Terrorismo. Verifiche a tappeto nelle carceri di tutta Italia di Michela Allegri Il Messaggero, 17 marzo 2019 Le nuove direttive dal Viminale. Monitorati i penitenziari: “Rischio emulazioni e ritorsioni”. Salvini: “Nessun allarme sull’estremismo di destra o sinistra”. Verifiche a tappeto nelle carceri di tutta l’Italia, per controllare le reazioni di detenuti islamici radicalizzati e di estremisti di destra alla strage di Christchurch, in Nuova Zelanda. I controlli dell’Antiterrorismo partono dall’istituto penitenziario di Montacuto, ad Ancona, dove si trova Luca Trani. Il rischio di ritorsioni è considerato alto, visto che, su uno dei fucili utilizzati da Brenton Tarrant per uccidere quarantanove fedeli durante l’ora di preghiera in due moschee, c’era anche il nome del trentenne di Macerata, condannato a 12 anni di reclusione per il raid xenofobo in cui nel febbraio dello scorso anno rimasero feriti sei migranti. Anche se dal ministero dell’Interno fanno sapere che non risultano rapporti tra Tarrant e l’Italia, le indagini sono già iniziate. Il nome del terrorista australiano non era mai stato segnalato alla nostra intelligence - è stato svolto anche un controllo approfondito sui suoi contatti all’estero - ma il pericolo che ora qualcuno possa emularlo esiste. A 24 ore della strage, ieri, il Viminale ha riunito in via straordinaria il Comitato di analisi strategica antiterrorismo e ha impartito direttive finalizzate a “evitare il rischio emulazione” e di fenomeni di ritorsione. Una decisione presa all’indomani delle dichiarazioni del ministro Matteo Salvini, che avevano suscitato polemiche: “L’unico estremismo che merita di essere attenzionato è quello islamico”, aveva detto a Napoli, rispondendo ai cronisti che gli chiedevano se, dopo i fatti di Christchurch, ci fosse da preoccuparsi anche in Italia. Parole definite “folli” da Matteo Renzi e sulle quali ieri il vicepremier è tornato: “Ribadisco che gli elementi che abbiamo non ci danno allarmi su estremismi di destra o di sinistra. Sono fenomeni fortunatamente marginali e controllati. Il maggior numero di controlli che firmo io e le risultanze dei servizi di intelligence mi dicono che il fenomeno più attenzionato è quello dell’integralismo islamico”. Dalla riunione del Casa intanto è emerso che “l’eventualità di ritorsioni ad opera di ambienti radicali” effettivamente esiste, ed è pari al rischio di atti di emulazione. Per questo motivo è stata disposta “una rinnovata attività di monitoraggio”. Che partirà, appunto, dai controlli nelle carceri, dove è più frequente assistere a fenomeni di radicalizzazione. Ma non solo. È stato anche moltiplicato il lavoro d’intelligence per tenere sotto osservazione i soggetti pericolosi già schedati. Sono in corso intercettazioni e controlli serrati sul web, tra chat, blog e social network. Sono stati anche intensificati i contatti con forse di polizia e servizi segreti di altri Paesi per lo scambio di informazioni. A poche ore dalla strage, anche il Dipartimento di Pubblica Sicurezza aveva chiesto massima attenzione, soprattutto ai luoghi di culto, con una circolare riservata a prefetture e questure. Un atto accompagnato dall’invito ad attivare tutte le fonti investigative “al fine di raccogliere ogni informazione circa l’eventuale pianificazione delittuosa”. Sul fronte delle indagini, le forze di polizia italiane hanno garantito la massima collaborazione internazionale. “I nostri apparati di sicurezza restano vigili per monitorare la situazione. Abbiamo la fortuna di contare su forze di polizia e intelligence tra le migliori al mondo, ma non abbassiamo la guardia - ha dichiarato ancora Salvini - Non ci sono evidenze di rischi organizzati: stiamo attenzionando che non ci siano azioni o reazioni dall’una o dall’altra parte in territorio italiano. Da quello che ci risulta l’attentato non è riconducibile a una rete, a un legame, a una strategia ma a degli infami, delinquenti che non si possono commentare”. “Un medico ogni 325 detenuti e per il 70% sono precari”. In carcere è allarme sanità Gazzetta del Mezzogiorno, 17 marzo 2019 Un solo medico di base in ogni carcere ogni 315 detenuti, per un totale di 1.000 medici di base e di guardia nei 206 istituti di pena italiani. Troppo pochi per garantire un servizio adeguato. L’assistenza sanitaria nelle carceri è dunque “a rischio”, mentre il numero dei detenuti sfiora il totale di 65.000 registrando una grave situazione di sovraffollamento. La denuncia arriva dal coordinatore nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale Fimmg Medicina Penitenziaria Franco Alberti, che avverte: “Mancano medici nelle carceri, nonostante passate circolari del ministero della Giustizia stabilissero la presenza di 1 medico ogni 200 detenuti, e la situazione è grave”. “I detenuti sono oggi circa 65.000, ben più dei 40-45.000 che potrebbero essere ospitati nelle strutture carcerarie. C’è una situazione nota di sovraffollamento alla quale - spiega Alberti - è davvero difficile fare fronte. I medici che lavorano nelle carceri sono infatti 1.000, ma va detto che circa il 70% di questi è rappresentato da medici precari e sottopagati”. Ovviamente, il numero dei medici varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media, sottolinea, “oggi possiamo dire che ci sia un medico per ogni 315 detenuti. La nostra richiesta è che ve ne sia uno almeno ogni 150. I medici di base, che garantiscono l’assistenza ambulatoriale per 3-4 ore al giorno, secondo il fabbisogno da noi calcolato dovrebbero essere 1.044; i medici di guardia, che fanno assistenza h24 a turno, dovrebbero invece essere 1.588, e va detto che attualmente in varie carceri i medici di guardia mancano del tutto”. A conti fatti dunque, rispetto al totale di 1.000 medici penitenziari oggi attivi, per garantire un’adeguata assistenza mancano all’appello 1.632 camici bianchi. In queste condizioni numeriche “è difficile lavorare anche considerando - sottolinea Alberti - che nei casi più gravi il 118 impiega non meno di 30 minuti per poter entrare nelle strutture carcerarie”. Insomma, “manca personale medico e così - denuncia - i medici sono costretti in alcuni casi a turni continuativi, con i rischi connessi alla situazione di stress”. C’è poi anche un’altra criticità. Con il Dpcm 1 aprile 2008, l’assistenza sanitaria è transitata dal ministero della Giustizia a quello della Salute e quindi al Servizio sanitario nazionale. A distanza di 11 anni, rileva l’esponente Fimmg, “non è però ancora stato fatto un contratto collettivo per i medici penitenziari, contemplato nell’Accordo collettivo nazionale Acn della Medicina generale, creando situazioni paradossali e contratti legati alle interpretazioni delle varie Regioni”. Ma c’è di più: “Si sta assistendo - sottolinea - a una fuga dei vecchi medici legata alla situazione precaria, sostituiti da colleghi che non sono preparati ad affrontare questo lavoro, e tra l’altro sottopagati”. Da qui la richiesta della Fimmg: “È necessario garantire una formazione adeguata istituendo un corso di un anno che permetta di lavorare in carcere perché, sia per l’abbandono volontario sia per i pensionamenti, il sistema potrà entrare in crisi”. “Proponiamo l’istituzione di un’unica Asl Nazionale Penitenziaria interregionale, che possa sovrintendere all’organizzazione del servizio e al personale sanitario dei 206 istituti penitenziari”, conclude. Un ricordo di don Giuseppe Diana, per non dimenticare L’Osservatore Romano, 17 marzo 2019 L’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, ha invitato a celebrare negli istituti penitenziari “una giornata in memoria, di riflessione e di preghiera”. La morte di Diana, scrive Grimaldi (“amico di studi nel seminario di Aversa”), fu “un ammonimento verso coloro i quali hanno osato sfidare la camorra e che con forza e coraggio denunciavano gli affaristi della morte”. Don Diana “era un giovane schietto, coraggioso, sacerdote impegnato a fasciare le molte ferite degli uomini e nel recupero dei giovani ai quali dedicava il suo tempo e tutte le sue energie per servire la Chiesa”. Il suo cuore “era già proiettato al di là, molto attento anche a quello che accadeva fuori dal seminario, alle problematiche sociali”. Perciò “è nostro dovere ringraziare il Signore, perché attraverso il sangue dei martiri la Chiesa si rafforza, cresce e rende testimonianza al Vangelo dell’amore”. Riflettere sul martirio di don Peppino è anche “una grande opportunità per risvegliare le coscienze e dire con forza che nessuno è padrone della vita dell’altro”. Il i8 marzo, nel carcere di Secondigliano, si terrà l’incontro “Per testimoniare la verità e la giustizia”. Interverranno, oltre a don Grimaldi, il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, e il vicario generale, monsignor Franco Picone. Imputabili a 12 anni? Più di mille ragazzini già a rischio processo di Viviana Lanza Il Mattino, 17 marzo 2019 Devianza minorile e abbassamento dell’età imputabile. Il ministro Salvini ha annunciato, in occasione della sua presenza a Napoli per il vertice sulla sicurezza, un disegno di legge al vaglio del governo che valuta una stretta alle misure di repressione, portando la punibilità a