Non rimettiamo la medicina penitenziaria nel ghetto da cui è uscita a fatica di Mario Iannucci e Gemma Brandi* quotidianosanita.it, 18 marzo 2019 Nel lontano 1979 alle “Murate” (la Casa Circondariale), a “S. Teresa” (la Casa di Reclusione) e a “S. Verdiana” (la Casa Circondariale Femminile), tre istituti limitrofi, c’erano un paio di “medici incaricati” (gli analoghi dei MMG all’esterno) presenti in istituto circa tre volte la settimana, tre medici di guardia che si alternavano per garantire la presenza sulle 24 ore, pochissimi specialisti che venivano in carcere saltuariamente, tre “infermieri” in tutto, un brigadiere e un appuntato del corpo degli agenti di custodia (non c’era ancora la Polizia Penitenziaria) e un “infermiere detenuto”. A dire il vero le esigenze sanitarie dei reclusori, quarant’anni or sono, erano un po’ minori rispetto a quelle di oggi, ma nemmeno tanto. Cominciavamo a confrontarci con la tossicodipendenza che sarebbe dilagata di lì a poco. Il disagio mentale era già presente in misura massiccia. I detenuti si suicidavano molto di più rispetto alla popolazione generale, ma non con l’incidenza attuale. Di sicuro, allora, si prestava minore attenzione alle esigenze di cura dei detenuti: nessuno ci si meravigliava più di tanto se della gente marciva in galera. C’erano diverse rivolte nelle carceri, ma venivano domate con interventi “radicali”. Molte persone avvedute, competenti e ragionevoli si sono battute, negli anni, affinché il grande disagio “sanitario” all’interno delle carceri venisse affrontato in maniera adeguata. Affinché la sofferenza dell’uomo imprigionato ricevesse risposte “riabilitative” adeguate, affinché da una diffusa disperazione si transitasse almeno a una misurata speranza e non alla semplice rassegnazione. Fra queste persone c’è stato sicuramente Alessandro Margara, che conosceva nel dettaglio i problemi “di salute” del carcere. Proprio perché conosceva tali problemi, Margara promosse alcune riforme del sistema carcere. Promosse la “legge Gozzini”, per cooptare i detenuti, responsabilizzandoli, all’interno delle manovre trattamentali. Nella stessa direzione si è sempre battuto per adattare le norme dell’Ordinamento Penitenziario alle esigenze di “riabilitazione” dell’uomo recluso: l’ultima vera riforma del Regolamento di Esecuzione dell’OP, il DPR 230/2000, fu pensato e fortemente voluto da Margara nei pochi ma illuminati anni della sua presidenza del DAP. Pochi anni prima (era il 1997) Margara, elaborando il “Progetto di Legge delle Regioni”, che rimase purtroppo solo una proposta di legge, aveva delineato anche il percorso per il “Superamento degli OPG”, che sarebbe, a nostro avviso, da riprendere in mano per correggere le distorsioni delle norme vigenti in materia. Nel 1999, sempre quando era capo del DAP, Margara elaborò e fece approvare il DL 230/1999, col quale indicava la necessità che l’assistenza sanitaria nelle carceri passasse dal Ministero di Grazie e Giustizia a quello della Sanità, avviando i primi passi verso tale evoluzione. Il transito si sarebbe completato ben nove anni più tardi, con il DPCM del 1° aprile 2008. Un passaggio cui si opposero strenuamente taluni medici penitenziari (addirittura incatenandosi davanti alle carceri dove prestavano servizio). Da quel momento tutta l’assistenza sanitaria delle persone recluse sarebbe stata gestita dai Sistemi Sanitari Regionali. Stessa assistenza, quindi, per i cittadini liberi e per quelli reclusi. Un enorme balzo in avanti rispetto alla precedente situazione di totale “isolamento sanitario” del carcere! Non avendo ottenuto ascolto le opinioni di chi conosceva il settore, si capì solo con l’andare degli anni che le esigenze sanitarie delle persone recluse erano enormemente superiori a quelle di un campione, numericamente sovrapponibile, di cittadini liberi. Così ad esempio a Firenze, nelle due Case Circondariali e nell’IPM (Istituto Penale Minorile), attualmente prestano servizio circa centocinquanta operatori che provengono dalla AUSL (o, per quanto riguarda gli infermieri, da cooperative cui la AUSL ha appaltato il servizio). Con il DL 230/1999 e con il DPCM 1° Aprile 2008, insomma, si è voluto sottolineare che l’assistenza da garantire ai detenuti deve (o dovrebbe) essere la stessa che è assicurata, in un determinato territorio, ai cittadini liberi. Molto rimane da fare, a nostro parere, perché l’assistenza sanitaria in carcere sia adeguata alle enormi esigenze di cura dei reclusi, ma qualche passo in avanti lo si è fatto. Certo è che, considerando lo stato attuale delle carceri, non bisogna assolutamente meravigliarsi che scarseggino gli operatori sanitari disposti ad andarvi a lavorare. Ma considerando lo stato attuale dell’Italia, non c’è da meravigliarsi se i medici preferiscono andare all’estero. Gli stipendi, in carcere e fuori, non consentono certo a una buona parte dei medici di vivere dignitosamente, specie a fronte delle crescenti responsabilità professionali, responsabilità che diventano enormi all’interno delle carceri, dove una larga parte dei medici nemmeno percepisce, nonostante i palesi rischi cui tale personale è esposto, alcuna indennità penitenziaria. Cominciamo a restituire dignità (anche nelle retribuzioni) al lavoro dei colleghi e forse la fuga subirà una battuta di arresto. Specie se si terrà conto del carattere molto impegnativo e audace del lavoro da svolgere. È ovvio, inoltre, che negli istituti di pena occorrerà pensare a livelli di assistenza omogenei su tutto il territorio nazionale, con le debite differenze a seconda della tipologia e della capienza degli istituti. Una omogeneità indispensabile e ineludibile, anche solo pensando alla trasmissione dei dati informatici o alle dotazioni farmacologiche. Però, per favore, non ipotizziamo la costituzione di una unica AUSL nazionale per i 206 istituti di pena sparsi su tutto il Paese. Saremmo di fronte a una regressione pericolosissima, che sgancerebbe l’assistenza sanitaria penitenziaria dal legame con l’organizzazione locale che ne rende comparabile e controllabile la qualità. Una qualità che abbisogna certo di una formazione costante, ma evitando inutili e forse dannose “specializzazioni penitenziarie”. I passi in avanti che si sono faticosamente compiuti negli ultimi anni sono avvenuti facendo evadere l’assistenza penitenziaria dal ghetto angusto nel quale la si era mantenuta reclusa. Non ricreiamo questa asfissia: apriamo all’esterno e al confronto la cura, anziché comprimerla all’interno. *Psichiatri psicoanalisti, esperti di Salute Mentale applicata al Diritto Salvini e gli omicidi: il colpevole va punito, non deve “marcire in carcere” di Stefano Vespa formiche.net, 18 marzo 2019 Sicuri che augurarsi l’annientamento fisico e psicologico di un detenuto porti voti? Forse è meglio battersi in Parlamento per correggere le tante storture dell’ordinamento giudiziario e di quello penitenziario proponendo leggi da discutere rapidamente, senza farle marcire. Qualcuno che ha a cuore la democrazia e la sicurezza può pensare che gli assassini di Pamela Mastropietro, la ragazza romana massacrata a Macerata, non debbano scontare fino all’ultimo giorno la condanna che sarà stabilita da un giudice? Qualcuno pensa che stessa sorte non debba toccare a Ciro Russo, che in Calabria ha ucciso sua moglie Maria Antonietta dandole fuoco, o che non debba essere punito “in maniera esemplare”, come si diceva una volta, l’ecuadoregno condannato per l’omicidio di sua moglie, ma con le attenuanti per essere stato illuso? Reati ingiustificabili che negli ultimi giorni sono stati accomunati dal commento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: devono “marcire in galera”. L’aggressività verbale e l’uso disinvolto del verbo marcire da parte di Salvini non sono una novità. Cesare Battisti si è preso gioco per decenni delle vittime della sua follia terrorista e dei loro parenti durante una lunghissima latitanza. Ha irriso chi ha tentato per tanti anni di ottenerne l’estradizione arrivata solo grazie al nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, e alla collaborazione del governo boliviano e il suo arresto è stato un grande successo dello Stato italiano. Eppure in Italia, culla del diritto, fu girato quel vergognoso video che immortalava Battisti con una coppia di agenti di Polizia e poi con una della Polizia penitenziaria (che si dettero il cambio per una “lottizzazione” dei meriti) senza capire che cosa stesse accadendo: il suo era uno sguardo sgomento e impaurito. È banale ricordare che la differenza tra uno Stato democratico e un terrorista sta nella punizione che gli infligge, non nel trattarlo in quel modo. Anche allora Salvini disse che Battisti doveva marcire in galera. Perché ripetere in continuazione, a ogni delitto più o meno grave, quel verbo? Perché interpretare un ruolo istituzionale dando l’impressione che uno Stato democratico e liberale voglia vendicarsi anziché punire? La definizione che il vocabolario Treccani dà del verbo marcire in relazione al carcere è “perdere le forze fisiche o spirituali nell’inazione, volontaria o forzata, infiacchirsi, languire, intristire”. Senza voler credere che la detenzione riesca sempre a “recuperare” il detenuto, la gente comune vorrebbe semplicemente la certezza della pena, tema su cui da anni si scontrano due diverse filosofie politiche e giuridiche. Troppi sconti, troppi reati gravissimi come l’omicidio e la strage per i quali è concesso il rito abbreviato. Quando dopo un delitto, nelle dichiarazioni ai telegiornali, i parenti delle vittime dicono che vogliono giustizia esprimono un concetto elementare: nessuno chiede altro che l’applicazione della legge. “Tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi” scriveva Cesare Beccaria e Michel Foucault, nel suo celebre “Sorvegliare e punire”, ricorda che nella seconda metà del XVIII secolo si protestava nelle assemblee legislative e tra i giuristi contro il supplizio, che arrivava fino allo squartamento del corpo del condannato, poi abolito con la Rivoluzione francese. Il marcire in carcere è l’equivalente “democratico” del supplizio oltre due secoli dopo? Paragone certo esagerato, eppure resta un forte dubbio sul messaggio che arriva ai cittadini (visto che il ministro dell’Interno lavora per la sicurezza di tutti) e agli elettori della Lega: sicuri che augurarsi l’annientamento fisico e psicologico di un detenuto porti voti? Forse è meglio battersi in Parlamento per correggere le tante storture dell’ordinamento giudiziario e di quello penitenziario proponendo leggi da discutere rapidamente, senza farle marcire. Bonafede: “Condanne più dure per femminicidio e violenza sulle donne” di Liana Milella La Repubblica, 18 marzo 2019 Pene più severe per le violenze sessuali, e anche per i maltrattamenti in famiglia e lo stalking. “Perché, per stare dalla parte delle donne, non servono le parole, ma i fatti”. Dice così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che a Repubblica annuncia il prossimo pacchetto di misure anti violenza. La cronaca, ogni giorno, dimostra che le donne sono vittime di femminicidi, ma anche dell’oscurantismo della politica di destra. Ci si mettono anche i giudici con le sentenze a ribasso. Zingaretti, al suo esordio, dice che “forze oscurantiste” premono sui diritti femminili. Che fa il Guardasigilli M55? “Su un tema così importante, su cui c’è un dramma culturale e sociale che si consuma ogni giorno, la risposta non deve essere nelle parole ma nei fatti. Io e la mia maggioranza abbiamo il dovere di dare una risposta netta per tutelare le donne. E la risposta il legislatore deve darla con le leggi e con i fatti”. Ma cosa ha in mente? “Com’è noto in questi giorni è in discussione in Parlamento il cosiddetto codice rosso, scritto a quattro mani con Giulia Bongiorno. Ma adesso M5S aggiungerà un pacchetto di poche norme che serviranno per dare una prima risposta immediata a questo dramma culturale e sociale. Norme su cui mi auguro si raggiunga l’unanimità”. Ma cosa c’è in più rispetto all’obbligo di trattare in tre giorni i casi di violenza? “Il codice rosso è un pacchetto di norme blindato e già segna una svolta importante perché la donna che trova il coraggio di denunciare viene presa per mano subito dallo Stato, attraverso magistratura e forze dell’ordine. Ma