La salute dietro le sbarre di Rosalba Trabalzini* ius101.it, 19 marzo 2019 Sono esattamente al pari degli abitanti di una cittadine, circa 60 mila, i detenuti che soggiornano nelle 190 carceri sparse sul territorio nazionale. E, proprio come gli abitanti di una cittadina, sono persone che possono avere bisogni sanitari di ogni specialità, con sintomi dalla semplice influenza fino alla visita cardiologica per passare dal fisioterapista o ai raggi X per effettuare controlli su incidenti vari in palestra o sul campo di calcio se non per atti di autolesionismo. Sono poche le persone che si pongono il problema di sapere come funziona l’assistenza sanitaria dietro le sbarre; vediamo un po’ allora, come stanno le cose e soprattutto chi sono gli operatori che si occupano di questi bisogni. Dal 1° aprile 2008 la salute in toto delle persone che soggiornano negli istituti penitenziari è divenuta una competenza del Sistema Sanitario Nazionale. Il presidio sanitario è in genere allocato all’interno della struttura in un’ala a questo dedicata. Le figure sempre presenti sono un medico e un infermiere di guardia H24 in alcune strutture e H12 in altre. Un medico di base e infermieri per intervenire su tutto quello che fa capo alla medicina di base: dalla gastralgia o emicrania fino alle infezioni ricorrenti con invio a specialisti. Tra gli specialisti a giorni alterni sono presenti: dermatologi, cardiologi, dentisti, oculisti. La presenza è invece assicurata tutti i giorni per il fisioterapista, il tecnico di radiologia e la figura dello psichiatra. La presenza è anche assicurata quotidianamente per il servizio del Serd per il controllo e terapia dell’abuso di sostanze. Una piccola parte delle figure professionali impiegate nei vari settori sanitari sono dipendenti in forza al S.S.N. altri, come i medici specialisti, sono chiamati con incarichi a tempo nominati tra le graduatorie delle liste Sumai. Purtroppo la gran parte del personale sanitario: fisioterapisti, tecnici di radiologia e soprattutto i tanti infermieri da ben undici anni, sono sì a carico delle Asl di competenza, ma con incarichi annuali rinnovabili. Di fatto da undici anni questi operatori sanitari, che pur sono dediti al lavoro espletato in un ambiente comunque difficile per mille motivi, sia pratici sia logistici, sono silenziosi precari. A loro nessun diritto sindacale è concesso, come invece è riconosciuto al pari dei loro omologhi che operano nei presidi sanitari ospedalieri o sul territorio. A loro è vietato ammalarsi o andare in ferie perché questo significa decurtare a fine mese una buona fetta del loro stipendio. Eppure loro lavorano con puntualità e abnegazione per mantenere la salute degli abitanti di una cittadina di 60mila abitanti tutti, nessuno escluso, con le loro storie personali di non poco conto. *Medico psichiatra I vantaggi delle misure alternative al carcere di Marco Cafiero* progettouomo.net, 19 marzo 2019 La sicurezza del territorio attraverso politiche di inclusione. In questo preciso momento storico occorre fare il punto sulla situazione sanzionatoria che il nuovo Governo sta esprimendo sul tema della sicurezza. I provvedimenti che partono dal Decreto Sicurezza, passando per la licenzianda legge sulla legittima difesa per giungere all’ipotesi di revisionare il Dpr 309/90, non stupiscono attesa l’ideologia che anima l’orientamento politico in corso. Quello che stupisce ancora è come uno Stato evoluto che ha avuto modo di riflettere a lungo sull’efficacia della sanzione, non solo per sconfiggere la criminalità, ma come elemento di prevenzione e di inclusione si arresti e compia prodigiosi passi indietro. Sembra che ogni conquista moderna subisca un momento di arresto per ripercorrere strade già battute e risultate inidonee a creare benessere alla popolazione. Si pensa, dunque, che il benessere passi per la repressione e non per la pacificazione collettiva, finanche in tema di immigrazione. Il mondo sociale, rappresentato anche dal Forum del Terzo Settore, ha sempre posto al Centro dell’intervento sul territorio la creazione di benessere e la sconfitta del malessere sociale. I dati ci confermano che una politica estremamente repressiva, oltre a portare alla creazione di uno Stato di Polizia, aumenti il conflitto sociale esasperato anche dall’esposizione mediatica che amplifica la rabbia dei cittadini nei confronti di qualsivoglia tipo di violazione. Si pensa solo a contenere la rabbia dei cittadini senza preoccuparsi di contenere i deficit che producono devianza attraverso politiche di prevenzione e di educazione alla legalità. Quest’ultima dovrebbe rappresentare un elemento di insegnamento fino dalla scuola primaria ingenerando la forma di rispetto per l’altro, l’accettazione della diversità e l’apertura al pluralismo culturale. Ritengo sia più importante imparare a convivere che conoscere l’esatta successione dei sette re di Roma. Le teorie sociologiche che individuano la devianza nell’aspetto genetico o nel fattore ambientale vengono continuamente smentite a favore di un approccio multifattoriale che la comunità sociale deve tenere in debito conto. Il pensiero più evoluto a riguardo passa inosservato dagli Organi Istituzionali più preoccupati a rispondere a situazioni emergenziali, quasi sempre strumentalizzate, a favore di un’ideologia politica affatto aderente alla realtà sociale. Il volontariato è utilizzato in modo incompleto: all’interno delle istituzioni carcerarie solo come forma di contenimento, nelle aule giudiziarie come strumento deflattivo di un carico enorme. In realtà il volontariato, oltre ad essere animato da valori di solidarietà, è caratterizzato da una professionalità che cresce e stimola risorse a tutti i livelli. Le misure alternative alla detenzione che coinvolgono il terzo settore per costruire percorsi di inclusione vengono continuamente messe in discussione e ritenute responsabili di inefficacia della sanzione, senza tenere conto di dati oggettivi che le attestano come foriere di una forte riduzione della recidiva. Lo stesso non può dirsi della pena detentiva che determina costantemente il meccanismo della porta girevole. Sembra solo un leit motiv dell’area progressista del nostro paese, in realtà è una lettura adeguata del funzionamento dei progetti costruiti con estrema attenzione dagli Uffici Esecuzione Penale Esterna in sinergia con il territorio più accreditato. La sicurezza nasce dal controllo del territorio attraverso politiche di inclusione e costruzione di percorsi che esercitano una devianza rispetto alla tendenza deviante dei singoli. Non si tratta di un bisticcio di parole, ma di agire una modalità di partecipazione sociale che modifichi i comportamenti in atto e che, soprattutto, abbia efficacia preventiva nei contesti a rischio. Lo strumento è rappresentato dall’aggregazione come politica di coinvolgimento che valorizzi il concetto di giustizia riparativa in una declinazione più fruibile e sostanziale. Alle associazioni dl terzo settore è importante chiedere di intervenire sugli aspetti relazionali, sulla consapevolezza del disvalore di condotte devianti e sulla necessità di riparare i danni. Con particolare riferimento alla dipendenza da sostanze è necessario esperire alcune valutazioni spesso dimenticate. Le associazioni che si occupano di progetti di recupero socio-riabilitativo, utilizzando programmi accreditati caratterizzati dalla presenza di professionalità riconosciute, sono chiamate a riflettere sulla necessità di introdurre all’interno dei loro percorsi momenti di consapevolizzazione sui danni prodotti dallo stile di vita dei soggetti di cui si fanno carico. È ridondante sottolineare come la componente deviante penalmente all’interno delle strutture di recupero sia in crescita, e potrebbe aumentare se le ipotesi di riforma proposte dovessero malauguratamente essere approvate, per cui l’evoluzione dei progetti deve dare spazio a momenti volti all’inclusione non solo sotto il profilo lavorativo, che già rappresenta un obiettivo di non poco conto, ma anche sotto quello della composizione dei conflitti e del rispetto delle regole del vivere sociale. Non sempre questa riflessione viene elaborata in modo coerente con le aspettative del benessere sociale. La lotta alla solitudine, determinata dalla incapacità di creare relazioni significative basate sul rispetto dell’altro, deve passare attraverso la consapevolezza che il benessere sociale è frutto dell’osservanza delle regole e che anche quelle ritenute più limitanti possano essere superate solo dall’affermazione di un ruolo sociale costruttivo e non dall’inosservanza come forma di reazione violenta ed autodistruttiva. Il territorio mediante l’accettazione ed il dialogo fornirà un valore aggiunto quale comunità che desidera la realizzazione di progetti che prevedono la partecipazione attiva delle categorie svantaggiate. Il momento deputato all’efficacia di tali progetti è proprio quello dell’attuazione della misura alternativa che eviti il passaggio carcerario: in questo modo tali misure assumono un consistente significato che vanifica il pregiudizio sull’inefficacia della pena ormai troppo comunemente diffuso. Sarà anche il mondo giudiziario a trarne un beneficio perché a medio termine vedrà diminuire l’intervento processuale e si coinvolgerà naturalmente nella rete sociale che realizza il benessere senza abiurare alla propria funzione. Semmai risponderà in modo più adesivo al dettato di cui all’art. 27 della Costituzione. Occorre pensare in modo serio alla prospettazione di un modello di inclusione che abbia caratteristiche di innovatività rispetto alla promozione di politiche di coesione sociale. Si tratta di offrire a tutti i cittadini la possibilità di esprimere un contributo al benessere sociale ed economico della comunità indipendentemente dalla propria appartenenza culturale, in virtù di una partecipazione attiva e responsabile. Il terzo settore presenta tutti i requisiti valoriali e professionali per rendere attuabile questo modello. Occorre un focus mirato proprio sulla popolazione dipendente che affolla gli istituti penitenziari rappresentandone una percentuale estremamente consistente. Il focus non può essere solo sull’applicazione delle misure alternative, già ampiamente previste dall’attuale formulazione del testo Unico, ma anche sulla qualità degli interventi al fine di renderli più efficaci. Tutto questo non può avvenire senza una revisione sensata dell’intero Dpr 309/90. *Avvocato specializzato in criminologia clinica, membro del Consiglio di Presidenza F.I.C.T. Più controlli nelle nostre carceri per il rischio emulazioni terrorismo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2019 Dopo la strage in Nuova Zelanda si è partiti da Montacuto dove si trova Luca Traini. All’indomani dell’attentato in Nuova Zelanda sono state disposte verifiche a tappeto nelle carceri di tutta Italia, per controllare le reazioni di detenuti islamici radicalizzati e di estremisti di destra alla strage. I controlli dell’Antiterrorismo partono dall’istituto penitenziario di Montacuto, ad Ancona, dove si trova Luca Traini. Il rischio di ritorsioni è considerato alto. Anche se dal ministero dell’Interno fanno sapere che non risultano rapporti tra Brenton Tarrant e l’Italia, le indagini sono già iniziate. Il nome del terrorista australiano non era mai stato segnalato alla nostra intelligence - è stato svolto anche un controllo approfondito sui suoi contatti all’estero - ma il pericolo che ora qualcuno possa emularlo esiste. A 24 ore della strage, ieri, il Viminale ha riunito in via straordinaria il Comitato di analisi strategica antiterrorismo e ha impartito direttive finalizzate a “evitare il rischio emulazione” e di fenomeni di ritorsione. Dalla riunione del Casa intanto è emerso che “l’eventualità di ritorsioni ad opera di ambienti radicali” effettivamente esiste, ed è pari al rischio di atti di emulazione. Per questo motivo è stata disposta “una rinnovata attività di monitoraggio” che partirà, appunto, dal monitoraggio nelle carceri, dove è più frequente assistere a fenomeni di radicalizzazione. Ma non solo. È stato anche moltiplicato il lavoro d’intelligence per tenere sotto osservazione i soggetti pericolosi già schedati. Sono in corso intercettazioni e controlli serrati sul web, tra chat, blog e social network. Compresi i siti che addestrano online aspiranti giustizieri neonazisti, gruppi antisemiti e xenofobi. Un recente studio del Simon Wiesenthal Center ne ha identificati circa 12mila. Sono stati anche intensificati i contatti con forse di polizia e servizi segreti di altri Paesi per lo scambio di informazioni. A poche ore dalla strage, anche il Dipartimento di Pubblica Sicurezza aveva chiesto massima attenzione, soprattutto ai luoghi di culto, con una circolare riservata a prefetture e questure. Un atto accompagnato dall’invito ad attivare tutte le fonti investigative “al fine di raccogliere ogni informazione circa l’eventuale pianificazione delittuosa”. Sul fronte delle indagini, le forze di polizia italiane hanno garantito la massima collaborazione internazionale. “I nostri apparati di sicurezza restano vigili per monitorare la situazione. Abbiamo la fortuna di contare su forze di polizia e intelligence tra le migliori al mondo, ma non abbassiamo la guardia - ha dichiarato Salvini - Non ci sono evidenze di rischi organizzati. Da quello che ci risulta l’attentato non è riconducibile a una rete, a un legame, a una strategia ma a degli infami, delinquenti che non si possono commentare”. Come sappiamo, la lotta contro la radicalizzazione in carcere si distingue in due fasi. Quella del rispetto dei diritti umani, quindi salvaguardando la dignità all’interno delle carceri e quella preventiva, attraverso un monitoraggio costante nelle carceri. L’analisi del fenomeno distingue i soggetti a rischio di radicalizzazione violenta e di proselitismo in tre livelli di pericolosità: monitorati, attenzionati e segnalati. A monitorare costantemente il fenomeno della radicalizzazione è il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria che acquisisce quotidianamente le informazioni da tutte le sedi penitenziarie. Il Nic viene considerato un corpo d’eccellenza dell’apparato penitenziario. Nasce con decreto del ministro della Giustizia del 14 giugno 2007 ed è posto nell’ambito dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Svolge le proprie funzioni, sotto la direzione dell’Autorità Giudiziaria, su fatti di reato commessi in ambito penitenziario o, comunque, direttamente collegati ad esso, rappresentando così il maggior