparare a tagliare i capelli cinque detenuti nella casa di reclusione di Fermo, che hanno seguito un corso per acconciatori, tenuto da due maestri d’eccezione. Roberto Acquaroli e Emmanuel Vecchioli hanno una lunga esperienza come docenti di scienze cosmetologiche all’università americana a Roma, parrucchieri ufficiali al festival di Sanremo, tra pochi giorni impegnati al Cosmoprof, il salone dedicato alla bellezza a Bologna. Volentieri hanno prestato la loro arte e la loro professionalità per trasmettere gli elementi di base a chi voleva conquistare un diploma da acconciatore, nella struttura fermana. “Abbiamo avuto un contatto con l’ufficio del Garante dei detenuti delle Marche, Andrea Nobili - spiegano i docenti - e siamo stati così indirizzati alla direttrice della casa di reclusione di Fermo, Eleonora Consoli, e all’educatore Nicola Arbusti che in poco tempo hanno consentito l’organizzazione del corso, grazie al sostegno della Fondazione Caritas in Veritate Per noi è stata un’esperienza straordinaria, nel vedere l’impegno e l’attenzione che ci sono stati dedicati”. In questi giorni la consegna dei diplomi ai primi cinque detenuti che hanno seguito il percorso, tutti si sono detti felici di aver appreso un’arte vera e propria, imparando anche a leggere le etichette dei prodotti per capire le sostanze naturale e quelle da evitare, seguendo anche lezioni teoriche dedicate alla pelle e ai capelli. Hanno capito come fare un taglio alla moda ma anche come prendersi cura delle barbe, si sono esercitati nel corso delle lezioni sugli altri detenuti che avevano necessità di tagliarsi i capelli, sono diventati i barbieri ufficiali del carcere. Un’esperienza che si spera di ripetere al più presto, per consegnare nelle mani di chi sta scontando una pena la possibilità di costruire un futuro diverso. Genova: Festa del papà, si festeggia anche nel carcere di Marassi di Licia Casali Il Secolo XIX, 20 marzo 2019 Una partita a rugby come tante, padri e figli. Ma in un campo speciale, quello del carcere di Marassi. Perché anche se si è commesso un errore la Festa del Papà è un appuntamento irrinunciabile e va festeggiato: l’appuntamento ha coinvolto tredici famiglie. “Seguiamo i papà in tutte le occasioni possibili - ha spiegato Federico Ghiglione, presidente dell’Associazione “Professione Papà” e ideatore della manifestazione insieme al Centro Sportivo Italiano - e siamo felici che, dopo la prima esperienza di luglio, ci sia stata una grande richiesta da parte dei detenuti per ripetere l’esperienza. Dare un’occasione di incontro in un contesto gioioso, all’aria aperta, ben diverso dall’asettica sala colloqui è stato emozionante per tutti”. In campo sono scesi quindici bambini, orgogliosi di poter giocare a rugby con il papà: c’è chi - come Alessandro - non ha mai visto una palla ovale, chi - come Simone - ne approfitta per rotolare in mezzo al campo e chi - come Federico - per un giorno accantona gli sfottò calcistici e si dedica a un derby familiare, indossando una maglia della Sampdoria per giocare con il papà che porta un giubbotto del Genoa. Rimini: Festa del papà, in carcere i detenuti diventano lettori per le famiglie chiamamicitta.it, 20 marzo 2019 celebrare la festa del papà. La Casa Circondariale di Rimini in collaborazione con il Centro per le Famiglie del Comune di Rimini ha organizzato un momento di incontro dedicato ai detenuti e ai loro figli per festeggiare la giornata dedicata ai papà: una decina tra le persone che stanno scontando la loro pena al carcere riminese ha vestito i panni di lettori volontari per un pubblico composto da detenuti accompagnati dalle loro famiglie, figli e compagne. “È stata un’occasione emozionante - racconta il vicesindaco Gloria Lisi. I “lettori volontari” per prepararsi a questo appuntamento hanno partecipato al caffè “corretto”, iniziativa che propone laboratori che consentano ai detenuti di impiegare parte del tempo in carcere in attività di socializzazione ed educative. Dopo due mesi di prove, in particolare per i detenuti stranieri che si sono messi alla prova anche con la lingua italiana, questa mattina i lettori volontari hanno debuttato raccogliendo i sorrisi e gli apprezzamenti di questo speciale pubblico. L’iniziativa di oggi è importante e preziosa da due punti di vista: innanzitutto il coinvolgimento di alcuni detenuti nei laboratori di lettura offre la possibilità a chi sta scontando la pena in carcere di mettere a frutto il proprio tempo in modo proficuo, di entrare in contatto con gli altri e di conoscere meglio anche se stessi. Il carcere deve essere luogo di rieducazione, di preparazione per affrontare la vita al di fuori di quelle mura con uno sguardo, uno spirito e una propensione diversi. Secondo aspetto specifico dell’iniziativa di oggi è il sostegno alla genitorialità: si creano occasioni di comunicazione e relazione tra adulti e bambini, dando spazio a nuovi modi di condividere emozioni. Un percorso delicato e difficile, ma indispensabile per i padri per i bambini, sia per affrontare un trauma come quello della detenzione, sia per costruire un domani post-carcere diverso dal passato”. Vercelli: clown “mediatori” al fianco dei detenuti nei colloqui con i figli di Filippo Simonetti La Stampa, 20 marzo 2019 Un clown come mediatore delle relazioni familiari. Il giorno dopo la Festa del papà le porte del carcere di Vercelli si aprono per la prima volta a un ambizioso progetto per il supporto alla genitorialità dei detenuti. Grazie alla collaborazione con la Onlus Pianeta dei Clown, che opera da tempo sul territorio attraverso l’attività di 19 volontari guidati dalla criminologa e mediatrice familiare-comunitaria Giovanna Ruffin (in arte clown Girandola), oggi alle 15 il penitenziario cittadino permetterà di vivere un’esperienza particolare ad alcuni padri-detenuti. Interverranno i funzionari giuridici pedagogici Valeria Climaco e Antonietta Pisani: “L’area finalizzata alla rieducazione del condannato - affermano - è lieta e allo stesso tempo curiosa di ospitare per la prima volta il Pianeta dei clown, riconoscendo la valenza della loro attività già sperimentata a Novara”. Oggi pomeriggio quindi, per un paio d’ore, saranno all’opera 10 volontari tra i 19 che compongono il team. Spiega Giovanna Ruffin: “Entreremo in carcere in punta di piedi, com’è giusto che sia: incontreremo i papà durante i colloqui con figli e compagne. Cercheremo di aiutarli nel gestire al meglio il (pochissimo) tempo che dedicano ai parenti agendo sullo spirito e sul controllo delle emozioni”. Palermo: Festa del papà per i detenuti e danzamovimentoterapia per le detenute giornalecittadinopress.it, 20 marzo 2019 Continuano le iniziative del Centro di Accoglienza Padre Nostro di Brancaccio a Palermo. Ieri, martedì 19 marzo 2019 il Centro di Accoglienza Padre Nostro, grazie al gesto di solidarietà di un noto ristoratore palermitano che vuole rimanere anonimo, offrirà il pranzo per la festa del papà ai detenuti della Casa di Reclusione “Ucciardone” di Palermo e alle loro famiglie. Saranno circa 200 le persone che parteciperanno al pranzo di San Giuseppe nell’area verde del carcere. Prima del pranzo, i volontari e gli operatori del Centro, intratterranno i figli dei detenuti con giochi, balli, animazione e laboratori. “Come ogni anno - dice Maurizio Artale, presidente del Centro di Accoglienza Padre Nostro - vogliamo ricreare, almeno per poche ore, quel clima familiare anche all’interno di un carcere”. Inoltre, a partire da oggi, il Centro promuoverà, per la prima volta, un laboratorio di danzamovimentoterapia rivolto alla sezione femminile delle ospiti della Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo: il linguaggio del movimento corporeo e della danza attraverseranno le mura del carcere per dare avvio ad un dialogo libero fondato sulle capacità creative delle donne detenute coinvolte. Pavia: Bossi Fedrigotti incontra i detenuti a Torre del Gallo La Provincia