dodici anni di età. Effetto immediato sui minori a rischio processo: almeno un migliaio a Napoli. anche a partire dai numeri. È il caso del fenomeno della devianza minorile. In questi giorni è tornato attuale il dibattito sull’abbassamento dell’età imputabile. Il ministro Matteo Salvini ha annunciato, proprio in occasione della sua presenza a Napoli per il vertice in Prefettura sulla sicurezza, un disegno di legge al vaglio del governo che valuta una stretta alle misure di repressione, considerando di abbassare la soglia della impunibilità a dodici anni di età. I numeri, dicevamo. A Napoli se la proposta diventasse legge finirebbero nelle maglie della giustizia mille minorenni, bambini o poco più, con età tra i dodici e i tredici anni. Sono quelli rimasti coinvolti in indagini per fatti tra i più vari ma nei cui confronti non sono stati adottati provvedimenti giudiziari perché la norma attualmente prevede che l’età imputabile sia dai quattordici anni in su. Sono soprattutto bambini che vivono in contesti disagiati, provengono dai quartieri di periferia, in assenza di sani punti di riferimento si accodano facilmente ai violenti, cercano il branco, la baby-gang, per sentirsi più grandi e più forti e provare a colmare carenza di affetto, vuoti di cultura, mancanza di opportunità. A Napoli, come in altre città, ormai è frequente che i minorenni, anche quelli che non sono ancora entrati nella piena adolescenza, delinquono: devastano scuole, rubano o accoltellano in strada, fanno branco o finiscono al servizio della camorra come sentinelle o confezionatori di droga. I dati sulla devianza minorile parlano di 20mila minorenni accusati di reati in tutta Italia, 2mila solo a Napoli. Di questi oltre un centinaio sono sottoposti a misura cautelare, circa una cinquantina sono detenuti nel carcere minorile di Nisida e poco più di settanta in quello di Airola, e per il resto sono in comunità di recupero o, grazie all’istituto della messa alla prova, liberi di frequentare la loro scuola, la propria casa, a volte il proprio quartiere e quindi la strada. Perché queste misure alternative non sempre risultano efficaci per rieducare i minori che hanno commesso reati. Le stime calcolano che circa 1’85% torna a delinquere. Numeri che invitano a una riflessione. Catello Maresca è un magistrato in forza alla Procura di Napoli. Si è a lungo occupato di reati violenti gravi e con le sue inchieste ha contribuito a indebolire molti clan della camorra, in particolare quello dei Casalesi. Due anni fa, con l’imprenditore Rosario Bianco, ha fondato l’associazione “Arti e mestieri” per fornire alle nuove generazioni, e in particolare ai ragazzi provenienti da contesti devianti o disagiati, la possibilità di imparare un mestiere e avere un’alternativa nella vita. Ha letto il disegno di legge sull’abbassamento dell’età imputabile e si dice “astrattamente favorevole, soprattutto al fatto che si torni a parlarne”. La questione è sul tavolo da anni e si fonda su teorie e studi sull’età in cui si comincia ad avere una reale percezione di ciò che si compie. “Oggi già a dodici anni i ragazzi possono aver fatto esperienze che li rendono capaci di intendere e di scegliere di compiere una certa azione. Abbassare l’età imputabile, secondo quanto previsto dal disegno di legge, non significa che a dodici anni si va per forza in carcere, ma che il giudice ha la facoltà di valutare quale misura adottare per i reati commessi dai minori tra i dodici e i diciotto anni di età e non più tra i quattordici e i diciotto”. Le parole chiave sono due: “Rigore, legato al concetto educativo che chi sbaglia paga (e possono capirlo anche i bambini), e recupero, nel senso di potenziare le misure per assicurare la funzione rieducativa della pena e rendere efficienti le comunità e i servizi sociali”. Maresca evidenzia che la sola repressione non basta, che occorre investire in una rete sociale efficace. Dall’esperienza sul campo, dagli incontri con gli studenti di tutte le scuole e dai faccia a faccia con criminali di ogni specie si è convinto che “se tendi una mano la maggior parte dei ragazzi la afferrano, perché vogliono uscire dal degrado e dalla criminalità”. “Servono esempi positivi e concreti - spiega - e nei casi più gravi, anche se è doloroso, serve allontanare i minori dalle proprie famiglie”. Maria Luisa Iavarone è la mamma di Arturo, il ragazzo che in via Foria a dicembre di un anno fa fu accoltellato alla gola da un gruppo di minorenni, tra i quali anche un bambino di poco più di dodici anni, parente di un personaggio ritenuto legato ad ambienti di camorra e che è stato riaffidato alla madre. Cosa ne sarà di questo bambino? Chi controllerà che non ricada in fatti di violenza o di illegalità? Sono domande che restano aperte di fronte a realtà come queste. Maria Luisa Iavarone ha trasformato la paura e il dolore per quello che è accaduto al figlio in impegno sociale, adesso anche con l’associazione Artur che presiede: “Adulti responsabili per un territorio unito contro il rischio”. Per lei abbassare l’età imputabile non serve: “Non credo che i dodicenni di oggi siano più maturi e consapevoli di quelli di un tempo né che possa servire metterli nella rete della giustizia se tutto intorno, famiglia, società, scuola, istituzioni hanno trame troppo larghe. Meglio costruire attorno a questi ragazzi una rete fatta di relazioni efficaci, di sinergie positive tra istituzioni, badando alla qualità degli incastri e facendo in modo che ciascuno faccia la propria parte, costruendo una massa critica, un sistema”. Ha due proposte: “Ancorare il reddito di cittadinanza al registro delle presenze a scuola dei figli, per contrastare la dispersione scolastica e responsabilizzare di più genitori e famiglie. E creare un elenco di famiglie in grado di rieducare i minori a rischio come alternativa a certe strutture di recupero che non funzionano e che oggi costano 3mila euro al mese a ragazzo”. Giovanni Maria Flick: “Femminicidi, troppa discrezionalità nelle sentenze” di Marco Menduni Il Secolo XIX, 17 marzo 2019 Bologna, Genova, Ancona. La tempesta emotiva, l’ambiguità della donna, la scarsa avvenenza. Femminicidio e violenza, le sentenze che hanno fatto discutere negli ultimi giorni. Qual è l’opinione di Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale? “Sul fenomeno del femminicidio e sulle polemiche che accolgono alcune sentenze - risponde il giurista - mi pare che una considerazione prevalga su tutte. È necessario non tanto un discorso di legalità e di strumenti tecnici: l’aumento della pena o come non applicare le attenuanti in certi casi. Ma è indispensabile un’educazione all’affettività, ai suoi limiti e al rispetto della pari dignità e della libertà del partner, che deve precedere e accompagnare quella alla legalità.”. Come guardare alle recenti sentenze, quelle che più hanno creato sconcerto nell’opinione pubblica? “Mi sembra equilibrata la reazione del presidente del Consiglio. Un richiamo alla necessità che non si esasperi la polemica ma che si escluda la possibilità di riconnettere alla “tempesta emotiva” o alla delusione o alla gelosia un femminicidio”. La magistratura ha reagito dicendo che si discute di alcune frasi di una sentenza... “In questo senso non mi ritrovo nella reazione della magistratura che parla di una estrapolazione di fatti e di affermazioni. Del resto anche il Pg della Cassazione si è espresso in questo senso: le sentenze devono essere caute, anche nelle parole. È vero che la vicenda va valutata nella sua completezza, ma non vedo come possa essere rimproverato il cogliere i momenti che paiono salienti nella decisione del giudice. La motivazione è fatta apposta per essere conosciuta e anche valutata da parte della società. E condivido chi ha il timore che alla fine possa essere “accusata” la vittima”. In un contesto in cui la situazione femminile continua a essere complessa… “Abbiamo celebrato l’Otto Marzo, non ci sono solo le mimose, ma anche tante difficoltà nel cammino della donna sul lavoro, nelle retribuzioni, nell’occupazione dei posti apicali, secondo la classificazione proposta dalla Banca Mondiale: l’Italia è agli ultimi posti”. È anche un problema di dimensione sociale… “Questo discorso risponde a premesse culturali, anzi, sub culturali che continuano ad accompagnare la donna, nonostante gli sforzi. Premesse che colgo nelle proposte di riapertura delle case chiuse. La Corte Costituzionale ha fatto giustizia, dicendo che una cosa è la libertà della donna anche in questo campo, tutt’altra il favoreggiamento o l’assistenza per motivi economici”. Anche in altri recenti avvenimenti? “La critica alla cantante Emma Marrone. Propone di riaprire i porti, si risponde con una proposta oscena per lei: si nega il diritto a una donna a esprimere valutazioni politiche. Poi il manifesto di Crotone, con l’accusa alla donna a raggiungere una marcata autodeterminazione, vista solo come scalino per il rancore nei confronti dell’uomo. Come il richiamo al suo “ruolo naturale”: casa, chiesa, cucina”. Un contesto di intolleranza alle istanze di autonomia… “Il femminicidio è la punta più grave, insanguinata, dell’iceberg della diversità femminile. Fa