organo di controllo e di investigazione della Polizia Penitenziaria, secondo quanto previsto dall’art. 55 del codice di procedura penale. Il responsabile del Nic è nominato dal Capo del Dipartimento che lo individua tra il personale appartenente ai ruoli direttivi della Polizia Penitenziaria, il quale relaziona direttamente al Direttore dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo. Nel corso degli anni il Dap ha adottato queste misure di controllo a carattere preventivo attraverso il monitoraggio e l’analisi del fenomeno della radicalizzazione e del proselitismo nelle carceri. Più immigrazione vuol dire più reati? I numeri raccontano tutta un’altra storia di Simona Musco linkiesta.it, 19 marzo 2019 Nelle carceri italiane un terzo dei detenuti è straniero. Ma il numero di sbarchi non ha ingrossato le file, anzi: il tasso di detenzione negli ultimi anni si è abbassato. Se molti sono ancora convinti della relazione tra immigrazione e criminalità la colpa è solo della disinformazione. Che rapporto c’è tra immigrazione e reati? La teoria, ben nota, e di destra, è che ci sia una stretta correlazione tra i due fattori: più sbarchi uguale più migranti e, di conseguenza, più reati. L’equazione a livello elettorale funziona benissimo, a beneficio della Lega di Salvini. Ma la verità è che questa relazione è una bufala. Almeno secondo i dati diffusi dai ministeri dell’Interno e della Giustizia, che periodicamente riportano i numeri degli arrivi sulle coste italiane e delle presenze in carcere suddivise per nazionalità. I dati sono tanti e vanno analizzati con attenzione. Un primo fatto: i detenuti presenti nelle sovraffollate carceri italiane, stando alle statistiche di via Arenula aggiornate al 28 febbraio, sono 60.348, di cui 20.325 stranieri. Un terzo delle persone in carcere, dunque, viene da un altro Paese. Una percentuale troppo elevata? Certo, ma è importante capire chi sono i detenuti in carcere e da dove provengono. Anche questa volta è il ministero della Giustizia a rispondere alla domanda. Si tratta di numeri asettici, che non forniscono dettagli sul tipo di reato commesso e su come quelle persone siano arrivate in Italia. Potrebbe trattarsi dunque anche di migranti regolari sul territorio. Ma poco importa, perché secondo la vulgata lo straniero è cattivo a prescindere dal possesso dei documenti. E allora tanto vale capire da dove vengano questi cattivi. La maggior parte degli stranieri presenti nelle carceri italiane viene dal Marocco. Si tratta di 3.762 persone, su una presenza totale in Italia di circa 416mila. Vengono poi gli albanesi, con 2.594 detenuti su una popolazione di 440.465 persone e i romeni, che non sono migranti, ma europei a tutti gli effetti (2.534 detenuti su un milione e 190mila persone). A seguire ci sono i tunisini, con 2.047 casi su 93.795 presenze. Ma non finisce qui. Nel 2003 il numero di migranti in Italia era molto più basso (poco meno di un milione e mezzo di persone), mentre i detenuti stranieri erano 17mila. L’arrivo di altre 4 milioni di persone non ha prodotto, come ci viene raccontato, un aumento del tasso di detenzione, che si è anzi ridotto di un terzo, scendendo dall’1,16% allo 0,40%. on sappiamo da quanto tempo siano in carcere quelle persone e da quanto tempo siano perciò presenti nelle statistiche. Perché sul totale dei presenti sono 12.668 quelli che hanno già ricevuto una condanna e non è specificato se sia o meno definitiva. Quel che però è certo è che il dato cozza con il “cruscotto statistico” del Viminale, cioè il resoconto periodico con cui il ministero ci aggiorna sugli sbarchi in Italia. Secondo il ministero degli Interni negli ultimi anni il maggior numero di persone arrivate dal mare è tunisino: tra gennaio 2018 e febbraio 2019 ci sono stati 5.275 sbarchi, mentre il numero di persone di nazionalità tunisina in carcere è sceso di 70 unità. Già questo basterebbe a dimostrare, anche se in modo basico, che il rapporto automatico tra arrivi e criminalità è fasullo. Il Viminale rileva che il secondo paese come numero di sbarcati è il Bangladesh, che però conta in carcere “solo” 77 “rappresentati”. A seguire Algeria (482 detenuti), Iraq (54 persone in carcere), Somalia (73 persone), Iran (18 persone), Senegal (511), Guinea (107 in totale), Eritrea (40 detenuti) ed Egitto (586). In molti casi il numero si è ridotto nel giro di un anno di diverse decine. Insomma, le principali popolazioni arrivate dal mare negli ultimi anni “occupano” le carceri per una percentuale bassissima: sono circa 4mila. Ma non finisce qui. Nel 2003 il numero di migranti in Italia era molto più basso (poco meno di un milione e mezzo di persone), mentre i detenuti stranieri erano 17mila. L’arrivo di altri quattro milioni di persone non ha prodotto, come ci viene raccontato, un aumento del tasso di detenzione, che si è anzi ridotto di un terzo, scendendo dall’1,16% allo 0,40%. Questi numeri sono stati forniti da Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione “Antigone”, che si occupa dei diritti e delle garanzie del sistema penale. Lo studio di Gonnella sfata anche un altro stereotipo, secondo cui gli stranieri commettono i crimini più violenti. E invece solo l’1,1% dei detenuti stranieri è in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso e, in media, il numero di delitti contro la persona è molto basso rispetto al numero complessivo dei detenuti. La maggior parte dei reati è legata, invece, agli stupefacenti. E allora perché molti pensano che più stranieri significhi più criminali? La colpa, in buona parte, è delle “strategie di disinformazione”, di cui l’Agcom ha parlato in un recente rapporto. Il volume delle notizie false, stando allo studio, ha raggiunto il livello massimo in corrispondenza delle elezioni del 4 marzo e nel periodo successivo in cui erano in corso le trattative per la formazione del nuovo governo. “Le strategie di disinformazione - si legge nel rapporto - si fondano per lo più su tematiche divisive e con un forte impatto emotivo”. E dai dati emerge come immigrazione e terrorismo abbiano segnato la maggiore presenza di disinformazione sul totale dei contenuti online. Ma i numeri ufficiali sulla sicurezza in Italia, forniti sempre dal Viminale, sono chiari: mentre da un lato si registra un calo generale di delitti - compresi omicidi, furti e rapine - dall’altro il numero di stranieri in Italia è cresciuto, dai 3 milioni del 2007 a circa 5 milioni e mezzo. Se l’emergenza criminalità è molto meno allarmante di quanto possa sembrare, quella straniera lo è ancora di meno. L’equazione stranieri uguale criminali non ha fondamento. Problemi delle carceri: nasce il Premio di Laurea Isabetta Belli atuttatesi.it, 19 marzo 2019 La Fondazione Ernesto Balducci promuove la I edizione del “Premio Isabetta Belli”. Un premio di laurea per tesi che affrontano il tema dei problemi delle carceri. Viene premiata una tesi di laurea triennale, magistrale o di dottorato, in lingua italiana, che esplori i problemi delle carceri al fine di valorizzare la dimensione della ricerca su tale tema. Questo premio è così intitolato per ricordare Isabetta Belli (1955-2018) che dedicò la vita al lavoro nel carcere. Prima come figura amministrativa, poi come funzionaria educatrice, Isabella si impegnò per più di venti anni al servizio del prossimo, gli ultimi dei quali nella casa Circondariale di Sollicciano (FI). A tale proposito uno speciale riconoscimento sarà dedicato a un’opera che abbia come riferimento il contesto regionale toscano o un contesto locale ad esso appartenente. Chi può partecipare: Studenti che hanno prodotto tesi di laurea triennale, magistrale o di dottorato, a partire dall’anno accademico 2017-2018 che prendano in considerazione i problemi delle carceri italiane. Premio: Alla prima tesi della graduatoria verrà aggiudicato un premio in denaro di 1.000 €. Pacchetto antiviolenza M5S: pene aspre e “nessuna pietà” di Giulia Merlo Il Dubbio, 19 marzo 2019 Il Ministro Bonafede ha presentato gli emendamenti al ddl “Codice Rosso”. Pene più dure per le violenze sessuali, per i maltrattamenti in famiglia e lo stalking. Questa è la formula presentata dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che chiede al Parlamento di votare compatto per l’approvazione del “pacchetto antiviolenza M5S” di emendamenti al disegno di legge “Codice Rosso” (che prevede una corsia preferenziale per le indagini sulle violenze di genere), scritto a quattro mani con la ministra leghista Giulia Bongiorno. “Aggiungiamo una serie di poche norme chiare che danno un segnale forte, che passa attraverso l’aumento delle pene, varie misure per tutelare la donna nel momento in cui si trova in pericolo e nuove fattispecie di reato”, ha spiegato il Guardasigilli, che punta ad arrivare in Aula già la prossima settimana, dopo il via libera della commissione Giustizia nei prossimi giorni. “Tra i nostri obiettivi c’è quello di arrivare a una norma che possa evitare la discrezionalità, in certi casi, nell’applicazione e nel bilanciamento delle attenuanti e delle aggravanti”, ha anticipato tra le previsioni degli emendamenti, che sono stati presentati dalla deputata Stefania Ascari: l’introduzione della “fattispecie penale che punisce chi sfregia una donna con la reclusione fino a un massimo di 14 anni”; aumenti di pena in caso di stalking e maltrattamenti in famiglia “fino a sette anni, così da avere termini di fase per le misure cautelari raddoppiati” ; estese le misure di controllo e prevenzione anche per i maltrattamenti, come la sorveglianza speciale o l’obbligo di dimora; carcere “fino a 12 anni” per la violenza sessuale; carcere “fino a 24 anni” per la violenza sessuale su minore, sempre procedibile d’ufficio; violenza sessuale di gruppo “punita fino a 14 anni”. Ascari conclude così: “Il messaggio è chiaro: nessuna pietà e nessuna giustificazione”. Il “pacchetto” del Movimento 5 Stelle punta, dunque, a “dare un segnale forte e netto: lo Stato vuole difendere le donne e i soggetti deboli in modo attivo”, ha aggiunto Bonafede, il quale ha chiarito che “la tutela non passa solo dal sistema penale ma anche dalla prevenzione”, “però la pena non deve lasciare nessuno scampo, per non far pensare che ci sono margini di giustificazione”. Il ministro, infine, si è soffermato sulle recenti polemiche sulle motivazioni di alcune sentenze in tema: “Non commento le sentenze, ma da legislatore mi devo porre il problema che la diffusione di motivazioni, legittimamente depositate, possa comportare la diffusione di un messaggio culturale che non si può ignorare”, “dobbiamo far sì che si chiaro che l’idea del delitto d’onore appartiene al passato non ha niente a che fare con la società italiana, non ha niente a che fare con lo Stato di diritto”. Il progetto “Codice Rosso” della ministra Giulia Bongiorno è stato sostanzialmente condiviso dall’avvocatura: ascoltata in audizione nelle scorse settimane, la consigliera del Cnf, Maria Masi, aveva commentato che “La Convenzione di Istanbul sintetizza la strategia da adottare nelle tre “P” di “protezione, prevenzione e punizione”. Ecco, nessuna delle tre risposte basta, servono tutte e certo la tempestività dell’azione giudiziaria, fissata nel ddl del governo, è importante. Come lo è la previsione di informare la vittima sulle misure cautelari imposte alla persona denunciata, in modo che sappia se quest’ultima potrebbe avvicinarsi di nuovo”. Notevoli criticità in più, invece, potrebbe sollevarla il “pacchetto M5S”. In particolare, l’Unione camere penali italiane ascoltata in audizione qualche settimana fa - aveva già manifestato perplessità in merito alla tecnica legislativa dell’aumento delle pene. La preoccupazione dei penalisti, aveva spiegato al Dubbio la componente della giunta Ucpi, Paola Savio, “nasce da un dato: le norme attuali già prevedono quanto necessario per inquadrare tutti i casi possibili in modo razionale e compatibile col fine rieducativo della pena. Con queste proposte si rischia invece di scompaginare la disciplina e travolgere diverse garanzie”. Le Camere penali, ascoltate in commissione, hanno anche disposto un documento di osservazioni puntuali su ogni articolo, contestando in particolare l’inasprimento delle pene. Spot sulla violenza di genere, il ministro si smentisce di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 marzo 2019 Nella relazione sul “codice rosso” Bonafede aveva spiegato che è più efficace agire sul versante della procedura che su quello della repressione. Ma adesso lancia dieci emendamenti grillini per alzare le pene. E si intesta la legge di Salvini che cancella l’abbreviato e allungherà i processi agli aggressori. Un altro “pacchetto”. Dieci emendamenti presentati dal governo e firmati 5 Stelle al disegno di legge sul cosiddetto “codice rosso”, quello che dovrebbe accelerare la tutela delle donne imponendo ai magistrati di sentire chi denuncia una violenza domestica e di genere entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Norma contestata perché prevista a costo zero, cioè senza quei rafforzamenti di organico nelle procure che potrebbero fare della novità uno strumento effettivamente praticabile e utile. I 5 Stelle adesso - cioè tre mesi dopo il deposito del disegno di legge e nel momento in cui sta per concludersi l’esame in commissione alla camera - ci aggiungono un generalizzato aumento di pene per tutti i reati con i quali si manifesta la violenza di genere. Il ministro si offre alla vetrina di Repubblica e si presenta in conferenza stampa per farsi paladino delle donne. Ma si dimentica di essere stato proprio lui, i suoi uffici quanto meno, a scrivere nella relazione della legge sul “codice rosso” che “per garantire una più efficace e tempestiva tutela della vittima” si giudicava preferibile agire “sul piano processuale e organizzativo” invece che intervenire “in una prospettiva repressiva sulla scia dei precedenti interventi legislativi”. Più che l’efficacia ai 5 Stelle interessa la propaganda. Anche l’appello a “tutte le forze politiche” perché si accodino ai grillini nel votare le loro proposte - “sarebbe bello se queste norme non avessero colore” ha detto il ministro - è poco credibile. Perché in commissione c’è stato il rifiuto da parte della maggioranza e della relatrice (la 5 Stelle Ascari) di partire da un testo condiviso che tenesse conto delle proposte - più complete - presentate dal Pd e da Forza Italia. Si è preso invece il testo del governo, quello che il ministro ha raccontato di aver scritto assieme alla collega Bongiorno della Lega. I magistrati ascoltai dalla commissione ne