Bernardini: “Travaglio, vieni con me nel carcere di Taranto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2019 L’esponente del Partito Radicale contesta la negazione del sovraffollamento. “Il parametro dei 9 metri quadrati non viene rispettato e soprattutto il più delle volte si è al limite dei tre metri a persona, la soglia minima del diritto”. “Invito ufficialmente Marco Travaglio a venire alla prossima visita del 9 marzo che faremo al carcere di Taranto, l’istituto penitenziario più sovraffollato d’Italia”. Così Rita Bernardini del Partito Radicale si rivolge al direttore de Il Fatto dopo il suo editoriale, scaturito da una analisi di due ricercatori pubblicata tre anni fa su Persona e Danno e riportata ieri sul giornale. Si denuncia l’inesistenza del sovraffollamento, visto che la capacità ricettiva - a differenza della capienza minima di 3 metri quadri di spazio vitale della Cedu - si baserebbe secondo il nostro parametro che prevede 9 metri quadri per ogni cella singola, cui ne vanno aggiunti 5 per ciascun detenuto in quelle multiple. Va precisato che dal calcolo dello spazio vitale vanno esclusi il letto e gli arredi fissi. “Ma non è vero - spiega Rita Bernardini, non si può dire che abbiamo questo parametro quando non lo si rispetta e soprattutto il più delle volte si è al limite dei tre metri quadri a persona, la soglia minima del diritto”. L’esponente del Partito Radicale fa l’esempio dell’ultima visita che hanno fatto al carcere di Terni. “In tutta l’alta sicurezza non esiste il parametro nove metri più 4 (per ogni nuovo detenuto in cella ndr.), perché le celle sono di nove metri quadrati e ci stanno due detenuti. Quindi, senza considerare gli arredi che occupano lo spazio vitale, arriviamo alla soglia minima, considerata di “decenza” anche dal capo del Dap Basentini”. Rita Bernardini ricorda anche di aver scritto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedergli un incontro chiarificatore sull’effettiva urgenza del sovraffollamento penitenziario e l’aggiornamento delle schede riguardanti di ogni singolo istituto penitenziario in nome della trasparenza. Ad oggi ancora nessuna risposta. Travaglio, in effetti, fa un po’ di confusione quando scrive che “L’Italia viene condannata a pesantissimi risarcimenti in base ai propri parametri”. No, il detenuto viene risarcito in base ai parametri della Cedu, non i nostri. Quindi, una volta appurato questo dato, sicuramente anche il direttore concorderà che il sovraffollamento è un problema enorme visto che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona - e non i nove metri quadrati sulla carta - è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano. Per capire meglio, bisogna fare un esempio concreto. Prendiamo la sentenza della Cassazione n. 52819/ 16 (52819) che dà piena applicazione alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dal caso Torregiani e lo fa chiarendo il corretto calcolo dello spazio da destinare ai detenuti per non incorrere in una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Tutto è scaturito da una ordinanza del 2 ottobre 2014 del Tribunale di sorveglianza di Perugia che aveva respinto il reclamo (azione inibitoria e risarcitoria) di un detenuto che contestava le condizioni carcerarie provocate dal sovraffollamento. Per il Tribunale, nel calcolo dello spazio destinato al singolo occupante andava incluso il letto che non limita lo spazio vitale, mentre andavano esclusi dal computo della superficie unicamente altre strutture fisse come manufatti e mensole e lo spazio dedicato al bagno. Il criterio di misurazione deciso dal Tribunale aveva portato a escludere un trattamento disumano e degradante perché lo spazio minimo era tra i 3 e i 4 metri quadrati. In modo singolare, tra l’altro, il Tribunale effettuava una compensazione tra acqua calda (assente) e la doccia esterna con acqua calda. Una posizione bocciata dalla Cassazione che ha escluso ogni possibilità di compensazione e ha chiarito che nello spazio minimo vanno considerate tutte le strutture fisse incluso il letto che, quindi, sottrae lo spazio a disposizione del detenuto. Per le modalità di calcolo dello spazio minimo vitale concesso a un individuo posto in una cella collettiva, la Cassazione ha richiamato la prassi di Strasburgo. La posizione della Corte europea è chiara: al di sotto dei 3 metri quadrati si verifica in modo automatico una violazione dell’articolo 3 della Convenzione, senza possibilità di “compensazioni derivanti dalla bontà della residua offerta di servizi o di spazi esterni alla cella”. Tra l’altro, osserva la Suprema Corte, il letto deve essere considerato come “un ingombro idoneo a restringere” lo spazio vitale minimo all’interno della cella. Ed invero, - scrive la Cassazione - considerare “superficie utile quella occupata dal letto per finalità di riposo o di attività sedentaria che non soddisfano la primaria esigenza di movimento” non è conforme ai criteri delineati dalla Corte europea, con la conseguenza che non può rientrare nella nozione di spazio minimo individuale. Così, andavano detratti dalla superficie complessiva non solo il bagno e gli arredi ma anche lo spazio occupato dal letto. Pertanto, tenendo conto dell’interpretazione della Corte europea in base alla quale il giudice interno “ha l’obbligo di ritenere un dato integrativo del precetto”, sussiste una “forte presunzione di trattamento inumano e degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo”. Di qui l’annullamento con rinvio per un nuovo calcolo dello spazio minimo. Di sentenze del genere, ce ne sono tante. Quindi è vero come dice Travaglio che siamo oggetti di pesanti condanne, ma in base alla violazione dei parametri minimi (la soglia di decenza) della corte europea e non i nostri come lui erroneamente pensa. Il problema è che - come ha detto recentemente il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma - basterebbe far applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 6 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Purtroppo non viene rispettato nemmeno quello e ci si affida proprio alla soglia minima che il più delle volte si conteggia assieme agli arredi che occupano lo spazio. Secondo la ricerca pubblicata sul Fatto, emerge che comunque i posti regolamentari si basano proprio sui nove metri quadrati e per questo risulterebbe eccessivo il sovraffollamento. Il problema è che il dato ufficiale non corrisponde affatto alla realtà, perché non si prendono in considerazione le circa 4000 celle inagibili. Quindi il numero delle celle (comprese quelle inagibili) viene usato per suddividere in astratto i detenuti, ma nella realtà le cose sono ben diverse. Così come non è vero che in carcere ci sarebbero non solo pochi reclusi, ma addirittura che vi rimarrebbero per poco tempo. Basterebbero ascoltare le parole di Mauro Palma, una voce istituzionale ed equilibrata, proprio durante l’ultimo congresso del Partito Radicale. “Se analizziamo l’aumento dei numeri, non sono aumentati gli ingressi in carcere, ma sono drasticamente diminuite le uscite: cioè si entra in un mondo da cui non si esce”. Il Garante fa anche una seconda osservazione oggettiva: “Attualmente ci sono circa 1800 persone in carcere che stanno scontando una pena inferiore ad un anno”. Quindi altro che pochi giorni in carcere, altro che, come scrive Travaglio “i ladri stanno comodamente ai servizi sociali o ai domiciliari (ma davvero è così comodo stare 24 ore su 24 dentro casa? ndr)”. Ci sono detenuti che potrebbero scontare misure alternative, ma rimangono dentro. Video di Battisti: Salvini e Bonafede archiviati, non il capo del Dap di Andrea Ossino Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2019 Il vice premier Matteo Salvini e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non verranno processati. Condividendo l’impostazione della Procura di Roma infatti, il Tribunale dei ministri ha archiviato l’indagine relativa al video che ritraeva l’arrivo a Ciampino e l’ingresso in carcere del latitante Cesare Battisti, catturato a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, il 13 gennaio scorso. I due erano accusati di abuso d’ufficio, ma secondo il Tribunale mancherebbe il dolo intenzionale. In altre parole il presunto reato non sarebbe stato commesso per ottenere intenzionalmente un vantaggio, arrecando un danno a Battisti. Da qui l’archiviazione. Il caso però non è definitivamente chiuso. Infatti oltre a Salvini e Bonafede, sul registro degli indagati era stato iscritto anche il capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), Francesco Basentini. Nei suoi confronti, oltre al reato di abuso d’ufficio ormai archiviato, era stata ipotizzata anche una seconda accusa: omissione di atti d’ufficio. L’obiettivo adesso è quello di verificare se Basentini avrebbe dovuto impedire che quel video di circa quattro minuti fosse girato. Il nuovo filone d’indagine mira dunque ad appurare se il capo del Dap abbia messo in campo tutte le misure per tutelare la dignità umana del detenuto Battisti. Ed è proprio su queste basi che si fonda l’esposto inviato ai Garanti della privacy e dei detenuti dalla Camera Penale di Roma. L’avvocato Cesare Placanica, presidente dell’associazione che rappresenta i legali della Capitale, aveva fatto riferimento anche all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul “divieto di trattamenti disumani e degradanti”. Bonafede, dopo le polemiche, aveva invece cercato di spiegare che quel video voleva essere “un riconoscimento al lavoro che aveva fatto la Polizia penitenziaria”. Un’impostazione che sembrerebbe essere stata condivisa dal Tribunale. Caso Cucchi, ira di Pignatone contro i carabinieri: “Violata ogni prassi” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 marzo 2019 Il procuratore di Roma ai carabinieri interrogati: “Qui di prassi non c’è nulla”. Mentre cercava di orientarsi nel labirinto di dichiarazioni mai convergenti dei carabinieri coinvolti nel “caso Cucchi”, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è stato più volte sul punto di perdere la pazienza. E certe sue affermazioni contenute nei verbali d’interrogatorio degli ufficiali dell’Arma sospettati per i depistaggi del 2009 e del 2015 - ai quali ha voluto partecipare affiancando il sostituto Giovanni Musarò - suonano come un campanello d’allarme. Per la gravità dei fatti emersi nell’inchiesta sulle presunte deviazioni e coperture attivate per nascondere le responsabilità, e per le versioni poco credibili, contraddittorie o contrastanti fornite dagli ufficiali indagati. Chiamato a fornire una spiegazione dei falsi sulla salute di Stefano Cucchi da lui sottoscritti e finiti nell’informativa al Senato del ministro della Giustizia, il generale Alessandro Casarsa (all’epoca colonnello comandante del Gruppo Roma) non sa darne di convincenti e dice: “Quello che mi è stato prospettato io sicuramente l’ho letto, e sicuramente credevo in quello che stavo trasmettendo”. Il procuratore commenta: “Rimane il problema che, lasciando perdere le responsabilità penali che sono personali, vengono costruiti in questa pratica che non è diretta alla Procura ma al ministero della Giustizia e poi al Parlamento, una serie di falsi. Questo è il dato fattuale. Dopodiché lei non ne era consapevole e quindi, fino a prova contraria, non se ne risponde penalmente. Andiamo avanti”. “Non è una risposta” - Ma andando avanti le cose non cambiano. Quando gli viene chiesto come ha potuto scrivere particolari tanto precisi sui primi risultati dell’autopsia sul corpo di Cucchi ancora segreti, il generale afferma: “Questa qui sicuramente è stata comunicata al Gruppo... qualcosa che io ho trasmesso...”, e Pignatone lo avverte: “Questa non è una risposta. Mi scusi...”. Successivamente Casarsa sostiene di non aver dettato un appunto al colonnello Cavallo (che invece dichiara il contrario) perché “non è la prassi”, e il procuratore sbotta: “Ma qua non c’è niente nella prassi, generale. In questa vicenda non c’è assolutamente nulla nella prassi, quindi...”