Pavese, 20 marzo 2019 Isabella Bossi Fedrigotti, giornalista e scrittrice, incontrerà oggi i detenuti nel carcere di Torre del Gallo nell’ambito di un’iniziativa voluta da Mediobanca. l progetto si intitola “I detenuti domandano perché”. Tratta di questioni diverse e molto profonde, che meritano risposte meditate e partecipate; risposte intorno alle quali è stato costruito un percorso che ha permesso ai detenuti di dialogare su questioni che li toccano in prima persona e agli scrittori di vivere un momento di confronto. Nasce da queste premesse la decisione di dare vita alla seconda edizione del progetto ampliando il numero di detenuti e scrittori coinvolti. Un’edizione che vedrà il coinvolgimento dei volontari di Mediobanca, a conferma dell’impegno dell’istituto stesso a sostegno dell’inclusione sociale. Il progetto è in partenza: le domande raccolte attraverso “I detenuti domandano perche” verranno veicolate agli autori in occasione di un calendario di incontri che si svolgeranno tra marzo e settembre all’interno delle cinque strutture carcerarie aderenti al programma. Il primo appuntamento si terrà, appunto, oggi, nella biblioteca del carcere Torre del Gallo di Pavia con la partecipazione di Isabella Bossi Fedrigotti. A seguire, in altre case di detenzione, Marco Balzano, Gianni Biondillo, Andrea Kerbaker, Giuseppe Lupo, Umberto Galimberti e Pier Luigi Vercesi incontreranno i detenuti a Milano (San Vittore e Beccaria), ancora Pavia, Bollate e Vigevano. “La promozione dell’inclusione sociale è un tema sul quale abbiamo deciso di impegnarci concretamente, a partire dal territorio a noi più prossimo: quello della città di Milano e della Lombardia”, commenta Francesco Saverio Vinci, direttore generale di Mediobanca. “Da sempre mettiamo al centro il capitale umano sia nella nostra attività professionale che in ambito sociale con maggiore attenzione alle persone disagiate. Con questa iniziativa vorremo aiutare i detenuti a mantenere aperto un dialogo con il mondo esterno” “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle”, testimonianza di una rinascita recensione di Bruna Alasia dazebaonews.it, 20 marzo 2019 “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle”, Itaca edizioni, scritto a quattro mani dal detenuto-attore Attilio Frasca con il regista di Blob Fabio Masi, attraverso una scelta di missive autentiche nei dieci anni di corrispondenza di Attilio dal carcere con l’amico incensurato Massimo, é una testimonianza commovente della vita di Attilio Frasca, risucchiata come falena da richiami notturni di droga e furti, da delirio di onnipotenza che sfocia in risse allo stadio; ma anche segnata da una maturazione lenta e dolorosa, grazie al dialogo epistolare con l’amico che lo aiuta in un percorso di autocoscienza, gli tende il filo d’Arianna per uscire dal labirinto. “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle”, racconta la storia vera di Attilio Frasca, nato nel 1970 in una borgata romana, condannato a trent’anni di reclusione, di cui meno di metà scontati, e la perdita di equilibrio che gli fa battere una strada apparentemente senza uscita. Massimo, per quanto cresciuto nello stesso quartiere, ha un destino diverso: una famiglia, dei figli, un lavoro creativo e, soprattutto, non ha mai ceduto al pregiudizio che getta a mare chi ha perso la rotta. Sarà quest’amicizia a compiere il miracolo. Nei fatti, Attilio Frasca nel 2015 insieme ad altri detenuti e volontari ha iniziato a ristrutturare un’ampia area del carcere di Pescara, che ora possiede le sue scuole, la sua biblioteca, una sartoria, un laboratorio di teatro. “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle” - libro godibile, che si legge d’un fiato - trascina e permette di capire come, per quanto la responsabilità individuale conti, la linea di confine che ci può far vivere o soccombere è davvero sottile. Alla fine del racconto il lettore si chiede come sia possibile che l’Attilio di oggi sia la stessa persona di ieri. Dal libro è stato tratto lo spettacolo omonimo, diretto da Ariele Vincenti, con la partecipazione di Flavio Insinna che nella pièce è filo conduttore e voce narrante. Insinna, del rapporto umano tra i protagonisti, dice: “… la vera amicizia è senza giudizio, Massimo non giudica Attilio per ciò che ha commesso nella vita, ma gli sta a fianco e lo conforta, un amico non ti giudica mai”. Tale percorso di rinascita è, infatti, esempio di ciò che produce la capacità che abbiamo di amare. Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle. Attilio Frasca, Fabio Masi. Itaca edizioni. Pag. 122 - euro 13. Il valore politico delle proteste pacifiche di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 marzo 2019 Le manifestazioni (diventate violente) dei gilet gialli in Francia e quelle diverse pro-clima ci dicono qualcosa sulla fase che stanno attraversando i Paesi europei. La storia delle democrazie è costellata di episodi di protesta di piazza. La protesta dei gilet gialli per le strade di Parigi, oggi diventata violenta (devastazioni e saccheggi sugli Champs-Elysées) e le manifestazioni pacifiche pro-clima in Italia e in tanti altri luoghi ci dicono qualcosa sulla fase che stanno attraversando le democrazie europee. Ci sono differenze cruciali fra i vari tipi di protesta, soprattutto, in rapporto ai mezzi, ma c’è anche, talvolta, qualche somiglianza (non immediatamente visibile) in rapporto ai fini. La più importante differenza, la discriminante principale, riguarda l’uso della violenza. Le manifestazioni che prendono una piega violenta mettono in moto dinamiche assai diverse da quelle che restano pacifiche. La violenza ha effetti contraddittori, e forse anche paradossali, sulle sorti del movimento di piazza. Di sicuro, una volta impiegata, essa riduce drasticamente il consenso che, in un primo tempo, aveva circondato la protesta. Nella prima fase del movimento dei gilet gialli era evidente che le loro gesta erano seguite con approvazione da settori non piccoli della società (da molti francesi, soprattutto, che non apprezzano il presidente Macron). La violenza cambia tutto. Il consenso diffuso della prima fase si riduce drasticamente. Da questo punto di vista, il fatto che frange violente (per definizione, sempre minoritarie) siano riuscite ad imporre il proprio modo di protestare, è una sconfitta per la parte del movimento che si era illusa di poter capitalizzare su quel consenso. Ma, attenzione, la violenza, una volta impiegata dalle suddette frange, ha anche altre conseguenze, non tutte negative per il movimento. Obbliga il governo che lo fronteggia a distinguere fra i violenti e i cosiddetti “moderati”, coloro che, nel movimento, non condividono la scelta della violenza. Ciò può aprire insperati spazi di manovra ai suddetti soi-disant moderati. Perché li mette nelle condizioni di possibili punti di riferimento del governo se e quando si daranno momenti di negoziazione. La violenza, infatti, spinge il governo a cercare interlocutori nel movimento al fine di isolare e sconfiggere i violenti. Senza contare il fatto che anche l’opposizione parlamentare si inserisce nel gioco e cerca di sfruttare l’effervescenza sociale in atto. Si noti che i “moderati” sono, per lo più, tali solo in rapporto ai mezzi ma sono altrettanto immoderati dei violenti in rapporto ai fini. Ciò significa che la democrazia, quando e se tratta con loro, rischia di aprire la propria agenda politica a temi e a modi di pensare che sono incompatibili con quanto vuole la maggioranza degli elettori. Il rischio è che sul processo democratico finisca per pesare, introducendovi gravi distorsioni, l’ipoteca di chi democratico non è. Diverso, naturalmente, è il caso dei movimenti di protesta che non fanno ricorso alla violenza e che riescono ad impedire, anche nel lungo periodo, che i violenti si prendano la piazza. Questi movimenti, normalmente, mantengono un certo consenso diffuso e diventano subito