M5S vuole aggiungere un pacchetto, tra cui l’aumento di pena per il reato di violenza sessuale. Anziché 5-10 anni passiamo a 6-12. Altri aumenti sono previsti peri maltrattamenti in famiglia e lo stalking in modo, nei casi gravi, di dare termini più lunghi per le fasi cautelari e quindi proteggere la vittima”. Lei sta dicendo che, se passa questo suo testo, sarà più difficile per i giudici modulare le condanne in caso di femminicidio? “Anche su questo stiamo lavorando. Già al Senato si sta votando una stretta sul rito abbreviato che, vietandolo peri reati puniti con l’ergastolo come l’omicidio, impedirebbe lo sconto di un terzo della pena. Ma stiamo riflettendo anche sul meccanismo delle attenuanti che rischiano, in questa emergenza sociale, di far rientrare il delitto d’onore”. Ma lei come giudica le sentenze di Bologna e di Genova? Pensa che stiamo tornando al delitto d’onore? “Da quando sono ministro della Giustizia mi sono imposto di non commentare le sentenze. Il mio ruolo è quello di intervenire sulle leggi affinché nelle aule giudiziarie la risposta dello Stato sia una risposta di vera giustizia”. Lei governa con la Lega. Da lì vengono messaggi negativi. Cosa pensa del convegno di Verona sulla famiglia? “In realtà sul codice rosso e sul divieto dell’abbreviato c’è totale sintonia, come e sull’importanza di tutelare le donne. Ciascuno poi organizza i convegni che vuole. Chiaramente io, in un convegno di quel tipo, non andrei mai, perché considerando alcuni ospiti mi pare che le lancette dell’orologio sulla concezione della donna vengono spostate indietro di qualche secolo. E in un momento come questo invece le istituzioni e gli uomini delle istituzioni devono dare un segnale completamente diverso”. Salvini ci andrà... “Non ho l’abitudine di commentare l’agenda di altri ministri. Io rispondo per i miei impegni”. Salvini però annuncia pure la riforma del diritto di famiglia... “Non ho nessuna intenzione di commentare le dichiarazioni di altri ministri”. Quindi quando andrà al voto il ddl Pillon, che viene giudicato del tutto oscurantista dalle donne, lei che farà? “Io so solo che i parlamentari stanno valutando il ddl Pillon. Aggiungo che sulle tematiche di giustizia voi giornalisti avete sempre tentato di vedere una spaccatura che finora non c’è stata. Anzi abbiamo approvato a tempo di record una legge storica come la spazza-corrotti”. Non le pare che ci sia una grande contraddizione tra la sua legge e le norme sblocca cantieri che si traducono in un ritorno al passato sugli appalti con un grande rischio corruzione? “Non c’è nessun ritorno al passato. Quel decreto serve solo per semplificare e sbloccare i cantieri, ma sempre nella totale legalità. Se c’è qualcosa che alimenta la corruzione questo è l’eccesso di burocrazia. Con la spazza-corrotti il messaggio è chiaro: se sei condannato per aver preso o pagato una mazzetta vai in carcere e con la Pubblica amministrazione non avrai più niente a che fare per tutta la vita”. Il caso Sarti. Una donna anche vittima della violenza delle immagini private diffuse online e di un rapporto affettivo poco chiaro. I vostri vertici però hanno annunciato subito l’espulsione e non se ne sono curati… “M5S ha espresso a Sarti totale solidarietà per la barbarie che sta subendo. Ma su un piano, che non ha nulla a che fare con la barbarie, i probiviri stanno valutando la restituzione degli stipendi”. Che impressione le fa l’omicidio di Imane Fadil? “Non dico una parola sulle indagini in corso”. Si annunciano in Senato l’autorizzazione per Salvini sul caso Diciotti e l’ultimo voto sulla legittima difesa. Il M5S terrà? “Sono due temi su cui M5S si è già espresso e credo che i cittadini si siano stancati di ascoltare sempre gli stessi dibattiti perché le loro esigenze sono ben altre. E la tutela delle donne è tra le priorità assolute”. Nello Rossi: “Basta con l’altalena delle norme, troppi processi vanno al macero” di Liana Milella Affari & Finanza, 18 marzo 2019 Il magistrato avverte: la politica lancia tanti segnali, ma da soli non bastano. Contro l’evasione servono tempi più veloci per le verifiche tributarie e canali giudiziari rapidi. “Sì alle soglie, ma stop all’altalena perché così vanno in fumo i processi, e gli evasori se la spassano”. Nello Rossi, componente del consiglio direttivo della Scuola della magistratura, e per anni alla procura di Roma dove da procuratore aggiunto ha perseguito i reati economici, sulla guerra dei tetti tra Renzi e Bonafede dice: “Il vero problema è che le evasioni vengono segnalate ai magistrati troppo tardi; occorre lavorare perché i crimini tributari non siano più destinati alla prescrizione”. Ha annunciato il Guardasigilli Bonafede a metà febbraio: “Proporrò al governo di ritoccare verso il basso le soglie di punibilità per varie fattispecie di evasione fiscale. Il governo Renzi ha varato norme che sembravano consigli su come evadere. lo vorrei che si tornasse alle soglie precedenti il suo esecutivo”. Che impressione le fa questo messaggio? “Mi fa l’effetto di stare sull’altalena. O peggio sulle montagne russe. Intendiamoci: prevedere “soglie” al di là delle quali l’evasione non è considerata “solo” un illecito amministrativo ma diviene un reato è necessario. In assenza di soglie adeguate, infatti, la risorsa scarsa e costosa del processo penale rischia di essere sprecata per perseguire modesti illeciti. Naturalmente il governo e la maggioranza possono alzare o abbassare tali soglie nel quadro della loro strategia di contrasto all’evasione, ma l’altalena, cioè una sequenza troppo ravvicinata di rialzi e di ribassi, crea incertezza per i cittadini ed enormi problemi per magistrati e polizia”. Lo stesso Bonafede, quando si passò da 50 a 150mila euro tre anni fa, commento così: “Si stabilisce che non è punibile il cittadino disonesto che fa valutazioni sbagliate se l’errore è inferiore al 10%. Tale errore potrà comportare una sottrazione erariale pari a circa il 3% dell’imponibile, in alcuni casi si può parlare di milioni di euro”. Condivide? “Personalmente ritengo che l’elevazione delle soglie di punibilità attuata nel 2015 dal governo Renzi abbia fissato troppo in alto l’asticella della punibilità penale. Anche perché, elevando le soglie, si sono mandati al macero indagini e processi riguardanti casi di evasione di importo inferiore alle nuove soglie fissate in quell’anno. Il codice prevede infatti che “nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce reato” e aggiunge che “se vi è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Si chiama abolitio criminis. E il rialzo delle soglie di punibilità penale creò appunto una abolitio criminis parziale, annullando indagini in corso e sentenze. Guardiamo alla sostanza. E alle conseguenze di variare il tetto. Sicuramente l’evasione va punita duramente. Anche lanciando un segnale”. Quello del 2015 era un invito a evadere? “Segnale: ecco la parola chiave. Ho l’impressione che quando scrivono e approvano norme penali, ampi settori della classe politica pensino che sia sufficiente lanciare “un segnale”. Accontentandosi dell’effetto simbolico e senza preoccuparsi della effettiva incisività delle scelte compiute. Ma con le sole norme annuncio non si contrasta efficacemente nessun crimine e meno che mai l’evasione fiscale” Che strada occorrerebbe percorrere allora? “Razionalizzare il contrasto all’evasione a partire dai tempi di lavoro dell’amministrazione tributaria. Questa, com’è a tutti noto, accerta in media le evasioni e comunica alle Procure le notizie dei reati tributari dopo alcuni anni dai fatti, di regola poco prima che scatti la prescrizione quinquennale dei suoi crediti verso i contribuenti, senza preoccuparsi dei diversi tempi di prescrizione stabiliti dal codice penale”. E nelle aule di giustizia? “I crimini tributari dovrebbe avere canali di trattazione più rapidi e certi nei tempi. Solo in futuro potremo verificare se i più lunghi termini di prescrizione previsti per questi reati e il nuovo regime generale della prescrizione modificheranno la disperante situazione verificatasi in passato quando i reati tributari erano in larghissima misura destinati alla prescrizione”. Lei ha criticato duramente la politica populista del governo sulla giustizia. Nel senso di bocciare i tribunali del popolo evocati a più riprese per delegittimare il lavoro dei giudici. Ritiene che quella di Bonafede sia una soluzione populista? E quindi negativa? “Ho solo detto che nessuna retorica populista potrà impedire che i magistrati italiani continuino ad affrontare “casi” e a giudicare “ persone” senza che nelle aule di tribunale vi sia posto né per “amici del popolo” che possano invocare immunità in virtù del consenso popolare né per “nemici del popolo”, oggetto di sbrigativi verdetti della piazza che i giudici si dovrebbero limitare a ratificare. Di imparzialità dei giudici vi sarà più che mai bisogno nel nuovo ambiente istituzionale creato da un governo che rivendica apertamente il suo carattere populista. È una questione generale che va molto oltre la proposta del ministro della Giustizia di cui discutiamo”. Tribunali intasati: non si rischia, con un tetto all’evasione fissato a 50mila euro, di avere troppi processi in corso? “Sto ai fatti e alle stime. Già oggi, con le più alte soglie di punibilità adottate nel 2015, nel Comune di Roma (area di competenza della Procura della Capitale) nei 14 mesi che vanno dal primo gennaio del 2018 a metà marzo del 2019 le denunce di evasione fiscale ammontano a circa due miliardi di euro. Un dato impressionante registrato dalla Procura romana, anche se la stessa Procura avverte che è da depurare degli importi relativi alle denunce da archiviare e a quelle sovrastimate. Recuperare questa evasione e punire gli evasori sarebbe un grande risultato”. Non è contraddittorio questo tetto rispetto ai condoni fiscali che pure questo governo ha introdotto? “I condoni, la loro prevedibilità e la loro attesa sono criminogeni e non lo scopro certo io per la prima volta. Delle forme di illegalismo diffuso come fonte di ricchezza illecita e di disuguaglianze tra i cittadini occorrerebbe discutere seriamente, evitando approcci riduttivi e pietistici al fenomeno. Basterebbe compiere un raffronto tra due cittadini, il primo dei quali rispetti le leggi mentre il secondo ometta di pagare i contributi ai suoi dipendenti, ponga in essere violazioni edilizie ed evada anche solo in parte i suoi obblighi tributari. Al termine di un congruo periodo di osservazione si vedrebbe che il divario di ricchezza tra i due soggetti è divenuto notevolissimo e per più versi incolmabile”. Le vite segrete a Nordest delle donne anti-mafia di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 18 marzo 2019 Mai più con uomini d’onore, mai più nelle ‘ndrine, tanto meno custodi di un feroce patto di sangue. Rosa, Angela, Maria, Emma, Francesca e Antonietta sono fuggite dalla Calabria, chi in Veneto chi in Friuli, lontane oltre mille chilometri dalle case dove sono cresciute, decise ad abbandonare un mondo di violenza, e un destino già segnato per i figli. I loro sono nomi di fantasia, le chiamano femmine ribelli, oppure madri coraggio, ma tutte rappresentano un nuovo fronte contro la criminalità organizzata, quella delle donne che rifiutano famiglie malavitose per aprire una breccia anche nella più irriducibile delle cosche. Sono già sei quelle nascoste tra Veneto e Friuli, grazie al recente protocollo di intesa tra la Procura nazionale antimafia, l’associazione Libera contro le mafie, il dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio, il Tribunale per i minorenni, la Procura per i minori e la Procura distrettuale di Reggio Calabria, a cui si aggiunge il sostegno della Cei. Afferma l’avvocato dell’associazione guidata da don Luigi Ciotti, Vincenza Rando, da sempre in prima linea per aiutare le donne: “Ognuna di loro ha una storia diversa, compresa quella di chi ha lasciato la propria terra dopo avere provato l’esperienza del carcere e vuole raggiungere i figli già allontanati dal nucleo familiare per intervento della magistratura”. Ma tutte hanno impugnato la sola arma a loro disposizione, quella della ribellione. “Non sono considerate dallo Stato collaboratori di giustizia e neppure testimoni - aggiunge il legale. In questo senso c’è