. Per esempio non sarebbe nella prassi che un capitano dei carabinieri come Tiziano Testarmata, dopo essersi accorto nel 2015 di due differenti versioni di altrettante annotazioni degli stessi carabinieri sullo stato di salute di Cucchi, le trasmetta agli inquirenti senza segnalare l’ipotetico falso. Quando il pm Musarò gliene chiede conto il capitano dice: “Non ho capito la domanda”. Il procuratore interviene: “E gliela spiego io. Lei non è un mero commesso che va lì, trova due fogli diversi, li prende e li porta a chi l’ha mandata. È un ufficiale dei carabinieri, si è accorto che c’era almeno uno dei due che doveva essere falso, sarebbe stato logico, lasciamo perdere se doveroso o meno, che rappresentasse questa falsità”. “Cerchiamo la verità” - Testarmata dice di averlo fatto con il colonnello Lorenzo Sabatino, già capo del Nucleo investigativo e poi del Reparto operativo, il quale nega: “Ribadisco che non mi ha mai parlato di falsi, che non abbiamo guardato... Io non ho guardato nessuno degli allegati alla nota di trasmissione a mia firma... Testarmata non mi parlò di annotazioni di servizio false”. Pignatone: “Scusi, perché Testarmata dovrebbe mentire, riferire una cosa non vera dicendo che avete visto “carte alla mano” queste benedette relazioni?”. Sabatino: “Questo, procuratore, non lo so”. Il magistrato prova a insistere: “Lei può immaginare un motivo per cui Testarmata, un ufficiale che ha lavorato con lei tanto tempo, di cui lei aveva fiducia tanto che lo ha scelto per questo incarico, si sarebbe inventato questa circostanza?”. Sabatino: “Io... non so, lui si stava ovviamente difendendo da un’accusa che riguardava altro...”. Pignatone: “Vabbè, andiamo avanti”. Al colonnello Francesco Cavallo, che ha ricevuto e rispedito indietro le annotazioni falsificate, e che a fatica ammette di aver “messo mano” a quei documenti “su indicazione del colonnello Casarsa”, il procuratore ricorda: “Deve essere chiaro che a noi interessa solo ricostruire la verità, questo dev’essere chiaro e registrato, non abbiamo nessun altro scopo che questo. Dopodiché la vicenda è quella che è, drammatica, come tutti sappiamo”. Più avanti il colonnello cerca di giustificare certe considerazioni “minimizzanti” sui falsi, da lui inserite in una relazione sul caso Cucchi, ma non pare troppo convincente. “Io sono fatto così, se posso dare più dettagli possibili e posso...”, prova a dire Cavallo, ma Pignatone lo interrompe: “Lei non dà dettagli, dà spiegazioni sballate, se mi permette”. Manconi: “A noi per capire sono bastati dieci giorni allo Stato invece dieci anni” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 1 marzo 2019 “Quasi tutta la classe politica sconta un antico complesso di inferiorità verso i carabinieri. Ma la violenza va sempre denunciata e punita”. “Questo secondo processo per la morte di Stefano Cucchi mostra un’articolata strategia dell’omertà, tesa a tacitare e a falsificare”. Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritto, è uno dei firmatari del comunicato battuto dall’Ansa alle 15.38 del 26 ottobre 2009. Quello che, secondo l’accusa, convinse l’Arma che fosse necessario depistare per coprire le responsabilità dei militari. Come nacque quel comunicato? “Ero in contatto con Ilaria Cucchi e sulla base delle sue informazioni e di quelle di volonterosi cronisti locali, scrissi insieme a Patrizio Gonnella quella ricostruzione e la trasmettemmo alle agenzie”. Mercoledì in aula il pm ha chiarito come quella prima ricostruzione fosse quella corretta anche se è stata nascosta per anni. “Sono parole che possono gratificare, ma prevale l’amarezza per i quasi dieci anni persi. E per lo scialo di sofferenza, di frustrazione, di inganno nei confronti dell’opinione pubblica”. Lei aveva informazioni privilegiate? “Solo il racconto dei familiari di Stefano, qualche modesta ricerca e l’esperienza fatta con casi simili come quello di Federico Aldrovandi. Mi resi conto quello stesso pomeriggio di aver toccato un nervo scoperto: mi chiamò un cronista che contestava punto per punto il comunicato. Sembrava un interrogatorio. Era evidente che tenesse tra le mani una velina dell’Arma con la versione che poi sarebbe diventata quella prevalente e che attribuiva la responsabilità alla polizia penitenziaria”. Cioè quella del primo processo. “Esattamente. E tenga conto che all’epoca era alto dirigente del Dap, Sebastiano Ardita, un fior di reazionario dotato di grande onestà intellettuale, al quale fu affidata un’inchiesta interna alla polizia penitenziaria. Indicò chiaramente che le responsabilità andavano cercate nella fase successiva alla perquisizione in casa Cucchi. Dunque tra i carabinieri. Quel documento venne trascurato da tutti. Si assecondarono le indagini indirizzate contro la penitenziaria. A essere convinti che bisognasse guardare nelle caserme dell’Arma rimanemmo Ilaria Cucchi e io”. Dunque sono stati in tanti a non voler vedere la verità? “Può apparire bizzarro che a sottolinearlo sia un cieco, ma a non voler vedere sono state decine di persone. Con Ilaria ne abbiamo contato un numero elevatissimo, circa 140, che tra l’arresto e la morte hanno sfiorato Stefano senza prestargli soccorso. Di più: Stefano è passato attraverso 11 luoghi dello Stato, 11 stazioni di una via crucis dove non ha incontrato compassione”. Perché ci sono voluti 10 anni per la verità? “Quello che è emerso è l’espressione dell’antico complesso di inferiorità di pressoché tutta la classe politica e del sistema mediatico nei confronti delle forze di polizia e. in particolare, dei carabinieri. Invece di operare per la democratizzazione di questi corpi, si contribuisce alla loro opacità. Nessuno, ma proprio nessuno, ha mai pensato che l’intera Arma sia un corpo malato. Ma è certo che siano numerosi (e tendano a ripetersi) gli episodi di illegalità e di violenza, che possono essere prevenuti e stroncati solo se gli autori vengono rigorosamente sanzionati. E invece sembra ancora prevalere lo spirito di corpo e di autotutela. A offendere l’onore della divisa non è chi denuncia abusi, a opera di quelli, pochi o tanti - certo non pochissimi - che usano metodi violenti: sono piuttosto quelli che quei metodi applicano. Si ricordi che lo Stato fonda la sua legittimità giuridica e morale sulla capacità di tutelare l’incolumità del cittadino affidato alla sua custodia. Quando questo non avviene è la crisi dello Stato di diritto”. Denuncia i boss, lo Stato lo punisce: suicida l’imprenditore antiracket di Salvo Palazzolo e Francesco Patanè La Repubblica, 1 marzo 2019 Gela, Greco era stato accusato dagli estorsori di avere rapporti con la mafia: assolto in tribunale. Ma dal prefetto arriva l’interdittiva e lui perde gli appalti. “Oppormi al pizzo mi è costato caro”. “Denunciare i boss del pizzo mi è costato caro”, ripeteva alla moglie negli ultimi tempi. Rocco Greco, l’imprenditore simbolo della lotta al racket nella frontiera di Gela, si è sparato un colpo di pistola alla tempia. “Era finito dentro una storia paradossale”, sussurra il figlio Francesco. “I mafiosi che aveva fatto condannare lo avevano denunciato. Ma, poi, ovviamente, era arrivata l’assoluzione. Il giudice aveva ribadito che Rocco Greco era stato vittima della mafia, non socio in affari dei boss”. Ma non è bastata una sentenza di assoluzione. Nell’ottobre scorso, il ministero dell’Interno ha negato alla ditta dell’imprenditore gelese, la “Cosiam srl”, l’iscrizione nella white list per i lavori di ricostruzione dopo il terremoto in centro Italia. “Nel corso degli anni ha avuto atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese”. Questo ha scritto la “Struttura di missione antimafia sisma”. “Ma come si fa a dimenticare che aveva denunciato?”, ripete l’avvocato Alfredo Galasso, storico legale di tante parti civili a Palermo. “Proprio con la denuncia aveva scelto di non essere più supino a quel sistema che vigeva a Gela”. Nel 2007, Rocco Greco non solo aveva denunciato i boss della Stidda e di Cosa nostra che si dividevano il pizzo. Aveva anche convinto altri sette imprenditori a fare la sua stessa scelta. “Era la primavera di Gela - dice oggi il figlio - mio padre ne andava orgoglioso. Ma non era stato affatto semplice. All’epoca, però, si respirava un’aria nuova in questa parte di Sicilia, anche grazie all’allora sindaco Rosario Crocetta”. Le denunce di quegli imprenditori fecero scattare undici arresti nel blitz ribattezzato “Munda mundi”. E dopo gli arresti, le condanne per 134 anni. Una sentenza che anche la Cassazione ha confermato. Ma nelle vene dei processi sono rimaste le accuse degli imputati, che hanno sempre cercato di gettare ombre su chi li aveva portati in carcere. “Ma quale pizzo, gli imprenditori pagavano il nostro sostegno. E spartivamo gli utili”. Una tesi smentita in tutti i gradi di giudizio. Gli imprenditori erano vittime. Ma vittime - osserva il Viminale - che si erano relazionate con i boss, che avevano accettato il prezzo del pizzo. “C’è il rischio di infiltrazioni mafiose nell’azienda”. Parole pesanti. Ma il figlio di Rocco Greco ribadisce l’importanza di quella denuncia fatta dal padre: “Non dobbiamo dimenticare cos’era Gela all’epoca. Più di cento morti in un anno. E veniva ucciso anche chi non pagava il pizzo”. Dopo l’ultima interdittiva antimafia, un mese fa, sono arrivate le revoche di tutte le commesse pubbliche e private per la ditta di Greco, che si occupa di lavori edili. “Sono stati licenziati 50 operai”, dice Francesco Greco. Intanto, l’imprenditore provava a ribadire le sue ragioni con una serie di ricorsi. Ma il Tar di Palermo non ha concesso la sospensiva dell’interdittiva (anche il Tar Lazio aveva dato disco verde al Viminale). “Il giorno dopo, il 26, siamo andati dall’avvocato per un ulteriore ricorso”, racconta ancora il figlio. “La sera, papà era euforico. Mi sembrò strano. Diceva: che bella serata stiamo trascorrendo. Non capivo”. Mercoledì mattina, Rocco Greco si è svegliato alle 5,30. Ha detto alla moglie che andava in azienda per guardare alcune carte. Tre ore dopo, sono arrivati Francesco e gli altri dipendenti. “Mio padre non era in ufficio. Mi sono insospettito. Anche perché aveva lasciato la fede e l’orologio a casa. Abbiamo iniziato a cercarlo. Era dentro un container, poco distante, in una pozza di sangue”. Rocco Greco non ha lasciato neanche un biglietto. Dice il figlio: “Qualche giorno fa, aveva ripetuto a mia madre: “Ormai, il problema sono io. Se vado via, i miei figli sono a posto”. La “vittima del dovere” ha diritto al riconoscimento della causa di servizio di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2019 Il Tar di Cagliari ha dato ragione (sentenza 00182/2019) all’ex dipendente dell’Amministrazione penitenziaria che aveva fatto ricorso contro il ministero della Giustizia per il diniego al riconoscimento della causa di servizio per problemi di salute. La vicenda è presto spiegata: è il 1987 quando un dipendente dell’Amministrazione penitenziaria in servizio al Carcere di Porto Azzurro rimane vittima per una settimana (dal 25/08/1987 al 01/09/1987) di un sequestro perpetrato nei suoi confronti da un gruppo di detenuti ergastolani (guidati dal terrorista nero Mario Tuti), nel tentativo di evadere dalla struttura. L’uomo, come si ricostruisce nella sentenza “è stato incatenato alle sbarre delle celle, sottoposto a minacce e violenza e tenuto in stato di inedia per tutta la durata del suo sequestro”. Successivamente comincia ad avere problemi di salute certificati e ritenuti dipendenti dalla condizione cui è stato sottoposto. Presenta istanza per ottenere il riconoscimento della Causa di servizio all’amministrazione della polizia penitenziaria (ministero della Giustizia) ma viene negato. L’uomo, a leggere quanto riporta la sentenza, continua ad essere impiegato in mansioni che lo portano “a stretto contatto con i detenuti della struttura carceraria, fino a quando (il 10/02/2011) è stato congedato dal Corpo di Polizia penitenziaria perché riconosciuto affetto da problemi di salute”. Non solo. La Cmo (commissione medica di verifica) accerta “la sussistenza della patologia, quantificandola come “invalidità permanente equivalente al 40%”, come “conseguenza diretta del citato evento traumatico patito nella struttura carceraria di porto Azzurro, nel 1987”. Nel 2012 e con decreto 559 il ministero dell’Interno (diverso da quello d’appartenenza) e sulla base dell’accertamento di invalidità equivalente al 40% riconosce all’uomo lo status di “vittima del dovere” ex legge266/2005, “in considerazione di quanto subìto per causa di servizio e gli riconosce la corresponsione di 88mila euro”. Alla richiesta per il riconoscimento della causa di servizio arriva il diniego del ministero della Giustizia. L’istanza viene rigettata “sulla scorta del parere del Comitato di verifica per le cause di servizio del 18.12.2013, che ha ritenuto i problemi di salute non dipendenti dai fatti di servizio”. Quindi il ricorso al Tribunale amministrativo di Cagliari. Che accoglie le istanze del ricorrente. Tra gli aspetti evidenziati il fatto che lo status di “vittime del dovere” “già effettivamente attribuito” “si configura come forma e modello “rafforzato” rispetto al generico riconoscimento della causa di servizio (qui negato), che ne è il presupposto (non autosufficiente)”. Per i giudici “è il riconoscimento dell’infermità come dipendente da causa di servizio che non può costituire, da sola, elemento sufficiente per l’attribuzione degli ulteriori benefici spettanti alle “vittime del dovere”. I quali possono essere riconosciuti solo quando vi sia stato un quid pluris, il riscontro di rischi ulteriori e più gravosi”. I giudici poi scrivono che “sul punto la giurisprudenza ha chiarito che “vittima del dovere” costituisce una species rientrante nel genus della “causa di servizio”, presentando caratteristiche peculiari ed “ulteriori” rispetto alla categoria generale”. Ricorso accolto e provvedimenti impugnati annullati. “Con obbligo del Ministero della Giustizia di riprovvedere alla luce delle circostanze di fatto e di diritto accertata in giudizio e già riscontrate in sede di procedimento di riconoscimento dello status di “vittima del dovere”; con l’avvenuta e consolidata attribuzione di questi benefici da parte del ministero degli Interni, per i medesimi fatti oggetti del presente contenzioso”. Quindi: condanna per il ministero della Giustizia al pagamento di 2.500 euro (in favore del ricorrente) per spese e onorari di giudizio. I reati tributari non possono basarsi sulle presunzioni legali. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2019 Reati tributari - Dichiarazione fraudolenta - Presunzioni tributarie - Processo penale - Inapplicabilità. Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire da sole una valida prova della commissione del reato ipotizzato. Si tratta di elementi indiziari che giustificano l’adozione di misure cautelari reali a carico del soggetto interessato e che non possono costituire di per sé una fonte di prova della commissione del reato, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale insieme ad elementi di riscontro che accertino l’esistenza della condotta criminosa. Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 18 febbraio 2019 n. 7242. Finanze e tributi - Accertamento - Presunzioni legali in materia tributaria - Valore indiziario nel processo penale - Sussistenza - Fattispecie. Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé sole fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n.74, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale. (Fattispecie relativa alla presunzione legale di cui agli artt. 32, comma 1, n. 2 del D.P.R n. 600 del 1973 e 51, comma 2, n. 2 del D.P.R. 633 del 1972, in virtù della quale vanno considerati come compensi tutti gli accrediti percepiti nell’anno di imposta di cui non è stata giustificata la provenienza). Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 8 giugno 2018 n. 26274. Tributi - Reati tributari - Dichiarazione infedele - Professionista - Estraneità dei versamenti effettuati sul conto corrente - Presunzione tributaria. Per il reato tributario di dichiarazione infedele spetta al professionista e/o al lavoratore autonomo provare in modo analitico l’estraneità dei versamenti effettuati sul conto corrente rispetto alla presunzione tributaria, anche se è venuta meno, in base alla sentenza della Corte costituzionale 228/2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai soli prelevamenti sui conti correnti. Questo in quanto le presunzioni legali previste dalla norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal Dlgs 74/2000, hanno pur sempre valore indiziario in grado di integrare il fumus commisi delictii. Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 8 giugno 2018 n. 26274. Finanze e tributi - Accertamento - Presunzioni legali in materia tributaria - Natura giuridica - Valore probatorio nel processo penale - Limiti. Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. (In motivazione, la Corte ha precisato che il riscontro può essere fornito o da distinti elementi di prova, o anche da altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti). Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 16 luglio 2015 n. 30890. Tributi - Reati tributari - Presunzioni legali - Norme tributarie - Prova della commissione dei reati - D.lgs. 74/2000- Fumus commissi delicti - Elementi di segno contrario - Misura cautelare reale - Applicazione. Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sè fonte di prova della commissione dei reati previsti dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale. Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 16 luglio 2015 n. 30890. Tributi - Reati tributari - Norme tributarie -Presunzioni legali - Valore indiziario - Prova della commissione del reato - Giudice penale - Libera valutazione - Condotta criminosa - Esistenza. Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 16 luglio 2015 n. 30890. Bollate (Mi): il bilancio partecipativo del carcere fatto dai detenuti, prima volta al mondo di Raffaele Nappi Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2019 Al via nella Casa di reclusione in provincia di Milano il progetto che permetterà a chi vive al suo interno di decidere se ammodernare - ad esempio - mensa e cucina, o fare corsi di formazione. Dall’esterno arrivano soltanto i fondi per realizzare le scelte attraverso una campagna di crowdfunding civico. “In carcere chi collabora con le istituzioni viene spesso considerato un infame. Noi volevamo ribaltare questo concetto, trasformando il detenuto nel vero protagonista della comunità”. Si chiama “Idee in fuga” ed è il primo progetto di bilancio partecipativo al mondo che permetterà a chi è nella Casa di reclusione di Milano-Bollate di proporre, selezionare e votare cosa realizzare all’interno del penitenziario. Quello che arriverà dall’esterno saranno i fondi per finalizzare le scelte attraverso una campagna di crowdfunding civico. “A settembre tireremo le fila e capiremo quanto abbiamo raccolto e quanti progetti potremo finanziare. Si partirà così con i primi interventi, dalla manutenzione ordinaria a una palestra nuova fino all’ammodernamento di mense e cucine. Ma anche corsi di formazione e fornitura di servizi”. Giorgio Pittella è ideatore del progetto, Stefano Stortone il coordinatore. Si sono conosciuti a un master. “Mi occupo di bilanci partecipativi da tempo - racconta Stefano -. Insieme abbiamo deciso di avviare la nostra startup (BiPart) che nel 2019 è diventata impresa sociale”. La prima forma di democrazia rappresentativa nel carcere di Bollate risale ai primi anni 2000, quando sono nate le prime commissioni a rappresentanza dei detenuti. Idee in fuga è nato nel settembre del 2016: “Col bilancio partecipativo i detenuti decidono in prima persona e diventano protagonisti delle scelte, sperimentando una forma alternativa di partecipazione rispetto alle commissioni”. Ma come cambierà con questo progetto la vita dei detenuti? “Dal 5 marzo cominceranno gli incontri informativi: andremo in tutti i reparti a spiegare come funziona - racconta Stefano -. Dalla settimana dopo cominceranno le assemblee, dove si potranno discutere le idee poi da valutare in termini di fattibilità e progettazione prima di arrivare al voto”. Per la scelta finale si è tornati un po’ alle origini: “È tutto cartaceo, perché ovviamente in carcere non c’è accesso a internet. Le proposte possono essere presentate da chiunque compilando una scheda. Noi le raccogliamo tutte in una guida da rendere disponibile per la consultazione”. Ci sono due fasi di voto: la prima su tutte le proposte raccolte in un libricino che sarà disponibile nelle prossime settimane, la seconda a maggio sui progetti finalisti emersi dalla prima votazione. A giugno invece continuerà la raccolta fondi, ma sulle opere o gli interventi emersi dal voto. Il processo ha come obiettivo proprio quello di far emergere, capire e discutere le proposte dei detenuti. Coinvolgendo tutti. “La comunità carceraria è composta da circa 1.200 detenuti, con una piccola quota di donne. Potenzialmente tutti possono partecipare al progetto”, spiega Stefano. Anzi, nel reparto femminile grazie al passaparola è già emersa una proposta ufficiosa: “Per ora, per correttezza, la conservo in un fogliettino sotto chiave”, sorride Giorgio. Reazioni? “I progetti che vengono proposti dall’esterno sono tanti - spiega Giorgio - e al momento è la commissione cultura a decidere quali voler fare o meno”. La prima volta che Stefano e Giorgio sono entrati in penitenziario a parlare di Idee in fuga si sono ritrovati proprio di fronte alla commissione cultura. “Era il gennaio del 2017. Abbiamo riassunto tutto in 5 minuti. Ma l’entusiasmo è stato subito alle stelle. Specie da parte dei detenuti”. Quello del bilancio partecipativo è un modello che Giorgio e Stefano hanno “sperimentato prima nelle scuole, poi nei comuni piccoli e grandi. Oggi lo facciamo nelle carceri e siamo convinti che possa essere applicato in ogni contesto comunitario - dicono -. Ci sono colleghi di New York o dal Messico che ci hanno chiamato e si sono interessati”. Per la prima volta, così, un crowdfunding civico? entra in un carcere. Lo conferma anche Giovanni Allegretti, ricercatore presso il Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra e uno dei maggiori esperti in tema di bilanci partecipativi, che a ilfattoquotidiano.it spiega: “Anche in Portogallo ci sono esperienze simili. Ma sono processi che nascono all’esterno del carcere e non dalle scelte dei detenuti. Tante persone - aggiunge - che lavorano nelle carceri proiettano i loro desideri su chi è recluso”. Quello che bisogna fare, continua Allegretti, “è invertire la tendenza: iniziare a lavorare con le comunità vulnerabili per coinvolgerle in un processo in cui loro siano i protagonisti. Mentre tutti gli altri progetti di finanza sono consultivi, questo è co-decisionale: per la prima volta quello che dicono i carcerati per l’amministrazione diventa oro”. Napoli: processo per violenze a Poggioreale, protestano ex detenuti e familiari di Viviana Lanza Il Mattino, 1 marzo 2019 Familiari dei detenuti ed attivisti protagonisti di un presidio al tribunale di Napoli dove era prevista un’udienza del processo “Cella zero” sulle presunte violenze avvenute e danno di reclusi nel carcere di Poggioreale. I promotori, dell’associazione “Parenti e amici dei detenuti a Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano” e “Ex detenuti organizzati napoletani”, hanno aperto degli striscioni di protesta in piazza Cenni, lo slargo antistante il Palazzo di Giustizia visibile anche dalle celle del carcere di Poggioreale. “Siamo qui - ha spiegato uno degli organizzatori del sit-in - per ricordare ai detenuti che non sono soli e che quello che succede nel carcere, grazie alla forza di molti che si sono uniti e hanno deciso di non abbassare la testa, è venuto fuori”. Tra i manifestanti anche i parenti di Claudio Volpe, il detenuto morto lo scorso gennaio a Poggioreale a causa, denunciano, di mancanza di cure adeguate. “In carcere - hanno spiegato gli organizzatori - si muore per malasanità e assenza di cure. Per non parlare dei suicidi: solo l’anno scorso 67 detenuti si sono tolti la vita. Poggioreale è sinonimo di sovraffollamento dove è di norma l’ abuso di psicofarmaci e le violenze da parte dei secondini puntualmente taciuti. Vogliamo dire basta a tutto questo. Uniamo la voce dei detenuti con quella di chi è fuori per portare conoscenza di tutti ciò che accade tra le mura di Poggioreale”. Napoli: la denuncia di un detenuto “prima mi hanno spogliato, poi giù botte” di Viviana Lanza Il Mattino, 1 marzo 2019 “Mi hanno fatto spogliare nudo. Mi costringevano a fare flessioni e intanto mi picchiavano. Riuscivo a stento a tenere le mani sulla testa, per proteggermi”. È così che Raffaele Lauro racconta l’incubo della cosiddetta “cella zero”, la stanza al piano terra del carcere di Poggioreale dove denunciò di aver subìto un’aggressione da parte di tre agenti della polizia penitenziaria. Lauro ha 46 anni, è un salumiere finito in manette per ricettazione di alcuni buoni pasto. Ieri ha testimoniato in aula. “Era la sera del primo luglio 2013, verso le 22,30. Ero in carcere da quattro giorni e me ne stavo