interlocutori delle classi politiche o di settori di esse. Per esempio, l’opposizione parlamentare, nei casi in cui non sia fin dall’inizio uno dei centri di promozione della protesta, cerca di entrare in sintonia con il movimento perché spera che esso diventi un prezioso bacino di consensi elettorali. Fortunatamente, in questi casi non ci sono gravi problemi di ordine pubblico. Qui il rischio è un altro. È che alcuni fini che il movimento propone vengano ripresi di peso dalla politica senza quelle mediazioni che sarebbero necessarie per non mettere in difficoltà la democrazia. Prendiamo le questioni ambientali. Ci sono due modi di affrontarle. C’è un modo pragmatico (in altri tempi, si sarebbe detto riformista), quello che il filosofo Karl Popper chiamava “riformismo a spizzico” e che, per lui, era l’unico compatibile con la democrazia. Si va avanti per tentativi ed errori, in modo incrementale, cercando di conciliare le varie esigenze (poniamo: la crescita economica e il sostegno a certe misure eco-sostenibili che non la compromettano). Si noti che, da questo punto di vista, le società aperte (liberali) occidentali sono in netto vantaggio rispetto alle società chiuse, autoritarie. Perché il pluralismo che le caratterizza, la presenza, in esse, di una miriade di centri di potere (politici, economici, amministrativi, giudiziari, eccetera) e una diffusa libertà individuale, fanno sì che - se e quando una certa sensibilità per le condizioni dell’ambiente si diffonde - allora ci siano miglioramenti, come esito di una grandissima quantità di comportamenti individuali fra loro non coordinati, anche in quel settore. Non è un caso che i livelli di inquinamento nelle città siano sempre stati nettamente maggiori nei regimi comunisti che nelle società occidentali. Ci sono dunque aspetti della sensibilità pro-clima che sono utilissimi, perfettamente coerenti con le esigenze della democrazia, e che, una volta diffusi, migliorano la qualità della vita di tutti. Ma c’è anche il risvolto della medaglia. Alcuni di coloro che lanciano allarmi per il clima sembrano inconsapevoli delle conseguenze politiche ed etiche che si avrebbero se ciò che essi propongono diventasse realtà. La maggioranza dei manifestanti è composta da persone che, ragionevolmente, chiedono aria pulita e sostenibilità ambientale. C’è poi una minoranza che avanza proposte irricevibili, una minoranza che non comprende che l’opposizione alla crescita economica (globale) e la “guerra ai consumi” che essa perora come mezzo per “salvare l’ambiente” richiederebbero un pugno di ferro su scala planetaria, un potere coercitivo così forte da riuscire a imporre a qualche miliardo di persone di smettere di consumare. Quando trattano questi argomenti alcuni adulti sembrano ignari della complessità del mondo. Più in generale, le proteste di piazza hanno di solito successo quanto più usano toni apocalittici, e un linguaggio manicheo (di qua il Bene, di là il Male), quanto più semplificano argomenti troppo complessi per poter essere trattati con sapienza nella suddetta piazza. Come sempre è stato, le democrazie, di fronte alle periodiche proteste, hanno il problema di separare il grano dal loglio, prendere ciò che serve e buttar via tutto ciò che non va. A volte ci riescono e a volte no. Intelligenza artificiale e guerra. La campagna Stop killer robots per il bando di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 20 marzo 2019 Rete per il disarmo ha lanciato la campagna “Stop killer robots” anche in Italia - dopo Francia, Germania e Usa - con un appello firmato da 110 scienziati, ricercatori, professori universitari. Piccolo come un giocattolino, un ragno meccanico appoggiato sul palmo di una mano quando è a riposo, ma capace di volare, schivare gli ostacoli, scartare di lato, velocissimo, di riconoscere una faccia attraverso i dati immagazzinati e i sensori, di individuarla come bersaglio e come una fulminea ape elettronica si tuffa per penetrarne l’osso frontale in mezzo agli occhi con una carica di tre grammi di esplosivo. Ecco, questo delicato marchingegno kamikaze senza colpe né dubbi è un killer robots, un mini drone programmato per decidere autonomamente chi uccidere e chi no, il protagonista prescelto per le guerre “intelligenti” del futuro, un futuro non tanto lontano. Già da un paio d’anni negli Stati uniti si è sviluppato un dibattito sulla messa al bando preventiva di questi sistemi d’arma che, utilizzando robotica di precisione e tutte le tecnologie più innovative nel campo dell’intelligenza artificiale, sono chiamati ad agire militarmente, nuovi soldatini guidati da una complessa serie di algoritmi piuttosto che dalla imprecisa e tremolante mano umana. Già 28 Paesi, tra cui la Cina, hanno chiesto la loro messa al bando; ci sono a Bruxelles tavoli di esperti che studiano la materia e riferiscono a governi europei estremamente preoccupati del possibile lancio di questa nuova gamma di micidiali prodotti, ordigni intelligenti ma non troppo, visto che possono scambiare uno scuolabus per uno struzzo e forse per un commando terrorista attraverso errori di progettazione e quelli che gli esperti chiamano “bias” o “bachi di sistema”, in ogni caso capaci di rivoluzionare lo scenario di una conflittualità mondiale permanente come quando e molto di più fu esploso il primo fungo nucleare. Pochi giorni fa la Rete italiana per il disarmo - vincitrice del premio Nobel per la pace 2017 come partner dell’Ican - ha lanciato la campagna “Stop killer robots” anche in Italia - dopo Francia, Germania e Usa - con un appello firmato da 110 scienziati italiani, ricercatori, dottorandi e professori universitari, quasi tutti informatici, ingegneri della conoscenza, esperti di robotica e di Ai, intelligenza artificiale, che chiede alla comunità internazionale di fermare l’elaborazione di sistemi d’arma a guida autonoma. “In realtà ci può anche essere una autonomia totale dell’arma per quanto riguarda l’autodiagnosi, per vedere se c’è un malfunzionamento, o sulla mobilità ma non sul targeting e sul firing, cioè sulla scelta dell’obiettivo da colpire e sul far fuoco”, spiega Diego Latella, segretario dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid) e informatico ricercatore del Cnr. Quello che gli scienziati chiedono anche nella petizione lanciata dall’associazione Life for Future (finanziata anche da Elon Musk di Tesla ndr) è la messa al bando delle armi completamente autonome quando i gradi di autonomia sono tre - spiega Latella - e si definiscono con la minimizzazione dell’intervento umano: “human in the loop” a totale controllo dell’uomo, “human on the loop”, quando l’uomo interviene, “human out the loop”, quando la presenza umana non è richiesta per niente. “Non si tratta qui di dividerci tra apocalittici e integrati - dice Guglielmo Tamburrini, professore di filosofia della scienza alla Federico II di Napoli - ma di maturare una sensibilità morale a ogni grande innovazione tecnologica e se è vero che l’intelligenza artificiale e la robotica hanno un grande impatto positivo applicate alla sanità o ai trasporti, persino ad attività di sorveglianza e di difesa, armi che vagano in uno spazio alla ricerca del nemico da colpire indipendentemente da qualsiasi controllo umano pongono l’umanità stessa a rischio”. Si pongono problemi etici e giuridici, visto che interrompendo la catena umana di comando, sarebbe impossibile definire la responsabilità dei crimini di guerra, mettendo in mora tutto il diritto internazionale e la convenzione di Ginevra. Piccoli e grandi Terminator poi non sono completamente prevedibili e si potrebbero verificare inarrestabili genocidi in una lotta tra uomo e macchina di cui abbiamo avuto un assaggio con il recente caso del jet etiope precipitato. Le false promesse fatte ai migranti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 20 marzo 2019 L’aumento degli aiuti ai Paesi poveri, che avrebbe dovuto essere parallelo alla