ancora un vuoto legislativo”. Quindi, nessuna particolare misura di protezione, nessun beneficio premiale. Ecco dunque l’appello di Libera: “Le abbiamo accompagnate a disegnare una nuova vita - spiegano i responsabili dell’associazione. Occorre lavorare in modo molto riservato. C’è bisogno della collaborazione di tutti”. Una rete associativa, di volontari, che se ne occupi, ad esempio, poi l’indispensabile aiuto economico offerto della Chiesa, e massima segretezza per proteggere chi ha osato alzare la testa contro la ndrangheta. Come Angela, che oggi vive in Veneto. Invisibile per necessità, con un cognome che la ingabbia e un passato che vuole cancellare ma che può diventare l’esempio per tante altre. Questa la sua storia. Attraverso il tribunale calabrese ha saputo che esiste la possibilità di rivoluzionare la propria esistenza fino a pochi anni fa chiusa tra le aule di giustizia, gli istituti di pena, o, peggio, soffocata dal terrore di lutti, della lupara bianca e delle faide, a cui neppure i bambini possono sottrarsi. C’è un progetto a cui affidarsi, quello che il protocollo dell’antimafia chiama Liberi di scegliere, senza la necessità di denunciare nessuno dei parenti. Angela sceglie di stare dall’altra parte. Si lavora segretamente per la fuga, con i suoi figli, mille chilometri lontani, su, al nord. È un’attività complicata quella di preparare una specie di latitanza, rivela chi oggi la segue nel suo percorso di rinascita. Tacere, condurre la solita vita senza che nessuno possa sospettare il tradimento che infrange la regola tribale dell’omertà e della sottomissione, quel familismo da cui trae forza il malaffare. Un passo dopo l’altro, per Angela, fino al momento in cui si chiuderà alle spalle la porta di casa, per dileguarsi nelle vie del suo paese dove magari è pronta un’auto dei carabinieri per portarla via. Oggi Angela lavora in una località segreta del Veneto con una cooperativa. Non è sola. Le associazioni coinvolte nel progetto la seguono, la segue anche uno psicologo perché reinventarsi una vita non è facile. Non tutte, come lei, sono riuscite a trovare un’occupazione. C’è, tra le altre sue cinque compagne giunte nelle nuove destinazioni del Nordest, chi fa solo la mamma, c’è chi è stata rintracciata dalla famiglia di origine e ha ricevuto minacce tanto da dovere cambiare ancora una volta casa, indirizzo, abitudini. C’è chi ha paura. Oppure chi ha ottenuto la comprensione del marito, chiuso in carcere. E poi ci sono i figli. Quello di Angela ha detto ai volontari che lo affiancano: “Io non mi riconosco più in mio padre”. “Le prime vittime della ndrangheta sono proprio i figli - afferma don Giorgio De Checchi, tra i referenti nazionali del progetto Liberi di scegliere e parroco a Sant’Anna di Piove di Sacco -. E le madri si fanno carico del loro futuro perché si sentono responsabili della vita altrui. Chi fugge lo fa soprattutto perché i figli siano liberi di intraprendere un’altra esistenza lontana dal rischio concreto di essere reclutati dalla malavita”. Ma c’è ancora tanto da fare. Un impegno faticoso, lo chiama don Giorgio, e non potrebbe essere altrimenti con le risorse economiche risicate e uno Stato, come sottolinea il sacerdote, che offre opportunità di riscatto, ma poi affida il recupero al solo volontariato. “Lo Stato - spiega De Checchi - deve fare quell’ulteriore passo per rendere effettivo l’aiuto alle persone che hanno deciso di cambiare vita. Grazie all’otto per mille della Chiesa riusciamo ad avere fondi per realizzare il nostro progetto, ma l’aspetto economico rappresenta oggi un limite molto serio”. “Tempesta emotiva”, un’altra occasione per mettere la giustizia in pessima luce di Giovanni Iacomini* Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2019 “Dimezzata la pena per tempesta emotiva” non è che l’ultima delle occasioni in cui i media italiani hanno usato fatti di cronaca per mettere in pessima luce la giustizia. Non intendo, in questa sede, entrare nel merito del recente, purtroppo ennesimo femminicidio. Mi basta la considerazione che, contrariamente a quanto è stato strombazzato, il giudice si è limitato a ridurre la pena, considerate tutte le circostanze, a 24 anni: il massimo previsto. In virtù poi del rito abbreviato, automaticamente per legge la pena si è ridotta di un terzo, a 16 anni, cioè poco più della metà dei 30 da cui si era partiti. Al di là di questo, dovremmo chiederci perché si sia dato tanto risalto a una vicenda del genere. Con titoli fuorvianti, che parlavano di attenuante se la donna è bugiarda o in caso di gelosia (che in realtà è un’aggravante), si è voluta indirizzare anche l’opinione pubblica più distratta o digiuna di nozioni giuridiche verso la (ri-)evocazione del delitto d’onore. Fomentando in tal modo l’indignazione di una società già di per sé incarognita dalla crisi e da certa propaganda che mira al peggior giustizialismo forcaiolo inducendo una profonda sfiducia nei giudici. È una storia vecchia di almeno 30 anni, da quando con Francesco Cossiga (infastidito dal giudice-ragazzino), Bettino Craxi e quindi soprattutto Silvio Berlusconi, è cominciato il conflitto tra politica e magistratura. Ogni occasione è stata colta al balzo, talvolta persino inventandosela di sana pianta (i calzini turchesi), per diffondere la convinzione che i giudici siano “antropologicamente diversi” o, ancor più schiettamente, “disturbati mentali”. Un lavoro lento, quotidiano, a reti unificate, a colpi di programmi televisivi che approfittavano di qualunque vicenda potesse tornare utile. Nel delitto di Cogne, tanto per dirne una, l’avvocato Carlo Taormina (guarda caso poi Sottosegretario agli Interni) anche a scapito della sua assistita sollevava polveroni per insinuare il sospetto che i giudici si accanissero su una povera mamma. E poi, per anni, si sono susseguiti processi mediatici, plastici di Bruno Vespa, inchieste delle Iene o di Striscia, titoli di giornali e telegiornali fuorvianti, tendenti sempre a enfatizzare e travisare il contenuto delle sentenze per giungere alla conclusione che i giudici sono matti, da sottoporre a “perizia psichiatrica”. Il berlusconismo che si è infiltrato nelle nostre coscienze. Intendiamoci, non sfugge a nessuno, tantomeno a chi come me in qualche modo opera all’interno della giustizia, che si tratti di una macchina a dir poco inceppata. Ma dal momento che “i giudici sono soggetti alla legge”, la responsabilità maggiore va addossata su chi non ha fatto nulla per migliorare le cose. Anzi, con subdola unità d’intenti tutte le forze politiche, dai Roberto Castelli agli Oliviero Diliberto, mossi da motivazioni diverse più o meno nobili, non hanno fatto altro che partorire tutta una serie di provvedimenti che intralciano il corso della giustizia. Nessuna riforma organica del Codice penale vecchio di quasi 90 anni, d’impostazione fascista. Invece, una miriade di norme procedurali, scaturite dalla necessità e urgenza di aggiustare questo o quel processo del momento, sono andate accumulandosi in un ginepraio inestricabile in cui un buon avvocato o il giudice, in un ampliamento smisurato della discrezionalità, possono forzare l’interpretazione verso una qualunque tesi assolutoria o di condanna; applicazioni che trovano tutte buone pezze d’appoggio, in un ventaglio di possibilità diverse, anche opposte, a discapito della certezza del diritto e dell’uguaglianza del trattamento di fronte alla legge. Il paradosso è che chi più di tutti ha contribuito, per biechi interessi di parte, a creare questo disastro, tanto più si alimenta elettoralmente di questa sfiducia nella giustizia, soffiando sul fuoco della demagogia. Tutto ciò è devastante dal punto di vista democratico e c’è solo da sperare che la parte migliore della società sappia mettere in circolo gli anticorpi necessari per resistere a questa tempesta e tutelare le nostre istituzioni. *Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia Le toghe non sanzionano le mancate mediazioni e lo Stato perde 20 milioni di Antonio Amorosi affaritaliani.it, 18 marzo 2019 In Italia la mediazione è obbligatoria prima di una causa legale e chi non la fa dovrebbe essere sanzionato. Ma l’associazione dei mediatori dice che non accade. Lo Stato ha subito un danno da 20 milioni di euro per la mancata applicazione di una norma, ha spiegato l’Assiom, associazione italiana degli organismi di mediazione, che a nome del proprio presidente, l’avvocato Giovanni Giangreco Marotta, ha inviato una lettera alla Corte dei Conti del Lazio e al ministero della Giustizia per metterli a conoscenza su quanto sta accadendo. In Italia, prima di rivolgersi ad un giudice e d’intentare una causa legale a qualcuno, è obbligatorio passare dall’istituto giuridico della mediazione legale, sempre che il contenzioso si sviluppi in questi settori: cause condominiali, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria, risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. Il tutto per limitare il numero di procedimenti in corso che intasano la giustizia. L’art. 8, comma 4-bis del decreto legislativo del 4 marzo 2010 n. 28, (legge istitutiva della mediazione civile obbligatoria) prevede, nell’eventualità di mancata partecipazione alla mediazione senza giustificato motivo, la condanna da parte del giudice, “al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”. Il contributo unificato è un tributo che si deve pagare quando si iscrive una causa a ruolo e che varia a seconda del tipo di procedimenti, ma tenendo conto di molteplici fattori. “La ratio”, della norma che impone la mediazione spiega il presidente dell’associazione Marotta, “è evidentemente quella di incoraggiare la partecipazione delle parti ad un procedimento alternativo al giudizio ordinario a fini deflattivi” ma “emerge sulla base della casistica in nostro possesso come la disposizione non venga quasi mai applicata, pur ricorrendone i presupposti”. Cioè, accedendo alle rilevazioni condotte dal Ministero della Giustizia l’associazione dei mediatori ha trovato che i giudici, anche se dovrebbero, non sanzionano la mancata partecipazione alla mediazione senza giustificato motivo. Questo causa un danno alle casse dello Stato di oltre 20 milioni di euro come mancate entrate del 2017. I mediatori sono parte in causa nella vicenda ma sostengono di avere dati del ministero che possono supportare le valutazioni. Eppure, sempre secondo i dati del ministero (Direzione Generale di Statistica e Analisi Organizzativa) dal 1° gennaio 2018 al 30 giugno 2018 la percentuale di comparizione degli aderenti ai procedimenti di mediazione si attesta intorno al 50,2%, superiore al 48,4% del 2017 e con una percentuale di successo del 44,3%. “Una mancata entrata per le casse dello Stato nell’anno 2017 per circa 20.500.000,00 euro” provoca un “danno erariale sia per la mancata acquisizione di entrate certe liquidi ed esigibili di pertinenza dello Stato sia perché a causa della mancata applicazione della norma ad essere frustrata o comunque compromessa” è “la finalità deflattiva di interesse pubblico sottesa alla mediazione obbligatoria”. Per tanto Marotta si è detto pronto ad essere ascoltato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che dai magistrati della Corte dei Conti interessati con una lettera e che ha invitato ad intervenire sulla vicenda. La lettera di Marotta è dell’11 marzo scorso, pochi giorni fa. Sul profilo Facebook del presidente e sul sito di Assiom si da conto di un incontro avuto proprio dallo stesso legale e da una delegazioni di avvocati di Assiom con il ministro ed esponente del M5S l’1 marzo. Chissà se nel colloquio si è discusso anche dei mancanti 20 milioni di euro e di che provvedimenti vorrà adottare il ministero per fare rientrare lo Stato delle eventuali perdite. Caso Battisti, al via la battaglia della difesa: “L’ergastolo non si può applicare” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 marzo 2019 Il suo avvocato: “Rispettare l’accordo con il Brasile e commutare la pena a 30 anni”. Dopo due mesi di carcere italiano (che si aggiungono ai due anni e tre mesi scontati tra il 1979 e il 1981, prima dell’evasione), le speranze di Cesare Battisti di avere un termine temporale alla detenzione che sostituisca l’ergastolo per i quattro omicidi di cui è stato ritenuto responsabile, sono legate al