appoggiato alla porta della cella con le braccia tra le grate. Un assistente della penitenziaria all’improvviso si avvicinò e in dialetto napoletano mi disse: Tu hai detto che voglio fare il guappo. Se voglio posso farti vedere come si fa questo lavoro, sono 24 anni che lo faccio”. Lauro ripercorre il suo racconto di quella sera. “Provai a spiegargli che forse c’era un errore, che non avevo parlato io”. L’agente gli chiese nome e cognome e dopo poco tornò ordinandogli di seguirlo. “Capii che stava per accadermi qualcosa. In carcere avevo sentito parlare dei pestaggi”. Percorsero le scale a piedi, dalla cella 64 del padiglione Avellino alla famigerata “cella zero”. Appena furono giù Lauro si accorse della presenza di altri due agenti. “Mi spinsero nella sala zero, mi fecero spogliare e iniziarono a picchiarmi e insultarmi. Mi colpivano a turno con calci e schiaffi mentre mi facevano fare delle flessioni sulle gambe tenendo le mani appoggiate alla parete”. Il giorno seguente il dolore era tale che Lauro chiese di essere visitato da un medico. “Ma non ebbi il coraggio di raccontagli cosa mi era accaduto. Appena entrato nella stanza trovai proprio uno degli agenti che mi avevano picchiato e il medico non mi toccò nemmeno, si limitò a guardarmi a distanza e mi disse che potevo tornare in cella”. Fu un detenuto “anziano” a suggerirgli di rivolgersi al Garante per i detenuti. Lauro seguì quel consiglio. Aula 111. Raffale Lauro parla per circa un’ora, rispondendo a domande di pm, giudice e avvocati. In aula ci sono anche i tre agenti accusati del suo pestaggio. E ci sono le telecamere della trasmissione Rai “Un giorno in pretura”. Gli imputati chiedono di vietare le riprese, ma il giudice Diego Vargas le autorizza. A giudizio sono in dodici gli agenti della penitenziaria a vario titolo accusati di sequestro di persona, abuso di potere, lesioni e maltrattamenti. Roma: “Made in Jail”, l’arte della libertà di Silvio Palermo La Repubblica, 1 marzo 2019 Made in Jail nasce come idea e si realizza come associazione nel 1983 dietro le mura del carcere romano di Rebibbia da un gruppo di detenuti che, durante il loro soggiorno all’interno del carcere, decidono e trovano il modo di esprimere arte attraverso la serigrafia e la stampa di magliette, con scritte, immagini e disegni, ritrovando così con l’impegno e la passione, una volta scontata la pena, il reinserimento di questo gruppo nella società e nel mondo. Così, verso la fine degli anni 80, una volta in libertà, questo gruppo di ex-detenuti crea la Cooperativa che darà vita ad un vero e proprio movimento che lavorerà dentro e fuori degli Istituti Penitenziari italiani e che cambieranno la vita di tanti, attraverso la rieducazione al lavoro, formazione professionale e culturale di chi sta scontando una pena o di chi l’ha già scontata. Ora, Made in Jail pone i suoi obiettivi nell’espansione e con questo la creazione di più posti di lavoro per detenuti ed ex-detenuti che desiderano avere un’opportunità e uno spazio nel mondo. Nata nel 1988 proviene dalla precedente esperienza del 1983, quando un gruppo di reclusi di Rebibbia, decide per la prima volta in Italia, di organizzare il proprio percorso di reinserimento e di prospettiva lavorativa in forma culturale ed artistica prima della fine della detenzione. Questa prima esperienza pienamente realizzata e prima in Italia, ha aperto una nuova prospettiva di reinserimento per migliaia di detenuti ed ex detenuti. L’associazione Made in Jail ha il preciso intento di reinserire i detenuti nella società attraverso lo strumento della formazione in serigrafia; la realizzazione di stampe, loghi, immagini tipiche delle subculture quali quelle carcerarie o metropolitane. Per oltre 34 anni ha organizzato corsi di formazione in serigrafia in vari istituti penitenziari, il minorile di Casal del Marmo, la terza casa circondariale di Rebibbia, il minorile di Quartuccio a Cagliari e Villa Andreini a La Spezia. Vantiamo la partecipazione a diverse mostre d’arte quali Enzimi (Roma), centro Alliende (La Spezia) Melbourne (Australia) Centre Pompidou (Parigi) Modena, Torino, Castiglione del Lago (Perugia), Treviso. L’associazione Made in Jail ha dato vita ad un vero e proprio laboratorio artigianale permanente presso la terza casa circondariale Icatt (istituto a custodia attenuata tossicodipendenti) di Rebibbia. Il laboratorio funziona da circa 16 anni consecutivi ed è gestito dal personale di Made in Jail a titolo di volontariato. L’obbiettivo del laboratorio è coinvolgere i detenuti incoraggiandoli alla formazione culturale, motivandoli al lavoro facendo emergere anche le loro qualità artistiche. Un processo indirizzato alla riconquista della dignità sociale e culturale attraverso il lavoro visto come strumento principe nel migliorare la qualità della vita e nell’offrire opportunità concrete di reinserimento. I lavori sono interamente nel laboratorio presente in istituto anche attraverso l’utilizzo di materiali riciclati all’interno di Rebibbia. Le tecniche utilizzate per la realizzazione delle opere sono varie: spray art, scultura (materiali di recupero) pittura e serigrafie. Made in Jail ha lavorato nei laboratori delle carceri di Casal del Marmo (Roma1990-2000), Quartuccio (Cagliari estate 1996), Villa Andreina a La Spezia (1998-2000), e a tutt’oggi nella terza casa penale Icatt (istituto custodia attenuata tossicodipendenti) di Rebibbia a Roma. In particolare nel laboratorio di serigrafia del carcere minorile di Casal del Marmo (Roma1990-2000) oltre che con i ragazzi, si è creato un percorso dedicato tutto al femminile con un corso decennale riservato alle detenute (italiane e straniere) che insieme alla formazione professionale e artistica ha avuto come finalità la ricerca, lo studio e la sensibilizzazione culturale e civica sulla cultura del diritto/i e la esclusione sociale, sulla giustizia, sulla solidarietà e il carcere vista sotto il profilo della specifica femminile, per contrastare le situazioni legate allo abbandono, alla detenzione, all’emarginazione, maternità e violenza di genere. Questo percorso continua anche nel carcere di Rebibbia di Roma dove al Giudiziario G8 con le transessuali da maggio 2017 a tutt’oggi continuiamo ad operare sul doppio livello formazione professionale e artistica/lotta alle discriminazioni sessuali ed emarginazioni/discriminazioni di genere. In particolare con i minori abbiamo svolto le seguenti attività: 1) dal 1989 al 2000 attività di formazione e animazione sociale all’interno dell’istituto Penale Minorile di Roma “Casal del Marmo” e Centro di Prima Accoglienza Femminile, Via Giuseppe Barellai 140 Roma con i bambini delle detenute ed i minori 2) giugno/sett 1996 presso istituto penale minorile di Quartuccio (Cagliari) attività di animazione e laboratorio di serigrafia con i minorenni 3) 1998 laboratorio di serigrafia e attività ludico e ricreative per minori con difficoltà famigliare presso comunità religiosa Borgo Amigo a EX Bastogi (RM) 4) nel 2008 con Associazione Africasì collaborazione attività di animazione presso slum Nairobi (Kenia). 5) Luglio-Agosto 2011 e 2012 costruito laboratorio Serigrafia per bambini e giovani in difficoltà ad Accra Ghana presso struttura laica Big Ada per ragazzi. 6) Ottobre-Novembre 2016 Laboratorio serigrafico per ragazzi nella scuola media di Karmela presso Bilbao Spagna. 7) dal 2016 al 2018 progetto annuale di Made in Jail con il garante dei detenuti della regione Lazio denominato “Famiglie Unite Oltre Le Sbarre” con la presenza delle famiglie e dei figli dei detenuti in attività? ludiche e sociali in laboratori grafici ed artistici aperti al pubblico esterno e ai bambini dei non reclusi. Chi siamo: L’Associazione Culturale “Made in Jail” sono un gruppo di detenuti ed ex detenuti politici provenienti dall’area della dissociazione al terrorismo. L’associazione Made in Jail è diretta emanazione della Cooperativa Seriarte Ecologica nata nel 1988 e nasce dalla precedente esperienza del 1983, quando un gruppo di reclusi di Rebibbia, decide per la prima volta in Italia, di organizzare il proprio percorso di reinserimento e di prospettiva lavorativa in forma culturale ed artistica prima della fine della detenzione. Questa prima esperienza pienamente realizzata e prima in Italia, ha aperto una nuova prospettiva di reinserimento per migliaia di detenuti ed ex detenuti; successivamente altre realtà? hanno seguito la strada tracciata da Made in Jail. L’Associazione collabora attivamente con gli enti e le istituzioni del territorio, fra cui diverse associazioni e istituti penitenziari e Asl. Monza: studenti del Liceo “Frisi” in carcere, ecco il progetto monzatoday.it, 1 marzo 2019 Studenti del Liceo “Frisi” in Comune. Martedì 26 febbraio il Sindaco Dario Allevi ha incontrato una quindicina di ragazze e ragazzi che hanno partecipato al progetto “Emarginare e immaginare”: un percorso di alternanza scuola lavoro (“Pon - Potenziamento Percorsi di Alternanza”) che li ha portati a entrare in contatto con il “mondo” del carcere. Oltre i pregiudizi e i preconcetti - “Martedì sono stato intervistato da alcuni “giornalisti” particolari, gli studenti del Liceo “Frisi”, ha commentato il Sindaco Dario Allevi. Per alcune settimane gli studenti sono entrati nella Casa circondariale e si sono confrontati con i detenuti. Obiettivo del progetto era far scoprire agli studenti come il carcere è un ambiente che presenta delle difficoltà, ma può essere anche un luogo dove si creano e si sviluppano relazioni e conoscenze, rompendo in questo modo facili pregiudizi e preconcetti. Una realtà con la quale dobbiamo dialogare perché il carcere è un piccolo Comune, il cinquantaseiesimo Comune della Provincia di Monza e Brianza”. Un protocollo per il reinserimento - Al centro dell’intervista il Protocollo d’intesa sulla “Promozione del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, adulti e minorenni, degli ex detenuti e delle persone in esecuzione penale esterna” firmato dal Comune di Monza insieme a una ventina di enti territoriali nel maggio del 2018. Un documento che nasce con lo scopo di promuovere e sviluppare progetti e percorsi per favorire il reinserimento sociale del detenuto. Fiducia, la parola chiave - “Con i ragazzi - sottolinea il Sindaco - abbiamo discusso di come avvicinare l’”universo carcere” alla realtà che c’è “fuori” e abbiamo parlato del protocollo che favorisce l’inserimento lavorativo dei detenuti firmato un anno fa dal Comune di Monza insieme a oltre venti enti e istituzioni. Dare fiducia è la parola chiave da cui partire per promuovere, nei fatti, il reinserimento sociale dei detenuti e per far parlare i due “mondi”. E, con questo progetto, un po’ di fiducia l’hanno portata in carcere gli studenti del “Frisi”. Porto Azzurro (Li): la funzione rieducativa della pena tra lezioni, arte e tanto sport di Irma Annaloro Corriere Elbano, 1 marzo 2019 Della sua impronta formativa la Casa di Reclusione di Porto Azzurro ne ha fatto, da sempre, un motivo di vanto e di orgoglio. La forte collaborazione con le istituzioni scolastiche locali ha fatto sì che, oggi, il carcere venisse riconosciuto per la sua propensione alla formazione e rieducazione del detenuto, così come sancisce la nostra Carta Costituzionale. Da vent’anni, Forte San Giacomo è una vera e propria succursale del Liceo Scientifico Foresi. Al suo interno, sette aule ospitano le lezioni per 42 iscritti divisi in cinque classi. La media è di 4 o 5 diplomati all’anno. A giugno sarà la volta anche di Chen, 32 anni. Un percorso in salita per lui, soprattutto per via delle difficoltà linguistiche. Ma che rappresenta un’opportunità di riscatto sociale per tante persone che, come lui, vivono in una situazione di disagio. Da qualche anno, poi, è stato attivato anche un corso dell’indirizzo Agrario in collaborazione con l’Istituto Cerboni, grazie alla sensibilità della preside Maria Grazia Battaglini. Sono tre classi, frequentate da 64 detenuti. Il piano di studio, tra l’altro, prevede anche un momento di attività pratica, sia per i detenuti che per gli studenti del Cerboni, nei terreni di proprietà dell’amministrazione penitenziaria. El Hamzaoui, 34 anni e da 17 in Italia, non vede l’ora di iniziare. “Mi incuriosisce molto la terra - ci racconta - La mia è una famiglia di agricoltori in Marocco. Sono certo che questa esperienza pratica all’interno del carcere potrà servirmi in futuro”. Con ogni probabilità, El Hamzaoui non