hanno evidenziati i limiti. Obbligare i pm a sentire entro tre giorni chi denuncia una violenza, senza possibilità di delega alla polizia giudiziaria - ha spiegato ad esempio la procuratrice aggiunta di Catania Marisa Scavo - avrebbe “inevitabili ricadute negative sul lavoro delle procure con serie difficoltà applicative … l’obbligo di sentire la persona offesa in tempi così ristretti non sempre è conforme all’interesse della stessa … è piuttosto necessario metterla in contatto con i centri antiviolenza e i servizi sociali, attivare la rete per metterla in protezione”. Il “pacchetto” grillino prevede cospicui aumenti di pene già alte: 7 anni per stalking invece di 5; 12 anni per la violenza sessuale invece di 10; 24 anni per la violenza sessuale sui bambini invece che 14 e l’introduzione di un nuovo reato con pena massima a 14 anni per chi sfigura la vittima. In aggiunta si prevedono maggiori misure di sorveglianza dei violenti e si estende il braccialetto elettronico, norme anche in questo caso a costo zero e dunque prevedibilmente destinate a restare sulla carta. Infine il ministro, prendendo spunto da recenti casi di cronaca, ha voluto ascrivere anche una delle leggi bandiera della Lega, quella che esclude il rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, nell’elenco delle misure contro la violenza di genere. Prima di lui lo aveva già detto Salvini, l’8 marzo. Ma è vero il contrario, come ha spiegato da tempo l’Associazione magistrati. I parlamentari lo sanno, perché hanno ascoltato l’ex procuratore di Milano Bruti Liberati che, tra le tante critiche alla legge, ha fatto presente in commissione al senato che “il maggior carico delle corti di assise (che senza l’abbreviato vedranno le udienze aumentare dell’80%, ndr) determinerebbe una conseguenza negativa a cascata sui tribunali e le corti di appello che non potranno comporre i collegi che giudicano i reati ordinari”. Il che significa tempi più lunghi per processare gli autori di violenze e rischio prescrizione. “La maggioranza va avanti con forzature e colpi di mano, prima imponendo uno scarno testo base e ora annunciando emendamenti della relatrice. Questo modo di procedere è inaccettabile perché impedisce ogni confronto e mette le opposizioni davanti al fatto compiuto”, ha detto il capogruppo del Pd in commissione giustizia Bazoli. “Il contrasto alla violenza di genere non può essere affrontato solo con l’inasprimento delle pene - hanno detto Laura Boldrini di Leu e Lucia Annibali del Pd - avevamo presentato emendamenti sul percorso psicologico di riabilitazione dei condannati, revenge porn, introduzione del reato di molestie sessuali, coinvolgimento dei centri antiviolenza ma su nessuno c’è mai stata un’apertura dalla maggioranza”. Ancona, Bologna Genova: tre sentenze che fanno discutere e il silenzio del Csm di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 19 marzo 2019 L’incalzare della cronaca ha già sospinto tra le cose passate le tre decisioni di Ancona, di Bologna e di Genova, che hanno riguardato procedimenti penali, conclusisi in modo ritenuto troppo mite per gli imputati, uomini, e che vedevano vittime tre donne. Un processo era per stupro e gli altri due per omicidio. Nel primo la motivazione ha escluso lo stupro anche facendo riferimento all’aspetto fisico della vittima, negli altri due è stata inflitta una pena di 16 anni di reclusione in considerazione della “tempesta emotiva”, che avrebbe segnato la condizione dell’imputato al momento dell’omicidio. Come purtroppo spesso accade in questo periodo, alla violenza verbale delle polemiche che si sono sviluppate ha fatto riscontro la estrema superficialità di molti interventi. Questi possono sostanzialmente essere ricondotti a due fondamentali e contrapposte linee di pensiero: la violenza sulle donne, retaggio di una cultura arcaica ed incivile, merita il massimo della punizione senza se e senza ma; anche nel caso di violenza sulle donne i fatti devono essere accertati con rigore e la pena va graduata in relazione alla gravità di quello specifico fatto. Vi sono, peraltro, due temi che hanno fatto da cornice al dibattito, pur rimanendo sullo sfondo, e che meritano di essere considerati con maggiore attenzione. Il primo riguarda il ruolo del Giudice nella società ed è stato sollevato da una magistrata, Paola Di Nicola. La quale, anche intervistata, ha sottolineato che ciò che il Giudice scrive in una sentenza acquista un valore assoluto, finendo con l’imporre una visione culturale e delineando un potere simbolico, attraverso la consacrazione di un assetto culturale, che rafforza gli stereotipi, rendendoli la regola pronunciata in nome dello stato. Perciò le decisioni che ridimensionano la gravità della violenza sulle donne finiscono con il rafforzare quella cultura e quegli stereotipi, da cui nasce quella violenza. In questa prospettiva, dunque, il Giudice svolge, attraverso le sue decisioni, un ruolo di promozione culturale. Ruolo che, quindi, diventa determinante nel valutare le questioni su cui deve esercitare il proprio magistero. Si tratta, certamente, di un intervento che si segnala per la raffinatezza intellettuale che lo contraddistingue, ma che pone due problemi. Se il ruolo del giudice che viene ipotizzato sia compatibile con l’assetto costituzionale e con la figura di un giudice professionale. Quale sia la cultura, tra le tante, che il giudice avrebbe il potere ed il dovere di portare avanti e se la scelta, piuttosto, non spetti al legislatore. Alla difficoltà di dare a questi due interrogativi una risposta coerente con la tesi esposta, si deve aggiungere una considerazione. La scelta culturale affidata al giudice può mai risolversi in una dissolvenza delle specificità del caso concreto portato alla sua attenzione, nel momento in cui egli fosse chiamato ad enunciare una regola di carattere generale, dal valore simbolico e sempre ciecamente esemplare? E se vittima della violenza nella coppia fosse un uomo con un passato di prevaricazione? Si tratta di dubbi che non possono non riguardare anche una tale posizione rispetto ai processi che hanno ad oggetto la violenza sulle donne. Il secondo argomento che va considerato è il rapporto tra politically correct ed autonomia ed indipendenza della magistratura. Le tre decisioni menzionate hanno scatenato una esecrazione collettiva dei giudici che le hanno emesse, ben più pesante da sostenere delle accuse che talune parti politiche hanno talvolta mosso alle iniziative della magistratura. La diffusa esecrazione è stata tale da togliere ogni sorpresa al fatto che: il ministro di grazia e giustizia abbia disposto l’invio degli ispettori presso uno degli uffici giudiziari interessati (per fare cosa? acquisire la motivazione?); il procuratore generale presso la Corte di Cassazione abbia espresso valutazioni di carattere disciplinare in ordine alla motivazione delle decisioni; il presidente del consiglio abbia censurato le decisioni in modo duro e semplicistico. Di regola, quando le critiche alla decisione di un giudice sconfinano nella aggressione sul piano morale, la magistratura associata ed il Csm reagiscono in modo compatto a tutela della autonomia ed indipendenza della magistratura. In questo caso solo sporadici interventi. Il politically correct è il limite alla autonomia ed indipendenza dei giudici italiani? “In Italia i diritti dei cittadini dipendono dalle sentenze dei giudici” di Annalisa Chirico Il Foglio, 19 marzo 2019 “Stiamo passando a un sistema di common law”, dice Luciano Violante: “la legge del Parlamento conta sempre meno” L’Italia non è più un sistema di civil law. Detto così, suona perentorio, eppure quando il professore Luciano Violante pronuncia l’impronunciabile, nella sala della Camera di commercio fiorentina i presenti sollevano lo sguardo: ha detto proprio così? Pensavamo che il modello italiano si fondasse sulla codificazione del diritto scritto e sul ruolo preminente della legge nel guidare le decisioni della magistratura, chiamata ad applicare la normativa vigente al caso concreto. Violante invece rompe il tabù. Sotto gli occhi della presidente del tribunale di Firenze Marilena Rizzo e del numero uno della Camera di commercio Leonardo Bassilichi, il presidente emerito della Camera dei deputati spiega che “l’ordinamento italiano sta scivolando gradualmente verso un modello di common law dove al diritto legislativo si sostituisce quello giurisprudenziale: i diritti dei cittadini non dipendono più dalla legge del Parlamento ma dalle sentenze dei giudici”. Com’è noto, il sistema anglosassone si basa segnatamente sulla vincolatività delle sentenze per i casi futuri: in nome del cosiddetto stare decisis, il giudice è vincolato dal precedente giudiziario in una materia analoga. “La crescente incertezza della legge, problema non solo italiano, deriva dalla sovrapposizione di molteplici fonti legislative che assegnano una responsabilità enorme in capo ai giudici”. In altre parole, la legge del Parlamento conta sempre meno. “Nella giungla di livelli normativi diversi (regionale, nazionale, comunitario, sovranazionale), la risoluzione dei conflitti tra cittadini o tra cittadini e stato è demandata ai magistrati per i quali il precedente non rappresenta un elemento ragionevolmente vincolante. Si assiste perciò a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”. Il rischio è che il valore vincolante del precedente ingabbi la giurisprudenza. “Non s’intende rendere la giurisprudenza immutabile ma porre un limite alla tendenziale anarchia attuale. Venuto meno il ruolo di agenzie educative e corpi intermedi, ogni forma di tensione sociale si traduce in un intervento giudiziario. Mentre si fa strada in tutta Europa la tendenza a ricorrere alla giurisdizione come strumento ordinario di risoluzione dei conflitti, dovremmo ricordare che essa è una risorsa limitata da utilizzare come ultima ratio. Ogni processo costa allo stato, ai cittadini e alle imprese coinvolte. Il ricorso irragionevole alla giurisdizione va disincentivato”. A Firenze, grazie al Patto per la giustizia siglato tra tribunale, Città metropolitana, Camera di commercio e Fondazione Cassa di risparmio, la percentuale di controversie risolte con la mediazione è salita al 53 percento, contro una media nazionale del 12. “Anziché cedere al vizio nazionale dell’autodenigrazione, dovremmo valorizzare e far conoscere le buone prassi. A parità di risorse e norme, esistono divari di produttività tra gli uffici giudiziari, a conferma che l’organizzazione del lavoro dei magistrati richiede una buona dose di capacità imprenditoriale”. A proposito del ruolo crescente dei giudici, all’estero hanno coniato la formula juristocracy. “L’espressione si riferisce alla giurisdizionalizzazione della società, fenomeno di portata globale che va osservato con particolare attenzione in un paese dove il 40 per cento dei procedimenti penali si conclude con proscioglimenti e assoluzioni. Dietro i numeri ci sono vicende umane, persone costrette a pagarsi l’avvocato, magari additate dai conoscenti o sui giornali. Il diritto penale dovrebbe essere limitato alla lesione dei grandi beni costituzionali, negli altri casi la sanzione amministrativa è sufficiente. Dobbiamo combattere l’idea che più pena voglia dire più ordine: in nome di questa illusione repressiva il Codice, modificato a più riprese, e sempre in modo episodico, senza una logica strategica, si è trasformato nella Magna Charta della politica. Il Codice deve fissare il discrimine tra lecito e illecito, non tra giusto e sbagliato. La morale sta da un’altra parte”. L’incertezza della legge e della sua interpretazione dà luogo alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, vale a dire alla ritrosia del pubblico ufficiale ad apporre una firma per non incappare in possibili sanzioni. “L’incertezza della norma determina l’incertezza della responsabilità che paralizza macchina amministrativa e iniziativa imprenditoriale. Con l’associazione ‘Italia decidè abbiamo rivolto un appello al presidente del Consiglio Giuseppe Conte indicando alcune linee di riforma. È necessario tipicizzare i casi di responsabilità contabile e le fattispecie penali di abuso d’ufficio e turbativa d’asta; andrebbe inoltre stabilito che non possa integrare colpa grave la condotta del pubblico ufficiale conforme a sentenza della magistratura ordinaria o amministrativa che non sia stata ancora corretta nel grado successivo del procedimento”. Lei sa bene che questa materia non è all’ordine del giorno. “Io non sono più in Parlamento”, chiosa Violante. Don Peppe Diana veniva ammazzato 25 anni fa di Roberto Saviano L’Espresso, 19 marzo 2019 Il prete che combatteva il totalitarismo della camorra fu ucciso dai clan e calunniato sui giornali locali. Oggi che avrebbe detto la Rete?. Sono del 1979. Nella terra in cui sono nato e cresciuto, dalla mia nascita, sono morte centinaia di persone in faide di camorra. I clan vivono in guerra, gli affiliati non conoscono altro modo di stare al mondo perché ritengono che se mostri di avere fiducia verrai tradito, che se perdoni verrai punito, che se non uccidi verrai ucciso. Da bambino avevo sviluppato una sorta di fascinazione quasi morbosa per i cadaveri che venivano mostrati nei tg regionali o che vedevo, coperti da lenzuola, in prima pagina sui quotidiani locali. C’erano bossoli contrassegnati da numeri, chiazze di sangue coperte da segatura e persone disperate: perché nella morte poco importa da che parte stai. La morte è morte. La morte è la fine della presenza, della speranza di cambiamento. È la fine di ogni cosa. Ecco perché dare la morte, per le organizzazioni criminali, significa celebrare un rito, un rito che non deve ristabilire ordine o pacificare, ma restare come monito. Ed ecco perché la simbologia, nella morte, diventa fondamentale: i simboli sono come slogan, frasi semplici, immediate, parlano a tutti e per molto, moltissimo tempo. Il mio rapporto con la morte cambia repentinamente dopo l’omicidio di don Peppe Diana. Era il parroco di Casal di Principe, feudo del clan dei casalesi. La sua morte ha cambiato molte vite e anche, profondamente, la mia. Era un prete, quindi era il padre della sua comunità e si chiamava Giuseppe, ecco perché il clan dei casalesi decide di ucciderlo il 19 marzo, nel giorno del suo onomastico e della festa del papà, tingendo di nero un giorno che ogni anno riapre in molte persone una ferita dolorosa che non riesce mai a rimarginarsi. E difatti sono passati 25 anni dalla morte di don Peppe e io sono qui, come ogni anno, a parlarne; come se il suo omicidio appartenesse a un momento ancora vicinissimo a noi nel tempo. E questo accade perché chiunque abbia incrociato la storia di don Peppe, il 19 marzo, qualunque 19 marzo, non potrà ignorare ciò che gli hanno fatto e ciò che hanno fatto alla nostra terra. Don Diana aveva scritto un trattato dal titolo “Per Amore del mio Popolo non tacerò” e l’aveva distribuito in tutte le chiese della diocesi e dei paesi circostanti. Aveva scritto che non viviamo in una vera democrazia, ma sotto il totalitarismo della camorra: in un mondo in cui i figli, presto o tardi, diventano vittime o mandanti della criminalità organizzata; un mondo in cui i camorristi dettano le loro regole con le armi. Aveva 35 anni quando gli hanno sparato in faccia e a me la notizia della sua morte è arrivata già inquinata. “Don Peppe Diana è stato assassinato, chissà perché?”