provvedimento di estradizione emesso dal Supremo tribunale federale del Brasile il 16 dicembre 2009. I giudici brasiliani hanno ritenuto infatti “necessario che la Repubblica italiana si impegni formalmente a commutare la pena della detenzione perpetua inflitta all’estradando con una pena non superiore a trent’anni di prigione”. E hanno concesso l’estradizione con quella “formale condizione”, ritenendo inoltre necessaria la “detrazione del periodo in cui è stato detenuto in questo Paese”. Cioè almeno altri due anni. È sulla base di questo e altri documenti che il difensore di Battisti, l’avvocato Davide Steccanella, ha avviato l’incidente di esecuzione di cui si comincerà a discutere stamane nella prima udienza davanti alla corte d’assise d’appello di Milano. In realtà il 14 gennaio scorso l’ex militante dei Proletari armatiper il comunismo è stato consegnato all’Italia non dal Brasile bensì dalla Bolivia, dov’era stato arrestato due giorni prima. Ma quella consegna è avvenuta secondo modalità e procedure non del tutto chiare. Sia perché nell’atto notificato al difensore dalla polizia italiana è scritto che “il connazionale Cesare Battisti è stato concesso in estradizione dalle autorità della Bolivia”, senza che però risulti sia stata mai aperta (né chiusa) alcuna procedura di quel tipo in quello Stato; sia perché il detenuto è stato fermato dagli agenti boliviani mentre era giunto a un passo dal Brasile. O meglio, dall’aereo che l’avrebbe portato a San Paolo. Così ha raccontato lo stesso Battisti al giudice di sorveglianza di Cagliari, nel verbale raccolto nel carcere di Oristano e consegnato ai giudici milanesi: “Mentre salivo la scaletta sono arrivati gli ufficiali dell’Aeronautica boliviana, e c’è stato un conciliabolo con gli agenti della polizia brasiliana. Siamo quindi rientrati nella sala... Il capo della scorta brasiliana insisteva per ripartire con me, in quando questo era l’ordine che aveva ricevuto. Ci sono state varie telefonare e il caposcorta ha sicuramente parlato con qualcuno in Brasile, perché si esprimeva in portoghese. Tutto ciò è durato circa un’ora e mezza, e alla fine la scorta brasiliana è ripartita senza di me. Circa due ore dopo è entrata nella sala una decina di persone di nazionalità italiana”. Erano i poliziotti che l’hanno preso in consegna e caricato sull’aereo diretto a Ciampino. Ma la procedura di espulsione dalla Bolivia, sostiene l’avvocato Steccanella, non ha seguito le regole previste (il tempo concesso per l’eventuale ricorso e relative valutazioni). E “pur comprendendo l’estrema “urgenza” da parte dello Stato italiano di finalmente eseguire una condanna risalente a molti anni prima a carico di chi si era fino a quel momento sottratto alla stessa, non si ritiene consentito prescindere dalle procedure di diritto (trattati, accordi bilaterali, ecc.) che regolano i rapporti internazionali tra gli Stati sovrani”. E dunque, “in mancanza di una valida procedura di espulsione, quanto di un formale provvedimento di estradizione da parte della Bolivia, occorre trovare un valido titolo estradizionale, indipendentemente dall’intervenuto o meno “passaggio” fisico dell’espulso dal confinante Brasile”. Nessuno pensa di riportare Battisti in Bolivia o altrove, ma “per dare corso all’esecuzione di una pena nei confronti di un arrestato in altro Stato occorre ottenere da quest’ultimo un formale provvedimento estradizionale”. L’unico esistenze è quello concesso dal Brasile del 2009, di cui l’avvocato chiede ai giudici l’acquisizione, in modo che poi possano “conseguentemente procedere alla commutazione di pena dell’estradato”. Ecco perché, per Battisti, è così importante il rientro in Brasile bloccato sulla scaletta dell’aereo. Da lì comincia una difficile partita, dall’esito non scontato, che dopo tanto clamore politico sul suo arresto il suo difensore vuole ora giocare sul piano esclusivamente giuridico e giudiziario. Guida sotto l’influenza dell’alcool: urto contro guard rail aggravante dell’incidente stradale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 febbraio 2019 n. 7659. In tema di guida sotto l’influenza dell’alcool, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dal comma 2-bis dell’articolo 186 del codice della strada, nella nozione di “incidente stradale” deve intendersi ricompreso qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli; di tal che nella nozione di incidente stradale sono da ricomprendersi sia l’urto del veicolo contro un ostacolo, sia la sua fuoriuscita dalla sede stradale, tant’è che detta nozione è stata ritenuta applicabile allo sbandamento di un auto e al conseguente urto contro il guard-rail. Fattispecie in cui l’aggravante, per la Corte di cassazione sentenza 20 febbraio 2019 n. 7659, è stata correttamente ravvisata per il solo fatto che la vettura condotta dall’imputato era uscita di strada e aveva urtato contro il guard rail, senza la necessità di dover argomentare specificamente in ordine alla turbativa alla circolazione stradale che ne era derivata, essendo notorio che tale condotta comporta il rischio di successivi urti tra veicoli o, quanto meno, che il veicolo uscito di strada possa cagionare intralcio o disagio alla circolazione. La giurisprudenza è pacifica nel senso che, in tema di guida sotto l’influenza dell’alcool, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, nella nozione di “incidente stradale” deve intendersi ricompreso qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli; a tal fine non sono richiesti né i danni alle persone né i danni alle cose, con la conseguenza che è sufficiente qualsiasi, purché significativa, turbativa del traffico potenzialmente idonea a determinare danni. Con la precisazione, comunque, che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, è necessario anche che sia accertato un coefficiente causale della condotta della conducente rispetto al sinistro (di recente, sezione IV, 19 luglio 2018, Curci, in una fattispecie in cui l’aggravante è stata ritenuta nei confronti di un imputato che, a bordo della sua autovettura, risultava avere omesso di dare la precedenza a un veicolo proveniente dalla sua destra e aveva urtato contro di esso terminando, poi, la corsa contro un tronco di un albero; in termini, sezione IV, 8 giugno 2016, Minese, dove si è precisato che nella nozione di “incidente stradale” rientra non soltanto lo scontro tra veicoli o tra veicoli e persone, ma anche l’urto di un veicolo contro ostacoli fissi ovvero la fuoriuscita del veicolo dalla sede stradale, dal momento che si tratta comunque di una maggiore pericolosità della condotta di guida, punita più gravemente a prescindere dall’evento che si è verificato effettivamente, che può avere o meno coinvolto altri veicoli o persone). Flagranza: bastano gli elementi che provano il reato e la certezza di attribuirlo a una persona di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2019 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 21 febbraio 2019 n. 7913. Ai fini dell’arresto, la flagranza è caratterizzata dalla contestualità tra il reato e l’accertamento di polizia, nel senso che la percezione del reato - da parte di chi procede all’arresto - deve essere diretta e non mediata da terze persone (neppure da parte della vittima). La percezione è diretta, però, secondo la sentenza 7913/2019della Cassazione, anche quando è desunta da fatti obiettivi, quali sono il possesso - da parte del reo - di “cose” che colleghino il soggetto al reato, ovvero quando vi siano “tracce” che consentano di stabilire lo stesso collegamento. Per l’effetto, per potersi parlare di flagranza, è sufficiente che siano desumibili, dal contesto, elementi che provino, inequivocabilmente, la commissione di un reato (per il quale è consentito l’arresto in flagranza) e di attribuirlo con certezza ad un soggetto determinato (fattispecie in cui la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore della Repubblica, ha ritenuto che fosse stato eseguito correttamente l’arresto, in quanto le forze dell’ordine, intervenute tempestivamente una volta allertate, avevano rinvenuto il soggetto autore del reato ancora sul luogo del fatto, dove era stato sorpreso dalla persona offesa nell’atto di rovistare all’interno dello zaino sito nell’auto di quest’ultimo, per impossessarsi del portafoglio, intento effettivamente conseguito: proprio le circostanze della presenza in loco dell’autore del furto, del suo stato di agitazione e della disponibilità del portafoglio, già recuperato dalla vittima, costituivano elementi probanti del nesso tra il reato e il suo autore, su cui si fonda la flagranza). La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del pubblico ministero, avverso il provvedimento con cui il giudice non aveva convalidato l’arresto assumendo erroneamente l’assenza della flagranza, ha colto l’occasione per precisare la nozione della “flagranza” (rectius, della “quasi flagranza”) allorquando questa si sia sostanziata nel rinvenimento di cose o tracce del reato commesso immediatamente prima. La giurisprudenza è, per vero, assolutamente consolidata, nel senso che, anche alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite (sentenza 24 novembre 2015, Ventrice), la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto e il reato che consenta di ricondurre al primo la commissione dell’illecito, anche allorquando questi non sia colto nell’atto di commetterlo. Tale condizione si può configurare - alla luce dell’indicazione normativa dell’articolo 382 del codice di procedura penale, secondo cui “è in stato di flagranza chi viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima” - nel caso in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, ovvero nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (cfr. sezione IV, 26 ottobre 2017, Pm in proc. Kukiqi e altro; cfr. anche sezione IV, 14 dicembre 2018, Proc. Rep. Tribunale di Bologna in proc. Capitale, laddove, in particolare, la Cassazione ha ritenuto che fosse stato eseguito correttamente l’arresto, nella quasi flagranza, in quanto le forze dell’ordine, intervenute tempestivamente una volta allertate, avevano rinvenuto il soggetto autore del reato ancora sul luogo, rappresentando questa stessa presenza una “traccia” del reato, rimasto peraltro nell’ipotesi di un tentativo, commesso immediatamente prima). Circonvenzione di persone incapaci: natura e configurabilità del reato Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2019 Reati contro il patrimonio - Circonvenzione di incapace - Bene giuridico tutelato - Natura di reato di pericolo - Consumazione - Momento - Individuazione. Il reato di circonvenzione di persone incapaci è un reato di pericolo previsto a tutela del bene giuridico del patrimonio della persona offesa, con la conseguenza che il momento di consumazione dello stesso deve essere individuato nel momento della sua idoneità a produrre il pericolo di effetti pregiudizievoli e non in quello di verificazione del pregiudizio sul patrimonio dell’offeso o di terzi. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 5 marzo 2019 n. 9656. Reati contro il patrimonio - Delitti - Circonvenzione di persone incapaci - In genere - Stato di deficienza psichica - Accertamento - Passione morbosa - Possibilità - Fattispecie. In tema di circonvenzione di incapaci, al fine di accertare lo stato di deficienza psichica della vittima, può assumere rilievo anche la passione morbosa che essa nutre per l’agente, poiché la tenace presenza di un’idea dominante, carica di contenuto emotivo, e la forte tensione affettiva possono, specie in persone anziane o in soggetti dalla personalità debole, avere un effetto deviante del pensiero critico e un’azione nettamente inibitrice sulla volontà. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 21 agosto 2018 n. 38705. Reati contro il patrimonio - Circonvenzione di persone incapaci - Elemento materiale - Stipula di preliminare e poi di definitivo - Consumazione frazionata - Effetti ai fini della prescrizione. In presenza di stipula da parte di soggetto ritenuto incapace di preliminare e di successivo definitivo, il delitto di circonvenzione di persone incapaci assume la forma tipica del delitto a consumazione frazionata poiché più episodi dannosi si consumano in danno della medesima vittima a opera dello stesso autore. E poiché ciascuno dei suddetti negozi giuridici comporta effetti dannosi per la vittima incapace (il preliminare perché da esso sorgono obblighi, e il definitivo poiché a esso è collegato l’effetto traslativo della proprietà, ove si tratti di vendita), ciascuno di essi è idoneo a integrare l’ipotesi di cui all’articolo 643 del codice penale,con la conseguenza che, ove vengano stipulati entrambi, si profila una prosecuzione della condotta delittuosa in distinti momenti, entrambi poi rilevanti ai fini dell’individuazione della data del commesso reato e, quindi, del momento iniziale da cui far decorrere il termine prescrizionale. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 25 luglio 2018 n. 35446. Reati contro il patrimonio - Circonvenzione di persone incapaci - Elemento materiale - Stato di infermità o deficienza psichica del soggetto passivo - Caratteristiche - Accertamento. Per la configurabilità del delitto di cui all’articolo 643 del codice penale, non si richiede che il soggetto passivo versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente che esso sia affetto da infermità psichica o deficienza psichica, ovvero da un’alterazione dello stato psichico, che sebbene meno grave dell’incapacità, risulti tuttavia idonea a porlo in uno stato di minorata capacità intellettiva, volitiva o affettiva che ne affievolisca le capacità critiche. In particolare, lo stato di deficienza psichica del soggetto passivo richiesto per la configurabilità del reato, anche inteso quale presupposto oggettivo, non è quello di una completa assenza delle facoltà mentali o di una totale mancanza della capacità di intendere e di volere, pur momentanea, essendo sufficiente una minorata capacità psichica, uno stato di deficienza del potere di critica e di indebolimento di quello volitivo tale da rendere possibile l’altrui opera di suggestione, o tale da agevolare l’attività di induzione svolta dal soggetto attivo per raggiungere il suo fine illecito. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 25 luglio 2018 n. 35446. Reati contro il patrimonio - Delitti - Circonvenzione di persone incapaci - In genere - Reato a condotta plurima - Momento consumativo - Fattispecie. Nella circonvenzione di incapace, reato a condotta plurima, qualora i momenti della “induzione” e della “apprensione” non coincidano, il reato si consuma all’atto della “apprensione”, che produce il materiale conseguimento del profitto ingiusto nel quale si sostanzia il pericolo insito nella “induzione”. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha annullato la sentenza che aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato di circonvenzione di incapace consistito nella induzione alla redazione di un testamento olografo, in quanto il momento consumativo non si era realizzato con la condotta di induzione ma con la successiva pubblicazione dell’atto e l’accettazione dell’eredità, fatti produttivi di un effetto dannoso per il soggetto passivo e da cui deriva il materiale conseguimento del profitto ingiusto). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 2 maggio 2017 n. 20669. Cassino (Fr): sezione del carcere inagibile e detenuti trasferiti, gli avvocati incalzano di Vincenzo Caramadre Il Messaggero, 18 marzo 2019 I cedimenti strutturali alla terza sezione detentiva del carcere di Cassino hanno determinato il trasferimento di oltre cento de- tenuti. Un’emergenza sicurezza esplosa pochi giorni fa, certificata dai vigili del fuoco, alla quale è seguita l’evacuazione notturna della struttura. Negli ultimi giorni i sindacati penitenziari, a più riprese, hanno posto la questione sicurezza nei bracci del carcere, ma ora sono gli avvocati che chiedono spiegazioni all’amministrazione penitenziaria. Il trasferimento dei detenuti nei penitenziari in provincia di Rieti, Viterbo e Napoli, peraltro ancora non ultimato, ha messo in agitazione gli avvocati penalisti del Foro di Cassino. La distanza e la permanenza fuori dalla giurisdizione crea difficoltà logistiche per gli incontri con i detenuti. Fa venir meno quel rapporto continuo che deve esserci necessaria- mente tra difensore e detenuto. Ma anche con le famiglie. Per questo motivo l’Ordine Forense di Cassino (presieduto dall’avvocato Gianluca Giannichedda) si è rivolto all’amministrazione penitenziaria e, con una missiva, ha chiesto spiegazioni su quanto avvenuto nella terza sezione del carcere San Domenico, interessata dai cedimenti strutturali, ma anche sul criterio con cui sono stati scelti i detenuti da trasferire e l’assegnazione ai singoli penitenziari di destinazione. E, non da ultimo, i tempi di risoluzione delle problematiche strutturali. Il trasferimento dei detenuti ha investito soprattutto i penalisti, per questo in campo sono scesi la Camera penale di Cassino, presieduta dall’avvocato Eduardo Rotondi, e l’Osservatorio carcere, coordinato dall’avvocato Sara Simone. “Il trasferimento dei detenuti, oltre alle difficoltà logistiche nel rapporto tra difensore e detenuto, ha un forte impatto anche sulla territorialità connessa alle visite dei familiari e a tutti i servizi radicati a beneficio dei detenuti. Su tutti i servizi sociali”, ha spiegato l’avvocato Rotondi. “Chiederemo - ha aggiunto l’avvocato Simone - un incontro alla direzione del carcere per avere spiegazioni nei dettagli. Comprendiamo, naturalmente, che il problema è strutturale e non gestionale, per cui occorrerà un intervento diretto dell’amministrazione penitenziaria, ma occorre al più presto dettare almeno la tempistica d’intervento”. C’è anche chi sottolinea l’esigenza di un nuovo penitenziario per Cassino. E` il sindacato autonomo Sappe. “Nel corso della stesura del Piano carceri abbiamo chiesto di ragionare su un nuovo penitenziario per Cassino, ma la nostra richiesta è rimasta lettera morta. Il personale della polizia penitenziaria e i detenuti del carcere sono stati lasciati allo sbando: in condizioni insalubri, indecenti”, ha spiegato Donato Capece, segretario generale del Sappe. Milano: “Liberi dentro”, dalla colpa alla responsabilità nel carcere di Bollate di Andrea Ponzano today.it, 18 marzo 2019 Da colpa a responsabilità: così in carcere si può tornare “liberi”. Nel carcere di Bollate, uno degli istituti di pena più all’avanguardia d’Europa, è stato attivato un percorso di giustizia riconciliativa che prova a dare una risposta nuova sul tema della sicurezza. Siamo andati a parlare con i detenuti di “Liberi dentro”. La giustizia non può essere solo punitiva. Lo dice l’articolo 27 della nostra Costituzione. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma l’esperienza degli istituì penitenziari è drammatica: la recidiva per alcuni tipi di reati è del 68%. Un valore altissimo. In Italia il 50% dei detenuti sono sotto psicofarmaci. Ogni anno 160 detenuti si suicidano in carcere. Non si potrà aumentare la sicurezza senza diminuire la recidiva. “Quando una persona finisce in carcere, la responsabilità è collettiva perché a fallire è l’intero sistema educativo”. Secondo Daniel Lumera, direttore di My Life Design è responsabile del progetto “Liberi dentro”, molte persone che finiscono in carcere sono nate e cresciute in condizioni molto complesse e non hanno avuto una possibilità educativa. La sola punizione non basta. È necessario un percorso che rieduchi il detenuto, che lo responsabilizzi che gli dia l’opportunità di non tornare più a commettere lo stesso sbaglio. “Io credo che la giustizia ripartiva abbia un’efficacia maggiore rispetto a quella punitiva”. Per Simona Gallo, funzionario giuridico pedagogico del carcere di Bollate e referente interno di “Liberi dentro”, un approccio solo punitivo alla pena serve solo a recludere la persona ma non necessariamente a migliorarla. Dopo Bollate, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) ha dato l’approvazione del progetto per altre tre carceri italiane. Non solo. “Liberi dentro” è in fase di attivazione anche in Spagna. Un progetto che sta diventando un’eccellenza italiana, un nuovo modo di affrontare il tema della sicurezza che non coinvolge solo il detenuto. Anche gli educatori, la polizia penitenziaria, le famiglie del detenuto, l’intera comunità. Padova: caso Guerra, i parenti non si arrendono “vogliamo vera giustizia” Il Mattino di Padova, 18 marzo 2019 La famiglia annuncia che andrà avanti in tutte le sedi deputate. “Riteniamo l’Arma responsabile I militari hanno braccato Mauro in modo arbitrario e illegittimo”. La famiglia di Mauro Guerra non si arrende e dopo l’assoluzione del maresciallo Marco Pegoraro perché “il fatto non costituisce reato” e la lettura delle motivazioni della sentenza, annuncia che continuerà la sua battaglia in tutte le sedi deputate per avere finalmente giustizia. “Questo è quello che scrive testualmente il Tribunale: “Indubbiamente Mauro Guerra ha inteso difendersi verso quella che lui percepiva essere una indebita compromissione della sua libertà personale. In effetti è da ritenere che tutto l’inseguimento per i campi, nonché i tentativi di immobilizzazione della persona offesa, siano state condotte del tutto arbitrarie ed illegittime”, dicono gli avvocati della famiglia Guerra, Fabio Pinelli e Alberto Berardi. “Si legge che i militari hanno posto in essere un “grave tentativo di stordimento del Guerra (che in quel momento era un libero cittadino), attraverso la somministrazione occulta di una dose di tranquillante”. E ancora che “nel suo complesso, un’operazione così orchestrata si sarebbe posta, come minimo, in aperto contrasto con i più elementari diritti costituzionali di libertà personale, autodeterminazione ed integrità fisica del cittadino. Ci chiediamo se, a fronte di questa rappresentazione dell’Autorità giudiziaria, di un intervento così illegittimo, da parte dei carabinieri, sia non solo condivisibile, ma addirittura accettabile, una sentenza di assoluzione”. I genitori del trentaduenne e i due fratelli da sempre sostengono che Mauro “doveva essere assistito, nel caso curato, non braccato e poi ucciso”, come sottolineano i legali. “Sarebbe stato sufficiente lasciarlo andare; era in un campo disabitato, si trovava, scalzo, solo e non armato: oggi sarebbe ancora in vita”. La sentenza per la famiglia è stata sicuramente un brutto colpo, che però annuncia non farà arrestare la sua sete di giustizia. Quindi i parenti non hanno intenzione di arrendersi. “Nonostante la delusione per la sentenza insensata di assoluzione, alla luce di queste motivazioni, riteniamo sempre e comunque i carabinieri responsabili in modo assoluto della morte di Mauro. E faremo tutto quello che la legge permette per stabilire le singole responsabilità e per arrivare ad avere la giustizia che Mauro merita”. La Spezia: carcere e diritti negati, un convegno in Sala Dante cittadellaspezia.com, 18 marzo 2019 Nell’epoca dei social si sta affermando quella che gli studiosi definiscono la “democrazia di opinione” che tende a celebrare i processi ed a dispensare pene sull’onda dell’emozione o, ancor peggio, in funzione del consenso elettorale. Si tratta di un fenomeno che contrasta con lo stato di diritto anche se, talvolta, lo prende a pretesto per un dibattito improntato più alla vendetta che alla giustizia. Tutto questo non può far dimenticare il tema della giustizia e, per discesa, quello delle pene fra le quali la reclusione e l’ergastolo. Da tempo, ormai, è aperto un dibattito sul carcere (e sulla qualità della detenzione) inteso come “pena incapace a rieducare” e come afflizione posta a cardine dell’intero sistema. Se ne mette in dubbio, in particolare, la centralità e gli effetti di stigmatizzazione che ne derivano. Non si tratta di temi astratti ma di problematiche che investono l’intera società in tutte le sue espressioni e che concorrono a definire la qualità del nostro ordinamento giuridico. Questi temi saranno affrontati nel corso del convegno L’uomo ed il suo reato: fine pena 9999” che si terrà venerdì 22 marzo nella Sala Dante(Via Ugo Bassi,4) con inizio alle ore 15.30. L’amministrazione comunale di La Spezia ha gentilmente concesso agli organizzatori la gratuità della sala dimostrandosi sensibile al tema. L’iniziativa è stata voluta dall’associazione Liberarsi Onlus, da Ristretti Orizzonti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, da Lavocedegliergastolani