riuscirà a concludere il suo percorso di studi all’interno della struttura carceraria. Ha quasi finito di scontare la sua pena. L’intenzione, comunque, è quella di portare avanti il suo corso di agrario al di fuori, esattamente come ha già fatto con l’Istituto Alberghiero che ha frequentato prima del suo ingresso in carcere e che lo ha proiettato in cucina, dietro ai fornelli di qualche ristorante. Da questo punto di vista, il carcere di Porto Azzurro si colloca in una posizione di eccellenza. Non solo per le attività di laboratorio e per gli impegni lavorativi in grado di offrire ai detenuti, ma soprattutto per quell’attenzione all’aspetto scolastico, con un piano di studio piuttosto eterogeneo, che la struttura carceraria ha avuto e mantenuto nel tempo grazie anche alle collaborazioni instaurate con il territorio elbano. Ne sono esempio, giusto per citare quelli più recenti, i quattro corsi presentati ultimamente dal direttore della Casa di Reclusione, Francesco D’Anselmo, insieme al preside dell’Isis Foresi, Enzo Giorgio Fazio. Ma oltre agli indirizzi scolastici superiori, il carcere di Porto Azzurro conta 15 iscritti ad una classe di scuola media e ben 86 detenuti, divisi in tre livelli, al corso di alfabetizzazione per gli stranieri. Come dimostrano i numeri, parliamo di un’alta percentuale di carcerati impegnati in un momento scolastico che, oltre alle tante ore di laboratorio e agli impegni lavorativi, si inserisce in un’ottica formativa che tutela il detenuto in quanto persona. Nella maggior parte dei casi, il percorso di studio, assicurano gli educatori del carcere di Porto Azzurro, viene portato avanti fino al conseguimento del diploma. E in alcune circostanze, va anche oltre. Grazie ad una collaborazione con l’Università di Pisa e ad un progetto dell’Associazione Dialogo - finanziato da una Cassa di Risparmio - i detenuti possono anche frequentare corsi universitari. Pochi, sia chiaro, tutti comunque ad indirizzo umanistico. Anche perché, sono praticamente preclusi i corsi che prevedono diverse ore pratiche in laboratorio. Eppure, attualmente, sette detenuti di Porto Azzurro hanno deciso di intraprendere questa strada. Uno di loro è David, 54 anni, originario della Romania. Da tre anni frequenta, a distanza, il corso di laurea in Scienze della Pace - indirizzo di Cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti. Finora ha sostenuto quattro esami ed è alle prese con la preparazione di quello di matematica. Uno scoglio grande per David che, tra le tante difficoltà, per nulla è intenzionato a mollare. “Studio per un mio bagaglio culturale - ammette - ma soprattutto per dare un buon esempio a mio figlio”. Eppure, i momenti di sconforto non mancano, a fronte, soprattutto, di un sottile filo diretto con l’Università che, al momento, è garantito da pochi colloqui con i professori. Anche se l’uomo, un tempo tecnologo in un laboratorio di analisi in Romania, riconosce il forte impegno di una volontaria dell’Associazione Dialogo che si pone come tramite tra carcere e università, aiutando anche i detenuti nello studio. Le storie dei detenuti Lo scorso dicembre una piccola aula all’interno del carcere di Porto Azzurro ha ospitato una prova aperta a cui hanno partecipato i detenuti e i ragazzi delle Perle dell’Arcipelago. Lo spettacolo, in fase di preparazione, sarà portato in scena ad aprile. Eppure Dumitriu - conosciuto come l’uomo dei cioccolatini, perché ha sempre un piccolo dolce in tasca da offrire a chiunque incontri durante la giornata - ha già imparato a memoria la sua parte. Per i suoi compagni di cella lui è il secchione della classe. Uno dei più bravi, di quelli che, “una volta preso il copione in mano è perfettamente dentro al suo personaggio”. In “Pace” di Aristofane, Dumitriu interpreta il ruolo da protagonista: Trigeo, un contadino che stanco della guerra in Grecia decide di volare sull’Olimpo per liberare la dea Pace e riportare, così, la serenità sulla terra. “C’è anche tanta comicità”, ci racconta, inorgoglito, Dumitriu. E la sua fierezza, che traspare dagli occhi e dalle movenze tipiche di chi cerca di trasportarti dentro alla bellezza del suo mondo, porta a pensare che, bravo o meno che sia a recitare, non ha importanza. Perché per Dumitriu il teatro è tutto. Tutto quello che basta per sentirsi di nuovo libero. “La sofferenza di stare qui dentro non mi dà pace - ci confida - In questo il teatro mi ha aiutato tanto. E ogni giorno mi regala pochi attimi di gioia che mi fanno stare bene”. Da bravo attore, Dumitriu prova la sua parte di fronte ad uno specchio. “Questa volta c’è tanto dialogo da imparare a memoria”, scherza lui. Ma non c’è nulla da temere per uno che interpreta il ruolo da protagonista ormai da quattro anni. E che quando va in scena, ci racconta, “mi sento libero di esprimere me stesso”. Dalla passione per il cinema ha ereditato uno spiccato senso artistico che sogna di portare avanti anche in futuro. Ma al di là delle scelte che si troverà ad affrontare una volta fuori dalle mura carcerarie, le ore trascorse nel laboratorio teatrale della Casa di Reclusione di Porto Azzurro restituiscono a Dumitriu l’impressione di sentirsi esattamente come tutti gli altri, “perché non vengo trattato da detenuto”. La definisce “un’emozione forte”. Che si prova tutte le volte che impegna corpo e mente nelle tante attività offerte dal carcere. E che, dice Dumitriu, “cerco di godermi appieno”. Come, in fondo, ha già dimostrato con il percorso scolastico, che a Porto Azzurro gli ha permesso di imparare la lingua, prima, e di conseguire il diploma scientifico, dopo. “Prima di arrivare qui conoscevo soltanto il dialetto napoletano - sorride Dumitriu - Non nascondo il fatto di aver avuto tante difficoltà dovendo ripartire da zero, ma ci sono riuscito. Le ore di lezione mi sono servite anche per pensare di meno al contesto in cui mi trovo ancora oggi. Ecco, in questo credo che avere una scuola all’interno del carcere sia solo un bene. Per gli insegnanti sono stato soltanto un alunno. E quelle poche ore sono bastate a farmi dimenticare di essere un detenuto”. Sul futuro, si sa, non c’è certezza. Ma Dumitriu è intenzionato a inseguire la strada della formazione. “Mi piacerebbe studiare da mediatore culturale - dice - Ma questo corso universitario non è ancora disponibile per noi detenuti”. Niente paura, “aspetterò”. L’arte come strumento di rinascita - È un po’ l’artista della Casa di Reclusione di Porto Azzurro. Da una qualsiasi bottiglia di plastica, il detenuto Saverio è in grado di ricavare di tutto. Un paio di orecchini, una piantina, delle farfalle. Un piccolo gesto che in fondo ci dà l’idea di come un riciclo consapevole possa restituire una nuova vita a tutte le cose materiali. Da grande ambientalista, qual è, ha maturato un grande interesse per la natura. Di recente ha anche seguito un corso di formazione per monitorare le spiagge in vista di possibili nidificazioni di tartaruga caretta caretta. E con lo stesso spirito, Saverio, di tutto punto ha scritto un brano che è valso, a lui e a suoi compagni di cella, la partecipazione ad un concorso indetto da Legambiente sul tema dell’equilibrio ambientale. Unico istituto di pena che ha voluto concorrere al progetto “La canzone circolare”. “Non c’è più tempo, la natura non aspetta”, cantano alcuni detenuti nel videoclip, disponibile online, destinato a rimanere nella storia del carcere di Porto Azzurro, oltre che nella memoria di tutta l’amministrazione penitenziaria. Le parole di Saverio risuonano nella voce del compagno Vincenzo che, insieme ad altri detenuti e alla collaborazione della scuola di musica Sonohra, ha costituito un vero e proprio gruppo. “Ci siamo organizzati bene per realizzare questo video - ci racconta Vincenzo - D’altronde la musica mi è sempre piaciuta e questa è stata un’esperienza unica”. Vincenzo è iscritto al secondo anno del corso di indirizzo agrario. E oltre al laboratorio musicale, all’interno del carcere segue anche l’attività teatrale e collabora al giornalino dell’istituto penitenziario. Vincenzo la definisce una vocazione artistica quella che gli permette di socializzare - dice - e di lanciarsi in opportunità che, all’esterno, non è riuscito a cogliere. “è meglio che io mi dedichi a sfruttare occasioni nuove - ammette - invece che fare altre sciocchezze”. L’espressione dei suoi occhi e la voce sottile di quel giovane ragazzo è la fotografia di un uomo pentito di quello che ha fatto in passato, ma pronto a riprendere la sua vita in mano ricominciando dalle piccole cose. Quelle che, in questo momento, sta riscoprendo piano piano grazie alle attività che la Casa di Reclusione di Porto Azzurro offre a suoi detenuti. Francesco e il calcio - All’interno del carcere c’è un giovane calciatore talentoso. Si chiama Francesco, la sua squadra del cuore è l’Inter e il suo idolo non poteva che chiamarsi Mauro Icardi. Prestanza fisica da prima punta. “Mi alleno da solo - ci rivela - almeno due volte a settimana nel campo da calcio della Casa di Reclusione”. Ride Francesco quando gli fanno notare che firma già da vero professionista, con quella grafia elegante e ben leggibile. Sogna già un futuro nel Ravenna calcio. Intanto Francesco avrebbe tutte le carte in regola per essere coinvolto in un progetto su cui l’amministrazione penitenziaria sta già facendo le sue valutazioni: formare una squadra di detenuti under 25. Pierangelo e la poesia - Da quando è detenuto, Pierangelo ha scritto oltre 100 poesie che conserva gelosamente. Una di queste gli è servita ad aggiudicarsi il secondo posto al Premio Letterario Casalini. “Inarrestabile”, si intitola così il componimento autobiografico che racconta il desiderio di un detenuto di uscire dalla sua cella e riabbracciare la donna che tanto ama. “Una grande soddisfazione”, ammette Pierangelo che non è certo nuovo ai concorsi letterari. Tra le tante partecipazioni c’è quella al Premio Artisti Dentro, di cui si è aggiudicato le ultime tre edizioni. “Mi è sempre piaciuto comporre poesie - ci racconta - La scrittura mi riempie le giornate e mi restituisce momenti di spensieratezza all’interno del carcere”. Vittorio Veneto (Tv): convegno delle San Vincenzo su “Carcere e umanità” agensir.it, 1 marzo 2019 Sarà dedicato a “Carcere e umanità. Uscire dagli schemi di una giustizia retributiva per aprirsi a modelli di giustizia riparativa” il convegno delle San Vincenzo di Veneto e Trentino in programma per il pomeriggio di domani a Vittorio Veneto (Tv). Ad aprire i lavori, ospitati nell’aula magna del Seminario a partire dalle 14.30, sarà mons. Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto e presidente ad interim della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute della Cei, di Caritas Italiana e della Consulta ecclesiale degli organismi socio-assistenziali. L’iniziativa, promossa dal coordinamento interregionale Veneto e Trentino della Società San Vincenzo dè Paoli in collaborazione con il settimanale diocesano “L’Azione”, vedrà tra i relatori Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, Claudio Messina, delegato nazionale del settore carcere della San Vincenzo, Andrea Zema, comandante della casa circondariale di Treviso, don Piero Zardo, cappellano del carcere di Treviso. Alla loro voce si unità quella di varie figure professionali - psicologo, mediatore, avvocato, assistente sociale, educatore - che racconteranno la loro esperienza personale nel settore. Ai presenti sarà offerta poi la testimonianza di Hoxha Saimir. Nell’ultima parte del convegno, moderato dal giornalista Federico Citron, verrà presentata l’attività di volontariato che associazioni e cooperative svolgono nella realtà carceraria. Trieste: incontro letterario con Claudia de Lillo presso la Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 1 marzo 2019 Il 2 marzo 2019 ad ore 10.00 Claudia de Lillo presenterà il libro “Nina sente” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - di concerto con la Direzione della Casa Circondariale. “Nina sente”, è una commedia sociale e un giallo con elementi comici. La protagonista - Nina Forte - dopo aver scelto di separarsi dal marito cade in una profonda depressione ma trova la forza di riaffacciarsi alla vita: gestire la delicata fase dell’adolescenza del figlio pressoché a totale carico, gestire la propria vita anche lavorativa dove i pregiudizi certo non mancano (è infatti autista NCC avendo ereditato dal padre la licenza), gestisce la particolare relazione familiare con il padre affetto dai primi sintomi di una demenza senile. È una donna colta, maniaca della dizione, arrabbiata, e ascolta. Ascolta i clienti che con lei alle volte sembrano confessarsi mentre in altre occasioni sembrano incuranti della sua presenza, quasi non ci fosse: sente! E sente gli odori e proprio questa peculiarità le permetterà d’individuare l’indizio per la soluzione di un mistero. Non solo un giallo, anche uno spaccato di vita, degli equilibri sociali e familiari, delle difficoltà che quotidianamente bisogno affrontare. Un incontro culturale e sociale, una riflessione importante sulla vita e la responsabilità. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Taranto: tutti in campo con Aps Fuorigioco di Giulio Destratis Il Giornale, 1 marzo 2019 Promuovere la cultura dello sport ed i suoi valori di lealtà, correttezza e rispetto delle norme nei quartieri a rischio, nelle periferie così come nelle carceri. Questa la mission dell’Aps Fuorigioco, nata a Maruggio (Ta) nel 2013 per volontà dell’avvocato Giulio Destratis. È giunto quest’anno alla VI edizione il progetto “Fuori... gioco” che l’Associazione, di concerto con l’Amministrazione Penitenziaria, realizza nella Casa Circondariale di Taranto. Il fine è la rieducazione dei detenuti attraverso il calcio, non solo quello giocato. Magistrati, avvocati, medici dello sport, arbitri e psicologi parlano di regole ed emozioni. Il confronto con ì reclusi è il punto nodale del corso. Chi delinque deve scontare per intero la giusta pena, ma deve contestualmente apprendere modelli di vita diversi per evitare recidive. Al termine degli incontri tutti in campo, con grande Fair-Play. Allo stadio Iacovone si svolge un quadrangolare tra magistrati, agenti penitenziari, avvocati e detenuti. Negli anni sono stati testimoniai dell’iniziativa il pallone d’oro, Gianni Rivera e i campioni del mondo, Cabrini e Gentile. I laboratori formativi sui corretti comportamenti alimentari con i ragazzi del rione Japigia di Bari ed il ricordo delle vittime tarantine dell’amianto con un Memorial, sono solo alcuni degli altri appuntamenti nel calendario associativo. Alessandro Barbano e le dieci bugie che hanno aperto la via ai populisti recensione di Marco Demarco Corriere della Sera, 1 marzo 2019 Il nuovo saggio dell’autore (Mondadori) mette sotto accusa la politica tradizionale. Una denuncia alle falsità che hanno distorto il dibattito sui problemi del Paese. Che cosa resta da dire sul populismo che “assedia l’Europa e domina l’Italia, la governa a palazzo e la infiamma in piazza”? La cosa più scomoda e per questo anche la meno indagata: che non è piovuto dal cielo; e che sebbene si mostri o lo si creda alternativo alla democrazia liberale, ne è in realtà una deviazione. È “una complicanza della sua malattia” scrive Alessandro Barbano, l’ex direttore de “Il Mattino”, nuovamente nei panni del saggista militante. Il suo libro “Le dieci bugie. Buone ragioni per combattere il populismo” (Mondadori) è perciò tutto teso a dimostrare che senza una “rottura” col pensiero liberal-progressista (a vantaggio evidentemente di un pensiero cattolico-liberale o liberal-moderato) sarà assai difficile uscire da quella che viene descritta come la “nuova notte della Repubblica”. Per giunta, la notte “più cupa e sinistra della sua storia”. La notte dei peggiori “ismi”, del sovranismo, dello statalismo, del dirigismo, dell’assistenzialismo, del giustizialismo, del pauperismo. E anche quella dell’Io freudiano, del non riconoscimento dell’altro e del rifiuto della delega, “vero obiettivo di una politica che punti a ripristinare la sua maestà e nella quale governabilità e rappresentatività non siano più valori antagonisti”. In poche parole, la notte di un nuovo totalitarismo. Ciò spiega perché le prime bordate polemiche sono tutte per loro, per i liberal-progressisti, visti come polo da disarticolare, vivamente invitati a riconoscere che il populismo origina anche da uno slittamento del loro pensiero verso un’espansione illimitata dei diritti. Qui c’è una significativa continuità. Nel precedente libro, Barbano aveva analizzato gli effetti destabilizzanti del “dirittismo”, della pretesa di elevare ogni desiderio a diritto. Ed ora eccolo invece impegnato a indicare nella “consensite”, nella coincidenza tra scelte di palazzo e umori di piazza, la nuova minaccia per la democrazia, l’infezione che lo sviluppo tecnologico potrebbe rendere addirittura fatale. “Il populismo - scrive Barbano - è il peggio che ci potesse capitare, fatta eccezione per l’antipopulismo”. Nel contesto appena descritto, più che un aforisma, questo che apre il libro si rivela dunque come un vero e proprio programma politico. Sfidare il populismo senza diventare populisti. In una prospettiva storica, vuol dire rileggere, al fine di una rilegittimazione, il processo al riformismo craxiano, scelto come passaggio emblematico della vicenda repubblicana. Più in generale, vuol dire trovare una risposta matura ai problemi dell’immigrazione clandestina e al suo impatto sulla vita dei cittadini, evitando l’oscillazione tra il coraggio di Marco Minniti e l’indignazione di Ezio Mauro e Roberto Saviano. Vuol dire non credere alla favola della democrazia diretta, appunto. E vuol dire che se i populisti confondono l’élite con la casta, il compromesso con l’inciucio, e il rango con il privilegio, la prima cosa da fare è non inseguirli, non imitarli a colpi di tweet o selfie. “Di fronte alla spaventosa macchina della comunicazione di Lega e Cinquestelle non serve un nuovo modo di comunicare, ma un nuovo modo di essere”, ammonisce Barbano. E spiega che per spezzare questa spirale emulativa occorre sottrarsi alla “consensite” e ai suoi parametri, e investire proprio nel suo punto di maggiore debolezza: la contrarietà all’interesse nazionale, di fatto travolto “da passioni rivendicative e risarcitorie e subordinato alla soddisfazione di microinteressi di parte”. Via, allora, con lo smascheramento delle grandi bugie dei populisti e dei cosiddetti anti-populisti. A partire dalla prima: “la crisi è stata causata dall’avidità delle politiche neoliberiste”, fino alla decima: “il nuovo è sempre meglio del vecchio”, passando per tutte le altre sul fisco, sulle pensioni, sul reddito di cittadinanza, sul contratto nazionale come tutela del lavoro, sul merito che promuove l’egoismo, sull’uno vale uno, sull’azzeramento del finanziamento pubblico che risana la politica e sull’antimafia senza la quale non si combatte la mafia. In tempi di semplificazioni estreme, Barbano crede in una nuova “estetica della complessità” e chiede alla politica di ribaltare il rapporto con il consenso: ai cittadini, dice, deve parlare “con un lessico della verità, in nome di un patto per riformare un Paese invecchiato male”. Lo schema che offre è chiaro e solido. L’ideale per aprire la discussione. L’appuntamento - Le dieci bugie di Alessandro Barbano viene presentato a Napoli il 1° marzo presso Opera Café Scaturchio, Teatro San Carlo, alle ore 18. Si confrontano con l’autore Ruggiero Cappuccio, Biagio de Giovanni e Gaetano Manfredi. Coordina Titti Marrone. Terrorismo, razzismo e cyber attacchi, ecco le minacce nell’Italia gialloverde di Francesco Grignetti La Stampa, 1 marzo 2019 Relazione dell’intelligence: pericolo jihad con i “radicalizzati di casa”. Preoccupa la xenofobia in vista del voto. A due giorni dal derby di Roma è comparsa al Circo Massimo la scritta nazista, “romanista Anna Frank”, poi cancellata. Un altro episodio choc dopo le figurine antisemite dell’anno scorso, con Anna Frank in maglia giallorossa. C’è un errore di fondo, nelle strategie politiche ed economiche dell’Occidente. La causa di tutti i mali attuali. E si chiama globalizzazione. La Relazione sull’operato dell’intelligence, la prima a cura dell’Esecutivo gialloverde, porta una chiara impronta populista-sovranista fin dalle parole d’esordio: “Il macro-dato che più di altri ha segnato l’anno appena trascorso - vedendo giungere a maturazione un processo i cui prodromi erano già vistosamente presenti - è il livello assunto, su scala mondiale, dalla competizione geopolitica e geoeconomica”. Una competizione resa parossistica da dieci anni di sbagli. “Dieci anni nel corso dei quali alcuni Paesi hanno tratto enorme vantaggio dall’accesso ai mercati delle economie più mature, con asimmetrie oggi palesi che sono state a lungo ignorate o tollerate”. Non meraviglia allora che gli 007 abbiano lavorato su input del governo Conte attorno a quelle “che gli italiani percepiscono come le principali sfide per la loro sicurezza - e in particolare il decremento dei livelli di benessere, l’impatto socio-economico delle migrazioni illegali e il terrorismo internazionale”. Ovvero “il quesito relativo all’effettiva capacità dell’attuale assetto economico, improntato all’apertura dei mercati e alla libera circolazione di beni e persone, di corrispondere agli interessi dei Paesi e delle alleanze che lo hanno fatto proprio”. Un interrogativo retorico. L’intelligence segnala il protagonismo di alcuni Paesi europei, la propensione degli Usa a ridisegnare il proprio intervento nel mondo, e soprattutto il ruolo di “Pechino e Mosca, entrambe determinate ad acquisire, o riconquistare, un ruolo di assoluta centralità”. La povera Italietta, in questo scontro di titani, è costretta sulla difensiva. Telecomunicazioni e reti terrestri e mobili, trasporti, energia, finanza, infrastrutture di immagazzinamento e gestione dati, intelligenza artificiale, robotica. L’elenco dei soggetti economici da tutelare è sempre più lungo. Il “nemico” sono quei “soggetti espressione di un controllo pubblico, diretto o indiretto, che per loro stessa natura rappresentano non di rado i vettori per perseguire finalità extraeconomiche. E secondo i nostri 007, ci sono stati episodi inquietanti: operatori esteri avrebbero tentato di “alterare il quadro competitivo attraverso il sistematico storno di capitale umano ad alta specializzazione, il ricorso ad azioni di influenza esercitate attraverso consulenti e manager “fidelizzati”, la studiata marginalizzazione del management italiano”. Infine, non meno grave, lo “spionaggio industriale” e gli attacchi informatici ad istituzioni o aziende: nel 2018 sono più che quintuplicati rispetto al 2017. Oltre all’intelligence economica, c’è molto altro ovviamente in questa Relazione, illustrata dal nuovo direttore del Dis, Gennaro Vecchione, alla presenza dei capi operativi Luciano Carta (Aise) e Mario Parente (Aisi). Ne ha dato conto alla presentazione il premier, Giuseppe Conte. C’è una minaccia jihadista, di cui preoccupano i “radicalizzati di casa”, un bacino “sempre più ampio e sfuggente”. C’è il rischio concreto che in vista delle Europee possano aumentare gli episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri, così come la conflittualità fra antifascisti ed estremisti di destra di cui si segnala un rinnovato “dinamismo”, specie nelle periferie urbane. Gli episodi di marca razzista e xenofoba non mancano. Preoccupa il pericolo di interferenze o condizionamento del processo elettorale, di cui è stato monitorato con attenzione il voto del 4 marzo scorso, e “tale esercizio è stato riattivato nel mese di novembre in vista dell’appuntamento per il rinnovo del Parlamento europeo”. Il calo degli sbarchi di migranti sulle coste italiane è dovuto alla “rafforzata capacità della Guardia Costiera libica” e alla “drastica riduzione delle navi delle Ong, che di fatto, ha privato i trafficanti della possibilità di sfruttare le attività umanitarie” ricorrendo a gommoni fatiscenti. Conte ha ribadito che “nessuno può sentirsi autorizzato a chiudersi nel suo orticello pensando che il problema non lo riguardi. Attualmente le rotte più trafficate sono quelle del Mediterraneo occidentale e orientale. Un domani, dovremo misurarci con altre direttrici, quelle terrestri dall’Asia”. Servizi segreti: “Rischio aumento razzismo in vista delle Europee” di Liana Milella La Repubblica, 1 marzo 2019 Ma Conte ignora quella minaccia per non aprire uno scontro con Salvini. L’allarme nella Relazione 2018 consegnata al Parlamento: “Pericolo concreto della crescita di episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri” da parte dell’estrema destra. Gli altri temi caldi: terrorismo, mafie, cyber attacchi. In calo gli sbarchi Razzismo e xenofobia - In vista delle elezioni europee c’è il rischio concreto che