il paio con altre due diversità accompagnate dall’intolleranza: quella dell’ebreo, quella del migrante. E mi sembra che più la donna si batte per la parità si accentua l’ostilità dell’uomo che non si vuole far sfuggire le sue posizioni”. Le ultime sentenze? “C’è il rischio che la considerazione della posizione dell’uomo in queste sentenze, molte rese da donne, oltre a essere una giusta valutazione della necessità di personalizzare la pena, possa essere frutto inconscio della contrapposizione tra la donna che guarda al cambiamento del ruolo e quella che rimane più condizionata dalla cultura tradizionale, della sottomissione e del parer familias. Si trovano ampie tracce nella cultura giuridica in passato”. Che cosa fare di fronte a questa situazione? “Bisogna evitare troppo spazio discrezionale nella oscillazione della pena. Per chi non è un tecnico è difficile comprendere il meccanismo delle aggravanti e delle attenuanti e non è detto lo debba comprendere. L’equilibrio sarebbe agevolato da un minor ventaglio tra il minimo e il massimo della pena: tra la valutazione del danno, la morte della vittima, e la rieducazione del colpevole”. Il rito abbreviato determina la riduzione di un terzo della pena… “Nella filosofia del rito abbreviato si è fatto il cambio tra le esigenze di efficienza e di velocità e quelle di approfondimento. Forse è da rivedere questo discorso, almeno verso quei reati che provocano una forte scossa emotiva, che meritano un approfondimento più ampio e non un automatismo nella riduzione della pena”. Femminicidi, siamo tutti salviniani di Mattia Feltri La Stampa, 17 marzo 2019 C’è stata un’interessante convergenza, in questi giorni, fra Matteo Salvini, suoi alleati, aspiranti tali e oppositori: raggiunta l’unanime opinione che i sedici anni inflitti all’uxoricida di Genova siano una vergognosa bazzecola. Come al solito, Salvini si è espresso in una forma giurisprudenziale particolarmente brusca: “Deve marcire in galera”. Altri, da Forza Italia all’estrema sinistra passando per il Pd, hanno impegnato un linguaggio più contenuto per esprimere però un concetto non dissimile: un femminicidio non merita attenuanti, la pena dev’essere più severa. Dimezzarla (hanno detto) riconduce al medioevo e al delitto d’onore. E qui già si assommano alcuni problemi, il più evidente dei quali è che nessuna pena è stata dimezzata. Ogni volta che lo avete letto o sentito, sappiate che è una stupidaggine. Per dimezzare una pena bisogna che un’altra sia già stata appioppata, e non è il nostro caso: i sedici anni sono la pena di primo grado. Il giudice, semmai, ha quasi dimezzato la richiesta del pubblico ministero, che era di trent’anni. Non è un dettaglio: un pm non è un giudice, non emette sentenze né stabilisce pene, e la confusione, filosofica e dunque pratica, ce la trasciniamo da decenni, e ci porta a scambiare le ipotesi di accusa per tre quarti di verità, ed è grave che la alimentino donne e uomini delle istituzioni, magari abituati a proclamarsi garantisti. La sentenza di Genova viene appaiata a una recente di Bologna in cui un altro femminicida è stato condannato alla medesima reclusione: sedici anni. Si è detto che all’imputato è stata riconosciuta l’attenuante della gelosia. Bene, non era un’attenuante: era l’aggravante. Totale disinformazione. Le condizioni psichiche dell’imputato hanno suggerito una pena più mite: se ne può discutere, ma è un’altra faccenda. A Genova l’attenuante sta nell’illusione e nella delusione provocati da lei in lui. Certo, detta così fa spavento. Ma la storia, in sintesi, è più complicata: lei lo tradisce ripetutamente, lui si scoccia e va in Ecuador, lei lo prega di tornare, ti amo, sono pentita, e appena lui torna scopre che lei continua a tradirlo. Perde la testa e d’impeto la ammazza con una coltellata. Un omicidio, e come tale va trattato. Volete un’espressione più in sintonia coi tempi? Un femminicidio schifoso. Ma non tutti gli omicidi sono uguali. Se avessero dato trent’anni all’uxoricida di Genova, quanti se ne dovevano dare per una fredda premeditazione? E quanti a Norbert Feher (Igor il russo) che assassinava senza pensarci su per riempirsi le tasche? Quanti a Totò Riina cui si attribuirono duecento morti ammazzati? Forse sedici anni sono pochi, forse no, ma non ci sono i presupposti per dibatterne. Lo sconfortante premier Giuseppe Conte (un avvocato, santo cielo) ha chiamato il facile applauso dichiarando che “nessun sentimento giustifica un femminicidio”. Infatti non è stato giustificato: è stato valutato e sanzionato. Solo parole al vento. Questo è un Paese in cui si battezzano le emergenze (immigrati delinquenti, corruzione, violenza sulle donne) e ognuno chiede giustizia esemplare, anziché giustizia giusta, in base a quale tema gli sta più a cuore. I neri marciscano in galera, i corrotti marciscano in galera, i femminicidi marciscano in galera. Fine della soluzione. In questo siamo tutti (o quasi) salviniani: non si chiede ai colpevoli di rispondere dei loro reati, con diverse gradazioni di gravità, ma di rispondere di un’emergenza, e in base a quanto agita gli animi e scala le classifiche di sgradimento (mi dichiaro convintamente femminista dopo aver letto che per il giudice di Genova, Silvia Carpanini, la giustizia non è mai esemplare, e non coincide con le emozioni dell’opinione pubblica: c’è ancora un’illuminista in Italia). Che avremmo fatto noi, con le nostre stucchevoli emozioni, di Anders Breivik? Ricordate? È il norvegese che nel 2011 uccise settantasette persone, quasi tutti ragazzi. Gli hanno dato ventuno anni, lì il massimo della pena, e in un carcere che pare un residence. Ci siamo indignati, forse con qualche ragione. E però i detenuti norvegesi, quando tornano in libertà, hanno il tasso di recidiva più basso d’Europa, cioè non ci ricascano quasi mai. Da qualche parte, nel mondo, una cosa da medioevo è marcire in galera. Femminicidi, le parole dei giudici fanno male a noi donne di Myrta Merlino La Stampa, 17 marzo 2019 Caro Mattia Feltri, l’articolo in cui commenti le sentenze di Genova e Bologna è ineccepibile. Ma non sono d’accordo con te. L’ho pensato subito leggendoti e soprattutto ho sentito il bisogno di scrivertelo in forma pubblica. Perché in queste due vicende c’è molto di più. Non tutti gli omicidi sono uguali, scrivi. È vero. Ma le parole hanno un peso. Le parole contano. Non lo scrivo da donna, e invece sì. Perché le parole possono far male soprattutto a noi donne. Se in una sentenza - nello specifico, quella di Genova - un magistrato scrive che l’assassino “ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”, io sento un brivido dietro alla schiena. Anche se la sentenza è motivata, corretta giuridicamente, lo stato d’animo di chi decide di accoltellare la moglie non può mai essere “umanamente” comprensibile. Altrimenti è finito tutto. E non mi sento “medioevale” nel pensarlo. Bisogna stare attenti all’utilizzo delle parole perché il rischio è proprio quello che denunci tu, che le parole vengano strumentalizzate. Le sentenze sono riservate a tecnici e giuristi, certo, ma poi vengono lette anche dai cittadini. Vengono commentate nelle famiglie, al bar, nei nuovi e pericolosissimi bar dei social, e, sì, persino nei talkshow televisivi. Mi sbaglierò, ma la mia sensazione è che queste sentenze riflettano un clima culturale pericoloso. La mia sensazione è che il virus del machismo e della misoginia stia riprendendo a circolare un po’ come il morbillo. E che i vaccini non siano mai abbastanza. Vedi Mattia, è pericoloso parlare di “tempesta emotiva” in un Paese in cui il delitto d’onore e il matrimonio riparatore sono stati definitivamente cancellati solo nel 1981, un Paese in cui una ministra, prima autorevole e competente avvocata, come Giulia Bongiorno dice, in trasmissione da me, che “serve disparità per avere parità, con leggi spudoratamente sbilanciate in favore delle donne”. Tu dirai che questi sono discorsi diversi, che non vanno messi insieme. Ebbene io non ne sono così sicura. Anche io, come te, penso che nessuno debba “marcire in galera”. Anche io chiedo una giustizia giusta, come recitava un antico slogan. Ma se un magistrato, in un momento così delicato, sente l’esigenza di rilasciare un’intervista per spiegare che “anche un assassino può fare compassione”, e poi, di conseguenza, la sua pena viene ridimensionata dai 30 anni chiesti dal pm ai 16 poi inflitti, io non sono d’accordo. E voglio poterlo rivendicare. Senza che questa mia opinione venga interpretata come una richiesta di forche o processi sommari. Ma solo come quella di una madre che ha insegnato a suo figlio che una donna non si tocca neanche con un fiore, e a sua figlia adolescente che l’amore è libertà e mai violenza. Risponde Mattia Feltri Carissima Myrta, la tua lettera intensa e delicata non mi smuove dal disagio di vivere in un mondo in cui, su una sola frase di motiva- zioni di sentenza, si pasteggia virtualmente. Nessuno le legge le sentenze, si tira fuori la righetta scivolosa e ci si fa attorno la danza della panza. Va bene, suggeriamo ai giudici di ricalibrare il loro lessico sui gusti onnivori e onniscienti della società interconnessa, sempre