. Già soltanto questo commento, “Chissà perché?”, apriva un mondo. Un mondo che sapeva di sospetto. Per diversi anni si mormorò che avesse avuto atteggiamenti disinvolti con le ragazze che frequentavano gli scout. Sulle testate locali si diede spazio alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e quindi, in prima pagina, fu possibile leggere titoli come questi: “Don Peppe Diana era un camorrista”, “Don Diana a letto con due donne”. Inoltre c’era una foto dove lo si vedeva con il braccio intorno alle spalle di due ragazze scout. La memoria di chi viene ammazzato viene immediatamente lordata dal sospetto. Per un omicidio come quello di don Peppe Diana ci si sarebbe aspettati una presa di coscienza nazionale che non ci fu, perché i dubbi sulle circostanze della sua morte furono più efficaci della tragedia. Questa sembra una storia lontana anche se ancora a distanza di 25 anni ci fa stare male, ma io mi interrogo ogni volta su come reagirebbe oggi l’opinione pubblica di fronte a un evento come la morte di un prete anticamorra. Di fronte alla morte di don Peppe Diana. Come reagirebbe al senso di colpa per aver lasciato solo un padre amorevole che aveva a cuore il destino delle persone tra cui era nato, cresciuto e con cui ogni giorno aveva a che fare? Come reagirebbe oggi il web alle dichiarazioni dei pentiti che la stampa locale ha usato per i titoli di prima pagina? Cosa ne sarebbe, su Facebook, dei “Don Peppe Diana era un camorrista”, dei “Don Diana a letto con due donne” e delle foto di don Peppe abbracciato alle persone a cui voleva bene? Immaginare questa reazione mi fa paura, più paura della morte stessa. Le sorelle di Pietro Maso “perdonano” il complice del fratello: “Ora si rifaccia una vita” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 19 marzo 2019 Carbognin potrà ripulire la sua fedina penale. L’avvocato di Nadia e Laura: “Concesso anche il cambio di cognome. Le mie clienti non hanno mai chiesto risarcimenti”. Il nulla osta firmato all’Ufficio di Stato civile. Squillò il telefono, dall’altra parte una voce sconosciuta: “Sono Giorgio Carbognin”. Brivido. Nadia non pensava che potesse succedere. Ma era proprio lui, quello del massacro. Carbognin cercava le parole giuste per introdurre un discorso molto difficile. Voleva cancellare dalla sua fedina penale la terribile macchia nera: il delitto di Rosa e Antonio, genitori di Pietro Maso, del quale lui è stato complice e del quale Nadia e Laura sono le sorelle maggiori. Chiedeva clemenza e una firma in calce a un documento nel quale lei e Laura avrebbero dichiarato, come parti offese, di non aver più nulla da pretendere. La legge lo consente: si tratta di un atto notorio necessario per ottenere la cosiddetta “riabilitazione penale”. A Carbognin sarebbe servito per non avere problemi di lavoro, soprattutto all’estero dove intendeva andare. L’incontro - Nadia e Laura, che non lo vedevano dal 1992, cioè dai tempi del processo concluso per lui con una condanna a 26 anni, non hanno avuto dubbi e hanno dato il loro nulla osta. Si sono così ritrovati tutti e tre davanti a un ufficiale dello Stato civile del Comune di San Bonifacio, dove vivono, e hanno sottoscritto l’atto. “Le sorelle hanno consentito a Carbognin anche il cambio di cognome”, precisa l’avvocato Agostino Rigoli che le assiste da sempre. La notizia trapela solo oggi ma le firme sono state messe qualche tempo fa. “Le mie clienti non hanno mai detto nulla perché sperano che sulla vicenda cali il silenzio, per il rispetto di tutti”. Il massacro - Tutti segnati dalla notte di sangue del 17 aprile 1991, quando Pietro Maso con l’aiuto del fido Giorgio e di altri due amici uccisero sua madre e suo padre, 48 e 56 anni, nella loro casa di Montecchia di Crosara. Movente: l’eredità. Carbognin si accanì sulla donna a colpi di padella, per poi chiuderle la bocca con un sacchetto di plastica: “Non potevo più sopportare le sue urla, mi davano un fastidio terribile”. Parole scolpite nella memoria del processo, come quelle su Pietro, il suo mito: “Da quando l’ho incontrato la mia vita è cambiata totalmente, è diventata entusiasmante”. Aveva 19 anni e passò per essere un debole, attratto dalla spavalderia smargiassa del capobanda, che imitava un po’ in tutto. Dandy Pietro e dandy lui, il ciuffo, il gel, il foulard. Freddo Pietro e freddo lui, entrambi imperturbabili dietro le sbarre del gabbio. La nuova vita di Carbognin - Ma da allora, di Carbognin, più nulla. Mai interviste, una parola, una foto. Si è saputo solo di un diploma di ragioniere ottenuto nel carcere di Bergamo, dal quale è uscito dopo 7 anni per buona condotta. Oggi ne ha 46 e si scopre che ha famiglia, due figli e che il suo obiettivo era l’estero: Londra. “Si faccia la sua vita, quel che potevamo fare noi l’abbiamo fatto. Non vorrei dire altro e mi spiace molto per lui che si pubblichi questa vicenda. Non avrei mai voluto”, sospira Nadia. Lei e Laura, entrambe sposate con figli, famiglie unite e affiatate. Al centro della loro vita hanno messo la fede. “Ci ha aiutato a perdonare tutto e con grande naturalezza”. Condividono un curatissimo negozietto di erboristeria nel Veronese. Quei danni mai chiesti - “Vorrei ricordare che potevano chiedere il risarcimento del danno subito ma non l’hanno mai fatto, pensando anche alle conseguenze che poteva avere un’azione del genere per i due ragazzi minorenni del gruppo, cioè la rovina economica delle loro famiglie”. Non volevano speculare sulla tragedia. “Perché sono persone molto perbene, direi esemplari”, precisa Rigoli. Pietro e le sorelle, “il male”, come ha scritto lui stesso nella sua autobiografia, e il bene. Sempre insieme, Nadia e Laura hanno cercato di stare vicino al fratello nel corso dei 22 anni di detenzione. Missione riuscita solo in parte. Uscito di galera, Pietro è ricascato nella droga e nel 2006 è finito pure indagato per una vicenda nata da un esposto di Nadia e Laura, che tentavano di impedirgli una nuova caduta. L’indagine è stata archiviata ma rimane il disagio di Pietro e la loro preoccupazione. “Di lui non sappiamo più nulla, dove sia, cosa faccia. Speriamo ritrovi la serenità”. Sperano che ora sia Pietro, il mito, a imitare Carbognin il debole. Guida in strato di ebbrezza: se c’è tenuità del fatto niente confisca veicolo di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 19 febbraio 2019 n. 7526. I giudici della quarta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 7526 del 19 febbraio 2019, ponendo in evidenza il tema della confiscabilità del veicolo nel caso in cui l’imputato venga ritenuto non punibile per la particolare tenuità del fatto, hanno affermato che secondo il principio di legalità il sequestro del mezzo non è ammesso. La vicenda - Un conducente veniva condannato dal Tribunale alla pena ritenuta equa per il reato di guida in stato di ebbrezza alcolica con tasso alcolemico 1,5 g/l. La sentenza, su appello dell’imputato veniva riformata dalla Corte territoriale di Brescia, che riteneva l’imputato non punibile per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale disponendo la restituzione del mezzo utilizzato per commettere il reato. Contro la decisione proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia deducendo l’inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 186 del codice della strada, in quanto il Giudice avrebbe dovuto disporre la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo utilizzato dall’imputato al momento del fatto, in quanto di sua proprietà. La decisione - Gli Ermellini giudicano il ricorso infondato e lo rigettano in quanto ritengono che in presenza di sentenza di condanna o di applicazione della pena per il reato di guida in stato di ebbrezza, il giudice ha l’obbligo di disporre la confisca del veicolo condotto dal trasgressore quale “sanzione amministrativa accessoria”. Per l’effetto il giudice deve disporre la confisca e la sentenza, a cura del cancelliere, viene trasmessa in copia al prefetto competente, salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato, senza che rilevi che il veicolo oggetto dalla confisca non sia stato sottoposto a sequestro preventivo. La disposizione però non contempla la confisca nei casi in cui l’imputato riporti una pronuncia diversa da quelle appena menzionate, come ad esempio la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Pertanto, se sussiste la tenuità del fatto l’osservanza del principio di legalità impone di ritenere che la confisca non è ammessa, ma il giudice deve disporre la sospensione della patente di guida come sanzione accessoria se è accertata la guida in stato di ebbrezza. L’avviso al guidatore va dato anche se il prelievo ha fini medici di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 11722/2019. Non basta che il prelievo di sangue venga effettuato per finalità di cura per esonerare gli organi di polizia dall’obbligo di informare un guidatore ferito in un incidente che ha facoltà di farsi assistere da un avvocato di fiducia: ora la Cassazione (sentenza 11722/2019, depositata ieri dalla Quarta sezione penale) ritiene che l’avviso è comunque necessario quando il prelievo viene eseguito all’interno di un protocollo terapeutico che di per sè non rende necessario che venga rilevata la concentrazione di alcol presente nel sangue. Dunque ora la Cassazione precisa in modo restrittivo l’ormai consolidato principio secondo cui l’analisi del sangue prelevato su un ferito dopo un incidente nell’ambito degli “ordinari protocolli sanitari” può essere utilizzata per determinare anche il suo tasso alcolemico, senza che sia necessario l’avviso all’interessato. L’avviso occorre quando il prelievo è “autonomamente richiesto” dall’organo di polizia ed è proprio sulla natura di tale richiesta che si fonda la distinzione che ora la Corte introduce. Esaminando la giurisprudenza di legittimità recente (sentenze 49371 e 6514 del 2018, 51284/2017 e 3340, 53293 e 43894 del 2016), emerge l’individuazione del caso in cui il personale sanitario opera solo come “longa manus della polizia giudiziaria”. Ma questo non basta: bisogna anche andare a vedere se un prelievo eseguito dai sanitari di propria iniziativa sia motivato anche dalla necessità di conoscere il tasso alcolemico perché tale dato sia necessario a fini terapeutici. La conclusione è che “non c’è ragione di limitare l’obbligo di avviso al solo caso di richiesta di esecuzione del prelievo (da parte della polizia, ndr), perché la ratio...è comune all’ipotesi in cui” gli inquirenti chiedano per i loro fini (giudiziari) un’ulteriore analisi di sangue che era stato già prelevato a fini di cura. Quindi, “l’ipotesi in cui non c’è necessità di dare l’avviso è solo quella in cui gli stessi sanitari abbiano ritenuto di procedere per l’accertamento del tasso alcolemico e la p.g. rivolga una richiesta sostanzialmente inutile o si limiti ad acquisire la documentazione dell’analisi”. Astensione del giudice per gravi ragioni di convenienza: esclusa la ricusazione Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2019 Processo penale - Soggetti del processo - Giudice - Astensione - Cause - Gravi ragioni di convenienza - Nullità della sentenza - Irrilevanza - Rilevanza solo disciplinare. L’inosservanza da parte del giudice dell’obbligo di astensione riconducibile alle “gravi ragioni di convenienza”, di cui all’art. 36, comma primo, lett. h), cod. proc. pen., che non costituisce motivo di ricusazione ai sensi del successivo art. 37, non comporta una nullità generale e assoluta della sentenza, non incidendo sulla capacità del giudice e potendo unicamente rilevare sotto il profilo disciplinare. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 8 marzo 2019 n. 10426. Giudice - Astensione - In genere - Gravi ragioni di convenienza - Riconducibilità a esse dell’esigenza di evitare un’istruttoria dibattimentale destinata a diventare inutilizzabile - Sussistenza - Ragioni - Fattispecie. Tra le “gravi ragioni di convenienza” che, ai sensi dell’art. 36, comma primo, lett. h), cod. proc. pen.,consentono l’astensione del giudice, rientra anche l’esigenza di evitare un’istruttoria dibattimentale destinata a diventare inutilizzabile in vista del sicuro protrarsi della stessa oltre il termine di trattenimento in servizio di uno dei componenti del collegio, atteso che la previsione di astensione per le predette ragioni è posta a presidio, non soltanto dell’imparzialità del giudice, ma, più generale, del buon andamento del processo. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso l’abnormità di un decreto del Presidente del Tribunale che - a seguito del rinvio di una complessa istruttoria dibattimentale a nuova udienza, effettuato dal collegio per il prossimo pensionamento di un suo componente, e alla luce del dissenso anticipato dalla difesa alla rinnovazione mediante lettura degli atti - aveva accolto la dichiarazione di astensione del magistrato interessato, disponendone la sostituzione nel collegio). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 febbraio 2017 n. 6048. Giudice - Ricusazione - Casi - “Altre gravi ragioni di convenienza” che impongano l’astensione - Operatività - Esclusione. È inammissibile la ricusazione del giudice fondata sulle “altre gravi ragioni di convenienza” per le quali l’art. 36, comma primo, lett. h), cod. proc. pen., impone al giudice il dovere di astenersi, in quanto tale ultima disposizione non è richiamata nel successivo art. 37, che detta la disciplina dei casi di ricusazione, né può essere a essa estesa, data la natura di norme eccezionali che la regolano. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 19 marzo 2009 n. 12467. Giudice - Ricusazione - Casi - Gravi ragioni di convenienza - Mancata previsione quale causa di ricusazione - Questione di legittimità costituzionale - Manifesta infondatezza - Ragioni. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità di ricusare il giudice in presenza delle “gravi ragioni di convenienza” previste quale mera causa di astensione dall’art. 36, comma primo, lett. h), cod. proc. pen., in quanto la mancata inclusione di tale causa di astensione (che ha natura residuale) tra i casi di ricusazione è giustificata dalla sua indeterminatezza, sicché essa, in caso contrario, si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali del giudice naturale e della ragionevole durata del processo, consentendo il proliferare di dichiarazioni di ricusazione pretestuose e strumentali. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 12 luglio 2007 n. 27611. Campania: Ciambriello “le assurdità della legge spazza-corrotti” agvilvelino.it, 19 marzo 2019 Il Garante dei Detenuti: “rischia di provocare risultati aberranti”. “Senza giri di parole, la nuova norma spazza-corrotti rischia di provocare risultati aberranti che, per mera sciatteria legislativa, potranno impattare gravemente sulla vita delle persone, quelle cioè già condannate con sentenza definitiva e in attesa della decisione del giudice di sorveglianza circa la sospensione condizionale con messa alla prova”. È il commento di Samuele Ciambriello, Garante Campano dei detenuti, sulla Legge spazza-corrotti. “Io ho già visto sia a Poggioreale che nel carcere di Salerno decine di detenuti che sono “vittime” di questo Provvedimento - ha spiegato - e molte di queste persone hanno superato i settanta anni e si trovano in carcere per pene inferiori ai tre anni. Beffato anche chi patteggia. Il loro reato è ostativo, come quello di mafia, e non vedono, oltre che per la retroattività, concretizzarsi i benefici penitenziari previsti dalle normative. Più carcere, solo carcere, in una sorta di rancore sociale, per il reato e non per la quantità della pena. Ma loro dicono che la legge fa arrestare i “colletti bianchi”. In violazione del principio di eguaglianza sono equiparate in maniera automatica situazioni tra loro ben diverse. Una legge che fa discutere non solo la politica, ma anche nelle aule dei tribunali”. “La Spazza-corrotti - ha evidenziato Ciambriello - è la riforma voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, e approvata in via definitiva a dicembre. Un provvedimento che il M5S ha promosso col nome “spazza-corrotti” e che ha uno scopo preciso, oltre che ambizioso: contrastare in maniera efficace il fenomeno criminoso rappresentato dai delitti commessi ai danni della Pubblica amministrazione”. “La nuova norma - ha concluso - conferma l’inasprimento delle pene per corruzione e appropriazione indebita. Inasprire si può, chiaro, ma sempre nel rispetto dei principi costituzionali. In tutta Italia, ora, si rischia (ed è un rischio reale e urgente) che decine e decine di amministratori locali, funzionari pubblici e piccoli e medi imprenditori improvvisamente sono destinati al carcere. E le condizioni in cui versano le carceri, sappiamo, sono di drammatica entità. Ma questo è un altro capitolo ancora. Si parla di persone già condannate con sentenza definitiva e in attesa della decisione del giudice di Sorveglianza (o ancora dell’ordine di carcerazione sospeso) che non potranno avvalersi del più classico dei benefici: la sospensione condizionale con la messa alla prova. E molte di queste persone hanno superato i settanta anni e si trovano in carcere per pene inferiori ai tre anni”. Pordenone: eseguita l’autopsia su Gianmario Bonivento, l’imprenditore morto in carcere di Daniele Micheluz Il Friuli, 19 marzo 2019 I magistrati vogliono capire se l’uomo avesse bisogno di essere ricoverato in ospedale. L’uomo era stato trovato senza vita nella sua cella la mattina del 15 marzo. Aperto un fascicolo per omicidio colposo. Una morte ancora avvolta nel mistero. È quella di Gianmario Bonivento, residente a Fiume Vento e detenuto da alcuni mesi nel carcere di Pordenone. L’uomo è stato trovato senza cita nella sua cella, la mattina del 15 marzo, dagli infermieri. Aveva problemi di salute, in modo particolare soffriva di cuore ed era diabetico e invalido al 100 per cento. Il 63enne era finito nei guai con la giustizia per bancarotta e stava scontando tre anni e otto mesi ai domiciliari, che gli erano stati revocati a gennaio, dopo che aveva minacciato di morte via mail un’assistente sociale, colpevole, a suo dire, di avergli fatto perdere alcune agevolazioni economiche. Del decesso in cella si sta occupando la Procura di Pordenone, guidata da Raffaele Tito. È stato aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo, che ha portato a un avviso di garanzia nei confronti del medico del carcere, Giovanni Capovilla, atto che gli ha acconsentito di partecipare all’autopsia. L’esame è stato eseguito oggi dal medico Sandro Carlo Sulfaro, direttore del Laboratorio di analisi dell’Anatomia patologica dell’Azienda sanitaria 5, il quale si è preso 90 giorni di tempo per elaborare gli esiti, vista la complessa situazione clinica della vittima. A chiedere giustizia, in modo particolare è la figlia 19enne di Bonivento, Giulia, secondo la quale le condizioni del padre non gli consentivano di restare in carcere: a casa si muoveva in carrozzina e in carcere doveva usare le stampelle. A confermare il quadro è anche l’avvocato Roberto Russi, che assisteva l’uomo e ora seguirà anche la figlia. “All’udienza di sorveglianza, a inizio febbraio, Bonivento si era scusato per la mail e avevamo chiesto la revoca del carcere”, spiega il legale. “Ma il Tribunale si è espresso in altro modo. Adesso vogliamo capire se c’era un incompatibilità tra la sua salute e la detenzione. Ora attendiamo l’esito dei rilievi dell’autopsia. C’è anche da considerare che, qualche settimana fa, il mio cliente era stato colpito da collasso e ricoverato in ospedale a Pordenone. Acquisiremo tutte le carte per avere un quadro più chiaro”, conclude l’avvocato Russi. Foggia: il carcere scoppia, in 12 mesi da 468 a 620 detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 19 marzo 2019 Sono più vicini i “tempi bui” (sino al 2012-2013) quando le presenze medie nel carcere di Foggia erano 750 con punte di 780 reclusi, che ne facevano quindi il secondo penitenziario per sovraffollamento degli 11 istituti pugliesi; che i “tempi felici” (un eufemismo visto che si parla di gente privata della libertà personale) risalenti al marzo 2018 quando nella casa circondariale del capoluogo c’erano “soltanto” 468 presenze, poco più di 100 oltre il consentito. I numeri degli ultimi mesi dicono infatti che la popolazione carceraria nel penitenziario più grande della Capitanata oscilla sopra le 600 presenze. L’ultimo dato ufficiale ricavabile dalle statistiche del “Dap”, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è del 2 febbraio scorso quando nella struttura alla periferia di Foggia al rione delle Casermette c’erano 603 detenuti (il sindacato Sappe parla di 620 presenze come riferiamo a fianco ndr), contro le 365 capienze ottimali, che poi sarebbero 340 secondo altri conteggi. Di questi 602 reclusi, 21 erano donne - e Foggia ha l’unica sezione detentiva femminile della provincia - e 87 gli stranieri. L’allarme sul sovraffollamento della casa circondariale lo aveva rilanciato nel dicembre scorso il “Cosp”, coordinamento sindacale penitenziario, parlando “di numero record di 630 detenuti a fronte di 340 posti”; e lo ribadisce ora il “Sappe”, sindacato automo polizia penitenziaria. Pur se mancano le ultime statistiche ufficiali, mediamente quasi 2/3 dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio. Numerosa è la presenza dei detenuti “As”, cioè ad alta sicurezza, sigla destinata per lo più a imputati/indagati per mafia e omicidio. A Foggia invece non c’è una sezione del carcere duro prevista dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, anche se negli anni Ottanta la struttura aveva una sorta di suo equivalente, il cosiddetto “braccetto della morte” destinato a ergastolani e detenuti più pericolosi d’Italia: vi transitò tra gli altri anche Renè Vallanzasca che in uno dei vari libri scritti sulla sua storia, ne diede un giudizio tutto sommato positivo se paragonato a quello di analoghe strutture di altri carceri. La Casa circondariale al rione Casermette fu inaugurata nel ‘78, sostituendo l’ex carcere di piazza Sant’Eligio. Secondo la “scheda di trasparenza” degli istituti penitenziari redatta dal Dap, a Foggia - situazione aggiornata al gennaio di un anno fa - dovrebbero essere in servizio 322 poliziotti penitenziari compresi gli addetti al nucleo scorte e traduzioni, ma gli effettivi sono 269; a fronte di 9 educatori, erano 5 in servizio alla data del gennaio 2018; e i vuoti d’organico sono ancora più consistenti tra il personale amministrativo, con 18 impiegati contro i 45 previsti sulla carta. Il carcere di Foggia, che in base all’ultime classifiche è al terzo posto in Capitanata per popolazione carceraria dopo Lecce con oltre mille detenuti e Taranto con 640, è munito di circa 220 celle. L’ultimo e vero periodo “d’oro” risale al 2008 quando si fece sentire del tutto gli effetti dell’indulto varato dal Parlamento nel maggio 2006 e quando la popolazione carceraria scese a 370 presenze, in linea con la capienza ottimale. Negli anni la struttura tornò a riempirsi sin a doppiare il limite consentito con 750 presenze medie nel 2012/2013, tant’è che per fotografare la situazione drammatica nelle carcere pugliesi a causa del sovraffollamento, l’allora procuratore generale della corte d’appello di Bari fece riferimento proprio alla situazione di Foggia, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario. I benefici di una serie di provvedimenti collegati allo “svuota-carceri” (incentivati gli arresti domiciliari; sconti di pena per buona condotta passati per alcuni casi da 45 giorni a 75 giorni ogni semestre; possibilità di scontare l’ultimo periodo di condanna aumentata da 12 a 18 mesi) si fecero sentire poi negli anni successivi anche nel penitenziario del capoluogo dauno: le presenza erano andate calando oscillando intorno tra le 490 e le 567 presenze nel triennio 2016/2017/2018, sino a registrare la cifra record in positivo di 468 detenuti rinchiusi a marzo di un anno fa. Un anno dopo la situazione è diversa, le presenze sono oltre quota 600. Firenze: “il carcere non può essere considerato un corpo estraneo alla città” comune.fi.it, 19 marzo 2019 “Si mantenga la promessa di una sede per le persone in semilibertà”. Questo l’intervento della consigliera del Gruppo “Firenze riparte a sinistra” Donella Verdi. “Sono molte le visite fatte presso il Carcere di Sollicciano, l’ultima lo scorso 8 marzo, con una delegazione del Partito Radicale che non manca mai alla sua costante attenzione sullo stato delle Carceri. Purtroppo di anno in anno non possiamo che constatare come la situazione delle persone che si trovano a scontare delle pene oltre a perdere la libertà perdono anche la dignità. La situazione di fatiscenza strutturale del carcere non segna miglioramenti adeguati alle esigenze. L’umidità che pervade le celle, poche sono le docce funzionanti e le muffe si impadroniscono delle pareti e degli intonaci. C’è mancanza di manutenzione ordinaria nelle celle e del funzionamento dei bagni. Sollicciano dovrebbe ospitare non più di 500 persone e invece ce ne sono oltre 750. Le celle sono piccole e adatte per ospitare una sola persona invece ce ne sono almeno 3 per stanza con letti a castello. Dei 13 passeggi nelle sezioni maschili solo 6 sono agibili, gli altri 7 sono chiusi. Dei 760 detenuti solo 160 svolgono qualche ora di lavoro e molti sono quelli che chiedono di poter svolgere qualche attività che oltre ad un impegno consentirebbe loro di guadagnare qualche soldo. Ma quest’anno c’è stata una ulteriore riduzione del 10% dei fondi e così la seconda cucina, i cui lavori sarebbero quasi terminati, non può essere messa in funzione perché non ci sono i soldi per pagare le 10 persone necessarie per farla funzionare. L’area trattamentale è sottodimensionata per la ingente popolazione carceraria e dei 7 educatori ne vede attivi soltanto 3. I corsi professionali sono solo per gli uomini e non ce ne sono al femminile. Abbiamo appreso che potrebbe realizzarsi il trasferimento del reparto femminile alla struttura del Gozzini che consentirebbe di avere un luogo di detenzione più adatto rispetto a quello attuale pensato e realizzato per ospitare uomini e questo sarebbe positivo. Ogni volta che abbiamo visitato il carcere abbiamo potuto constatare la presenza di bambini piccoli. Anche questa volta c’era un bambino e solo poche settimane fa ce ne erano 3. A Firenze, dal 2010 la Madonnina del Grappa ha messo a disposizione una struttura per la realizzazione dell’Icam per la custodia attenuata delle detenute madri. La struttura a disposizione c’è, i finanziamenti ci sono, il cronoprogramma era stato fatto, ma la struttura di Via Fanfani versa in stato di abbandono e fatiscenza perché i lavori che dovevano essere finiti, due anni fa, ancora devono partire e intanto i bambini, che non hanno colpe sono costretti a crescere fin dai primi anni di vita dietro le sbarre e già esclusi dalla società. I Detenuti sono costretti a restare nelle celle per la maggior parte del tempo con poche uscite nell’ora d’aria, senza niente da fare. Quando si passa davanti a quelle celle ognuno ha da chiedere qualcosa, soprattutto l’esigenza di avere maggiori possibilità di poter comunicare con la famiglia, soprattutto per gli stranieri di comunicare con i genitori che a volte non sanno nemmeno che i figli sono in carcere, maggiore attenzione alla salute e non aspettare lunghe liste di attesa per togliersi un dente o ricevere un antidolorifico. Abbiamo apprezzato la disponibilità e le buone intenzioni del Direttore Prestopino e del personale ma anche dei grossi limiti e le difficoltà in cui si trovano ad operare per più ragioni: sia per la struttura carceraria di Sollicciano che per la sua conformazione non facilita la sorveglianza, sia la carenza di personale. Un tempo, il carcere era alle Murate, nel cuore della città, ormai da molti anni è alla periferia, ma non per questo deve essere considerato un corpo estraneo. Il Carcere non può restare un luogo separato dal territorio e dalla società bisogna creare le condizioni oltreché di vivibilità, di rispetto dei diritti umani, della funzione rieducativa ed è necessario, e qui entra in campo l’istituzione cittadina, per stabilire una diversa relazione tra la città e il suo carcere, con progetti e