possano aumentare gli episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri. La Relazione spiega che nell’anno trascorso l’ultradestra si è caratterizzata “per una pronunciata vitalità”, riproponendo “le sue consolidate linee di tendenza: competizioni ‘egemoniché, interesse ad accreditarsi sulla scena politica mantenendo uno stretto ancoraggio alla base, propensione ad intensificare le relazioni con omologhe formazioni estere”. Spiegano i Servizi che le formazioni “hanno fatto leva su iniziative propagandistiche e di protesta, soprattutto in talune periferie urbane, centrate sull’opposizione alle politiche migratorie, nell’ambito di una più ampia mobilitazione su tematiche sociali di forte presa (sicurezza, lavoro, casa, pressione fiscale). Tale attivismo, potrebbe aver concorso ad ispirare taluni episodi di stampo squadrista, oltre che gesti di natura emulativa, e potrebbe conoscere un inasprimento con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale europeo”. Antifascimo-estrema destra: rischio aumento scontri - Rischia di intensificarsi la “conflittualità” tra antifascisti ed estremisti di destra: uno scontro che potrebbe portare a “criticità” per l’ordine pubblico. L’intelligence sottolinea come la “mai sopita ostilità tra estremismi di opposta matrice” possa deflagrare in qualcosa di più pericoloso. La propaganda e le pratiche del movimento antifascista, dicono infatti gli 007, hanno subito nel 2018 una “radicalizzazione” dovuta ad una “percepita crescita di visibilità e protagonismo” dei militanti di estrema destra su questioni riguardanti sicurezza, migranti, disagio sociale. E questa “accentuata propensione allo scontro - è la conclusione dell’intelligence - rischia di aggravare la conflittualità tra i due fronti, con una possibile intensificazione di provocazioni, aggressioni e reazioni in grado di generare criticità sul piano dell’ordine pubblico”. Sul fronte dell’estremismo interno quella rappresentata dagli anarco-insurrezionalisti resta “l’espressione più insidiosa”. Terrorismo: allarme radicalizzati in casa - Per la Relazione, “esiste la possibilità che al Qaida sfrutti l’indebolimento del cosiddetto ‘Stato Islamico’ per un rilancio dell’attività terroristica”. In Italia, il rischio maggiore è rappresentato dal fenomeno dei radicalizzati in casa, “un bacino sempre più ampio e sfuggente”. Il web si conferma per l’ideologia jihadista il mezzo più immediato ed efficace “per fare proselitismo, scambiare materiale apologetico che istiga alla lotta contro i ‘miscredenti’ e veicolare istanze radicali antioccidentali anche nel nostro Paese”. Per gli analisti “si gioca una partita importante sul piano della prevenzione. Il numero dei foreign fighters partiti per la Siria e l’Iraq e collegati a vario titolo con l’Italia è salito da 129 a 138. Migranti: sbarchi in calo, ma preoccupano quelli “occulti” - Il calo degli sbarchi di migranti sulle coste italiane - che ha fatto segnare una contrazione dell’80% nel 2018 - è dovuto alla “rafforzata capacità della Guardia Costiera” libica da un lato e alla “drastica riduzione delle navi delle Ong” davanti alle coste nordafricane dall’altro che, “di fatto, ha privato i trafficanti della possibilità di sfruttare le attività umanitarie” ricorrendo a barconi e gommoni fatiscenti e a basso costo. I Servizi sottolineano anche che sul calo ha inciso anche “il potenziamento dei controlli a sud della Libia, specie in territorio nigerino”. Tuttavia un fenomeno che non deve essere sottovalutato è quello degli “sbarchi occulti”, cioè le traversate effettuate con mezzi veloci per evitare di essere intercettati in mare e per evitare i controlli al momento dello sbarco, che potrebbero consentire l’arrivo di persone legate al terrorismo. Cyber attacchi quintuplicati - Nel 2018 il numero complessivo dei cyber attacchi è più che quintuplicato rispetto all’anno precedente, prevalentemente in danno dei sistemi informatici di pubbliche amministrazioni centrali e locali (72%). È stato rilevato, in particolare, un sensibile aumento di attacchi contro reti ministeriali (24% delle azioni ostili) e contro infrastrutture riconducibili ad enti locali (39% del totale del periodo in esame, con una crescita in termini assoluti pari a circa 15 volte. AI gruppi hacktivisti vanno attribuiti anche gli attacchi contro risorse web e social media delle principali forze politiche nazionali, specie in prossimità della tornata elettorale del 4 marzo. E ai medesimi collettivi è da ricondurre pure un cospicuo numero di attacchi - più che triplicati rispetto al 2017 - in danno di soggetti privati, riguardanti per lo più i settori delle telecomunicazioni (6%) e dei trasporti (6%), con particolare focus verso operatori del settore energetico (11%) e relativi fornitori. Camorra, spaccio droga sui social network - Nella realtà camorristica cresce il “ricorso a ‘piazze di spaccio virtuali’, gestite sui social network con consegna dello stupefacente a domicilio anche in aree della città al di fuori della “competenza” dei singoli clan”. È una delle novità segnalate dalla Relazione dei Servizi segreti. La pratica si spiega anche con l’interesse dei clan storici, “anche a seguito della scarcerazione di esponenti di primo piano, a svolgere un ruolo di mediazione rispetto ai gruppi minori, tentando una ridefinizione delle competenze territoriali, resa assai complessa dalla vicinanza fisica fra i sodalizi”. Dilaga l’odio contro i rom, l’ultima vittima è un bambino di Federica Graziani Il Manifesto, 1 marzo 2019 Gli attivisti dalla rete “Kethane - Rom e Sinti per l’Italia” da due giorni animano uno sciopero della fame davanti a Montecitorio per denunciare il crescendo di violenza e ottenere l’attenzione della politica sull’aggressione di un piccolo rom nella metropolitana di Roma. Secondo il Pew Research Center, l’Italia è il primo paese europeo quanto a sentimenti anti-zigani. Snoccioliamo le aggressioni ancora una volta, e ancora una volta osserviamone lo scorrere fra gli altri pensieri come cose di piccolo conto, fatterelli smarriti appena ascoltati, notiziole da non starci troppo su. Nel primo pomeriggio della settimana scorsa, sulla banchina della stazione centrale di Roma un uomo rincorre un bambino. Lo raggiunge, comincia a inveire contro di lui e a picchiarlo. Intervengono due vigilantes, bloccano l’uomo e gli chiedono conto delle ragioni dell’aggressione. La sintetica giustificazione formulata a beneficio delle due guardie - “Questo ladro mi ha appena fregato 70 euro” - non impedisce una più distesa ripresa degli insulti verso il bambino: “State sempre qua a rubà”, “A voi zingari vi ammazziamo. Tutti, vi ammazziamo”. I vigilantes prendono in consegna entrambi e li portano nel box della fermata della metropolitana per identificarli e chiamare le forze di polizia. Nel bugigattolo, l’uomo estrae un taglierino, si avvicina alle spalle del bambino e lo ferisce alla testa, riprendendo a urlare, “Voglio ammazzare gli zingari perché mi hanno rotto il cazzo”. Le guardie soccorrono la piccola vittima sanguinante, allertano il 118 e la scena si conclude con il bambino trasportato all’ospedale Policlinico, dove gli saranno applicati cinque punti di sutura alla nuca, e l’uomo arrestato e sottoposto a processo per lesioni aggravate, con rito direttissimo. I pochi altri dati raccolti dai rari articoli di giornale che riprendono la notizia riguardano le età dei due, 11 anni il bambino e 29 l’uomo, la loro residenza, un insediamento vicino a Campo di Carne il primo, San Basilio il secondo, e una additata appartenenza alla comunità rom per il minore. Qualcuno si premura di aggiungere che nelle tasche del bambino non è stata trovata traccia del presunto denaro rubato all’uomo. In seguito all’episodio, le associazioni di settore, tra cui la 21 Luglio, rilasciano dichiarazioni di condanna e allarme: “quando le vittime sono donne o bambini, vuol dire che l’asticella sta ulteriormente abbassandosi. Deridere un bambino nero in una classe umbra o ferire un suo coetaneo rom in un vagone della metropolitana romana, in Italia, non è più qualcosa di cui vergognarsi”. Tra alcuni giornalisti e ricercatori, nel tentativo di comprendere, mappare e arginare il fenomeno, si stilano lunghi elenchi di aggressioni, ordinati secondo le variabili più disparate: dai luoghi alle età delle vittime, dalla loro etnia alle armi usate. Seguiamo i più recenti. La notte del 2 gennaio, a Lonato, nel bresciano, i caravan di due famiglie di sinti italiani vengono cosparsi di benzina e qualcuno appicca il fuoco. Un quarantenne, svegliato dal fumo, esce dal camper e viene gravemente ferito da colpi di fucile. Nei primi giorni di dicembre, dopo un tentato scippo, una giovane rom che tiene la figlia di tre anni in braccio viene immobilizzata dai vigilantes. Benché la donna sia inerme nel mezzo delle due guardie giurate, un passeggero del vagone la aggredisce, strattonandola via dai suoi custodi per i capelli e sbattendole la testa contro la parete una, due, più volte. Tra gli spettatori, la figlia caduta in terra e una giornalista, che interviene nel tentativo di fermare l’assalitore e viene prima circondata, insultata e minacciata da alcuni altri passeggeri, poi da un branco di profili Facebook. A luglio, sempre a Roma, stavolta in strada, un uomo si affaccia dal proprio balcone e spara con una pistola ad aria compressa colpendo una piccola di un anno, in braccio alla madre. La bambina, ferita alla schiena, rimarrà in ospedale per mesi. Ancora una volta è rom. A confortare l’ipotesi del crimine d’odio di matrice razziale, anche le statistiche stilate dall’autorevole istituto di ricerca Pew Research Center, secondo cui l’Italia è il primo paese europeo quanto a entità dei sentimenti anti-zigani, con l’85% degli interpellati che ha espresso un’opinione indistintamente negativa riguardo ai rom, la minoranza più discriminata d’Europa. Eppure non sono le cronache, non sono gli studi e le ricerche, non sono i dati a poter comprendere, e quindi interrompere, l’ostilità dell’uno verso l’altro. Un’ostilità che si rivela sempre più spesso e che sempre più spesso passa dalle dichiarazioni ai fatti. Un’ostilità che non smette di vincere. E che incontra la tenacia dei luoghi comuni, dei clichés, delle pseudo-certezze sulle popolazioni rom e sinte, e la conseguente propensione a farne uno spazio di proiezione dei propri fantasmi. Ma è possibile che quello spazio sia diventato fitto al punto da nascondere che quello aggredito la scorsa settimana era un bambino? Prima che un rom, prima che un ladro, prima che una vittima, un ragazzino. A riconoscerlo come tale, sembra essere solo l’esiguo gruppo di attivisti dalla rete “Kethane - Rom e Sinti per l’Italia” che da due giorni animano uno sciopero della fame davanti a Montecitorio, promosso allo scopo di denunciare il crescendo di violenza e di ottenere l’attenzione della politica sulla vicenda. Ingrossare le loro file è il primo, indispensabile, passo per chiunque continui a credere che la violenza sui bambini è inammissibile in qualsiasi consorzio civile. Cyber-sicurezza: quintuplicati gli attacchi alle istituzioni italiane di Jaime D’Alessandro La Repubblica, 1 marzo 2019 Nel mirino ministeri, enti locali, aziende. I dati nel documento reso pubblico dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). Si parla di frequenti tentativi di spionaggio da parte di gruppi ostili legati ad apparati governativi esteri. E intanto Microsoft avverte: “Su scala globale abbiamo rilevato 6.500 miliardi di minacce al giorno”. Bisogna moltiplicare per cinque. O almeno questo sostiene il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), la nostra intelligence, in fatto di attacchi informatici. Nel 2018 sono più che quintuplicati rispetto al 2017 le azioni contro istituzioni e aziende del nostro Paese. Hanno riguardato prevalentemente i sistemi informatici di amministrazioni pubbliche centrali e locali (72%) con un sensibile aumento di attacchi contro le reti ministeriali. “Si tratta per lo più, circa il 61%, di attacchi attribuibili alla galassia cosiddetta hacktivista, gli hacker attivisti, tra i quali Anonymous Italia, LtùzSec ITA ed AntiSec ITA”, fa sapere l’intelligence. Si sono mantenuti pressoché invariati gli attacchi che vengono da altri Stati (20%) come i tentativi di intrusione informatica di gruppi terroristici (5%). Ma a preoccupare è l’innalzamento nella qualità e nella complessità di alcune cyber minacce