guerra ai trafficanti di immigrati, non c’è stato. Anzi, gli aiuti sono stati ridotti. “I nostri porti sono chiusi, i nostri cuori sono aperti per aiutare questi ragazzi a non scappare da casa loro”, proclamò Matteo Salvini il 14 agosto scorso, alle prese una delle tante “emergenze” migratorie. Rileggiamo: “i nostri cuori sono aperti”. Chissà se avrebbe la faccia di ripeterlo senza arrossire. L’aumento degli aiuti ai Paesi poveri, che a chiacchiere avrebbe dovuto essere parallelo alla guerra totale ai trafficanti di immigrati, infatti, non c’è stato affatto. Anzi. L’ultima finanziaria targata Di Maio-Salvini, come ha dimostrato numeri alla mano Open Polis su dati Ocse, è tornata a tagliare i fondi. Che per sei anni consecutivi erano cresciuti dallo 0,14% del 2012 allo 0,30% del 2017 (troppo poco comunque, rispetto all’obiettivo finale dello 0,70%) e ora dovrebbero scendere nel 2021 dallo 0,40 programmato allo 0,26. Prova provata di quanto abbia ragione Don Luigi Ciotti quando scrive, nel suo libro “Lettera a un razzista del terzo millennio” (edizioni Gruppo Abele), che “il culmine dell’ipocrisia, con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza e cerca di darsi rispettabilità e credibilità, sta nell’affermazione “aiutiamo i migranti a casa loro”“. Una frase ripetuta mille volte dai vari governi ma sempre tradita nei fatti. Al punto che nel 2005, verso la fine del quinquennio di governo delle destre guidate da Silvio Berlusconi, il quale aveva esordito nel G8 genovese del 2001 invitando i Paesi ricchi a dare a quelli poveri “non lo 0,7% ma almeno l’1% del Pil”, gli aiuti scesero addirittura allo 0,11. Sette volte di meno dell’obiettivo già citato. Cuori aperti? La realtà, scrive Luigi Ciotti, “è che l’Occidente ha colonizzato, sfruttato e depredato i territori del sud del mondo, dell’Africa in particolare, e ora pretende che chi vive nella fame, nella siccità o fugge da guerre, accetti passivamente il suo destino”. Di fatto, denuncia il fondatore di Libera, mentre aumentano i conflitti armati e i traffici di armi e la fame nel mondo (“Nel 2017 il numero di persone denutrite è stato di 821 milioni: un abitante della Terra su nove”), “l’affermazione, apparentemente suggestiva, “aiutiamoli a casa loro” è solo la copertura della indisponibilità all’accoglienza. Il dovere di accoglienza e di soccorso è la base della civiltà. Se viene meno, l’emorragia di umanità rischia di diventare inarrestabile”. Migranti. I porti chiusi sono una distrazione di Luca Gambardella Il Foglio, 20 marzo 2019 I migranti continuano a partire e continuano a morire in mare, solo che non ce lo dice nessuno. Un esperto ci spiega le conseguenze della retorica della “fortezza” Roma. Ieri un portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Flavio Di Giacomo, ha comunicato che nella notte un barcone carico di migranti partiti dalla Libia si è rovesciato al largo di Sabrata. I superstiti sono stati 15 ma il numero delle vittime resta imprecisato. Non è un caso isolato, perché le partenze e le morti dei migranti, anche al tempo dei “porti chiusi”, non si sono arrestate. A gennaio, Medici senza frontiere ha parlato di 20 cadaveri trovati sulle spiagge del golfo di Sirte. Almeno altri tre sono stati avvistati il mese successivo nella stessa zona. Nel frattempo, in Italia, l’attenzione generale era tutta concentrata sulle parole durissime rivolte dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha ribadito come l’unica politica migratoria del governo gialloverde sia quella dell’“arrestateli tutti”. Il vicepremier lo ha chiarito anche ieri, nel corso di una riunione al Viminale sul caso della nave umanitaria Mare Jonio. La Mare Jonio è rimasta per ore alla fonda a un miglio da Lampedusa, con a bordo 48 migranti salvati al largo della Libia, prima di essere autorizzata all’attracco e successivamente sequestrata. E soprattutto, ha aggiunto Salvini su Twitter, “i porti erano e resteranno chiusi”. Poco importa che le convenzioni internazionali impongano il soccorso alle navi in difficoltà, che la Libia non sia considerata porto sicuro dalle Nazioni Unite e che non esistano atti approvati dal Consiglio dei ministri che dimostrino l’effettiva chiusura dei porti italiani: la retorica della “fortezza italiana” finora ha pagato moltissimo in termini politici e ha avvalorato la tesi di Salvini secondo cui “meno ne partono, meno ne muoiono”. E così la percezione collettiva è che il ministro dell’Interno leghista sia riuscito una volta per tutte nell’impresa di chiudere il rubinetto dei migranti in partenza dalla Libia. Ma la realtà è che non siamo mai stati tanto all’oscuro di ciò che accade davvero al largo di Tripoli e a ridosso delle nostre coste. Da giugno 2018, cioè da quando la Libia ha annunciato la creazione di una zona Sar (search and rescue) di sua competenza, non si hanno più comunicazioni ufficiali sulle partenze o sui naufragi. Eppure, contrariamente a quanto ripetuto dal governo italiano, migliaia di persone continuano ad attraversare il Mediterraneo. “Nonostante la stagione invernale abbia reso difficile le traversate, nonostante l’assenza di ong in quel tratto di mare e nonostante la politica dei cosiddetti ‘porti chiusi’, dal 1° gennaio 2018 a oggi sono partiti dalla Libia circa 1.500 migranti”, spiega al Foglio Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi. “Di questi più di mille sono stati rispediti indietro dalla Guardia costiera di Tripoli. I morti sono stati oltre 220, meno di un centinaio quelli che sono riusciti ad arrivare in Europa”. Il dato sulle partenze e sui morti è da prendere con cautela, proprio perché la cosiddetta “Guardia costiera libica” - un gruppo di miliziani male addestrati e ancora peggio equipaggiati -non fa certo della trasparenza la sua priorità. I numeri raccolti dal ricercatore dell’Ispi dicono che anche in un Mediterraneo svuotato dalle ong i migranti continuano a partire. “Che le organizzazioni umanitarie non siano un pull factor, come invece sostiene il governo italiano, è dimostrato dai fatti - dice Villa - Oltre alle partenze che non si sono interrotte negli ultimi mesi nonostante l’assenza di ong, c’è il caso emblematico di luglio 2017, quando gli sbarchi hanno cominciato a diminuire: nella prima metà del mese gli arrivi in Italia erano stati oltre 10 mila, nella seconda circa 500. Ma per tutto il mese le ong che operavano nel Mediterraneo sono state sempre nove”. Eppure, il messaggio salviniano è che senza le navi umanitarie sarà possibile raggiungere l’obiettivo delle partenze zero. Per farlo, secondo il ministro dell’Interno, occorre che l’Europa adotti nel Mediterraneo un sistema di respingimenti più efficace, come quello australiano. La cosiddetta Pacific Solution ha la fama di essere una misura molto stringente che prevede il confino dei migranti intercettati nell’oceano sulle isole di Nauru e della Papua Nuova Guinea. “Ma paragonare il Mediterraneo al Pacifico è un non senso”, spiega Villa. “Se prendiamo i dati relativi all’Australia vediamo che la Pacific Solution ha funzionato perché l’Australia non ha mai dovuto accogliere più di 20 mila migranti in un anno. Per farci un’idea, si tratta più o meno del numero di immigrati arrivati in Italia nel 2018, quando di certo non si poteva parlare di uno stato di emergenza. Basti pensare che nel nostro paese sono arrivate 30 mila persone nel 2009, 60 mila nel 2011, 150 mila nel 2014. La politica della deterrenza adottata dall’Australia ha funzionato - ammette Villa - ma nel caso dell’Italia, visti i numeri molto più elevati, non porterebbe mai a un abbattimento delle partenze sia per il contesto geografico che è molto diverso sia perché la pressione migratoria da noi è più elevata”. Nel frattempo, allora, sembra non resti altra soluzione che “arrestarli tutti”, o quantomeno voltarsi dall’altra parte al prossimo naufragio. Migranti. I porti italiani sono aperti perché chiuderli è illegale di Valentina