iniziative che stabiliscano un legame tra il dentro e il fuori affinché siano create le condizioni per un reinserimento sia nel mondo lavorativo che nel tessuto sociale che permettano all’uscita dal carcere di affrontare una nuova vita e non sentirsi ancora respinti, anche mettendo a disposizione strutture per la semilibertà per facilitare il come aveva promesso il Sindaco durante il consiglio comunale a Sollicciano. I dati ci dicono che le recidive sono altissime proprio perché chi esce dal carcere non ha alternative a ricadere nelle cause che hanno portato alla perdita della libertà. Nel giugno scorso, una ragazza detenuta e che dopo tanti anni aveva ottenuto la possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa, dopo poco tempo ha rinunciato per la paura di non farcela da sola e ha preferito tornare in carcere e questa è una sconfitta”. Porto Azzurro (Li): la tecnologia entra nel carcere, i detenuti possono inviare email quinewselba.it, 19 marzo 2019 La Cooperativa Beniamino s.c.s. Onlus, che da anni collabora con la Casa di Reclusione “P. De Santis” di Porto Azzurro realizzando numerosi progetti tesi al recupero e alla risocializzazione delle persone private della libertà personale, ha proposto un nuovo progetto dal titolo “Messaggi dal forte”. Oggi, 19 marzo 2019, alle ore 10,00 presso la Casa di Reclusione “P. De Santis” di Porto Azzurro, il Direttore, dott. Francesco D’Anselmo, alla presenza dei detenuti e della stampa locale, presenterà il Progetto “Messaggi dal Forte”, un servizio di offerta di mail ai detenuti affinché possano velocemente scambiare comunicazioni con i familiari e/o avvocati, introducendoli alle nuove tecnologie della realtà attuale. Interverranno i responsabili dell’iniziativa, Guido Ricci e Rachele Neri, della Cooperativa Beniamino. Trento: carcere Spini, non ci sono più soldi, chiusa la mensa per gli agenti lavocedeltrentino.it, 19 marzo 2019 Nuova tegola sul carcere di Spini di Gardolo. Prima la rivolta della casa circondariale di Spini di Gardolo, che ha messo a dura la struttura del carcere provocando milioni di euro di danni che pagheranno i contribuenti italiani, adesso la mensa che di fatto è chiusa perché nessun fornitore viene pagato e quindi nessuno si fida nemmeno più a consegnare gli alimenti. Il pane fresco per esempio non si vede sui ripiani della mensa da un bel pezzo. Per questo alcuni agenti della Polizia Penitenziaria devono portarsi il pranzo da casa naturalmente a proprie spese. Sembra un film horror, ed invece è la situazione dentro il carcere di Trento che doveva essere un vero modello nel suo genere. Gli alimenti e le forniture che arrivano a singhiozzo ed in modo proporzionale ai pagamenti e i lavori da fare per ristrutturare una carcere devastato dopo l’ultima rivolta. Una sequela di appalti e sub appalti vari che negli anni ha portato al fallimento di aziende che dovevano fornire la mensa del carcere (ce ne fosse solo una trentina) e dove nonostante l’incalzare dei sindacati il ministero della giustizia è rimasto assente e in silenzio. Tutto parte dal Triveneto e dall’Emilia Romagna. Poi però investe anche il Trentino. L’appalto ristorazione delle case circondariali del Triveneto ed Emilia Romagna sta creando infatti numerosi disagi alle mense dei penitenziari anche in Trentino: alle lavoratrici della ristorazione mancano infatti le retribuzioni da dicembre 2018 a febbraio 2019. L’appalto è gestito dal consorzio Unilabor Società Consortile con sede a Roma, aggiudicato in data 01 aprile 2017 fino al 31 dicembre 2018, rilevato dalla precedente gestione della Jd Service Italia ora in fallimento. Il Consorzio ha subappaltato da tale data alla Sybaris Srl, che nel marzo del 2018 aveva problemi a retribuire le lavoratrici e con i fornitori. In data 1 aprile 2018 il Consorzio ha affidato la gestione alla Food & Facility srl con sede a Roma. Dall’agosto 2018 si sono verificati nuovamente problemi e le retribuzioni di agosto e settembre 2018 sono state pagate dopo che la Uiltucs del Trentino, dopo vani tentativi bonari rivolti alla Food & Facility nonché al consorzio Unilabor, responsabile in solido ex art 29 D.Lgs 276/2003, in data 11 ottobre 2018 ha azionato tramite richiesta intervento R.U.P. (responsabile dell’appalto del Provveditorato di Padova) ex art.30 Dlgs 50/2016 comma 6 la procedura per la verifica dell’insoluto nonché, in assenza di riparazione nei 15 giorni successivi, il pagamento da parte del Ministero. Immediatamente il Ministero ha dato avvio alla procedura richiedendo in ogni struttura operativa le copie delle buste paga non retribuite. Tale intervento ha fatto sì che in data 12 ottobre 2018 le lavoratrici hanno ricevuto dall’azienda un anticipo della retribuzione di agosto e in data 22 ottobre il saldo, mentre, la retribuzione di settembre, è arrivata in data 24 ottobre. Quando pareva rientrata l’emergenza, in dicembre 2018 non sono state erogate le 13sime e solo in data 28 gennaio è stato pagato il rateo di competenza di Food & Facility, mentre la quota di 13sima di competenza della Sybaris (gennaio 2018-marzo 2018) non è stata erogata. Ad oggi, inoltre, mancano interamente le retribuzioni dal dicembre 2018 a febbraio 2019. Si verificano, naturalmente, anche problematiche relative agli approvvigionamenti nelle strutture operative ove comincerebbero a giungere evasioni parziali di ordini e addirittura mancanza di pane fresco. In concreto se le aziende non pagano chi fornisce la mensa la merce comincia a scarseggiare e quindi la mensa rimane bloccata. Sembrerebbe che l’appalto, con originaria scadenza al 31 dicembre 2018, è stato prorogato al Consorzio perché al bando di aggiudicazione temporanea nessuna azienda non ha manifestato interesse dato lo scarso ritorno in termini economici. Le OO.SS nazionali, stante la situazione che coinvolge più regioni, sono intervenute presso il Consorzio, la Food & Facility e verso il Ministero della Giustizia inviando numerose missive di richieste di incontro, ad oggi purtroppo rimaste inascoltate. Per cercare di sbloccare la situazione a sostegno delle richieste sindacali in data 25 febbraio 2019 è stato proclamato, nonché effettuato, uno sciopero dell’intera giornata a cui naturalmente hanno aderito la totalità dei lavoratori coinvolti causando la chiusura delle mense interessate. In risposta alla sciopero il Provveditorato di Padova ha nuovamente attivato la procedura di pagamento diretto e ha richiesto a tutte le amministrazioni di raccogliere e inviare le buste paga delle lavoratrici. “Nonostante i continui solleciti non conosciamo, però, i tempi di pagamento dell’Amministrazione di Padova. Se giovedì non riceveremo risposte - dichiara il segretario della Uiltucs Dino d’Onofrio - chiederemo immediata udienza al direttore della struttura penitenziaria di Trento per supportare le nostre richieste. Non discutiamo ovviamente le scelte correlate al risparmio di spesa che porta questo appalto a non essere appetibile in termini economici, e quindi di interesse di aziende non solide, ma pretendiamo dal Ministero un intervento risoluto per garantire gli stipendi e la continuità del servizio e chiediamo con forza che sia fatta chiarezza attraverso l’incontro richiesto e non ancora effettuato con le OO.SS. nazionali”. Roma: al pub che promuove l’economia carceraria pizza gratis di Teresa Valiani Redattore Sociale, 19 marzo 2019 Sarà disponibile, dal mercoledì alla domenica, dalle 18.00 alle 19.00, al Pub&Shop “Vale la Pena” di Roma che offre lavoro e formazione ai detenuti. “Ci piacerebbe che questa piccola gentilezza fosse contagiosa”. Il post appare alle 9.15 di domenica mattina sulla pagina Facebook del Pub&Shop “Vale la Pena” e nel giro di poche ore ha già più di 800 condivisioni. Nella foto campeggia un cesto pieno di tranci di pizza incartati. Il tag è molto chiaro: #Romagentile. Il messaggio lo è ancora di più: “Hai bisogno? Prendi questa pizza bianca, per noi è una eccedenza”. Poi ci sono le indicazioni di giorni ed orari: dal mercoledì alla domenica, dalle 18.00 alle 19.00. Di ogni settimana. Perché la solidarietà al Pub&Shop che impiega e forma detenuti in articolo 21 producendo birra, non è uno spot ma qualcosa di endemico. E così, dopo la birra che recupera “cibo e persone”, riciclando il pane inutilizzato, ora arriva la pizza bianca a sostegno di chi, fuori, ha bisogno di aiuto. “Basta davvero poco - commenta Paolo Strano, responsabile del progetto sociale, lanciando anche un appello. Ci piacerebbe che questa piccola gentilezza fosse contagiosa: tutti hanno eccedenze che sprecano, non costa nulla fare queste piccole azioni che, se diventassero comuni, sarebbero davvero incisive, nel bene. La nostra è una iniziativa semplice, a costo zero, ma molto efficace soprattutto nel momento in cui dovesse essere condivisa da altri esercenti. Perché tutte le attività di ristorazione hanno a fine giornata delle eccedenze, cibo ottimo destinato a essere sprecato”. Riciclo, inclusione, solidarietà: temi che si fondono completamente con il progetto del Pub&Shop. “A noi - sottolinea Paolo Strano - il tema degli esclusi, degli ultimi, sta particolarmente a cuore per via della natura inclusiva del nostro progetto. Ma mi sento di lanciare un vero e proprio appello a tutti i ristoratori: fate un gesto gentile come il nostro. A voi non costa nulla e avrete non solo la soddisfazione di aver contribuito al benessere di persone in difficoltà, ma ne avrete anche un ritorno di immagine, come dimostra la popolarità del nostro post su Facebook, anche se volutamente non abbiamo inserito il nostro logo per non dare adito a strumentalizzazioni. Una buona azione, per voi e per gli altri, di questi tempi, è particolarmente significativa e aiuta a costruire una attività sana che restituisca almeno in parte quanto di buono si ottiene”. Il pub ha aperto i battenti a ottobre e attualmente il birrificio ‘Vale la Penà ha una capacità produttiva di 30 mila litri di birra l’anno. “Sono numeri ancora piccoli - spiega Paolo - e le difficoltà, soprattutto burocratiche, sono tante. Ma siamo comunque molto soddisfatti perché stiamo diventando un punto di riferimento per persone che non cercano solo una birra e un tagliere, ma qualcosa di più. I prodotti dell’Economia Carceraria piacciono perché sono buoni e perché fanno bene. Questo viaggio l’ho iniziato 6 anni fa - conclude Paolo parlando del progetto Vale la Pena. Non so dove mi porterà, ed in fondo non mi importa, perché sono concentrato soprattutto sui miei compagni di percorso, un percorso estremamente tortuoso. Questo è un paese faticoso per queste iniziative, ma quanto raccolto finora, anche se sicuramente sproporzionato rispetto agli sforzi profusi, mi conferma quel che ho intuito da subito: è la strada giusta”. Saluzzo (Cn): il docu-film che da dietro le sbarre indirizza la prospettiva della speranza targatocn.it, 19 marzo 2019 Mercoledì 20 al Cinema Italia “Spes contra spem - Liberi dentro”. Presentato alla Mostra Internazionale di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma. Ingresso libero fino ad esaurimento posti. Iniziativa dell’associazione Liberi dentro. È possibile pensare un reinserimento sociale anche per i detenuti dell’Alta Sicurezza? A Saluzzo il film presentato a Venezia e Roma. “Spes contra spem - Liberi dentro” è il titolo del docu-film diretto da Ambrogio Crespi che viene proiettato mercoledì 20 marzo, alle 21 alla Multisala Italia, in piazza Cavour. Ingresso libero fino ad esaurimento posti. Il titolo (letteralmente la speranza contro la speranza) è tratto da un passaggio della Lettera di San Paolo ai Romani su Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza” mentre il testo è frutto della riflessione comune fra detenuti e operatori della Casa di Reclusione di Milano Opera. Si compone di interviste con condannati all’ergastolo, il direttore del carcere, gli agenti di polizia penitenziaria ma anche con il capo del Dap. Fa emergere con chiarezza non solo un cambiamento interiore dei detenuti - nel loro modo di pensare, di sentire e di agire - ma persino la rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e testimonia una maggiore fiducia nelle istituzioni: anche il carcere può rendere possibile un cambiamento e una riconversione da persone detenute in persone autenticamente libere. Prodotto da “Nessuno tocchi Caino” e Indexway, è stato presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma. Alla proiezione interverranno il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della regione Piemonte, Bruno Mellano, la garante comunale di Saluzzo nel Morandi Bruna Chiotti e l’avvocata Barbara Lettieri Sartoris. La proiezione che è organizzata dall’Associazione Volontari Penitenziari “Liberi dentro” Onlus, in collaborazione con il Comune di Saluzzo e con il progetto “Terres Monviso”. Volterra (Pi): l’orto in carcere di ospita l’orticoltura pratica firenzesettegiorni.it, 19 marzo 2019 L’iniziativa realizzata dalla Regione Toscana attraverso l’Accademia dei Georgofili. Il 21 marzo a Volterra la presentazione del nuovo volume per Comuni e gestori. Una nuova innovativa declinazione per “Centomila orti in Toscana”, l’iniziativa regionale che attraverso gli “orti urbani” fa rivivere il verde nei nostri paesi e nelle nostre città, con un nuovo modo per sperimentare ed incontrarsi nel nome della natura e della condivisione. Nasce la “Guida per una orticoltura pratica”, realizzata dalla Regione Toscana grazie all’Accademia dei Georgofili, disponibile e accessibile a tutti gli interessati, vero e proprio strumento di lavoro sia per i Comuni intenzionate a realizzare nuovi “complessi di orti”, sia le Associazioni chiamate a gestirli sia per tutti gli orticoltori che si accingono a produrre sui terreni a loro assegnati. Scenario per la presentazione del volume, che si terrà il 21 marzo, è l’”Orto in carcere”, progetto innovativo realizzato dal Comune di Volterra insieme alla Casa di Reclusione di Volterra. Un progetto che interpreta il significato più vero dell’iniziativa “Centomila orti”, finanziata dalla Regione con oltre 3,3 milioni di euro, coordinato da Anci Toscana ed Ente Terre Regionali Toscane, che coinvolge 62 Comuni del nostro territorio. “Orto in carcere” offre ai detenuti la possibilità di cimentarsi in attività ricreative e agricole, rispettando il dettato costituzionale della funzione rieducativa della pena; amplia la conoscenza e il rapporto fra detenuti e cittadini di Volterra; coinvolge il volontariato locale; valorizza un’area di straordinario valore storico e bellezza come la fortezza Medicea, e in particolare, il