al pari della usuale scarsa consapevolezza delle vittime. E fra queste, non di rado, ci sono figure di primo piano delle istituzioni o del settore privato che magari aprono inavvertitamente il link di una mail sospetta senza nemmeno rendersi consto di quel che stanno facendo. La premessa del Dis è la seguente: “Il macro-dato che più di altri ha segnato l’anno appena trascorso su scala mondiale è la competizione politica ed economica”. Tradotto significa che anche i rapporti fra Paesi abituati a considerarsi alleati sono ormai segnati da linee di frattura e dalla spinta verso l’unilateralismo che rende fragile la tenuta degli assetti tradizionali. Soprattutto in fatto di cybersecurity: ognuno va per conto suo e tende a collaborare poco con gli altri. Non a caso lo sforzo più significativo da parte del Dis ha riguardato proprio il contrasto di campagne di spionaggio digitale, gran parte delle quali verosimilmente riconducibili a “gruppi ostili strutturati, contigui ad apparati governativi o che da questi ultimi hanno ricevuto linee di indirizzo strategico e supporto finanziario”. Il mondo online - Ma è l’intero mondo digitale che ormai sembra esser fuori controllo almeno stando al numero di minacce. Portare un attacco informatico è sempre più facile ed economico e online infuria una sorta di ciclone permeante. L’11 febbraio su Repubblica abbiamo pubblicato i risultati di un esperimento: lasciare un pc collegato ad Internet senza alcuna protezione. Il risultato sono stati picchi di 38mila minacce al giorno. Che la situazione sia grave, lo conferma sia il rapporto Clusit sia la 24° edizione del Microsoft Security Intelligence Report (Sir). Indagine che è il risultato dell’analisi di 6.500 miliardi di minacce che transitano nel Cloud Microsoft ogni giorno e degli insight di migliaia di ricercatori che operano nel campo della sicurezza in tutto il mondo. Calano gli attacchi ransomware, i protagonisti del 2017, che hanno subito una flessione di circa il 60% tra marzo 2017 e dicembre 2018, aumentano invece i miner di criptovalute, che vengono installati sui computer delle vittime a loro insaputa, “rubando” la potenza di calcolo necessaria per estrarre monete digitali come il Bitcoin passando spesso del tutto inosservati. Ma questo valeva per il 2018. Con l’attuale crollo del valore delle criptovalute è possibile che le minacce più rilevanti quest’anno saranno altre. Le elezioni europee - Intanto il Dis, al pari delle altre intelligence dei partner internazionali, ha istituito agli inizi del 2018 un ufficio per individuare eventuali indizi di influenza, interferenza o condizionamento del processo elettorale del 4 marzo. E ora quell’ufficio è stato riattivato in vista dell’appuntamento per il rinnovo del Parlamento europeo. Del resto ormai da mesi si parla di cyber diplomazia combattuta, come è ovvio, senza esclusione di colpi. Diritti, solo in sei Paesi al mondo è parità perfetta uomo-donna La Repubblica, 1 marzo 2019 Lo studio della Banca Mondiale. Uguaglianza piena solo in Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo e Svezia. Italia in fondo alla classfica Ue. Soltanto in sei Paesi al mondo - Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo e Svezia - uomini e donne hanno pari diritti. È quanto mette in evidenza uno studio della Banca Mondiale pubblicato mercoledì, che evidenzia anche come, a livello mondiale, le donne ricevano solo i tre quarti dei diritti degli uomini. In particolare lo studio mette a punto un indice che è il risultato della raccolta di dati negli ultimi dieci anni nei 187 paesi con otto indicatori selezionati per misurare la parità di diritti per uomini e donne. Ai Paesi viene così assegnato un punteggio da 0 a 100, dove 100 indica il massimo livello in termini di riduzione delle differenze di genere. L’Italia si posizione al ventiduesimo posto, con un “voto” di 94,38, tra i dati peggiori in Europa ma sempre meglio di Ungheria, Germania, Cipro e Slovenia. Lo studio conclude che sono stati compiuti progressi significativi da quando la media globale è passata da 70 a 75 su una scala di 100. Inoltre, 131 paesi hanno accettato di attuare 274 riforme, adottando leggi o regolamenti per integrare meglio donne. La Banca Mondiale aggiunge che 35 paesi, come la Bolivia e le Maldive, hanno introdotto leggi contro le molestie sessuali sul posto di lavoro, proteggendo circa due miliardi di donne in più. Nel rapporto si sottolinea come per le donne sia più difficile trovare lavoro o avviare un’impresa. “Se le donne avessero pari opportunità rispetto agli uomini per raggiungere il loro pieno potenziale, il mondo sarebbe non solo più giusto ma anche più prospero”, ha detto Kristalina Georgieva, presidente facente funzione della Banca Mondiale, citato in una dichiarazione. Ha sottolineato che molti paesi stanno attuando le riforme nella giusta direzione ma ancora “2,7 miliardi di donne non hanno le stesse possibilità degli uomini in termini di posti di lavoro”. Troppe donne, però, devono ancora affrontare leggi o regolamenti discriminanti a tutti i livelli della loro vita professionale. Cinquantasei paesi semplicemente non sono cambiati in dieci anni. Per regione, i progressi sono stati maggiori in Asia meridionale, sebbene l’indice resti a un livello basso (58,36 rispetto a 50 dieci anni fa); seguito da Sud-est asiatico e Pacifico (70,73 vs 64,80). L’America Latina e i Caraibi hanno il secondo più alto livello di paesi emergenti e in via di sviluppo (79.09). Al contrario, la regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha il livello più basso di uguaglianza tra uomini e donne (47,37). La Banca Mondiale rileva tuttavia incoraggianti cambiamenti, come l’introduzione di leggi contro la violenza domestica, in particolare in Algeria e Libano. Kenya. Silvia Romano sequestrata da 100 giorni: i clan, la polizia e la strategia del silenzio La Stampa, 1 marzo 2019 Cento giorni dal sequestro. Il 20 novembre 2018 Silvia Romano è stata rapita in Kenya nel villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. Giorni in cui si sono alternate speranze, delusioni, silenzi e proclami che celavano una qualche certezza. Sembrava configurarsi come un rapimento lampo per la natura della banda composta da criminali comuni, almeno così la pensavano le autorità di polizia del Kenya. E invece si sta rivelando qualcosa di più. La polizia ha parlato l’ultima volta il 21 gennaio, spiegando di essere certa che Silvia fosse ancora in Kenya, dunque sarebbe ancora nascosta nella boscaglia del Tana River con la complicità della popolazione locale. Domande senza risposta - Tre sono le domande che inquietano: in Kenya si sta indagando? I criminali che l’hanno rapita hanno chiesto un riscatto? In Kenya si sta trattando per la liberazione della cooperante italiana? Le risposte possono essere date solo dalla polizia del Kenya e dalle autorità italiane. Entrambe, però, tacciono. I rumors di Nairobi, sempre più chiassosi, raccontano di inquirenti che non sanno bene cosa fare e dove cercare. Nei giorni scorsi si è persino parlato del coinvolgimento della ragazza n unpresunto traffico di avorio. Il ruolo dei clan - L’area dove Silvia sarebbe stata nascosta, 40 mila chilometri quadrati della valle del fiume Tana, è abitata da pastori e contadini, la polizia ha contato sulla collaborazione dei clan familiari che, evidentemente, hanno deciso di non rompere il silenzio, di non fornire informazioni che, con molta probabilità, sono in loro possesso. Clan familiari che, di fatto, governano quell’area e dove la polizia è vista come ostile. Rompere l’omertà che circonda i clan sarebbe distruttivo per i clan stessi. L’impegno della polizia - Sempre il 21 gennaio scorso il comandante della polizia della regione costiera, Marcus Ochola, aveva anche evidenziato elementi di criticità nelle ricerche. In primo luogo le condizioni climatiche e la morfologia dell’area del Tana River che non avrebbero favorito le ricerche. Non ci si può non chiedere cosa stia facendo la polizia e se stia facendo qualcosa di realmente concreto per la liberazione di Silvia Romano. Si sa che le ricerche continuano e che nel centro operativo di Garsen (città sulle rive del fiume Tana) sono presenti anche i carabinieri del Ros e i servizi segreti italiani. Questo è un fatto positivo che può servire da stimolo alla polizia locale. La strategia del silenzio - Ma tutti reclamano silenzio e riserbo. Lo chiede la famiglia. Nel rispettare questa volontà non sono state organizzate manifestazioni o fiaccolate per chiedere la liberazione della cooperante italiana. È stato rispettato, e giustamente, il sentimento di dolore della famiglia. Silenzio e riserbo raccomandati anche dal nostro ministero degli Esteri. Silenzio visto come strategia. Ma sarà la strategia giusta? O il rischio è quello di confinare nell’oblio una ragazza che è andata in Kenya con il sogno di essere utile a una popolazione che ha poco o nulla? Silvia Romano non può essere stata inghiottita dalla boscaglia del Tana River. Pensiamo che qualche risposta le autorità keniane e italiane la debbano dare. Non solo Silvia - Come di Silvia, non si sa nulla del missionario Luigi Maccalli rapito in Niger il 17 settembre 2018, quattro mesi fa. Non si conosce, nemmeno, la sorte di Luca Tacchetto e della sua amica canadese Edith Blais, scomparsi in Burkina Faso. Di loro non si sa più nulla dal 16 dicembre 2018, due mesi fa, non si sa nemmeno se siano stati rapiti. Fino ad ora nessuno ne ha rivendicato il sequestro. Sui nostri connazionali rapiti in Africa è calato il silenzio, ma non vorremmo che si trasformasse in oblio. Israele. È tempo di avviare un percorso di giustizia sui crimini di guerra amnesty.it, 1 marzo 2019 “Le forze israeliane hanno sparato intenzionalmente contro bambini, operatori sanitari, giornalisti e persone con disabilità mettendo in evidenza un crudele e spietato disprezzo per il diritto internazionale umanitario. Oltre 6.000 persone sono state ferite da proiettili veri e questo ha messo in ulteriore difficoltà il sistema sanitario di Gaza già allo stremo. A molti feriti è stata negata l’autorizzazione a viaggiare fuori dalla Striscia di Gaza per ricevere le cure mediche necessarie”. Con queste parole il vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord Saleh Higazi ha commentato il nuovo rapporto realizzato da una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, secondo le quali le forze israeliane potrebbero aver commesso crimini di guerra durante le proteste di Gaza dello scorso anno, anche sparando intenzionalmente contro civili palestinesi. “Le conclusioni del rapporto”, afferma Higazi, “riecheggiano quelle cui noi eravamo giunti: molte delle uccisioni di manifestanti palestinesi da parte delle forze israeliane durante le proteste della Grande marcia del ritorno sembrano essere state intenzionali, e dunque costituire crimini di guerra”. Manifestanti colpiti alle spalle - Nella maggior parte dei casi dai noi analizzati, i manifestanti uccisi sono stati colpiti sulla parte superiore del corpo, come la testa e il petto, in alcuni casi mentre davano le spalle ai soldati israeliani. Testimonianze oculari, riprese video e immagini fotografiche lasciano intendere che molti di loro sono stati uccisi o feriti in modo intenzionale mentre non ponevano alcuna minaccia. Mohammad Khalil Obeid, un calciatore di 23 anni, è stato colpito a entrambe le ginocchia il 30 maggio 2018 nei pressi del campo di al-Breij. In quel frangente, stava riprendendo sé stesso dando le spalle alla barriera. Il video, pubblicato sui social media, mostra che nel momento in cui è stato colpito si trovava in una zona isolata, lontano dalla barriera, e non sembrava rappresentare alcuna minaccia alla vita dei soldati israeliani. Il rapporto delle Nazioni Unite e sue conseguenze - “Le Nazioni Unite devono ora dare seguito alle loro iniziali raccomandazioni raccogliendo informazioni su presunti responsabili e trasmettendole ai meccanismi nazionali e internazionali di giustizia, compreso il Tribunale penale internazionale. I responsabili di questi deplorevoli crimini non devono rimanere impuniti”, ha aggiunto Higazi. “Le conclusioni di questo rapporto devono avviare il percorso perché si abbia giustizia per le vittime dei crimini di guerra e perché s’interrompa il lungo ciclo d’impunità per le gravi violazioni del diritto internazionale commesse dalle forze israeliane nei Territori palestinesi occupati”.