Brinis e Luigi Manconi Il Manifesto, 20 marzo 2019 Due giorni fa la nave italiana Mare Jonio dell’organizzazione Mediterranea Save Humans, ha soccorso 50 persone in fuga dalla Nigeria, dal Gambia, dal Camerun, dalla Guinea e dal Senegal. Mentre scriviamo l’imbarcazione ha raggiunto il porto di Lampedusa dove è iniziato lo sbarco dei naufraghi; e si ipotizza il sequestro della Mare Jonio e, per l’equipaggio, quello che viene definito pudicamente il “restare a disposizione delle autorità”. Un esito tutt’altro che scontato, dal momento che l’intera giornata era stata attraversata dalle dichiarazioni tonitruanti dei due Vicepremier. Il ministro dell’Interno Salvini ha dichiarato che i nostri porti “erano e restano chiusi”; e Di Maio ha affermato (Dio lo perdoni) che “una Ong italiana non può permettersi di disobbedire alla Guardia Costiera Libica”. Resta il fatto che non esiste alcun provvedimento del Consiglio dei Ministri che abbia disposto una misura di chiusura dei porti. Misura che sarebbe, in ogni caso, illegale sotto il profilo normativo e costituzionale. Di conseguenza, i porti italiani erano e restano aperti. Poi intervengono spericolate decisioni politiche come la “Direttiva per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale”, resa pubblica nella notte di lunedì scorso. Secondo quel testo, tra i 50 naufraghi soccorsi dalla Mare Jonio (minori compresi), potrebbero “celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico”. Dunque, invece di accertare rigorosamente l’eventuale ed effettiva pericolosità di ognuno, si sarebbe voluto tenerli a mollo tutti. Per una volta non è andata così. Nella giornata di ieri, l’imbarcazione era rimasta a qualche centinaio di metri al largo delle coste di Lampedusa, scortata da tre navi della Guardia Costiera italiana. E aveva ricevuto un’ispezione da parte della Guardia di Finanza che, al termine dei controlli durati sei ore, dichiarava di non aver rilevato alcunché di critico: a parte le condizioni delle persone tratte in salvo, evidentemente “provate”. Non c’è da stupirsi, dal momento che le stesse sono transitate dalla Libia - non certo un paese sicuro - e dai suoi centri di detenzione in cui avvengono “orrori inimmaginabili” (da un recente rapporto delle Nazioni Unite). Dopodiché, per ragioni al momento difficilmente decifrabili e in una prospettiva che attualmente sfugge, è stato consentito l’approdo a Lampedusa. Ciò che c’è ancora da temere è - rispetto a futuri episodi simili - un comportamento ondivago da parte del Governo, lacerato al proprio interno da contrasti insanabili e soggetto a mille pressioni, oltre che a una vocazione sciaguratamente propagandistica e demagogica, tesa di volta in volta a intercettare gli umori che ribollono nel corpo profondo del paese. Non si tratta di una circostanza inedita, e non si deve pensare esclusivamente agli ultimi quattro-cinque anni. La tentazione al respingimento di migranti e richiedenti asilo ha una storia antica e meschina, che ha conosciuto un episodio, oggi totalmente dimenticato, già quindici anni fa. Era il 2004 quando la nave Cap Anamur, dell’omonima Ong di Colonia, dopo aver tratto in salvo dalle acque del Canale di Sicilia 36 profughi sudanesi, venne bloccata in mare per ben tre settimane. Stefan Schimdt, il capitano, racconta “li soccorremmo avvisando le autorità italiane e li salvammo. Poi per tre settimane ci bloccarono in mare aperto perché non ci volevano fare sbarcare sulle coste siciliane e quando finalmente ci fecero attraccare a Porto Empedocle ci arrestarono per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fummo arrestati”. E prosegue: “solo dopo cinque anni, dopo il processo, ci assolsero. Non avevamo compiuto nessun reato, avevamo salvato soltanto delle vite umane che stavano per affondare” (La Repubblica, 29 aprile 2017). Questa volta, e provvidenzialmente, la storia non si è ripetuta negli stessi identici termini. Resta un elemento costante, pur a distanza di tanti anni e che addirittura sembra precipitare: un crescente spregio verso la tutela dell’incolumità degli esseri umani, soggetta alle oscillazioni degli interessi politici. Migranti. “Arrestateli!”. L’ira di Salvini che capisce di aver perso di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 marzo 2019 In galera! A metà giornata il ministro degli Interni sbotta con un post su Fb da cui trapela tutta la sua furia: “Se un cittadino forza un posto di blocco stradale viene arrestato. Conto che questo accada”. Non è più tempo di celie e “bacioni”, di ostentata calma e spavalda sicurezza. Stavolta Salvini è fuori di sé, schiuma rabbia. Perché la vicenda della Mar Jonio, la nave della piattaforma Mediterranea, si intreccia con il voto su di lui per il sequestro della “Diciotti” e il ministro fiuta la trappola. Perché i 5 Stelle, già in sofferenza, rischiano di sbandare di fronte a un nuovo dramma, e prima che in serata la situazione si risolvesse con la decisione della procura di Agrigento di far entrare la nave con i migranti nel porto di Lampedusa, avevano chiesto senza mezzi termini, in pubblico e in privato, che la vicenda si risolvesse subito nell’unico modo possibile: facendo sbarcare i migranti. Perché la Mar Jonio ha sfidato l’autorità del ministro mettendo a nudo l’inconsistenza della tesi secondo cui i porti sarebbero stati “chiusi” per volere del ministro degli Interni. Così il ministro perde davvero la calma e mostra quel volto brutale che di solito cerca di nascondere dietro le battute e l’amabilità posticcia. È un tam tam che inizia nelle prime ore del giorno e prosegue senza soste, a colpi di dichiarazioni, di post e di interviste a getto continuo. Il catalogo è completo. C’è “la nave dei centri sociali”. C’è Luca Casarini, descritto come una specie di malvivente: “Andatevi a vedere su Google chi è. Io non tratto con i pluripregiudicati”. C’è la denuncia del complotto: “Una coincidenza che il caso della Mar Jonio arrivi quando c’è il voto sulla Diciotti. Io a babbo Natale ci credevo prima di avere 8 anni”. C’è l’accusa infamante: “Questa imbarcazione non ha soccorso naufraghi che rischiavano di affogare ma è inserita in un traffico di esseri umani: organizzato, concordato e programmato”. Come d’abitudine il ministro travalica di molto i limiti del suo mandato. Ordina arresti. Dispone il sequestro della nave prima che decida chi di dovere, cioè la procura di Agrigento. Ma stavolta lo fa senza autocontrollo, apparendo più volte vicino a perdere il controllo dei nervi. Forse per la prima volta Salvini si sente isolato e intravede la possibilità di uno smacco clamoroso anche sul piano che più gli sta a cuore, quello della propaganda. Perché il coro è unanime: da LeU che con Fratoianni e la capogruppo al Senato De Petris reclama l’immediato sbarco dei migranti ed elogia la missione, al Pd, che in privato non gradisce affatto l’irruzione dell’ex disobbediente proprio alla vigilia del voto sulla Diciotti ma fa di necessità virtù e insiste a sua volta per lo sbarco, sino a Fi che con la presidente dei senatori Bernini accusa Casarini di aver “cercato l’incidente” ma chiede anche, per bocca della vicepresidente della Camera Carfagna, di “decidere presto”. Ma soprattutto la stessa necessità esprimono sia Conte che Di Maio. Il vicepremier pentastellato si schiera sì con Salvini chiedendo il sequestro della nave, ma con decibel infinitamente più bassi e insistendo sia con i giornalisti che nei continui contatti con il premier e con lo stesso Salvini per chiudere la vicenda in giornata, “nelle prossime ore”. La realtà è che un nuovo dramma prolungato, come quelli della “Diciotti” e della “Sea Watch”, non lo reggerebbe nessuno e meno che mai in concomitanza con il voto sull’autorizzazione a procedere contro Salvini. Saviano apre il fuoco ad alzo zero: “Ennesimo atto da buffone sulla pelle dei migranti”. Magistratura democratica ripete che impedire lo sbarco significa violare la legge. Il sindaco