Maschio, già oggetto di riqualificazione e di apertura alla città. L’evento si aprirà alle 11 con i saluti di Maria Grazia Giampiccolo, direttore della Casa di Reclusione; Marco Buselli, sindaco di Volterra; Marina Lauri di Anci Toscana; Massimo Vincenzini presidente dell’Accademia dei Georgofili. Dopo l’illustrazione dei “Centomila orti in Toscana” di Simone Sabatini di Ente Terre Regionali Toscane, Elia Renzi presenterà la guida; concluderà Marco Remaschi, assessore Regionale all’Agricoltura. Infine la visita agli orti. Asti: la musica d’orchestra entra nel carcere di Quarto atnews.it, 19 marzo 2019 Nuovo progetto dell’Associazione Asti Sistema Orchestra all’interno della Casa di Reclusione di Quarto. Questa volta protagonista sarà la musica d’orchestra con un corso di didattica musicale destinato ai detenuti. Sempre grazie ad ASO, negli anni scorsi, è stato avviato un corso di liuteria e fabbricazione di strumenti che vengono poi devoluti alle scuole ad indirizzo musicale o associazioni musicali. Questa volta però ad utilizzare violini, violoncelli e ukulele saranno i detenuti stessi. “L’iniziativa ha avuto il sostegno della Fondazione C.R. Asti e l’encomio del Ministero della Giustizia - spiega la presidente ASO, Antonella Pronesti - Si tratta di uno dei pochissimi progetti a livello nazionale che viene organizzato all’interno di un carcere di massima sicurezza. Un progetto simile è stato realizzato solo al Carcere di Opera di Milano”. Il corso è iniziato venerdì scorso e andrà avanti con cadenza settimanale fino a giugno coinvolgendo una decina di detenuti cui si rivolgeranno gli insegnanti: Antonella Pronesti, Jonathan Guzman Farias e Nancy Trabares. “Il progetto intende portare all’esterno la voce dei carcerati e bonificare il loro vissuto affinché possano reintegrarsi nella società” afferma Pronesti. Un modo per portare il bello e l’arte in carcere che sposa la mission del Sistema Orchestra in tutto il mondo: utilizzare la musica e l’educazione musicale come leva di reinserimento sociale ed integrazione. La Ong Mare Jonio soccorre 49 migranti. Salvini: “Porti chiusi”. E firma una nuova direttiva di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 19 marzo 2019 La Ong di Luca Casarini è già in mare e si dirige verso le coste italiane. Il Viminale: “Modalità improprie, il passaggio della nave nelle nostre acque territoriali è lesivo del buon ordine e la sicurezza dello Stato italiano”. Alla vigilia del voto in Parlamento sul caso Diciotti, si riapre lo scontro sui migranti. Perché la nave Mare Jonio della ong italiana Mediterranea Saving Humans, partita tre giorni fa da Palermo, soccorre 49 persone, tra cui 12 minori, al largo della Libia e chiede il permesso di approdare a Lampedusa. E il ministro dell’ Interno Matteo Salvini - che aveva annunciato una direttiva in materia di sbarchi - decide di accelerare i tempi e in serata vara le nuove regole. La sfida dunque ricomincia e l’ esito non è affatto scontato, anche tenendo conto che l’ imbarcazione batte bandiera italiana, quindi il governo di Roma non potrà chiedere alcun aiuto all’ Europa né intimare all’ organizzazione di sbarcare nel Paese di provenienza come aveva fatto quando la nave batteva bandiera olandese o spagnola. Il salvataggio - Alle 18 di ieri parte un tweet dalla Mediterranea : “La Mare Jonio ha incrociato un gommone in avaria che stava affondando con una cinquantina di persone. Li stiamo già soccorrendo. La cosiddetta Guardia Costiera libica, arrivata in un secondo momento, si sta dirigendo verso di noi”. Alle 18.40 il Viminale manda una nota per annunciare “una direttiva per evitare azioni premeditate per trasportare in Italia immigrati clandestini e favorire il traffico di esseri umani”. In quel momento la nave ha già chiesto il Pos (Place of safety) per l’ approdo. Passa ancora mezz’ora e Mediterranea comunica che Mare Jonio “si sta dirigendo verso Lampedusa, ovvero verso il porto sicuro più vicino rispetto alla zona in cui è stato effettuato il soccorso” e poi chiarisce come “la segnalazione del naufragio era arrivata dall’ aereo di ricognizione Moonbird della Ong Sea Watch che avvertiva di una imbarcazione alla deriva in acque internazionali. Mare Jonio si è diretta verso la posizione segnalata e, informata la centrale operativa della Guardia Costiera italiana, ha effettuato il soccorso ottemperando alle prescrizioni del diritto internazionale dei diritti umani e del mare, e del codice della navigazione italiano”. Tunisia e Malta - Al Viminale decidono di rispondere rendendo subito operative le nuove regole. Tanto che la direttiva viene firmata e protocollata a tarda sera, e diramata alle 22.00. La premessa riguarda le navi che “nonostante effettuino il soccorso in acque non di responsabilità italiane e l’ evento non sia coordinato dalle autorità italiane, abbia richiesto un Pos a quest’ ultime” e per questo si sottolinea come “le coste italiane non risultino essere gli unici, possibili luoghi di approdo in caso di eventi di soccorso, considerato che sia i porti libici, tunisini e maltesi possono offrire adeguata assistenza logistica e sanitaria, essendo peraltro più vicini in termini di miglia marine, laddove la sicurezza della navigazione imporrebbe - in linea di principio - la ricerca di un luogo di sbarco prossimo alle coordinate marine d’ intervento”. L’avvertimento è chiaro: “Le condotte di soccorso e navigazione come descritte costituiscono una manifestazione concreta di un modus operandi di una attività di soccorso svolta con modalità improprie, in violazione della normativa internazionale sul diritto del mare e, quindi, pregiudizievole per il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero”, dunque “il passaggio della nave soccorritrice nelle acque territoriali italiane è lesivo del buon ordine e la sicurezza dello Stato italiano, in quanto finalizzato a introdurre migranti irregolari, privi altresì di documenti di identità e provenienti in parte da Paesi stranieri a rischio terrorismo”. Quanto basta per comprendere come la disputa con Mare Jonio sia appena cominciata. Migranti. Il presidente del Tar di Brescia: i diritti fondamentali sono una penosa litania di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 marzo 2019 “Fuori da un coro sempre pronto ad affratellare le voci più disparate che vengono ad omogeneizzarsi nel mantra della penosa litania dei diritti fondamentali credo sia giunta la stagione in cui la fin troppo frequente evocazione di irrinunciabili e non negoziabili posizioni giuridiche alle quali l’ordinamento deve prestare tutela possa, finalmente, essere declinata anche in favore dei cittadini italiani, nati in Italia da cittadini a loro volta italiani”. Con queste parole il presidente del Tar di Brescia Roberto Politi ha inaugurato giovedì scorso l’anno giudiziario 2019. Poco prima aveva elogiato i recenti interventi di un “esecutivo finalmente non più pavido” e auspicato una completa riscrittura del Testo unico sull’immigrazione. La relazione ha ovviamente sollevato un polverone. “Appare offensivo definire ‘penosa litania di diritti fondamentali’ la richiesta del rispetto dei diritti inviolabili riconosciuti dalla nostra Costituzione ad ogni individuo indipendentemente dalla sua cittadinanza”, ha risposto il direttivo della Camera penale di Brescia. L’associazione di avvocati ha anche criticato la scelta dell’immagine di copertina del discorso: l’Arengario di piazza della Vittoria, una costruzione di architettura fascista utilizzata dal 1932 come palco per i discorsi dei gerarchi. Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di stato, ha fatto riferimento alle parole di Politi durante l’apertura dell’anno giudiziario del Tar a Bologna, pur senza citarlo direttamente. “L’affermazione convinta e costante dei diritti fondamentali non costituisce una “litania” come pure ho sentito dire”, ha detto l’alto magistrato. Dure critiche sono arrivate anche da Amministrare giustizia, corrente della magistratura amministrativa associata: “Il giudice amministrativo è il garante dello Stato democratico attraverso la sua opera di tutela dei diritti dei cittadini nei confronti dei poteri pubblici. In un momento storico in cui l’autorevolezza delle istituzioni democratiche è messa ogni giorno in discussione, evitare che l’immagine della magistratura sia offuscata dal pregiudizio è per ogni magistrato un dovere e un valore irrinunciabile”. I parlamentari Pd Alfredo Bazoli e Marina Berlinghieri hanno biasimato il fatto che simili affermazioni siano state espresse da una figura istituzionale. Il senatore della Lega Roberto Calderoli ha invece espresso solidarietà al magistrato. Politi non è nuovo a uscite pubbliche di questo tenore, anche nell’esercizio delle sue funzioni. Aprendo l’anno giudiziario 2018 aveva parlato di “approdi giurisprudenziali troppo spesso malamente improntati a “buoniste” e indulgenti soluzioni, troppo preoccupati di assecondare l’onda lunga del politicamente corretto”. Fino ad auspicare: “l’affermazione di una Legalità in grado di offrire prioritaria, quanto necessaria, tutela alla tradizione socio-culturale ed all’appartenenza identitaria del nostro Popolo”. La legge è uguale per tutti, insomma, ma qualcuno dovrebbe essere più uguale degli altri. Don Zuppi: “I migranti? Non è solo un problema di sicurezza” di Marco Ascione Corriere della Sera, 19 marzo 2019 Il vescovo di Bologna, che per tutti è don Matteo: “In città c’è molta accoglienza, ma anche tanta paura. Serve superare il clima di scontro”. I simboli contano. I portici, per esempio. “Che cosa incredibile sono i portici, io mica lo sapevo: sono pubblici. Tutti possono passarci, ma la proprietà è dei privati che li gestiscono a nome della comunità”. Così dice don Matteo (che oggi sarà all’evento in programma alle ore 18 all’Antoniano di Bologna, seconda tappa di Buone Notizie). Poi le Torri. Degli Asinelli, ma anche Altabella e Prendiparte, vicine di casa della Curia. Sempre lì, rassicuranti, sopra i tetti di Bologna. “Biffi le chiamava orgoglio dell’uomo, come a dire che erano fatte per contrapporsi in qualche modo al potere della Chiesa. Io dico anche ingegno dell’uomo”. E piazza Maggiore. “Lì ci siamo tutti: il Comune, San Petronio e, appena discostata, l’università, con l’Archiginnasio. Per collaborare come è sempre stato in questa città. Anche quando forse non sembrava”. La città dei tanti Peppone e don Camillo, variamente declinati e apparentemente opposti. E di cui sotto le Torri resta un’eco importante. Don Matteo Zuppi, che poi è anche il vescovo di Bologna (come è ormai noto se lo si chiamasse eccellenza reverendissima non si volterebbe neppure: meglio don Matteo) ha un’agenda fitta, tra Case dell’accoglienza e centri per gli anziani. “Umanesimo”, nel suo discorso, è la chiave di volta. “Umanesimo” versus “individualismo”. Gli piace la parola volontariato in purezza. Ancor prima dell’espressione Terzo settore, di cui tesse ampie lodi. Snocciola: “Vogliamo parlarne? L’Opera padre Marella, l’Antoniano, Villa Pallavicini, le Case della carità. Ma anche realtà laiche, come l’associazione Sokos. A Bologna il tessuto è ricco”. Prima dell’intervista c’è il tempo per una sosta al bar di via Altabella, sotto la Curia. Caffè, cornetto e la gag con un signore di mezza età e dall’accento bolognese, che lì fuori tende la mano per la carità. Un habitué in sosta fissa davanti al cancello dell’arcivescovado. “Don Matteo perché non mi dà tutti gli spiccioli? Lei è il miglior vescovo di Bologna”, declama. Lui sorride: “Visto? Basta poco. Una moneta in più”. In nome di Papa Francesco, Zuppi, romano con un trascorso importante nella Comunità di Sant’Egidio, occupa la cattedra che un tempo fu di Giacomo Lercaro e Giacomo Biffi. Due porporati di stampo conservatore (sebbene Lercaro sia stato poi rimosso per le critiche ai bombardamenti in Vietnam) e in quella stessa Diocesi che lanciò Dossetti. E per di più nella capitale dei cattolici adulti (copyright Romano Prodi), meglio noti anche come cattolici di centrosinistra. Categorie che Zuppi, che pure verrebbe da definire di scuola dossettiana, non vuole adottare per la Chiesa e per se stesso, “perché è come guardare la realtà che ci circonda con gli occhiali di un altro tempo”. A proposito di Biffi, per usare una sua famosa definizione, Bologna e l’Emilia sono ancora sazie e disperate? “Questa cosa me l’ha spiegata bene Pierluigi Bersani”. Che cosa le disse? “Che quel graffio di Biffi fu utile a capire che alcuni presìdi di sicurezza erano stati messi in discussione in Emilia. Non è un caso che qui si sia svolto il secondo processo più importante per mafia”. E oggi? “Mah… oggi siamo anche un po’ meno sazi… C’è un patrimonio di umanesimo profondo che fatica a trovare a Bologna una dimensione di comunità. C’è molta accoglienza ma anche molta paura”. Paura di cosa? “Sono le stesse paure del resto d’Italia. Quella degli immigrati è la più evidente. Paura e individualismo rischiano di corrodere una rete che è sicuramente grande. Mi ricordo, appena arrivato, quando andai all’Istituto Salvemini. Lì dove l’aereo aveva centrato la scuola uccidendo gli studenti oggi c’è la sede di un gruppo di associazioni che si occupano del bene del prossimo. Un fatto che racconta tanto. E così tipicamente bolognese”. A proposito di migranti lei è stato protagonista, suo malgrado, di una polemica con il sottosegretario leghista Lucia Borgonzoni, bolognese, che in un dibattito pubblico si è alzata e se n’è andata quando lei doveva parlare. Tema: l’immigrazione. “Quella polemica è nata sul nulla. La Borgonzoni doveva prendere un treno”. Diciamo allora che sui migranti le sue posizioni non sono propriamente quelle di Salvini. Lei ha più volte detto che è inutile la distinzione tra profughi che scappano dalle guerre e migranti economici. “Io dico che è un errore affrontare quello dei migranti solo come un problema di sicurezza. Se vuoi crescere devi abbattere i muri. Così come fece Bologna nella sua fase di espansione ai primi del Novecento. Bisogna avere il coraggio di dire: prima il futuro. Un futuro in cui c’è spazio per tutti”. E che cosa pensa dell’opera delle navi ong nel Mediterraneo? “Io penso che se uno affoga va salvato. I fenomeni bisogna gestirli. La guerra tra poveri c’è perché non si combatte la povertà”. Che peso attribuisce alle minacce che ha ricevuto per l’apertura all’ipotesi di una moschea a Bologna? “Su certi temi c’è un clima di scontro e poco desiderio di capire. È come se entrare nella complessità dei problemi significasse non volerli affrontare energicamente”. Lei ha reinvestito parte degli utili della Faac, l’azienda di cancelli automatici di proprietà della Curia, in un progetto di reinserimento al lavoro dei disoccupati. Un’operazione fatta insieme con il sindaco di Bologna Virginio Merola. Funziona? “Stiamo ottenendo buoni risultati. Con casi anche curiosi come quello di due detenuti assunti da una coop che si occupa di rimettere in ordine l’archivio del tribunale. Ma c’è ancora da fare. Soprattutto sul fronte dell’aiuto all’autoimprenditorialità”. Come si incrocia il vostro progetto con il reddito di cittadinanza? “Il reddito di cittadinanza è qualcosa che dobbiamo scoprire ma che potrebbe in parte andare nella stessa direzione. Bisogna aiutare le persone a stare in piedi da sole”. I cristiani devono rifarsi partito per fare passare le loro idee? “No, sarebbe accanimento terapeutico”. Però quello che lei pratica è un ruolo pubblico della religione. “La religione ha un ruolo pubblico per la dimensione sociale della Chiesa, ma liberata da qualunque collateralismo. Poi ognuno, certo, ha le proprie sensibilità. I cristiani devono portare la loro visione nel rispetto di tutti”. Tornerebbe al centro sociale Tpo? La visita di un vescovo ha fatto un certo effetto. “Certo che ci tornerei, bisogna superare gli steccati. Non c’era nulla di male ad accettare l’invito. Anche se prima di andarci ho chiesto: “Pagate regolarmente l’affitto?”