e da Yairaiha Onlus con uno scopo ben preciso: focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla centralità del carcere come pena. Luca Bresciani (docente di Diritto Penitenziario e Procedura Penale presso l’Università di Pisa), fra i relatori del convegno, ricorda che oggi “l’intervento punitivo sconta una concezione dell’individuo come mero destinatario o di una sofferenza per il male da lui provocato o di un intervento riabilitativo che è pensato essenzialmente a ridimensionare il timore di una possibile ricaduta. Il senso della pena finisce, così, con l’esaurirsi in un assoggettamento del condannato alle ragioni del “sistema”, trascurando qualsiasi visione prospettica in grado di promuovere una ricostruzione dei legami inter-soggettivi che il comportamento delittuoso ha infranto. Dunque la pena che non ha perduto significato e funzioni, (specie se dura) continua a svolgere anche nel mondo contemporaneo il ruolo di strumento privilegiato in una logica di prevenzione e di giustizia retributiva a vantaggio delle vittime. Ma, perché possa essere adeguatamente valorizzato il “senso” della pena, deve assumersi come condizione di credibilità la capacità dello Stato-punitore di saper garantire condizioni di vita carceraria il più possibile consone alla dignità umana di ogni detenuto: la dignità come diritto personale fondamentale che la Costituzione protegge: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità umana”. La riflessione verterà, dunque, sul carcere non come momento di pura afflizione ma come opportunità di rieducazione. Si ascolteranno non solo studiosi, giuristi ed operatori del settore ma anche testimonianze dirette di chi il carcere lo ha vissuto nell’espiazione di una pena. Il programma prevede interventi di Licia Vanni (responsabile trattamento casa circondariale La Spezia) Deborah Cianfanelli (avvocato ma anche membro del direttivo del Partito Radicale) Daniel Monni (studioso di diritto penale), Pasquale Zagari (ergastolano), Ornella Favero (direttrice di Ristretti Orizzonti), Giuliano Capecchi (Presidente Associazione Liberarsi) e Nadia Bizzotto (Comunità Papa Giovanni XXIII) ma anche di Carmelo Musumeci (ergastolano che durante la detenzione ha conseguito tre lauree ed è autore di diversi romanzi e pubblicazioni). Nell’ambito del convegno sarà presentato il volume “Illuminato Fichera. La libertà nell’era del carcere” firmato da Daniel Monni e Carmelo Musumeci. Bari: Mat Teatro porta in scena “L’Altro sguardo” al carcere minorile Fornelli bonculture.it, 18 marzo 2019 La Sala Prove, lo spazio teatrale dell’Istituto Penale per i Minorenni “N. Fornelli” di Bari, riapre al pubblico con due date, il 21 e 22 marzo, per lo spettacolo “L’Altro Sguardo” della compagnia Mat Teatro, all’interno della rassegna Area Teatrale Interna 2018/19 - Ritorno all’Origine, realizzata grazie alla collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, Istituto Penale per i Minorenni “Fornelli - Bari, Teatri di Bari/Teatro Kismet OperA, Compagnia CasaTeatro. Con la direzione di Lello Tedeschi e la partecipazione della Compagnia CasaTeatro, diretta da Piera Del Giudice, che vi innesta il proprio lavoro artistico e produttivo, il progetto propone una visione triennale di lavoro, di cui presenta quest’anno il primo movimento, intitolato Ritorno all’origine. In prospettiva, la creazione di una comunità artistica, tecnica, educativa e organizzativa professionale stabile, composta da giovani detenuti e non, per produrre spettacoli professionali e distribuirli nei circuiti nazionali, realizzare e curare la programmazione culturale multidisciplinare pubblica degli spazi, promuovere attività formative - artistiche, organizzative, educative - in rete con gli Istituti Scolastici della città e l’Università. Dopo la presentazione, a dicembre, del primo studio della Compagnia della Sala Prove, con detenuti- attori e non, la Sala Prove ospita ora L’altro sguardo, un progetto Mat Teatro, immaginato e realizzato per l’occasione da Riccardo Lanzarone, in scena con Alex, detenuto-attore della Compagnia della Sala Prove. Note di regia - L’altro sguardo non è uno spettacolo, ma un incontro tra persone, il tema del lavoro sarà: “le origini”. Proveremo a ricordare il momento della nostra nascita, il punto di partenza come esseri viventi. Tracceremo un filo rosso della nostra esistenza. La restituzione pubblica del lavoro sarà frutto di una giornata di laboratorio, dove il partecipante e il conduttore scriveranno una loro breve autobiografia, concentrandosi in particolar modo sulle proprie origini: da dove vengo? Chi ero? Chi sono? Chi potevo essere? Chi volevo essere? Chi sarò? Posti limitati - Ingresso su prenotazione, fino a esaurimento posti, esclusivamente inviando una mail all’indirizzo botteghino@teatrokismet.it, scrivendo il proprio nome e cognome e il giorno della replica a cui si intende assistere, entro e non oltre sabato16 marzo. Migranti. Il mistero del film sull’accoglienza nascosto dal Viminale di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 18 marzo 2019 Martedì sarà proiettato a Montecitorio e a Caserta. Voluto e pagato dal ministero dell’Interno, girato da cinque diversi registi, racconta sei storie. In un cassetto degli Interni c’è un film che è stato pensato, voluto, messo a concorso, appaltato, vidimato e infine pagato dallo stesso ministero ma che nessuno ha mai potuto vedere. Sparito. S’intitola “Paese nostro”, parla di immigrati, è stato girato da cinque diversi registi e racconta sei storie. Che domani, a dispetto del Viminale, saranno proiettate alla Camera. Il “Mistero della pellicola scomparsa”, se vogliamo dargli un titolo cinematografico, comincia il 20 gennaio 2016. Tre anni fa. Quando viene pubblicato un bando del ministero dell’Interno, in quel momento retto da Angelino Alfano, “per l’affidamento del servizio di realizzazione di film documentari che raccontino il tema dell’accoglienza di richiedenti e titolari di protezione internazionale”. Il tutto “nell’ambito del Fami”, cioè il Fondo asilo migrazione integrazione. Accoglienza - Spiega questo bando, dopo una miriade di citazioni di regolamenti del Parlamento e della Commissione Ue oltre che di leggi italiane, che i documentari dovranno valorizzare “il tema dell’accoglienza e dell’integrazione dei richiedenti e titolari di protezione internazionale come prassi ordinaria e non emergenziale, attraverso la diffusione dei film documentari, oggetto della presente procedura, nei contesti più diversi al fine di rafforzare la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione, in particolare nella popolazione giovanile”. Il film documentario - Detto questo, stabilisce che “il servizio dovrà concludersi entro e non oltre il 15 novembre 2016”, che “l’importo massimo previsto per la realizzazione dell’iniziativa è di Euro 125.000,00 (Iva esclusa)”, che “sono ammessi a partecipare tutti gli operatori economici con una esperienza nella produzione di audiovisivi/film di almeno sette (7) anni, di cui almeno cinque (5) nella realizzazione di documentari su tematiche di ambito sociale” eccetera eccetera. La firma, per conto del ministro, è del prefetto Angelo Malandrino. La gara viene vinta da ZaLab che, dice il sito web, “è un’associazione per la produzione, distribuzione e promozione di documentari sociali e progetti culturali. Un collettivo di cinque film-maker e operatori sociali: Michele Aiello, Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre, Sara Zavarise”. Un gruppo che da 2006 “ha prodotto e distribuito in sala e televisione film documentari pluripremiati a livello internazionale…” Collaborazione - Da quel momento, come racconta Segre, regista di “Io sono Li”, “Mare Chiuso”, “L’ordine delle cose” e autore di una delle sei storie di “Paese nostro”, tutto “è andato avanti in un continuo confronto, passaggio dopo passaggio, tra il Viminale e noi. Collaborazione piena. Senza un dettaglio che non fosse concordato con il committente. E senza, ovviamente, alcuna contestazione da parte ministeriale”. Approvata la scelta delle realtà prese ad esempio, da Porto San Giorgio (Fermo) a Palermo, da Chiesanuova (Torino) a Schio (Vicenza), da Lamezia Terme a Caserta. Approvate le sei storie su “operatori sociali coinvolti nell’accoglienza, i loro sacrifici, le loro difficoltà, i loro dubbi, la loro quotidiana sfida per la costruzione di una società più aperta e democratica” in diverse regioni italiane legate ai progetti Sprar, cioè il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati poi destinato a essere cambiato dal governo gialloverde. Approvato il rispetto dei tempi di consegna del film. Approvato il pagamento della cifra stabilita dall’appalto. Insomma, tutto okay. Perse le tracce - Dal momento della consegna, però, del documentario si sono perse le tracce. Che voleva farne, il ministero? Darlo alla Rai perché lo mandasse in onda? Distribuirlo nelle scuole che ne avessero fatto richiesta? Metterlo a disposizione online di ogni associazione non profit che volesse mostrare in una conferenza esempi delle difficoltà e delle opportunità offerte dall’integrazione? Vai a saperlo… Ricevuto il film, il Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione l’ha chiuso in un cassetto e ciao. Silenzio - Ad Angelino Alfano è subentrato Marco Minniti, a Marco Minniti è subentrato Matteo Salvini. E niente. Il silenzio. Per oltre due anni. Finché, esasperati e delusi, gli autori del film scomparso hanno spedito al prefetto Gerarda Pantalone, del Dipartimento Libertà civili e immigrazione, una lettera nella quale, dopo aver ricordato i fatti, scrivevano che, dato che “il film non è ancora stato distribuito” e che farlo vedere poteva invece esser “quantomeno utile” per “far comprendere e conoscere al vasto pubblico, soprattutto giovanile, il tema dell’accoglienza e della protezione internazionale” loro avevano deciso di “distribuire il film a nostre spese”. Senza fini di lucro. Senza mai far pagare un biglietto. Chiedevano dunque se il ministero intendesse “accompagnare tale distribuzione allo scopo di accrescerne la portata e l’impatto” o se al contrario non intendesse farlo “rilasciandoci in tal caso piena malleva e liberatoria nella nostra azione volta a ottemperare alle prescrizioni contrattuali”. A Montecitorio e a Caserta - Era il 14 novembre 2018. Risposta? Zero. Per settimane. Mesi. Un silenzio tombale, accusano i registi. Manco la buona grazia di rispondere: no, non ci piace, abbiamo cambiato idea, il progetto non ci convince più… Zero. E adesso? Cosa succederà? Il Viminale si spingerà a vietare l’uso del film con la motivazione di esserne il legittimo proprietario? Vedremo. Certo è che domani mattina, alle 10, nella sala Nilde Iotti, la pellicola fatta sparire sarà proiettata a Montecitorio. Una sfida. Alla quale domani sera, a Caserta, seguirà un’altra proiezione, al Cinema Duel. Sfida doppia, stavolta. Perché ci saranno anche gli animatori del Centro sociale Ex canapificio che il Viminale ha appena fatto sequestrare per “rischio crollo”. Ci saranno il regista Andrea Segre, gli attori Toni Servillo e Valerio Mastandrea. La polemica, a naso, è appena cominciata. Libia. Unhcr: “Meno salvataggi in mare, allarme sfollati” dire.it, 18 marzo 2019 I dati sono contenuti in un documento dell’Onu che evidenzia per il 2019 una diminuzione di interventi e ritorni. Sono 855 le persone intercettate e riportate a riva dalla Guardia costiera libica da inizio anno nel Mar Mediterraneo: i dati sono contenuti in un documento pubblicato dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), che evidenzia per il 2019 una diminuzione di interventi e ritorni. Nello stesso periodo dell’anno scorso le persone riportate sulla costa libica erano state 3.622. I dati indicano che sono 170.490 gli sfollati interni in Libia - La maggior parte di questi, 27.200, si concentrano nell’area urbana di Bengasi, 189mila sono invece rientrati nel proprio territorio. I profughi di altre nazionalità in cerca di asilo all’estero sono 57.050. Di questi il 41 per cento sono siriani, il 19 per cento sudanesi e il 15 per cento eritrei. Secondo lo studio, la maggioranza degli sfollati incontra difficoltà nell’accedere a un rifugio sicuro e dignitoso, nell’usufruire di cure mediche, nell’accesso all’istruzione scolastica