di Lampedusa garantisce che il paese è pronto all’accoglienza. La sola via d’uscita è affidarsi alla procura, che ordina lo sbarco, apre un fascicolo per favoreggiamento, ma senza nessun tintinnar di manette, e dispone il sequestro della nave, anche se l’armatore, Beppe Caccia, ex disobbediente come Casarini, smentisce che sia mai stata notificato alcuna disposizione di sequestro. Salvini si finge soddisfatto: “La nave è stata sequestrata. Il governo difende i confini e chi sbaglia paga”. Ma la sfida non è finita come avrebbe voluto. Il segno che connota l’esito del braccio di ferro, stavolta, non sono i suoi strepiti ma il grido dei migranti sbarcati nonostante i divieti: “Liberté, Liberté”. Governo contro Ong. Una partita sulla pelle dei migranti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 20 marzo 2019 Usati, usati in una battaglia politica che trascende di molto la loro vicenda individuale, la loro stessa vita. Si tratta dei migranti tirati fuori dalle onde dalla nave Mare Jonio ed esposti davanti al porto di Lampedusa per ottenere il permesso di sbarco oppure, se fosse venuto un rifiuto, avere la conferma della disumanità della politica di Salvini (e del governo che defilato lo lascia fare). Nel giorno in cui il Senato negherà o autorizzerà il processo per la precedente vicenda della Diciotti, la nuova nave che ha dovuto attendere in mare ha gettato sui banchi dei senatori 49 disperati: persone di cui - se non vengono identificate e ammesse alla procedura di eventuale status di rifugiato - non si sa nulla per quel che riguarda le ragioni della loro fuga dal paese di origine, di cui non si può sapere se abbiano o non abbiano diritto a rifugio, come la Costituzione e la legge prevedono. Occasionale o programmata che sia, si tratta di una drammatizzazione forte delle scelte che individualmente compirà ciascuno dei senatori; particolarmente quelli dei partiti che sostengono il governo e la sua politica. Strumento della drammatizzazione sono quelle 49 persone. Usati e negati nella dignità della loro umanità, da rispettare sempre e comunque, erano già stati i migranti bloccati a bordo delle due precedenti navi che li avevano recuperati in mare e che erano stati a lungo impediti di sbarcare, fintanto che altri che non fosse l’Italia non accettasse di farsene carico (o promettesse o facesse finta di farlo). Lo scopo era di apparire vincenti nel braccio di ferro con Ong e Stati europei, montare immagini di invasione del territorio nazionale e presentarsi come l’impavido difensore della Patria. Era evidente che gli interessi italiani in materia di migrazioni, qualunque ne sia il reale contenuto, non erano e non sono ora in alcun modo messi in discussione da poche decine di persone che chiedono di sbarcare per essere soggette alle procedure legali di valutazione dei loro diritti al rifugio e alla protezione. Lasciarli vagare in mare, incerti sul loro destino fino a che la Spagna non accettò di riceverli, o accettarono di occuparsene la Conferenza episcopale italiana o la Chiesa Valdese, non serviva a respingere gli invasori, ma a forzare altri, costringerli a sostituirsi al governo italiano. E soprattutto serviva e serve a far vedere, sulle due rive del Mediterraneo, che l’arrivo in Italia è difficilissimo. Con il cosiddetto “decreto sicurezza”, poi, si fa sapere che per chi riesce a sbarcare la vita in Italia è durissima: altro che “bengodi”! Non c’è ragione di infierire su quei migranti cui si rifiuta lo sbarco, o su quelli che vengono privati di sostegno una volta giunti a terra, se non quella di lanciare un messaggio capace di disincentivare (o dirottare altrove) il viaggio verso l’Italia. Il terreno su cui la partita politica si gioca è un altro, poiché si cerca di contrastare un fenomeno epocale come quello dei movimenti migratori. Certo è impossibile ricevere in Italia o in Europa i milioni di persone che dall’Africa o dall’Asia vorrebbero venirvi. Sono necessarie politiche che creino alternative legali e rendano meno penosa la vita nei luoghi di partenza. Ma qualunque sia la regolarità o irregolarità degli arrivi, le persone che vengono a trovarsi nell’area di giurisdizione italiana non possono essere usate, ma debbono essere protette. Non è generico buonismo ricordare che ogni persona deve essere riconosciuta come un fine e non trattata come un mezzo. Non sono in gioco le fortune elettorali di questo o quel personaggio o partito politico. È in gioco l’onore di questa Repubblica. Bassetti: “Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico” di Domenico Agasso Jr La Stampa, 20 marzo 2019 Il monito del presidente della Cei: rigurgiti xenofobi emersi in questo clima di paura esasperata. “Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico da combattere o da odiare”. Negli ultimi tempi “si è diffuso un clima di paura, a volte alimentato in modo irresponsabile, che ha fatto emergere rigurgiti xenofobi”. Parole durissime quelle del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, che diventano un monito nei giorni dell’ennesimo braccio di ferro tra il ministro dell’Interno Salvini e una nave Ong piena di disperati del mare. Vengono in mente il giuramento sul Vangelo del leader leghista, i richiami all’”accoglienza prudente” di papa Francesco e le polemiche - presenti e accese anche nelle parrocchie - sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli immigrati. Eminenza, un cattolico come deve rapportarsi al tema migranti? “I cattolici devono rapportarsi al tema dei migranti con grande amore e fede certa, tenendo sempre a mente il Vangelo di Matteo: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto”. Papa Francesco ha donato alla Chiesa 4 verbi per affrontare la sfida delle migrazioni internazionali: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Quattro verbi che sintetizzano una lunga serie di azioni pastorali ma che hanno un unico grande significato: attraverso l’accoglienza noi scegliamo di accogliere Cristo nella nostra vita e difendiamo la dignità inviolabile di ogni essere umano. Perché - è bene ricordarlo con fermezza - i migranti fanno parte dell’unica famiglia umana e non sono cittadini di serie B. I migranti sono gli ultimi, i piccoli e i poveri di questo mondo e come disse Paolo VI i poveri appartengono alla Chiesa per “diritto evangelico”. Con altrettanta fermezza vorrei ribadire un concetto che forse scomoda i benpensanti: per un cattolico è assolutamente immorale vedere nel migrante un nemico da combattere o da odiare”. L’Italia è inquinata dal razzismo? “L’Italia è un Paese con una grande tradizione umanitaria ed è abitata da un popolo gioioso e creativo che nei momenti di difficoltà ha sempre dato il meglio di sé. Quindi non direi che l’Italia è inquinata dal razzismo. Penso, però, che negli ultimi anni, complice una durissima crisi economica, si è diffuso un clima di paura e di incertezza, a volte alimentato in modo irresponsabile, che ha contaminato lo spirito pubblico fino a far emergere alcuni rigurgiti xenofobi”. Come bisogna affrontare il diffondersi di populismi e sovranismi? Quali sono i pericoli che ne derivano? “Ogni epoca storica ha avuto i suoi “ismi” pericolosi: comunismo, fascismo, nazismo, laicismo, relativismo e via discorrendo. Solitamente, tutte queste ideologie hanno promesso all’uomo un paradiso in Terra che consisteva nel benessere e nella felicità. Oggi come ieri bisogna quindi stare molto attenti nel promettere al popolo delle facili ricette. Il rischio grosso è che con il passar del tempo queste ricette si traducano facilmente in soluzioni illusorie e quindi possano generare ancor più frustrazione e rabbia sociale. Penso dunque che sarebbe opportuno tornare a guardare con saggezza e realismo alla tradizione del popolarismo sturziano e al personalismo di Maritain. Il popolo infatti non si accarezza con gli slogan e le promesse mirabolanti ma lo si aiuta a crescere fornendo risposte concrete e parole di