nel vento di un’emozione anziché di un ragionamento. Va bene, lo dico senza ironia, attenti alle espressioni scivolose. Ma un giudice è chiamato per legge, non per bizza, a valutare lo stato d’animo, o piscologico, o psichico di un imputato, anche di un omicida, e fino addirittura a rinunciare alla pena se ha ucciso in incapacità di intendere e di volere, o in condizioni di necessità. Chi uccide in condizioni di necessità, per esempio, è del tutto comprensibile. L’omicidio d’impeto di un uomo ripetutamente ingannato muove da uno stato d’animo profondamente diverso, e diversamente sanzionabile, da quello di un uomo geloso che l’omicidio lo premedita freddamente. Questo è il punto di Genova, il resto è twitteria. Calabria: Osservatorio Carcere, sovraffollamento in crescita, soprattutto a Reggio cn24tv.it, 17 marzo 2019 “Una politica giudiziaria, quella portata avanti dal Governo, all’insegna di un evidente sovradosaggio del diritto penale, sempre meno extrema ratio e sempre più strumento fondamentale per la raccolta dei consensi elettorali”. È in sintesi quanto riportato in un documento, a firma della Camera penale “Alfredo Cantáfora” di Catanzaro, sulla base di una riflessione di Orlando Sapia, Responsabile dell’Osservatorio Carcere della stessa Camera. Il sovraffollamento nelle carceri italiane - si legge infatti nel report - sarebbe in costante crescita. Il 31 gennaio scorso si è raggiunta la cifra di 60.125 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 50.500 (a cui bisogna togliere almeno altri 4600 posti non utilizzabili), con ciò segnando un tasso di sovraffollamento del 118,94%. La realtà del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Cedu nel 2013, per Sapia dunque “rende sempre più degradanti le condizioni di vita dei detenuti, in aperta violazione dell’art. 27 della Costituzione laddove prescrive che le pene non possono consistere a trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”. La situazione in Calabria - si evidenzia ancora documento della Camera penale - “è purtroppo in perfetta sintonia con la tendenza nazionale. Difatti, la maggior parte degli istituti penitenziari calabresi soffre la triste realtà del sovraffollamento. Se la situazione più grave è sicuramente rappresentata dalla casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, in cui il tasso di sovraffollamento è arrivato al 137,62 %, anche nella casa circondariale “Caridi” di Catanzaro, negli ultimi anni, si è registrata una notevole crescita della popolazione detenuta tanto da arrivare, nel corso del 2019, a toccare le 700 presenze”. Ciò nonostante, ribadisce Sapia, “l’attuale compagine governativa si è contraddistinta per avere incentrato la propria azione legislativa sul tema della sicurezza. Il decreto Salvini, successivamente convertito in legge, e la riforma in materia di prescrizione, che entrerà in vigore a partire dal 1/1/2020, sono atti legislativi che proseguono in un percorso caratterizzato da un evidente sovradosaggio del diritto penale, sempre meno extrema ratio e sempre più strumento fondamentale per la raccolta dei consensi elettorali”. “Analizzando i dati statistici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - prosegue -, si scopre che la maggior parte dei detenuti sono stati condannati per reati contro il patrimonio o in violazione del testo unico sugli stupefacenti. Violazioni molto spesso di non grande grande allarme sociale e sicuramente connesse sotto il profilo causale a condizioni di povertà ed emarginazione sociale. In tale contesto, la recente riforma in materia di prescrizione, appena inizierà a produrre i propri effetti, comporterà un ulteriore aumento del contenzioso penale e del sovraffollamento carcerario”. “Le ragioni giuridiche a sostegno della disciplina vigente in materia di prescrizione sono ampiamente conosciute: il principio della ragionevole durata del processo; il principio del venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva nei confronti dell’autore di un determinato reato, come conseguenza del trascorrere del tempo”. “Tuttavia esiste un’ulteriore ragione - conclude l’avvocato - a difesa dell’istituto attualmente in vigore: in un contesto sociale, fatto di povertà crescente, e penitenziario, fatto di sovraffollamento carcerario, la prescrizione produce gli effetti di quei provvedimenti clemenziali, ovverosia amnistia e indulto, che per lungo tempo hanno consentito la gestione del sistema penale e penitenziario italiano e che oggi, purtroppo, la Politica, per non alienarsi il consenso elettorale, non ha alcuna intenzione di realizzare”. “In questo contesto di ossessione securitaria, quindi, spetta all’avvocatura opporsi alle svolte giustizialiste e ribadire la necessità di realizzare quelle riforme non carcero-centriche, esistenti da anni come progetti di legge o deleghe legislative mai esercitate, e non ancora divenute realtà a causa di un sistema politico che sempre più utilizza “il governo della paura”. Pordenone: morte in cella, il medico si era attivato di Cristina Antonutti Il Gazzettino, 17 marzo 2019 Il medico del carcere aveva segnalato che le condizioni di salute di Gianmario Bonivento non erano compatibili con la detenzione nella casa circondariale di Pordenone, dove il 63enne di Fiume Veneto è morto nel sonno la notte tra giovedì e venerdì. Si tratta di una segnalazione indirizzata al Tribunale di sorveglianza di Udine e che era in corso di valutazione, dopo che lo stesso magistrato aveva negato al 63enne il ripristino degli arresti domiciliari per motivi di pericolosità sociale (aveva inviato una mail con minacce di morte a un’assistente sociale del Comune di Fiume Veneto). Sul caso la Procura di Pordenone ha aperto un fascicolo d’indagine iscrivendo sul registro degli indagati, come atto di garanzia, il dottor Giovanni Capovilla. Il medico avrà così la possibilità di difendersi già durante l’esame autoptico disposto per domani dal sostituto procuratore Federico Facchin. Omicidio colposo è l’ipotesi di reato che dovrà essere esplorata. Il medico legale Giovanni Del Ben ha ricondotto il decesso a cause naturali, ma un paio di settimane fa Bonivento era stato portato in pronto soccorso perché aveva avuto un collasso, come ha confermato la figlia Giulia, studentessa di 19 anni, e trattenuto in ospedale tre giorni. La Procura vuole capire se sia stato sottoposto ad accertamenti adeguati prima di essere riportato in carcere e se nella struttura carceraria siano stati presi tutti i provvedimenti necessari per garantirgli cure e terapie. I carabinieri del Nucleo investigativo hanno sequestrato sia la sua cartella clinica sia la cartella sanitaria del carcere. Le condizioni di salute di Bonivento erano molto precarie. Cardiopatico, diabetico, invalido al 100%, aveva anche difficoltà a deambulare. Dal 2 giugno 2018 stava scontando ai domiciliari un cumulo pene di 3 anni e 8 mesi per vecchie vicende di reati finanziari e bancarotta. L’atteggiamento e la mail minacciosa nei confronti di un’assistente sociale, che in seguito aveva sporto denuncia ai carabinieri di Fiume Veneto, il 30 gennaio gli era costata la detenzione in carcere. “Nel mio ricorso - spiega l’avvocato Roberto Russi - avevo fatto presente che le condizioni di salute di Bonivento erano incompatibili con il regime carcerario. Arrivò in udienza a Trieste con i bastoni, sorretto dalle guardie penitenziarie, si scusò con il giudice dicendo che la malattia di cui soffriva lo portava ad essere irascibile. Quando inviò quella mail era arrabbiato perché aveva perso un sussidio per via di una pratica non inoltrata”. Il ricorso è stato respinto. “Un diniego - spiega il legale - che ho impugnato in Cassazione per motivi di illegittimità”. Bonivento occupava la cella n. 2 assieme ad altri tre detenuti. La morte, quando entra in carcere, scuote l’anima nei suoi angoli più reconditi. È per questo che il direttore Alberto Quagliotto ha messo a disposizione di tutti i detenuti della sezione la psicologa. “Li ho esortati a non farsi alcuna remora nel caso avessero bisogno di condividere le emozioni, non devono tenersi nulla dentro - spiega il direttore della casa circondariale - In questi casi è importante la condivisione”. Fermo: il progetto “Chiusi Fuori” tra Liceo e il carcere da Liceo Classico “A. Caro” viverefermo.it, 17 marzo 2019 La serratura che si apre e una grande porta, simile ad un muro: sono queste le prime impressioni all’ingresso del carcere di Fermo, visitato dalla classe 5C del Liceo delle Scienze Umane “Annibale Caro” nell’ambito del progetto “Chiusi fuori”, fortemente voluto dalle docenti Marina D’Aprile e Marina Malloni. Ad incontrare gli alunni la direttrice del carcere Eleonora Consoli, il commissario Loredana Napoli, il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti, la giornalista Angelica Malvatani, alcuni agenti di custodia e - soprattutto - la redazione interna del giornale del carcere, “L’Altra Chiave News”, costituita da detenuti. Non è stata proprio l’esperienza che gli studenti si aspettavano. “Pensavo che l’istituto fosse un luogo che trasmettesse solo malinconia, diretto da persone dure e poco cordiali. Ho trovato, invece, un posto che senza