“. Nuova Zelanda, stretta sulla vendita di armi di Mario Di Vito Il Manifesto, 19 marzo 2019 Dopo l’attentato di Christchurch. “Il nostro mondo è cambiato per sempre”, anche il vicepremier e capo del partito di estrema destra New Zealand First è d’accordo. Tra un paio di settimane potrebbe già arrivare una prima bozza della legge. Dopo il terrore dell’attentato alle moschee di Christchurch, il governo neozelandese decide di fare sul serio sulla riforma del sistema di compravendita di armi nel paese. La premier Jacinda Ardern è molto chiara sul punto e dichiara che il suo gabinetto “è completamente unito” nella decisione di cambiare le cose. Per tre volte (nel 2005, nel 2012 e nel 2017) il parlamento aveva provato a modificare la legge, ma, complice la pressione delle lobby e la larga diffusione della caccia in Nuova Zelanda, tutti i tentativi sono andati a vuoto. Questa volta il clima sembra decisamente diverso, tant’è vero che persino il vicepremier e capo del partito di estrema destra New Zealand First, Winston Peters (storicamente contrario a ogni revisione della materia) appare d’accordo: “Il nostro mondo è cambiato per sempre - ha detto - e così faranno anche le nostre leggi”. La strage compiuta dal suprematista bianco Brenton Tarrant, con cinquanta vittime e quarantanove feriti, ha probabilmente cambiato per sempre il dibattito politico di un paese in cui su 4.6 milioni di abitanti le armi da fuoco sono 1.2 milioni. La legge sulla vendita e il possesso di armi in vigore è di quelle a maglie larghissime: l’età minima per possedere una pistola è addirittura di sedici anni e già a diciotto si possono acquistare fucili semiautomatici di tipo militare, per le quali serve una licenza grazie alla quale poi si può comprare di tutto. Ardern appare intenzionata a tirare dritto, anche se il percorso della riforma non appare per nulla facile e, al di là dei buoni propositi, di concreto ancora non c’è nulla. “Questi non sono territori legislativi semplici - ha detto la premier ai cronisti, ci prenderemo il tempo per farlo nel modo migliore”. Si parla di un paio di settimane per produrre una prima bozza della legge. Intanto, in una conferenza stampa, ha parlato il titolare del negozio che ha venduto quattro fucili e le munizioni a Tarrant, David Tipple della Gun City. “Non abbiamo rilevato nulla di straordinario in lui - ha spiegato in tono molto formale, si è trattato di una transazione commerciale per corrispondenza online verificata anche dalla polizia”. Tipple, però, nega che quei fucili siano gli stessi utilizzati per la strage delle moschee, e prova a difendere il proprio business dalle annunciate riforme: “Tarrant ha scritto nel suo manifesto che il suo scopo nell’usare le armi era quello di dividerci, se gli permettiamo di cambiare i nostri comportamenti, ha vinto lui”. Gun City, tra le altre cose, sta ricevendo molte critiche per non aver rimosso un cartellone pubblicitario in cui si vede un padre che aiuta i propri bambini a fare pratica con il fucile. La concorrenza - cioè il sito di aste TradeMe - sta comunque tenendo un atteggiamento opposto, e ha vietato sul proprio portale la compravendita delle armi e dei loro accessori. Mentre il dibattito va avanti e l’emergenza alle frontiere e sui voli non è ancora finita, le indagini su Tarrant proseguono. Il commissario di polizia di Christchurch Mike Bush ha dichiarato di essere certo che il suprematista sia stato l’unico a sparare, anche se non si può escludere che abbia ricevuto in qualche modo del supporto logistico da alcuni complici. Così si spiegano gli altri tre arresti di venerdì scorso, anche se, sempre a quanto dichiara la polizia, sui tre al momento non pendono accuse relative alla strage. Tarrant dovrà presentarsi in aula il prossimo 5 aprile e giusto ieri ha annunciato di avere intenzione di difendersi da solo. Richard Peters, l’avvocato d’ufficio che lo ha difeso sabato nella prima udienza, ha accolto la notizia con sorpresa e ha dichiarato che l’attentatore gli apparso lucido e mentalmente stabile, benché fermo sulle proprie convinzioni fanatiche e razziste. L’annunciata autodifesa di Tarrant ha lasciato perplessa l’opinione pubblica del paese: sul New Zealand Herald, infatti, ci si domanda se il processo non diverrà una sorta di show che consentirà al terrorista di continuare la propria opera di propaganda anche sotto al naso delle istituzioni. In realtà questa partita è già cominciata con il famigerato ok fatto con le dita da Tarrant davanti ai giudici: un gesto che l’alt-right vorrebbe venisse identificato come saluto dei suprematisti bianchi. Iran. Vuol difendere? Vada in prigione di Bruno Tinti Italia Oggi, 19 marzo 2019 Le servirebbe l’appoggio dell’opinione pubblica, che guarda altrove. Nasrin Sotoudeh, avvocatessa iraniana, è stata condannata a 33 anni di carcere per incitamento alla corruzione e alla prostituzione, commissione di un atto peccaminoso, essendo apparsa in pubblico senza il velo, e interruzione dell’ordine pubblico; sostanzialmente aveva difeso donne iraniane incriminate perché si erano rifiutate di indossare il velo. Per gli stessi motivi aveva già riportato una precedente condanna a 5 anni di reclusione. Alla prigione si è aggiunta altra condanna a 148 frustate. Ne ho parlato spesso con amici e conoscenti. Devo dire che non ho trovato sufficiente indignazione in molti di loro. Alcuni addirittura ignoravano il fatto. Mi ha particolarmente irritato che molti tra i tiepidi erano persone che non perdevano occasione per manifestare antifascismo e fede democratica; alcuni anche cattolici osservanti; per non parlare dei preoccupati e combattivi assertori del femminicidio dilagante e non sufficientemente contrastato. Secondo il mio punto di vista la condanna di Sotoudeh è assai più preoccupante delle pur efferate manifestazioni di criminalità che quotidianamente ci vengono somministrate con dovizia di particolari dagli organi di informazione e sui social. Per l’ottimo motivo che si tratta di una barbarie istituzionale, non di un atto criminoso o folle di uno o più singoli individui. Qui un Tribunale dello Stato ha condannato alla prigione a vita (Sotoudeh ha 55 anni, dovrebbe uscire di prigione quando compirà 94 anni) un avvocato che ha difeso donne che non portavano il velo. E ha aggiunto alla sanzione criminale tipica (in tutto il mondo i criminali sono detenuti) la degradante pena corporale della fustigazione; 148 frustate che, se eseguite in unica soluzione, significano in sostanza una condanna a morte. Dunque è ragionevole pensare che, qualora si verificassero in futuro altre situazioni di questo tipo, lo Stato iraniano reagirà con la stessa legale ferocia. I tentativi, compiuti fi - nora, di applicare elementari regole etiche e giuridiche alla comunità internazionale possono considerarsi vani. La Cedu (Corte Europea del Diritti dell’Uomo) ha competenza, come ben si deduce dal nome, solo in Europa. Inoltre, presupposto del suo intervento, è che sia stato interamente completato l’iter giudiziario del Paese in cui è avvenuta la lamentata violazione di un diritto fondamentale. C’è poi un altro problema. Nell’ipotesi in cui la condanna di Sotoudeh fosse stata pronunciata in Europa, la violazione dei diritti umani avrebbe potuto essere valutata solo con riferimento alla tipologia della pena e non alla natura del reato. In altri termini la Cedu non potrebbe contestare la decisione di uno Stato di criminalizzare una donna che non porti il velo e la conseguente sanzione detentiva; ma solo l’eventuale violazione del divieto di tortura. Insomma, 38 anni di reclusione sì, frustate no. Il che per molti Paesi è ancora discutibile. Negli Stati Uniti si applica la pena di morte. Se è lecito definire tortura la fustigazione, a maggior ragione dovrebbe rientrare in questa categoria la pena capitale. Ci sono poi la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. La competenza della prima è limitata ai crimini che riguardano la comunità internazionale nel suo insieme, cioè il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Quella della seconda consiste in una sorta di arbitrato: dirimere le dispute fra Stati membri delle Nazioni Unite; sempre che i contendenti siano d’accordo nell’accettare questa giurisdizione. È ovvio pertanto che la Corte Internazionale non avrebbe nulla a che fare con il caso Sotoudeh. Quanto alla Corte Penale Internazionale, si tratta di un tipico Tribunale dei Vincitori. È ovvio infatti che i crimini sui quali si esercita la sua competenza in tanto sono punibili in quanto la classe dirigente del Paese che li ha commessi sia stata sconfitta e sostituita. Il processo di Norimberga non avrebbe potuto essere celebrato prima della sconfitta della Germania né avrebbe potuto esserlo quello a Milosevic prima della sua destituzione. E comunque, per quanto strano possa sembrare, i crimini contro l’umanità non sono ravvisabili quando la vittima non sia l’umanità o una parte rilevante di essa ma una coraggiosa avvocatessa che si batte per i diritti di questa stessa umanità. La Comunità Internazionale, di Nasrin Sotoudeh se ne batte sovranamente, avverbio mai così pertinente. Restano le iniziative coraggiose pubbliche o private e le sanzioni. Per iniziative coraggiose intendo un colpo di mano: il blitz di Entebbe quando il Mossad liberò gli ostaggi tenuti su un aereo dirottato o quello di Teheran organizzato dalla Cia per liberare i diplomatici tenuti in ostaggio nell’ambasciata Usa; che miseramente fallì. Giuridicamente è “uso non autorizzato della forza in territorio estero”. Illegale, ovviamente. Ma tollerato quando si tratta di liberare un proprio cittadino, vittima di attività illegale da parte di altro Stato. Però, prima di tutto, qui la illegalità è esclusa a priori poiché è prevista proprio dalla barbarica legge iraniana. E poi Sotoudeh è cittadina iraniana, non ci sono appigli, nemmeno a livello di prassi, che potrebbero giustificare l’intervento di un indignato Stato civilizzato. Quanto alle sanzioni, c’è poco da illudersi. Pochi giorni dopo che un altro Stato barbaro, l’Arabia Saudita, aveva ammazzato il giornalista Kashoggi, Juventus e Milan sono andate a giocare la Supercoppa a Jedda. Difendendo orgogliosamente la loro scelta che tanto bene avrebbe fatto al calcio italiano (leggi: gli avrebbe fatto guadagnare un mucchio di soldi). E i tifosi, tutti d’accordo. E che dire delle ingegnose triangolazioni commerciali con cui imprenditori di tutto il mondo (anche italiani, ci mancherebbe) aggirano le sanzioni economiche contro l’Iran? Pratica apprezzata da moltissimi che inneggiano all’intelligente sistema che tanta prosperità porta alle aziende e al Paese. Adesso venderemo agli arabi anche la Scala. E se questi improvvisati melomani trattano le donne come schiave deficienti, che ci frega? Non dovrei più stupirmi, alla mia età. Ma questa svendita dell’etica mi fa davvero incazzare. Turchia. Si uccide in carcere Zulkuf Gezen, miliziano del Pkk in sciopero della fame di Gianni Sartori notiziegeopolitiche.net, 19 marzo 2019 Dalle ultime informazioni sembra che il prigioniero politico curdo Zulkuf Gezen, in sciopero della fame dal 1 marzo, abbia voluto darsi volontariamente la morte nella prigione turca di Tekirdag dove era rinchiuso in una cella di tipo “F”. Una protesta, la sua, sia contro il mantenimento dell’isolamento per Ocalan, e di tanti altri, tra cui anche prigionieri in sciopero della fame che sembrano praticamente “scomparsi”, sia contro il silenzio che incombe sulla lotta estrema di migliaia (circa 7mila, molti dei quali in situazioni critiche) di prigionieri e militanti curdo-turchi. Membro del Pkk, Gezen era stato condannato all’ergastolo dodici anni fa. La sua decisione di darsi la morte per impiccagione è la conseguenza della da lui denunciata mancanza di umanità e delle sofferenze a cui sono costretti i prigionieri curdi vivono nelle prigioni turche, nell’inerzia di cui stanno dando prova il Consiglio d’Europa e il suo Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), il cui compito sarebbe proprio quello di far rispettare i diritti dei prigionieri. Iniziato dalla deputata Leyla Guven ormai 131 giorni fa, lo sciopero della fame viene portato avanti oltre che dai detenuti anche da un centinaio di attivisti, militanti, membri di associazioni e deputati curdi. Sia in Kurdistan che in Europa di cui 14 a Strasburgo, al 92mo giorno. La richiesta dovrebbe ormai essere nota all’opinione pubblica e alle istituzioni internazionali: la fine dell’isolamento per Abdullah Ocalan e la ripresa delle trattative tra Stato turco e Pkk per individuare una via d’uscita degna, una soluzione politica per il conflitto. Come si legge in un comunicato “ogni minuto in più che trascorre è diventato cruciale. Occorre agire e agire in fretta per evitare altre morti”. Infatti decine e decine di militanti in sciopero della fame hanno superato da diversi giorni quella che viene considerata la soglia critica. Dopo di cui c’è solo la morte o conseguenze irreparabili a livello sia fisico che psichico. Vorrà la vecchia Europa rimanere ancora indifferente e, come nel 1981 con quella dei prigionieri irlandesi, avere sulla coscienza anche la vita di questi militanti?