verità”. A 100 anni dall’appello di don Sturzo, che cosa sono chiamati a essere e a fare i cattolici in politica? E che ruolo dovrebbero avere i preti e i vescovi? “I cattolici in politica sono chiamati a mettere in pratica autenticamente la logica del servizio: non si fa politica per carriera, per soldi o per bramosia di potere, ma come impegno di umanità e santità. La politica è una missione in cui i cattolici possono rendere testimonianza al Vangelo servendo con carità il proprio Paese. I pastori invece hanno un altro grande compito: quello di esortare alla fedeltà del magistero della dottrina sociale della Chiesa Cattolica, alla comunione fraterna e alla solidarietà tra le persone. Non mi stancherò mai di dirlo: il laicato cattolico deve superare, una volta per tutte, questa vecchia e sterile divisione tra chi si occupa solo di bioetica e chi soltanto di povertà. Il messaggio sociale del cristianesimo è unitario e si basa sulla salvaguardia della dignità della persona umana in ogni circostanza: dalla maternità al lavoro, dal rapporto con la scienza alla cura dei migranti”. Uno dei temi cruciali per la Chiesa è la famiglia: qual è lo “stato di salute” della famiglia? Di che cosa ha più bisogno? “A me sembra che oggi siamo in presenza di “famiglie sole” che vivono in un mondo liquido ma che, nonostante le moltissime difficoltà, continuano ad essere “la roccia” della nostra società. Fare una famiglia oggi è un atto di eroismo incredibile perché significa andare totalmente controcorrente. Contro un sistema sociale e culturale che privilegia ogni forma di individualismo rispetto alla famiglia e favorisce ogni desiderio al di là di ogni responsabilità. Oggi sembra quasi impossibile parlare al mondo dell’esistenza di un amore per sempre, che non finisce e non si divide. Eppure, nonostante questa lunga serie di ostacoli che rendono difficile la vita delle coppie, la famiglia continua ad essere un baluardo, anzi, una roccia della nostra esistenza. La prima cosa di cui oggi c’è assoluto bisogno consiste nel ribadire, con forza, che l’unione matrimoniale tra un uomo e una donna, aperta ai figli, non è una struttura residuale della storia, ma è la cellula fondamentale ed insostituibile del nostro vivere in comune”. Che cosa dovrebbero fare i governanti in ambito familiare? C’è un modello di politiche familiari di qualche paese straniero a cui Lei farebbe riferimento? “I paesi stranieri, soprattutto quelli con una democrazia ancora giovane e con un passato autoritario, non li prenderei come esempio: devono ancora maturare, hanno molta strada da fare. Riguardo all’Italia la prima considerazione da fare è un po’ amara. Perché, al di là delle tante parole, siamo ancora indietro sulle politiche familiari. Il presente e il recente passato sono infatti caratterizzati da tante chiacchiere e pochi fatti. Io penso, invece, che ci siano almeno tre campi su cui agire concretamente: in primo luogo, un nuovo welfare più vicino alle famiglie che non si traduca soltanto in piccoli interventi monetari ma che produca un nuovo intervento sociale a sostegno delle coppie giovani, dei precari, delle donne e della natalità; in secondo luogo, un rafforzamento dell’alleanza scuola-famiglia, in cui gli alunni siano al centro del progetto educativo, i docenti siano valorizzati nella loro professionalità, e le famiglie siano salvaguardate da ogni deriva ideologica in campo educativo; in terzo luogo, infine, ciò di cui c’è più bisogno, oggi, è una nuova organizzazione del lavoro che si basi sul cosiddetto fattore famiglia”. In che senso? “Occorre ripensare i tempi di lavoro e bilanciarli con quelli di un armonico sviluppo morale e civile, non solo economico, della famiglia. Sono sicuro che se un lavoratore è inserito in un ambiente di lavoro sereno, rispettoso dei tempi familiari, lavori meglio e la società nel suo insieme ne può trarre beneficio”. Che cosa pensa delle tensioni attorno al Congresso della famiglia di Verona? “La famiglia sta particolarmente a cuore alla Chiesa, proprio per questo ci dispiace che finisca in polemiche strumentali”. Quanto serviva davvero il reddito cittadinanza? “Tutto ciò che va in soccorso ai poveri è senza dubbio positivo. E quindi, come Chiesa, riceve la nostra attenzione e il nostro riconoscimento. Direi, però, che ci troviamo di fronte soltanto all’inizio di un tentativo di aiuto nei confronti di chi è in difficoltà. Le politiche di lotta alla povertà, probabilmente, dovranno avere un carattere più organico e non potranno ridursi soltanto all’erogazione temporanea di un reddito. Sarebbe opportuno, infatti, fornire un sostegno diretto al lavoro e all’occupazione. E in più bisognerebbe dare un’attenzione particolare, come ho già detto prima, alle donne in maternità”. A che punto è il piano della Chiesa italiana nella lotta ad abusi e pedofilia? “Rispetto a questo tema così doloroso la Chiesa in Italia non è rimasta a guardare. Fin dalle Linee guida del 2012 - quelle nuove saranno presentate all’Assemblea generale del prossimo maggio - la Cei ricerca gli strumenti più adeguati a contrastare ogni sorta di abusi. Tra i vescovi, infatti, è ferma la consapevolezza che il primo interesse deve essere rivolto ai ragazzi feriti e alle loro famiglie, ritrovando quel “Me ne importa, mi sta a cuore” di don Milani e, al contempo, rigettando ogni forma di strumentalizzazione. La recente istituzione del Servizio nazionale per la tutela dei minori vuole rispondere a queste priorità, con un cambio di passo fondato su prevenzione e formazione. Il Servizio è al lavoro, a partire dalla costituzione dei Servizi regionali e interdiocesani: con la nomina dei vescovi incaricati da ogni Conferenza episcopale regionale, si sta completando un primo tratto del percorso. A seguire, si individueranno diocesi per diocesi uno o più referenti, da avviare a una formazione specifica. Il territorio già si muove in questo senso, penso alla Lombardia, al Trentino-Alto Adige, all’Emilia Romagna, alla Sardegna: segno dell’adesione convinta al cambio di mentalità chiesto dal Papa”. Papa Francesco: come descriverebbe il suo Pontificato? “Lo descriverei in tre modi. Innanzitutto, come un pontificato profetico che ha raccolto lo spirito del Concilio vaticano II e ha rilanciato alcune categorie che erano finite un po’ ai margini. Penso per esempio al dialogo interreligioso, alla conversione pastorale e alla sinodalità. E in secondo luogo, come il pontificato dell’annuncio del Vangelo sine glossa: l’Evangelii gaudium non è solo il documento programmatico ma è il cuore pulsante dell’azione pastorale di Francesco. Tutto ruota attorno a questo documento pontificio che delinea la cifra morale, spirituale e sociale del pontificato. E infine, è il pontificato delle periferie. Le periferie umane - si pensi per esempio a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, dove è iniziato il giubileo della misericordia - e le periferie esistenziali del mondo contemporaneo. Il Papa ha dunque restituito la centralità a Cristo e ha dato l’immagine di una Chiesa che, a raggiera, è diffusa nel mondo intero”. Come percepisce il futuro prossimo della Chiesa? Quali sono le Sue principali preoccupazioni e ansie e quali le speranze? “Il futuro non ci appartiene, ma penso che in questi anni sono stati avviati dei processi i cui frutti si potranno comprendere tra molto tempo. Il grande tema della sinodalità, per esempio, se opportunamente sviluppato saprà fornire alla Chiesa un volto nuovo, sempre più autentico, partecipato e meno autoreferenziale. Un primo passaggio lo avremo nell’incontro di riflessione e di spiritualità per la pace nel Mediterraneo che si svolgerà a Bari nel febbraio 2020. Quella sarà una prima grande occasione per sperimentare concretamente lo spirito sinodale e per proporre soluzioni concrete per i problemi che affliggono il Mediterraneo”. La donna nella Chiesa: è un rapporto e una presenza che deve ricevere maggiore attenzione