e ai servizi essenziali. Inoltre, secondo Unhcr, molti rifugiati sono esposti a rischi connessi a ordigni bellici che si trovano in aree urbane. L’Alto commissariato, che si occupa di rilevare i casi di persone a rischio nei centri di detenzione, durante 245 visite di controllo ai carceri, ha registrato negli ultimi sei mesi 4.177 individui, di cui 736 detenuti nel Centro Abu Salim a Tripoli. Questa settimana Unhcr ha rilevato 147 persone a rischio nel centro di Qasr Bin Ghashir. L’Alto commissariato evidenzia infine che l’insicurezza generale in Libia è la ragione di preoccupazione principale delle persone assistite. Iran. Per la libertà di Nasrin Sotoudeh di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 marzo 2019 Scendere in piazza per chiedere la liberazione dell’avvocata condannata in Iran sarebbe una rivoluzione giusta e pacifica, necessaria e urgente. Ma almeno una firma con Amnesty International non dovrebbe costare molta fatica. Sarebbe bello, ma non accadrà, che le nostre piazze si riempissero di giovani in protesta contro la sentenza infame che a Teheran ha condannato Nasrin Sotoudeh a 38 (trentotto!) anni di galera e a 148 (centoquarantotto!) frustate. La colpa: aver difeso in tribunale la ragazza che aveva avuto il coraggio di togliersi in pubblico il hijab, il velo che obbligatoriamente deve coprire il capo delle donne e che nella sua obbligatorietà (al contrario della, eventuale, libera scelta di indossarlo) rappresenta un simbolo di oppressione di subalternità del genere femminile. Sarebbe bello che l’opinione pubblica mondiale si mobilitasse contro questa mostruosità, ma non accadrà, prigionieri come siamo della nostra ipocrisia, del nostro terrore di metterci contro uno Stato liberticida ma potente come l’Iran con il quale siamo pronti a stringere qualsiasi accordo, dal nostro doppio standard morale: iper-indignato oppure indifferente, a seconda delle circostanze, delle opportunità, delle convenienze, dei rischi eventuali. Sarebbe bello almeno che si rispondesse numerosi alla petizione di Amnesty International per la liberazione di Nasrin Sotoudeh o all’appello promosso dai Radicali. Sarebbe bello almeno informarsi sulle battaglie di un avvocato come la Sotoudeh, da sempre impegnata bella difesa dei diritti umani, collaboratrice del Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, Premio Sacharov nel Parlamento europeo del 2012. Di lei si ricorda una parte nel film girato in clandestinità di Jafir Panahi, “Taxi Teheran” e che vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino. E infatti la Berlinale ha chiesto la liberazione di Nasrin Sotoudeh. Sarebbe bello se questa battaglia per i diritti civili e per i diritti umani fosse condivisa dall’opinione pubblica mondiale, perché dei governi non ci possiamo fidare e nemmeno di un organismo screditato come l’Onu, silente di fronte all’idea di una donna coraggiosa che deve subire la condanna di 148 frustate. E che non fossero lasciate sole le donne impegnate nella battaglia di cui scrive Viviana Mazza in un libro appena pubblicato dall’editore Solferino con il titolo “Le ragazze di via Rivoluzione”. Una rivoluzione giusta e pacifica, necessaria e urgente. Almeno una firma con Amnesty International non dovrebbe costare molta fatica. Se la vita di Nasrin Sotoudeh conta qualcosa per noi. Siria. Una difficile pace dopo otto anni di guerra di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 18 marzo 2019 La conferenza sulla ricostruzione conclusa il 14 marzo a Bruxelles non ha chiarito in quale situazione potrà fare ritorno una parte dei profughi. Da otto anni si combatte in Siria. Tutto cominciò il 15 marzo 2011 con alcune manifestazioni nel clima della “primavera araba”, che portò alla fine di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia. Bashar el-Assad, succeduto al padre nel 2000, aveva deluso con novità di facciata nella continuità del potere alauita. La primavera si risolse subito in un lungo inverno che tuttora dura e ha distrutto la Siria. Parlano le cifre: quasi mezzo milione di morti; sei milioni di rifugiati all’estero, molti in condizioni inumane (come nei campi libanesi); sei milioni e mezzo di sfollati interni; otto persone su dieci sotto il livello di povertà. Un patrimonio artistico unico danneggiato o distrutto: il millenario minareto della moschea degli Omayyadi atterrato ad Aleppo, città-patrimonio dell’umanità, bombardata e ferita dalla lotta per le strade. Ci sono bambini siriani che hanno conosciuto solo la guerra: almeno quattro milioni mai andati a scuola. Ricordo un disegno di un piccolo siriano, regalatomi in un campo in Libano: rappresentava una casa che brucia e gente che fugge. L’umanità siriana, vissuta in secoli di convivialità tra religioni e comunità, è stata ferita a morte. Domenico Quirico, rapito dai ribelli per cinque mesi nel 2013, ha raccontato dall’interno la disumanizzazione dei siriani: non ho mai visto un sorriso - ha detto - nemmeno sul volto di un bambino. È il prezzo di una guerra senza fine. C’è chi ne vede l’origine nell’utopismo di quanti volevano la fine della dittatura e appoggiarono i ribelli: prima di tutto europei e americani. Altri accusano il cinismo di Assad, che ha bombardato il suo popolo. Come non concordare? La minoranza alauita, pronta a tutto, era nel panico e temeva di essere sommersa dalla maggioranza e dall’odio sunnita. Najah Alnukai, artista siriano rifugiato in Francia, ha disegnato l’inferno delle torture nelle carceri siriane, dove è stato detenuto dopo l’arresto per la partecipazione alle manifestazioni antiregime. Ricordo l’amarezza di Paolo Dall’Oglio, indomito gesuita disperso in Siria dal 2013 (di cui speriamo il ritorno), contro un regime che per lui doveva finire. Otto anni di guerra non si spiegano però con un solo motivo o un responsabile. C’è stata un’incredibile concentrazione di cause e d’interessi contrastanti. Si sono incrociati tanti e diversi conflitti. La Siria è scoppiata e sono emersi i “demoni” del Medio Oriente. Lì si è vista la più vistosa espressione della frammentazione della comunità internazionale. La Russia di Putin ha resistito tenacemente alla minaccia di perdere il Paese, appoggiando Assad, anche se la sua strategia non sempre coincide con il presidente. Dall’autunno 2015 le forze russe sono scese al fianco del governo che, in quel momento, controllava meno del 30% del territorio e sembrava agli sgoccioli. L’Iran ha sempre appoggiato Damasco, temendo che la sua fine rompesse la continuità sciita da Teheran al Libano, passando per un Iraq instabile. Nel campo opposto non si possono seguire le crisi e le trasformazioni dei vari gruppi ribelli che, sebbene in perenne conflitto tra loro, sono giunti a contestare il controllo governativo delle città più importanti. La ribellione antigovernativa si è radicalizzata, anche per l’afflusso di combattenti d’ogni provenienza, appoggiata da numerosi Paesi arabi, tra cui i sauditi. Sulla scena siriana, si è levato un minaccioso protagonista, Daesh, l’autoproclamato califfato di Al Baghdadi, che ha fatto saltare, con la frontiera Iraq-Siria, l’ordine imposto dopo la prima guerra mondiale e ha occupato la storica città di Palmira nel 2015. Daesh, a un certo punto, si è proiettato come minaccia globale all’Occidente. Nella coalizione anti-Daesh, sostenuta dagli americani, si sono affermati i curdi dello Ypg, che hanno creato una regione autonoma, Rojava, con l’appoggio americano: fatto insopportabile per Erdogan. Così, per la prima volta dal 1918, i turchi sono tornati in Siria e, dal 2016, controllano una terra che fu parte della Sublime Porta. Con nostalgia ottomana, hanno sempre presidiato, come extraterritoriale, la tomba d’un capostipite della dinastia Osman vicino a Aleppo. Oggi i combattimenti si concentrano su quel che resta del Free Syrian Army attorno a Idlib e nelle sacche di resistenza di Daesh. Assad, cui gli Stati arabi cominciano a fare aperture, ormai controlla il 65% del Paese, mentre il resto è dei curdi (che dovranno negoziare, per quel che potranno, uno spazio nella Siria di domani) e, in parte minore, dei turchi e dei ribelli. L’esito finale è scontato, ma il Paese è in ginocchio. La conferenza sulla ricostruzione della Siria a Bruxelles, conclusa il 14 marzo, ha chiesto importanti risorse. Una parte dei profughi forse potrà tornare. In quale Siria? La nuova Siria non potrà essere la restaurazione di quella di otto anni fa. Troppi abissi aperti e troppo sangue versato. Si potranno conciliare le esigenze del potere (a suo modo vincitore) e della rappresentanza democratica? Sono risposte da trovare con l’aiuto della comunità internazionale che, però, è stata impotente e divisa negli otto anni passati. La guerra non è finita, né finirà senza serie premesse per la pace. Turchia. Morto in sciopero della fame il prigioniero curdo Zulkuf Gezen di Gianni Sartori ilpopoloveneto.it, 18 marzo 2019 Gran brutta notizia. Purtroppo c’era da aspettarselo. Nella prigione (di tipo F) di Tekirdag, dove scontava l’ergastolo, è morto un prigioniero politico. In carcere dal 2007, Zulkuf Gezen era in sciopero della fame illimitato per protestare contro l’isolamento a cui viene sottoposto il leader curdo Abdullah Ocalan. Attualmente sono centinaia le prigioniere e i prigionieri politici (e altrettanto numerosi i militanti fuori dalle carceri, anche in Europa: a Strasburgo, Parigi, Bruxelles, nel Galles…) che con questa radicale protesta - alcuni da più di cento giorni come Leyla Guven - esprimono la loro ribellione nei confronti della politica carceraria adottata da Ankara. Bahrein. Qui si può finire in carcere per un tweet su un criminale di guerra di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2019 Il 25 dicembre 2018 Ebrahim Sharif, già prigioniero di coscienza del Bahrein ed esponente del Comitato centrale della Società nazionale per l’azione democratica (un movimento politico definitivamente sciolto due mesi fa), pubblica sul suo profilo Twitter una foto del presidente del Sudan con questa didascalia: “Fuori di qui, signore! Trent’anni fa Omar al-Bashir si presentò a bordo di un carrarmato affermando di essere il salvatore. Durante il suo regno una guerra civile dietro l’altra e la secessione del Sud [Sudan]. Ha impoverito, affamato e degradato il nobile popolo sudanese. Il momento è arrivato per la libertà dei sudanesi e l’abbandono del presidente dittatore. #LecittàdelSudansiribellano” Ai sensi dell’articolo 215 del codice penale del Bahrein, che punisce chi “offende pubblicamente un Paese straniero o i suoi leader”, il 13 marzo Sharif è stato condannato a sei mesi di carcere e al pagamento di una multa equivalente a circa 1150 euro. Ha annunciato che la pagherà per poter rimanere libero in attesa del processo d’appello. Quell’hashtag si riferiva alle rivolte scoppiate in Sudan alla fine dello scorso anno, tuttora in corso, in cui sono morti oltre 55 manifestanti, ne sono stati feriti oltre 2500 e sono state arrestate 2mila persone. Omar al-Bashir è responsabile anche di questo. Ma è bene ricordare che il presidente sudanese è, per la giustizia internazionale, un latitante: da dieci anni è ricercato dal Tribunale penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Darfur. Nonostante il mandato di cattura internazionale, al-Bashir fa danni in patria e scorrazza impunemente nei Paesi africani e arabi che lo difendono spudoratamente, come dimostra la condanna di Sharif. Dell’intolleranza della famiglia reale bahreinita per i dissidenti che usano Twitter abbiamo già parlato a proposito della condanna di Nabil Rajab. Del silenzio dei principali alleati del Bahrein, Usa e Regno Unito, pure. Qui vale la pena ricordare anche il silenzio dell’Italia. Del resto, da un Paese nel quale il re del Bahrein paga per intitolarsi una cattedra dell’Università La Sapienza, cosa c’è da aspettarsi? *Portavoce di Amnesty International Italia I diseredati dell’Honduras, la carovana che fugge dai narcotrafficanti di Roberto Saviano La Repubblica, 18 marzo 2019 La rotta dei disperati e il ruolo degli Usa. Uccidere o essere uccisi: non hanno alternative. Sono partiti lo scorso ottobre, poi la nuova marcia. È il più grande esodo dal narcotraffico dell’umanità. La carovana di migranti partita l’ottobre scorso dall’Honduras è stata la più grande