dubbio può favorire la tristezza, ma è reso meno malinconico dal personale amichevole” dice Claudia. Secondo Giulia: “l’incontro è stato un modo per scoprire una nuova realtà. Mi ha fatto riflettere su quante volte basiamo il nostro giudizio su pregiudizi o stereotipi. Per questo, a volte si parte con un atteggiamento sbagliato, mentre solo con il dialogo e il confronto si può capire cosa si cela in una persona o in una situazione”. Durante l’incontro alcuni detenuti hanno ricordato con struggimento i propri bambini, le passeggiate in riva al mare o i propri animali domestici. Come riferisce Xhesika, “sono padri che vorrebbero accarezzare i loro bimbi, sono figli che si pentono di aver provocato dolore ai loro genitori. Sono consapevoli della loro condizione, sanno di essere estraniati in una realtà paradossale, in cui nessun uomo dovrebbe essere limitato. Sono consapevoli di aver sbagliato e di essere lì per quel motivo, ma sono motivati, aspettano che si aprano le porte della libertà e che si chiudano quelle della reclusione alle loro spalle, per affrontare quella vita che in precedenza non hanno apprezzato fino in fondo”. Aggiunge Eleonora: “Siamo abituati a pensare che il carcere sia un luogo di maltrattamento, in cui le condizioni dei carcerati sono disumane. In realtà, con l’incontro organizzato dalla nostra scuola ho capito che non è così. Il carcere di Fermo è un luogo in cui il detenuto può ricercare la sua indole, l’umanità persa, tentando di non farsi sommergere dai propri rimorsi e di non ricordare perennemente la pena da scontare. È un luogo in cui la persona può veramente essere avviata ad un processo di reintegro in società”. Da questo incontro gli studenti porteranno indubbiamente con sé un bagaglio ricco di emozioni e insegnamenti, “poiché grazie alle parole ascoltate sono riuscita a capire quanto una leggerezza possa stravolgerti la vita e portartela via come un uragano” ha commentato infine Elena. Macerata: a lezione di giustizia dal procuratore generale di Valentina Cannone cronachemaceratesi.it, 17 marzo 2019 Incontro con Sergio Sottani per le classi dell’istituto comprensivo di via Regina Elena. Focus sui rischi della tecnologia, bullismo e funzionamento del processo. “Gli smart-phone di oggi sono come delle Ferrari, occorre saperli utilizzare”. Pericoli della rete, reati sul web e giustizia al centro della lezione che il procuratore generale della Corte d’appello di Ancona, Sergio Sottani, ha tenuto questa mattina alle classi della scuola media dell’istituto comprensivo di via Regina Elena di Civitanova. Un appuntamento che segue quello di qualche settimana fa col vescovo Rocco Pennacchio. Nella sede di via Saragat, a Civitanova, la dirigente Daniela Boccanera ha voluto come protagonista per un focus dedicato alla legalità il procuratore Sottani per spiegare a ragazzi e ragazze il mondo della giustizia. Presenti anche il comandante della Compagnia dei carabinieri Enzo Marinelli, il tenente della Guardia di finanza Giovanni Calabrese e il dirigente del commissariato di Civitanova Lorenzo Sabatucci. Sottani nel suo intervento ha elogiato il lavoro delle forze dell’ordine e spiegato alla giovane platea il ruolo dello Stato e delle istituzioni. “Lo Stato serve sia a cercare di intimorire chi commette reati, sia per difendere chi i reati non li commette - ha detto - chi viene individuato come colpevole ha il diritto di difendersi, e lo fa attraverso il processo. Allora interveniamo noi, che siamo i magistrati”. Ed ancora “il processo serve per riaffermare la legalità, la legge deve essere rispettata, ma va rispettata, perché? La legge è uno dei momenti di coesione, prima è stato molto bello quando avete cantato l’inno nazionale perché era un momento comune. Tutti noi siamo diversi, però in quel momento c’era coesione e voi avete rispettato delle regole. Ed è stato bellissimo”. Molti i temi affrontati dal procuratore, e ha parlato dei rischi della tecnologia, di internet e dei social network “Gli smart-phone attuali sono delle Ferrari. Internet è uno strumento sicuramente utile, però non deve mai diventare un mezzo per fare reati o per danneggiare gli altri”. Ha parlato poi del bullismo, del caso di Pamela Mastropietro e dell’importanza di non farsi mai giustizia da soli, condannando il comportamento di Luca Traini. Infine ha messo in guardia dal pericolo delle sostanze stupefacenti. Tantissime le domande di ragazze e ragazzi: dal perché in Italia reati come l’evasione fiscale e frode sono spesso puniti con pene troppo leggere, alla presenza della mafia nelle Marche ed infine la legalizzazione delle droghe “leggere” come hashish e marijuana. Amicizie dalla libertà di Fabio Gianfilippi* questionegiustizia.it, 17 marzo 2019 Una lettura di “Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere”, un volume di Ezio Savasta (Infinito, 2019). Se un vaso si rompe non necessariamente i suoi frammenti sono da buttar via. Un’antica tecnica giapponese, il kintsugi, insegna che, legandone i pezzi ormai inutili con un metallo prezioso, come l’oro, se ne può ottenere un’opera che sarà certamente diversa, ma arricchita, e il suo artefice potrà rallegrarsene nel mostrarne le crepe e le fratture evidenziate, e non nascoste, dalle luminose colate che la reintegrano. Questa evocazione di una pratica antica mi si è presentata più volte negli ultimi giorni, citata in contesti diversi e con intenti non del tutto sovrapponibili. Succede a volte, e ce ne stupiamo non poco, come quando, di ritorno da un viaggio che ci ha fatto scoprire una nazione fino ad allora ignorata, sembra che ogni rivista ne parli e non ci sia conversazione in cui non se ne faccia riferimento. Ezio Savasta ricorda il kintsugi nelle prime pagine del suo Liberi Dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere, fresco di stampa con una prefazione di Mario Marazziti. Un titolo che, significativamente, ci fa guardare alla realtà del carcere come luogo sul quale occorre impegnarci per evitare che finisca per ostacolare, piuttosto che favorire, il cambiamento che la società auspica per i condannati. Vi si narrano alcune delle molte storie che l’autore, come volontario della Comunità di Sant’Egidio, ha incontrato nel corso della sua trentennale frequentazione delle nostre carceri, ed in particolare di quelle a lui più prossime, Regina Coeli e Rebibbia, realtà tutte inserite nel tessuto urbano della capitale, eppure, come sempre accade con gli istituti penitenziari, mondi isolati, di cui tutti cercano di dimenticarsi, persino se ci vivono a ridosso. E l’autore, invece, fa il passo decisivo di entrarvi. E guarda alle vite delle persone detenute come a quei vasi, incrinati, e a volte frantumati, dagli urti ricevuti nel proprio passato, e ci spinge a considerare la possibilità che siano in grado, se non abbandonate al vuoto di giornate trascorse in branda ad aspettare di riaddormentarsi con fatica, di rimettere insieme i pezzi e di sentirsi di nuovo utensili, letteralmente, per la società. È un percorso controcorrente, che mette in discussione la moderna convinzione di poter giudicare in fretta e una volta per tutte, di archiviare chi non (ci) va più bene, di buttar via chi e quel che non risponde ai nostri più aggiornati canoni, di non volersi sforzare di ricostruire i rapporti quando si sono logorati. Savasta crede, innanzitutto per fede, che così non sia, ma la selezione di storie che ci presenta, pur animate da una tensione spirituale che dà energia e motivazione a volte al volontario e a volte alla persona detenuta con la quale viene in contatto, parla laicamente a tutti, in semplicità ma anche rappresentando una umanissima complessità, in cui ragione e torto, condanna e giustificazioni, volontà di riscatto ed incapacità di tener fede ai propositi, sono compresenti e non consentono al lettore di prendere una troppo facile posizione. Il volontariato in carcere è una risorsa preziosa, costruisce ponti con il mondo esterno e gode del privilegio assoluto di poter sviluppare con le persone detenute percorsi meno inquinati dal loro comprensibile desiderio di raggiungere al più presto la libertà, che inevitabilmente segna il rapporto con gli operatori e con lo stesso magistrato di sorveglianza. Si creano spazi di dialogo e di amicizia, persino di paternità e maternità, che la saggezza e la preparazione specifica dei volontari devono saper gestire su un piano di realtà che non illuda, ma riscaldi, che si accosti a sollevare, ma sappia ritrarsi di fronte a quel che non si può dare, perché comprometterebbe il percorso di reinserimento sociale al quale i volontari collaborano, a ciò autorizzati dal magistrato di sorveglianza, ex art. 17 dell’ordinamento penitenziario. L’autore racconta allora l’umanità che incontra, le piccole strategie per superare gli ostacoli burocratici che si presentano, le storie che sono già arrivate al lieto fine e quelle per le quali bisogna ancora attendere perché si possa voltare pagina. Chi conosce il carcere può tornare a interrogarsi sul tanto che c’è da fare. L’incertezza sulle regole regna incontrastata in un perenne balletto di riferiti che si appoggiano sempre meno alle norme e sempre più alle circolari