e riconoscimento? “Senza dubbio sì. Occorre una presenza femminile di qualità e non solo di quantità. È necessario, per il bene della Chiesa, una maggiore presenza femminile nei luoghi di indirizzo pastorale e nei ruoli apicali della Chiesa. Non certo per una questione di suddivisione delle cariche in base ad una sorta di quota rosa ma per avere una visione diversa e più completa. Sono sicuro che su molti temi, tutti noi pastori abbiamo molto da imparare dalle donne”. Droghe all’Onu. Un “consenso” molto conflittuale di Susanna Ronconi Il Manifesto, 20 marzo 2019 In corso a Vienna la 62esima Commission on Narcotic Drugs (Cnd). L’appuntamento Onu ha il compito, a dieci anni dalla Risoluzione del 2009, di valutarne l’esito e riscrivere la strategia mondiale sulle droghe. Ma, ancora una volta, potrebbe essere un’occasione persa. Nessun decisivo passo in avanti nella politica globale sulle droghe, ma la war on drugs continua a perdere alleati. Può essere questa la sintesi del Segmento Ministeriale, prima tappa della 62esima Commission on Narcotic Drugs (Cnd) in corso a Vienna. L’appuntamento Onu ha il compito, a dieci anni dalla Risoluzione del 2009, di valutarne l’esito e riscrivere la strategia mondiale, e ancora una volta sta perdendo l’occasione. Con la nuova Risoluzione rimane invariato l’impianto strategico - eliminazione o sostanziale diminuzione della produzione e del consumo droghe attraverso una politica proibizionista - anche se, in modo schizofrenico, nell’Assemblea si sono succeduti continui interventi sui fallimenti di questo decennio, sul piano dei dati crescenti dei consumi, produzione, danni correlati. L’obiettivo di ripartire dal documento finale di Ungass 2016 - che apre su diritti umani, salute pubblica, ruolo della società civile - è in parte disatteso: il testo diventa sì uno dei riferimenti delle politiche Onu, ma i suoi contenuti non vengono adottati nella sostanza. Ciònonostante, vi sono alcune (timide) novità: il riferimento agli obiettivi dell’agenda Onu sullo sviluppo (Sdg 2030), che dovrebbero ancorare le politiche sulle droghe a diritti umani, sviluppo sostenibile e diritto alla salute; ma soprattutto, una esplicita affermata flessibilità, laddove uno stato voglia innovare le sue politiche per meglio raggiungere i propri obiettivi: presa d’atto, anche se a denti stretti, di un crescente trend riformista, che a Vienna è ben visibile, grazie ai governi che - dall’America Latina al Canada fino all’Europa - hanno o stanno decriminalizzando, legalizzando o adottando politiche di Riduzione del danno. E che dalle Convenzioni non vengono certo espulsi. I conflitti attorno all’approccio war on drugs sono palesi: l’attesa posizione iperproibizionista di Cina e Russia, in alleanza con i paesi africani e asiatici, contro le proposte decriminalizzanti e di legalizzazione della canapa di America Latina e Canada, o l’adozione di un approccio bilanciato e di riduzione del danno. Su questo punto emblematico sarà, nei prossimi giorni, lo scontro sulla canapa: la Russia è capofila di una proposta di risoluzione contro “il pericolo rappresentato dalla legalizzazione”, e il Canada guida il fronte riformista. Va detto che la posizione dell’Oms sulle proprietà mediche della canapa non è, e non a caso, all’ordine del giorno di questa Cnd, e slitterà all’anno prossimo. Scontro anche sullo strumento penale: manca nella Risoluzione una decisa condanna della pena di morte per reati di droga, mentre di contro decine di interventi dei governi hanno richiamato alla proporzionalità delle pene, a possibili alternative, alla decriminalizzazione. Spaccato anche lo stesso fronte Onu: debole la Risoluzione nell’includere agenzie quali Oms, Agenzia per i Diritti Umani, Unaids, nei processi globali; l’autorevole invito a politiche non centrate sulla repressione del Coordination Task Team delle agenzie Onu a novembre, è stato tacitato, e reso pubblico solo in questi giorni. E l’Europa? Ha tenuto fede a una posizione unitaria, confermata dagli interventi di tutti gli stati membri: bilanciamento delle politiche a favore di un approccio di salute pubblica, proporzionalità delle pene e forme alternative, rispetto dei diritti umani, coinvolgimento della società civile e politiche evidence based. Un fronte a cui ha aderito anche l’Italia, con l’ambasciatrice presso l’Onu. Almeno, in assenza dei ministri, l’Italia ha per ora evitato di differenziarsi dall’Unione. Nuova Zelanda. Dopo la strage i cittadini riconsegnano le armi di Francesco Radicioni La Stampa, 20 marzo 2019 In decine si sono presentati alle autorità per chiedere di distruggere pistole e fucili. La premier Ardern non pronuncia il nome del killer: dite solo i nomi di chi è morto. “Non mi sentirete mai pronunciare il suo nome”. Nel corso di un’emozionante seduta del Parlamento di Wellington, la primo ministro Jacinda Ardern ha promesso che la Nuova Zelanda negherà la notorietà all’uomo che venerdì scorso ha aperto il fuoco in due moschee di Christchurch provocando la morte di 50 persone. “È un terrorista, è un criminale, è un estremista. Ma quando parlo - ha aggiunto Ardern - lui sarà senza nome”. La giovane primo ministro kiwi ha anche lanciato un appello: “Dite i nomi di chi ci ha lasciato, non quello di colui che ha preso le loro vite”. Fin dal giorno della peggiore strage nella storia recente della Nuova Zelanda, è stata Jacinda Ardern - a 37 anni la donna più giovane a essere alla guida di un governo - a incarnare la reazione di questo sicuro e accogliente Paese del Pacifico all’odio suprematista. Il giorno dopo il massacro, il capo del governo ha voluto fare visita ai parenti delle vittime di Christchurch con il capo coperto dall’hijab. Ieri la seduta del Parlamento di Wellington è stata aperta dalla preghiera dell’imam Nizam ul haq Thanvi e la primo ministro ha iniziato il suo intervento rivolgendosi alla tribuna in arabo, “as-salamu alaykum” ha detto. L’appello alla compassione Quando Donald Trump le ha telefonato per chiedere cosa gli Stati Uniti avrebbero potuto fare, la risposta di Ardern - secondo il giornale neozelandese Stuff - è stata di avere “compassione e amore per tutte le comunità musulmane”. E dopo la strage diversi cittadini neozelandesi si sono presentati alla polizia per consegnare le loro armi, anche fucili automatici la cui vendita è permessa in Nuova Zelanda, per chiedere di distruggerli. In attesa di comparire di nuovo davanti ai giudici il 5 aprile, Brenton Tarrant rimarrà probabilmente rinchiuso nel carcere di Auckland - unico penitenziario di massima sicurezza della Nuova Zelanda - senza giornali, radio e televisione. Stando a quanto scrive il “New Zealand Herald”, il terrorista è sorvegliato 24 ore su 24 e non può ricevere visite. Tarrant ha anche revocato il mandato all’avvocato e annunciato la volontà di difendersi da solo in aula. Una mossa che secondo la stampa neozelandese potrebbe anticipare l’intenzione di trasformare il processo nel palcoscenico per nuovi proclami xenofobi e suprematisti. La primo ministro non ha voluto commentare l’ipotesi che le udienze si possano tenere a porte chiuse. Il governo di Wellington ha confermato di aver raggiunto “un accordo di principio” affinché nei prossimi giorni si possa arrivare a una riforma della legge sulle armi dove non c’è l’obbligo di registrare le nuove armi, le stime però indicano che sarebbero circa un milione e 200 mila quelle in circolazione nel Paese. L’amministrazione di Wellington starebbe lavorando a una parziale messa al bando delle armi semiautomatiche. Lunedì il sito di e-commerce TradeMe ha interrotto le vendite di armi semi-automatiche, mentre un semplice proprietario, John Hart, ha annunciato di aver spontaneamente consegnato alla polizia il suo fucile AR-15 e le sue munizioni. “In una fattoria possono essere uno strumento utile in alcune circostanze - ha scritto Hart su Twitter - ma la comodità non può essere più importante del rischio”.