fuga dal narcotraffico nella storia dell’umanità. Nonostante il fenomeno delle carovane centroamericane non sia nuovo, non era mai successo che migliaia di persone decidessero di fuggire così in massa dalle organizzazioni criminali. I migranti sono partiti da San Pedro Sula, città non lontana dal confine con il Guatemala, la seconda più popolosa dell’Honduras e suo centro economico. Circa 160 persone si erano date appuntamento il 12 ottobre alla stazione degli autobus, ma al momento della partenza erano già un migliaio. Si sceglie di partire insieme per farsi da scudo, per proteggersi l’un l’altro, perché spesso durante il viaggio si viene derubati anche di quel poco che si ha. L’alternativa è affidarsi ai trafficanti, i coyotes, che chiedono circa 7-8mila dollari per arrivare negli Usa, a volte anche di più. Una cifra che si può raccogliere in decenni di lavoro e per cui spesso ci si indebita con delinquenti a cui si dovranno soldi a vita. Dal 2011 al 2014 San Pedro Sula è stata la città più violenta del mondo, finché Caracas nel 2015 le ha tolto il primato. Le organizzazioni criminali hanno ridotto da parecchi anni il Paese a uno stato di guerra senza che ufficialmente venga annoverato come tale. Nel 2012, l’Honduras era il Paese con il tasso più alto di omicidi pro capite: 90 persone uccise ogni 1000 abitanti, ma a San Pedro Sula si arrivò a 169 omicidi ogni 100 mila abitanti. L’Honduras è il luogo in cui sono state girate molte edizioni internazionali de L’isola dei famosi; per anni è stato, nell’immaginario occidentale, solo un paradiso naturale di spiagge bianche, popolato di pesci e palme da cocco generose, dove il fastidio più grande è dato dalle zanzare. Ma la storia è ben altra. Il World Economic Forum, nel suo Global Competitiveness Report annuale, stila la classifica dei Paesi in cui la criminalità organizzata ha il maggiore impatto sulla società: nel report pubblicato alla fine del 2017, l’Honduras si piazza al secondo posto, preceduto solo da El Salvador; nel report del 2018, il Salvador continua a guidare la classifica, mentre l’Honduras scende al quinto posto. Insieme a El Salvador e al Guatemala, l’Honduras forma il cosiddetto “Triangolo del Nord del Centro America”, una delle aree non in guerra più pericolose del pianeta. Il motivo che rende queste terre un vero e proprio inferno in terra è il fatto che si trovano geograficamente tra chi produce cocaina - la Colombia, il Perù e la Bolivia - e chi la vende - il Messico. La carovana di migranti segue esattamente la rotta via terra della cocaina che ogni giorno entra negli Stati Uniti, i maggiori consumatori mondiali di questa droga. Già nel 1975, l’Honduras era utilizzato come scalo dal Cartello di Cali dei Rodríguez Orejuela (i rivali di Pablo Escobar). Dopo il loro arresto, rivelarono alle autorità che la cocaina partiva dalla Colombia in aereo e atterrava proprio a San Pedro Sula, poi da lì ripartiva alla volta di Miami. In realtà, fino agli anni ‘80, per trasportare la coca negli Stati Uniti i cartelli colombiani utilizzavano principalmente il mare, passando per i Caraibi e sbarcando in Florida, ma quando l’antidroga Usa intensificò i controlli in quel tratto di mare e iniziò a sequestrare sempre più carichi di droga, la rotta via terra che dal Centro America, attraverso il Messico, raggiungeva gli Stati Uniti sembrò una valida alternativa. E questa rotta divenne sempre più battuta quando le guerre civili in El Salvador e in Guatemala finirono (rispettivamente nel 1992 e nel 1996). Ma la fine di quei conflitti diede anche un’altra opportunità ai cartelli. Durante le guerre civili, infatti, le madri, per salvare i propri figli dal diventare o guerriglieri del Fronte Farabundo Martí o soldati dell’esercito regolare mandati al massacro, li spedirono negli Stati Uniti; abbandonati al loro destino a Los Angeles, emarginati dalla società, questi ragazzi crearono le famose maras, cioè bande di strada formate da giovani immigrati centroamericani per difendersi dalle gang afroamericane, asiatiche e messicane che già imperversavano nella città californiana. Nacquero così gruppi violentissimi, molto coesi, come la Mara Salvatrucha (MS13) o la Mara 18. Il governo statunitense non vedeva l’ora di sbarazzarsi di questo problema e, quando finirono le guerre civili in Centro America, rivomitò letteralmente nelle loro terre d’origine migliaia di giovani, partiti ragazzini e tornati mareros, i quali videro nel narcotraffico un’opportunità, e i cartelli la videro in loro. Nel frattempo, l’Honduras, l’unico Paese dell’area a rimanere estraneo alla guerra civile, oltre ad essere sfruttato come piattaforma del contrabbando dalle organizzazioni criminali, era stato usato dagli Stati Uniti come base per fornire supporto ai Contras, i paramilitari che lottavano contro il governo socialista del Nicaragua: ecco, quindi, che dall’Honduras passava di tutto, dalla droga alle armi. Nel 2010 gli Stati Uniti per la prima volta hanno definito l’Honduras uno dei principali Paesi di transito della droga. L’Honduras e il Centro America hanno pagato un prezzo altissimo per le politiche degli Stati Uniti, ma Trump si limita a sfruttare l’effetto della tragedia. Tipico del populismo è non ragionare mai sulle cause, ma dare una lettura superficiale e opportunistica dei fenomeni: ecco quindi che il Presidente parla di “invasori”, di “freddi e spietati criminali” che arriverebbero per occupare e depredare. Nulla di tutto questo. Oggi in Centro America le maras sono i più efficienti centri per l’impiego per giovani disoccupati: secondo un report dell’Unodc, nel 2012 in Honduras si contavano 12mila membri (ma un report dello stesso anno della US Agency for International Development ne stimava 35mila). Queste gang controllano il territorio in modo capillare e proteggono il narcotraffico dei grandi cartelli. Le attività commerciali vengono sottoposte a estorsione, le strade delle città diventano teatro degli scontri tra bande rivali che si contendono le piazze di spaccio, nella jungla vengono disegnate piste clandestine per aerei carichi di coca che vanno e vengono. I ragazzi, sempre più giovani, vengono reclutati dalle maras come soldati del narcotraffico, e rifiutarsi di entrare nel gruppo può essere fatale. Chi critica il sistema e cerca di cambiarlo viene eliminato. Dal 2010 al 2016 più di 120 attivisti per l’ambiente e diritti umani sono stati uccisi. Dal 2001 circa 70 giornalisti sono stati ammazzati, e oltre il 90% di questi omicidi è rimasto impunito. È da questa situazione che si fugge, da un panorama che sembra non offrire alcun futuro se non uccidere o essere uccisi. Da San Pedro Sula a Tijuana, al confine con gli Usa, ci sono oltre 4mila chilometri, e chilometro dopo chilometro la carovana si è ingrossata fino a contare circa 10mila persone. Da metà novembre, a ridosso della frontiera si sono creati grandi campi profughi con migliaia di persone ammassate in tende, in attesa che la loro richiesta di asilo fosse vagliata. Di fronte alla prospettiva di rimanere settimane, forse mesi, in quel limbo di insicurezza e precarietà, alcuni di loro hanno tentato di attraversare illegalmente il confine, altri hanno chiesto asilo in Messico, altri ancora hanno desistito e sono tornati indietro. A metà gennaio centinaia di migranti ancora premevano al confine. Nella carovana c’erano anche madri e padri partiti per far curare i loro figli disabili negli Stati Uniti, come Juan Alberto Matheu, che ha percorso oltre 4000 chilometri con sua figlia Lesley, in carrozzina dopo un ictus avuto all’età di due anni. Durante le tappe del percorso, Juan Alberto cercava dei catini per poter fare il bagno alla bambina. Dopo aver trascorso 3 settimane in un campo profughi a Tijuana, Juan è finalmente riuscito ad entrare negli Stati Uniti e, dopo 4 giorni in custodia, è stato rilasciato ed ha potuto finalmente far visitare sua figlia in un ospedale americano. Jakelin Caal Maquin, 7 anni, era sana, invece, quando è partita con suo padre Nery Gilberto da Raxruhá, in Guatemala, 3200 chilometri dagli Usa. La sera del 6 dicembre vennero entrambi arrestati da una pattuglia di frontiera in New Mexico, dopo avere attraversato illegalmente il confine. Poche ore dopo, mentre era sotto la custodia degli agenti americani, Jakelin cominciò ad avere febbre alta e convulsioni: morì il giorno dopo in ospedale per setticemia e disidratazione. Sono questi i pericolosi criminali di cui parla Trump? Sono queste le persone violente contro cui ha autorizzato i soldati a usare la forza letale se necessario? Nonostante le sue numerose dichiarazioni, non ci sono prove della presenza di criminali o di narcotrafficanti al seguito della carovana. I giornalisti che l’hanno seguita hanno sempre testimoniato la presenza di persone comuni, disperati che non sono criminali ma che, anzi, dai criminali scappano. Far passare queste persone come pericolose, arrivare a dire che la carovana sarebbe infiltrata da “ignoti mediorientali”, però, a Trump serve, perché in questo modo potrà utilizzare qualsiasi provvedimento emergenziale per impedir loro di entrare o rimanere negli Stati Uniti; ma soprattutto alimenta quel clima di terrore e di diffidenza verso l’altro su cui Trump ha costruito campagne e sancito successi elettorali. Se convince gli americani che al confine Sud esiste un’emergenza, sarà più facile anche convincerli che serve un muro con il Messico. Non ottenere quel muro, che è stato il mantra della sua campagna presidenziale, significherebbe deludere il suo elettorato e mostrarsi debole, significherebbe far vincere i democratici, e non solo su questo punto: sul muro Trump si sta giocando la sua rielezione. Per questo non appena ha saputo della partenza di una nuova carovana dall’Honduras, il 15 gennaio ne ha approfittato per twittare che per fermare i migranti non basteranno le politiche messe in atto dai democratici, ma solo il muro funzionerà. Eppure, nonostante la politica di chiusura messa in atto dal governo statunitense negli ultimi mesi, nonostante i tweet minacciosi di Trump, nonostante le centinaia di centroamericani ancora fermi in Messico in attesa di trovare asilo, nonostante gli arresti per chi ha scavalcato illegalmente il confine e i rimpatri di migliaia di persone, il dato di fatto è che una nuova carovana di disperati è partita. Si sono messi in viaggio pur sapendo che, dopo settimane di cammino, entrare negli Stati Uniti non sarebbe stato un epilogo scontato. La politica di Trump non può fare nulla per fermare la loro fuga per la vita. Nicaragua. Negoziati in stallo. Il nunzio chiede di liberare altri detenuti farodiroma.it, 18 marzo 2019 Dopo la liberazione di circa 100 persone arrestate durante le proteste dei mesi scorsi in Nicaragua, in carcere restano oltre 600 prigionieri politici e il Nunzio apostolico Waldemar Stanislaw Sommertag si attende che il problema sia affrontato in sede di tavolo negoziale al quale egli è presente a nome del Papa, mentre i vescovi locali si sono tirati indietro. Tra i detenuti ci sarebbero una ragazza di 12 anni e una ragazza di 14 anni ma anche un prete cattolico, Juan Domingo Gutiérrez, vicario della parrocchia di San Agustín a Managua, arrestato mentre portava la bandiera del Nicaragua. La polizia non solo non ha negato il numero dei detenuti, ma ha giustificato la privazione della loro libertà. Le forze dell’ordine hanno spiegato, attraverso un comunicato stampa, che erano stati costretti a ristabilire l’ordine pubblico. Nei giorni scorsi il nunzio, si è recato in visita al Penitenziario femminile e al Penitenziario nazionale Jorge Navarro, noto come “La Modelo”, per incontrare i prigionieri politici. Il presule, si legge in un comunicato della Nunziatura, inviato all’agenzia Fides, ha avuto “una conversazione personale, sincera e aperta” con tutti, ricordando “l’importanza della preghiera per sentire la vicinanza di Dio, con i cuori pieni di fiducia e animati nella ricerca della vera pace”. Nel Paese, intanto, faticano a riprendere i negoziati perchè dopo il passo indietro dei vescovi anche i delegati dell’Alleanza civica per la giustizia e la democrazia, che riunisce imprese, società civile, agricoltori e studenti, hanno sospeso la loro partecipazione. Il rilascio di altri 107 prigionieri potrebbe sbloccare la situazione.