o agli ordini di servizio, se va bene, o alle mere prassi, in tanti altri casi. Occorrerebbe un lavoro di formazione permanente degli operatori, di informazione puntuale delle persone detenute, di periodico aggiornamento dei regolamenti interni degli istituti penitenziari (a volte invece molto arretrati, se non addirittura inesistenti) e poi una capillare diffusione di regole scritte semplicemente perché siano da tutti comprese. E invece spesso non è così, e dove c’è più dolore e solitudine, si fa più acuta la mancanza di certezze, anche per le minime cose di cui si ha bisogno. E le minime cose diventano tutto. Un paio di ciabatte portate da un volontario a chi non ha scarpe, gli riconsegnano un frammento di dignità, perché “ci si consola con nulla, quando non si ha più nulla”, come scriveva la Ginzburg. I detenuti provano così a costruirsi piccoli equilibri, che possono essere sconvolti da trasferimenti improvvisi, e a volte non adeguatamente spiegati e compresi. Il libro sollecita quindi una riflessione sulla necessità che si evitino le maggiori disparità di trattamento nel quotidiano detentivo nei diversi istituti penitenziari e i trasferimenti avvengano sempre con il minimo pregiudizio per i percorsi trattamentali in corso, e nel rispetto del criterio di territorialità della pena che, particolarmente dopo la riforma dell’ottobre 2018, si impone ex art. 14 dell’ordinamento penitenziario. Sarà importante, a questo riguardo, verificare come la giurisprudenza decritterà la formula che tutela oggi non soltanto la prossimità alla famiglia ma anche ai centri di riferimento sociale, ad esempio ricomprendendovi anche i volontari che abbiano nel tempo instaurato un particolare legame con la persona ristretta. Nelle pagine del libro sono spesso presenti gli stranieri, ultimi tra gli ultimi, lontani dalle famiglie, privi di mezzi, abbandonati all’incomprensione della nostra lingua e al mancato riconoscimento della propria cultura. Savasta, e non ci si potrebbe aspettare altro nel contesto di profondo impegno interreligioso della Comunità di Sant’Egidio, sottolinea qui particolarmente l’importanza di trovare spazi perché ciascuno possa esprimere il proprio sentire religioso e vedersi riconosciuto, ancora una volta nella propria dignità, condividendo la gioia delle feste e l’impegno della preghiera, miglior antidoto contro il pericolo della radicalizzazione. Questo stile di incontro fa sì che alcune delle persone detenute che sperimentano l’amicizia con l’autore che viene “dalla libertà”, come scrive Savasta, finiscono per desiderare di contribuire a loro volta ai progetti di bene che coinvolgono la società all’esterno e dimostrano che, dentro le mura del carcere, c’è un enorme potenziale che attende solo di essere informato su come rimettersi in gioco, questa volta, sperabilmente, in favore della collettività. Al centro sta sempre l’ascolto dell’altro, guardato e toccato nella sua individualità e così stimolato a tornare protagonista del proprio percorso di crescita personale. Dopo l’ultima pagina resta al lettore una domanda, che è forse quella che ogni detenuto incontrato dal volontario gli ha posto, o ha solo formulato tra sé e sé: “Perché sei qui per me?”. E lo stupore e lo scandalo per la riconosciuta gratuità possono divenire il primo passo per guardare al mondo con occhi nuovi. *Magistrato di sorveglianza, Tribunale di sorveglianza di Spoleto Si può ridere vivendo prigionieri in un gulag? di Roberto Righetto Avvenire, 17 marzo 2019 Un libro di Level Berdzenišvili racconta la vita nelle carceri sovietiche come un momento dove l’umorismo fu per tanti uomini un punto di forza per vincere l’abbandono. Storie di vite straordinarie 1933: Detenuti al lavoro per costruire una diga del canale Mar Bianco-Mar Baltico. Si può ridere vivendo prigionieri in un gulag? A molti potrà sembrare una bestemmia, ma è quanto accaduto negli anni dell’ultimo segretario del Pcus, Michail Gorbaciov, durante i quali parallelamente alle riforme avviate con la perestrojka i campi di lavoro forzato venivano a poco a poco smantellati. A partire dal 1985, la situazione dei detenuti divenne sempre meno dura ed era loro permesso giocare a dama e scacchi, persino a ping pong. Una storia sui generis dei gulag riservati ai prigionieri politici, il più delle volte condannati al carcere duro per agitazione e propaganda antisovietica e spediti nei campi di lavoro, è contenuta nel libro “La santa tenebra”, di Levan Berdzenišvili, di recente tradotto in italiano dalle edizioni e/o (pagine 272, euro 18). L’autore, che nel 1978 aveva fondato a Tbilisi il primo partito clandestino nella storia della Georgia sovietica e nell’83 era stato arrestato assieme al fratello Dato, definisce i tre anni trascorsi nel campo di Barasevo, in Mordovia, come i migliori della sua vita. “Il Kgb - egli spiega - si è dato un gran daffare per riunire in un solo posto un gruppo di persone eccezionali”, capaci di dar vita con ironia e creatività a forme di resistenza culturale impensate di fronte a un sistema di potere sempre più assurdo. Fisici, ingegneri, poeti, linguisti: intellettuali di ogni tipo di provenienza perlopiù armena, georgiana e ucraina, indubbiamente facilitati da condizioni di vita più morbide rispetto all’era staliniana o brezneviana, organizzavano corsi di lingua antica, sfide di dialettica ispirate alla figura di Socrate, persino gare di gastronomia… E poi interminabili serate a discutere di socialismo e della possibilità di far convivere comunismo e democrazia. Il libro di Berdzenišvili, che nel 1987 è stato liberato divenendo docente di Storia della letteratura antica, poi direttore della Biblioteca nazionale di Tbilisi e deputato del Parlamento georgiano, è costruito come una serie di ritratti di personaggi, in tutto una quindicina: i suoi compagni del gulag. Come il fisico Petr Butov, originario di Odessa, arrestato nel 1982 e condannato a cinque anni di detenzione e due di confino. Di quale reato si era macchiato? Di aver dato vita alla più grande biblioteca di letteratura del samizdat di tutta l’Urss: conservava circa 30.000 opere a stampa e 20.000 microfilm. I libri di Salamov e Solženicyn, di Bulgakov e Pasternak, di Sacharov e Amalrik, ma anche i bollettini della resistenza antisovietica e persino le riviste dei dissidenti fuggiti all’estero come “Kontinent”, stampata da Maksimov a Parigi, erano a disposizione di una rete di migliaia di persone che desiderava leggerli. La biblioteca clandestina era dotata di una fotocopiatrice e di un laboratorio per la realizzazione di microfilm e riuscì a sopravvivere per ben dieci anni alle grinfie del regime, quando i famigerati cekisti la trovarono e la diedero alle fiamme. Essa rimane “l’ulteriore riprova del fatto che gli uomini sono stati capaci di grandi cose anche sotto il giogo di un ‘impero del male”. Altre figure leggendarie appaiono nel libro. Ecco il tassista Zakaria Laskarasvili, uno dei pochissimi che non faceva la spia per conto del Kgb e che anzi aveva creato un’organizzazione segreta per l’indipendenza della Georgia. A Barasevo era famoso per conoscere alla perfezione la geografia fisica ed economica di tutti i Paesi del mondo e “poteva discettare per ore sui sensi unici, le strade carrabili e le zone pedonali di Parigi, Londra e New York”. Nel lager si era preso una cotta per la responsabile dell’ufficio censura e tutti lo canzonavano: lei del resto continuava imperturbabile a manomettere la sua posta. Si considerava un estremista ultraradicale ed è stato probabilmente l’ultimo detenuto politico ad uscire dai gulag, nel luglio 1987. Ancora, il poeta Rafika (al secolo Rafael Asotovic Papayan), discepolo del grande linguista Jurij Lotman e fra i fondatori della sezione armena del Gruppo di Helsinki per la difesa dei diritti umani. Nel lager divenne protagonista di discussioni sulla paternità della lingua georgiana, a suo dire ideata da Mesrop Mastoc, già inventore dell’alfabeto armeno e santo della Chiesa apostolica. Al matematico Vadim Anatolevic Jankov, grande esperto di linguistica indoeuropea (conosceva inglese, francese, tedesco, italiano, latino, greco antico e sanscrito) si deve il progetto dei dialoghi socratici, un gioco in cui lui stesso interpretava Socrate e gli altri detenuti i suoi discepoli o avversari. Nato a Taganrog, nella regione di Rostov, finita la detenzione è divenuto docente di storia della filosofia e matematica all’Università statale per le scienze umane di Mosca. Boris Manilovic invece improvvisava gare di poesia, ove ciascun recluso aveva 5 minuti per presentare o declamare il poeta preferito. Blok, Pasternak e la Cvetaeva i più gettonati. Amante dei calembour, la sua opera più adorata era L’Armata a cavallo e raccontava spesso la storia dell’autore: salvato da una famiglia di cristiani nel pogrom di Odessa del 1905, Isaak Babel era stato messo a morte nel 1940, come noto per ordine di Stalin in persona. A Barasevo si trovò per caso riunita una vera intellighenzia che avrebbe contribuito alla rinascita culturale e politica delle nazioni sorte dalle ceneri dell’Urss e che negli anni della glasnost soffriva ancor più la segregazione, mentre all’esterno si cominciava a respirare aria di libertà: “Non c’è nulla di più insopportabile - si dicevano fra loro Levan Berdzenišvili e i suoi amici - che stare al fresco in un momento così”. “Ci vogliono tristi per far salire il Pil. Ma io vi spiego come essere felici” di Alessandro Sala Liberi Tutti - Corriere della Sera, 17 marzo 2019 L’epidemiologo Franco Berrino, 75 anni: “Chi è sereno non consuma, non ha bisogno di cercare conforto nel cibo o in abiti di cui non ha bisogno. Il segreto per stare bene? Cibo non industriale, movimento e meditazione”. Non è mai troppo tardi per cambiare stile di vita e per adottarne uno che ci aiuti ad essere più in forma, più in salute e più leggeri. Perché la leggerezza, quella fisica del corpo ma anche quella della mente, è il segreto del vivere meglio. “Ha a che fare con la felicità - spiega il dottor Franco Berrino, medico epidemiologo, autore con Daniel Lumera del libro “La via della leggerezza” (Mondadori), in uscita in questi giorni. Essere leggeri significa essere felici. E anche un po’ rivoluzionari”. Perché dice questo? “Perché la nostra società, quella occidentale e ricca, ha bisogno delle insicurezze e del malcontento delle persone per sostenere il proprio sistema economico. Ci nutriamo di cibi di cui non abbiamo bisogno, acquistiamo beni di cui non abbiamo bisogno, prendiamo farmaci di cui spesso non abbiamo bisogno. E lo facciamo perché vi siamo indotti dalla pubblicità, dalla comunicazione, da una politica che ritiene che l’economia possa funzionare solo rilanciando i consumi”. Sta dicendo che ci vogliono tristi per far girare il Pil? “Certo. La società dei consumi muore senza consumi. E chi è felice non consuma. Chi è leggero non ha bisogno di cercare altrove gratificazioni che non trova nella sua vita”. Non siamo obbligati a seguire la pubblicità... “Ma lo facciamo, siamo bombardati di messaggi, siamo inseriti in un sistema obesogeno. E poi ci attirano con cibi che all’apparenza sono super economici. Chi ha una certa età ricorda bene che un tempo l’acquisto di cibo assorbiva la maggior parte delle entrate delle famiglie. Oggi invece la spesa alimentare è una frazione minoritaria. Ma è un imbroglio, perché non viene raccontato il prezzo imposto all’ambiente e alla salute. Un prezzo che poi paghiamo sempre noi, mai le aziende che su quei cibi fanno fortune”. Una delle sue tesi è che mangiamo non solo male, ma anche troppo. “Noi occidentali abbiamo risorse economiche ed enorme disponibilità di alimenti e ne abusiamo. Dipende in parte dai geni: i nostri antenati non avevano cibo tutti i giorni e quando ne avevano l’occasione si nutrivano in abbondanza per sopperire ai successivi giorni di magra. Quell’istinto è rimasto, ma le nostre vite sono cambiate: siamo i figli delle carestie ma senza più carestie e svolgiamo attività sempre meno faticose che richiedono meno dispendio di energia. Però continuiamo ad accumulare riserve”. Molti anziani, tuttavia, la fame l’hanno conosciuta davvero. “Oggi però non c’è ragione di eccedere nel cibo. Occorre raggiungere la consapevolezza di non avere bisogno di consumare, a dispetto dell’economia”. Gli anziani sono anche i principali utenti del servizio sanitario. “Le malattie danno un gran contributo alla crescita del Pil. Più ci ammaliamo più c’è lavoro per medici, ospedali, aziende farmaceutiche, produttori di strumenti sanitari e il resto dell’indotto. Lo stesso Mario Monti da premier diceva che era necessario promuovere la sanità perché è la principale industria nazionale. Effettivamente è così”. Detto da lei che per anni è stato direttore del Dipartimento di Medicina preventiva dell’Istituto nazionale dei tumori... “Anche io sono stato considerato sui generis. Per portare certi messaggi nell’ambiente medico ho dovuto spendere il credito che avevo maturato in campo internazionale, con il registro tumori e gli studi sulla sopravvivenza dei malati. Mi ero fatto un nome e questo mi ha permesso di potere esprimere idee non in linea con il sistema”. E chi per tutta la sua esistenza ha adottato uno stile di vita poco attento, magari proprio in risposta alle privazioni dell’infanzia, è condannato a una vita di obesità, diabete e malattie correlate? “No, si può sempre cambiare, anche da anziani. Adottando uno stile di vita più sano migliorano i parametri metabolici, si regola la pressione del sangue, si tengono sotto controllo i trigliceridi, si riducono i dolori, migliora il funzionamento delle articolazioni. E i benefici si vedono già in poche settimane”. Cosa bisogna mangiare? “Basta riscoprire la vera dieta mediterranea: cereali integrali, noci, nocciole, mandorle, tanta verdura, frutta, pesce, limitare la carne, soprattutto quella rossa o lavorata, e non aggiungere zuccheri”. Lei raccomanda sempre di fare anche del movimento. “È la terza colonna su cui si regge lo stare bene, oltre al cibo e alla mente. Non serve molto, basta tenersi in attività tutti i giorni. Camminare nel verde o in un bosco ha anche un effetto antidepressivo”. Perché è importante la leggerezza nella mente? “È quello che nel libro io e Daniel definiamo il problema difficile, perché come abbiamo visto portare leggerezza nel corpo è un problema tutto sommato semplice. Non si può essere felici se si è appesantiti nello spirito. La leggerezza ha a che fare con il sentirsi liberi dalle oppressioni della vita quotidiana, liberi dai rancori del passato, liberi dai ricordi che ancora ci fanno soffrire, liberi dalle preoccupazioni per il futuro”. Tutte cose di cui però è complicato liberarsi... “Bisognerebbe iniziare con l’eliminare il risentimento, un veleno per lo spirito. E riscoprire il potere del perdono, che non è un atto di cedimento ma di forza. Poi ogni giornata dovremmo iniziarla ringraziando”. Ringraziando chi? “La vita, il sole, noi stessi, il nostro corpo. Diamoci un’iniezione di fiducia appena apriamo gli occhi. E andiamo a prepararci il caffè con fare maestoso, non trascinandoci stancamente verso la cucina. La ritualità, anche nei piccoli gesti, dà grandi benefici alla nostra mente”. Le nonne, ma anche Nanni Moretti in Caro Diario, dicevano che bere un bicchiere d’acqua al mattino fa bene... “Lo dico anche io. L’acqua rimette in moto le nostre funzioni e purifica. E anche questo è un esempio di ritualità”. E poi c’è la meditazione. “Viviamo in un mondo obesogeno anche per la nostra mente, in una società che ci distrae continuamente, con la tv, i telefonini, agende piene di impegni. Il nostro cervello è sempre catturato da qualcosa, non è mai libero. Dobbiamo invece riportare l’attenzione su noi stessi perché questo migliora il metabolismo e di conseguenza il funzionamento del nostro corpo. La nostra mente da sola è in grado di fare molto. Le filosofie orientali si basano molto su questo concetto. Ottimi risultati, da questo punto di vista, si possono ottenere anche con le arti marziali o con il thai chi”. Lei ha 75 anni ed è in perfetta forma, scrive libri, tiene conferenze, viene invitato in tv. È reduce da un viaggio di studio in Australia tra gli aborigeni. È il testimonial di se stesso e delle sue teorie? “Diciamo che ci metto un po’ di impegno. A 40 anni anche io avevo un girovita un po’ pronunciato. La mia signora mi ha fatto capire che non le stava bene e allora ho deciso di cambiare. Anche lei mi ha aiutato ad intraprendere la via della leggerezza”. Una settimana contro ogni discriminazione di Luigi Manconi e Federica Graziani Il Manifesto, 17 marzo 2019 Al di là delle opposte scemenze: una che si suppone “di sinistra” - l’Italia è un paese razzista - e un’altra “di destra” - chi spara ai negri, non è un razzista ma un matto - la questione dell’immigrazione di stranieri nella nostra società rimane cruciale. Per questo è di grande importanza la settimana che si apre, e che le Nazioni Unite hanno dedicato alla mobilitazione contro l’intolleranza e la segregazione. In Italia, a farsene promotore, è l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar). Già lunedì 18 alle 15:00, a Roma, nella Sala Polifunzionale del Dipartimento Pari Opportunità, si terrà un primo appuntamento dal titolo “Testimoni”. Una serie di conversazioni coordinate da Marino Sinibaldi con chi può documentare, in prima persona, gli effetti delle politiche di discriminazione. Un ebreo di ottantuno anni, fortunosamente sfuggito al rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma, poi la lunga e così dolente e allo stesso tempo ricca storia di una famiglia rom di Lanciano, gli Spinelli, attraverso tre generazioni, a partire dalla detenzione del nonno nel campo di Rapulla - una delle tantissime strutture in cui vennero imprigionati rom e sinti italiani negli anni 40. Infine, l’Orchestra dei Braccianti di Cerignola, ensemble interamente composto da stranieri impiegati nell’agricoltura, in un settore e in un territorio dove domina il lavoro irregolare. Siamo a un nodo cruciale, quello che riguarda la storia e la memoria. In un’Italia dove un autorevole personaggio pubblico, titolare di un altissimo ruolo istituzionale in Europa, definisce candidamente la congiura mussoliniana per uccidere Giacomo Matteotti una “drammatica vicenda” e poi, per correre ai ripari, ammette di “aver sbagliato con l’italiano”, emerge un deficit a dir poco enorme di consapevolezza storica e coscienza nazionale. La frase, ahinoi, è abusata, ma dal momento che nulla di meglio è stato trovato, lo si ripete ancora una volta. Siamo in presenza di un velenoso processo di “banalizzazione del male”. Conseguenza di due dinamiche convergenti che finiscono per coincidere in un solo fenomeno: l’immediatismo nella cultura e nella politica. L’intera elaborazione intellettuale e l’intera attività politica sembrano concentrarsi sul presente, e sul presente soltanto, circoscritte in una dimensione di cortissimo respiro e brevissimo sguardo. Così il sovranismo del senso comune alimenta e viene a sua volta alimentato dal sovranismo dell’azione pubblica. Per smontare questo dispositivo, è necessario un impegno aspro e costante. L’Unar vuole contribuirvi, in particolare durante questa settimana, con delle iniziative che ricolleghino intimamente passato e presente. E il presente dell’immigrazione, in Italia, non è fatto solo di allarmi sociali e campagne d’odio, di mobilitazione reazionaria contro i fantasmi dell’”invasione” e di appelli immaginifici allo scenario della “sostituzione etnica coordinata dall’Unione Europea”. Al contrario, ci sono in Italia milioni di stranieri regolari che vivono in una condizione di relativa integrazione e, tra essi, 900mila minori che frequentano le scuole pubbliche. E c’è una leva di giovani di seconda generazione, che pensano in italiano oltre che nella lingua dei loro genitori, che scrivono, si dedicano alle arti figurative, fanno teatro, cinema, musica. Mercoledì e giovedì prossimi, negli spazi della Città dell’Altra Economia, a Roma, il festival “A ciascuno piace l’altro” offrirà loro un’occasione e un pubblico. Se è vero che le società si costruiscono prima di tutto dentro il proprio immaginario, e se questo è la sorgente originaria da cui possono emanarsi le forme che si decide di dare a se stessi per nutrire la vita, la propria e quella altrui, per approfondirla, per portare, infine, l’avventura umana e sociale su un altro livello - come ci ha insegnato Felwine Sarr - allora il 20 e 21 marzo nell’ambito di quel festival sarà possibile incontrare un capitale simbolico, intellettuale e artistico. Capitale che potrà concorrere a costruire un progetto di società, di convivenza, di civiltà. Che, insomma, sarà capace, se lo si vuole, di costruire un futuro. I suprematisti non solitari di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 17 marzo 2019 Salvini rivela di porre attenzione “solo sull’estremismo islamico”, ma Tarrant sa di parlare a una platea mondiale, come Traini sentiva di interpretare le pulsioni inconfessabili dell’Italia a Macerata: sottovalutarlo è frutto di ideologismo, grave fardello per un politico di governo. Davvero c’è estremista ed estremista? Temiamo (giustamente) i jihadisti, ma possiamo derubricare i suprematisti a nostalgici che ogni 20 aprile si sbronzano di birra per il compleanno di Hitler? Il massacro di fedeli musulmani in Nuova Zelanda scava solchi nella politica di casa nostra. Matteo Salvini rivela di porre attenzione “solo sull’estremismo islamico”, riducendo quasi a folclore il resto. Assai vicina al minimalismo di Trump (“sono pochi...”, ha detto dei neonazisti il presidente Usa), la posizione del ministro degli Interni italiano appare lontana dalle parole di Sergio Mattarella contro “chiunque predichi odio”. Le parole pesano sempre di più nella bolla di comunicazione istantanea in cui la Rete ci ha imprigionato: e una certa cautela sarebbe consigliabile mentre si piangono 49 innocenti uccisi durante la preghiera. Parole e nomi contavano anche per Brenton Tarrant, il killer ventottenne che li ha sterminati e non sembra affatto un babbione che si commuove gridando “eja eja alalà”, ma piuttosto una risposta ferocemente contemporanea ai travagli della nostra modernità: melting pot, precarietà, crisi degli Stati nazionali. Lui stesso, australiano di famiglia britannica venuto a far strage in Nuova Zelanda, appare un prodotto di quel globalismo da paccottiglia online che deve avere infarcito la testa a coloro che cita per modelli, Luca Traini, Anders Breivik, Alexandre Bissonnette, bianchi dal grilletto facile in un’insalata di rilettura storica stralunata ma non solipsista. Perché l’internazionale suprematista vive ormai nel deep web, la Rete profonda, non diversamente dal jihadismo; e non diversamente, anche se in proporzioni numeriche certo inferiori, arruola i suoi lupi solitari vestendoli da soldati di Armageddon le poche ore sufficienti ad annientare un pezzetto di umanità: perpetuandosi nelle pulsioni d’odio da un capo all’altro del pianeta, come Mattarella ammonisce. Tarrant sa di parlare a una platea mondiale, come Traini sentiva di interpretare le pulsioni inconfessabili dell’Italia a Macerata. Sottovalutarlo è frutto di ideologismo, grave fardello per un politico di governo e fonte di una triste omissione: la mancata solidarietà alla comunità islamica che, solo in Italia, conta un milione e 800 mila anime. Il fantasma della grande sostituzione e il terrorismo del senso comune di Guido Caldiron Il Manifesto, 17 marzo 2019 Il “manifesto” di 74 pagine che Brenton Tarrant Harrison ha inviato via email al governo neozelandese dieci minuti prima di attaccare due moschee di Christchurch, per annunciare le motivazioni del suo “passaggio all’atto”, contiene ogni sorta di riferimenti all’immaginario della destra radicale e del suprematismo bianco. Dal Sole nero delle SS che campeggia sulla prima pagina del documento, alla citazione del motto delle “14 parole” contro il “genocidio bianco” coniato dal neonazista americano David Lane; dall’appello ai “cristiani bianchi” perché caccino gli “invasori” islamici, all’apologia della strage (77 vittime) compiuta da Anders Breivik, “per salvare l’identità del paese”, nella capitale norvegese nel 2011: come in un tragico decalogo sono elencati i temi ricorrenti dell’ideologia della “guerra razziale”. Ma su tutti, c’è un elemento che lo stragista della Nuova Zelanda, pur nel suo evidente delirio, indica come determinante per la propria scelta di agire. Fin dal titolo, “La grande sostituzione”, il suo “manifesto” evoca l’idea che sia in atto in tutto il mondo occidentale un vasto e terribile complotto, ordito dal capitalismo cosmopolita in combutta con le sinistre antirazziste, per rimpiazzare le popolazioni autoctone con immigrati utilizzabili come manodopera a basso costo e portatori di “altre culture” e fedi, in primis quella musulmana. In base a questa profezia razzista, l’Occidente starebbe perciò conoscendo un “declino” che non può che portarlo all’annichilimento sia culturale che identitario. Per quanto non così dissimile dalla follia di chi annuncia un possibile “genocidio bianco”, la tesi della “Grande sostituzione” ha però valicato da tempo gli ambiti ristretti della destra radicale, finendo per accompagnare ovunque l’emerge del “nazional-populismo” e imponendosi, per questa via, tra gli argomenti dibattuti nel dibattito pubblico Espressa per la prima volta compiutamente nel 2011 dallo scrittore francese Renaud Camus, l’idea che sia in atto Le Grand Remplacement - dal titolo del suo libro omonimo pubblicato quell’anno - delinea i contorni di una sorta di “contro-colonizzazione” rispetto a quella subita in passato dal Sud del mondo ad opera degli europei. “La maggior parte delle nazioni europee - scrive Camus - aveva un popolo, ma con un solo ricambio generazionale ne hanno già un altro o molti altri. Strade, quartieri, città intere si sono trasformate, sono diventate irriconoscibili; per non parlare delle scuole e dei trasporti pubblici. In zone sempre più vaste del territorio, gli autoctoni sono spariti, sono stati sostituiti”. Il testo dell’attentatore di Christchurch riprende interamente questi argomenti, e anche la forma con la quale lo scrittore francese li ha espressi, vale a dire attraverso un viaggio per la Francia al termine del quale si è reso conto che “gli invasori hanno già sostituito gli autoctoni”. Oltre all’ossessione per i migranti, le tesi sul “remplacisme” di Camus, più volte protagonista anche di sortite apertamente antisemite e grande estimatore di Jean Marie Le Pen, sembrano echeggiare quelle di Samuel P. Huntington sull’inevitabilità di uno scontro di civiltà tra l’Islam e l’Occidente, e se si vuole anche un classico del complottismo, il cosiddetto “Piano Kalergi”, dal nome di un aristocratico austriaco attivo fin dagli anni Trenta cui viene attribuito un inesistente progetto di “genocidio dei popoli europei”. Le idee di Camus sono però tra le più citate dagli oppositori radicali all’immigrazione. Dai tedeschi di Pegida a Marion Maréchal Le Pen, dagli Indentitari francesi a Casa Pound, da alcuni dei blogger più noti in questo circuito, come la canadese Lauren Southern e il norvegese Fjordman, dal polemista conservatore britannico Douglas Murray al giornalista francese Éric Zemmour, fino al premier ungherese Viktor Orbán e al vicepremier italiano Salvini che, senza citare esplicitamente l’autore francese sembra averne ripreso più volte le idee. Come quando nel 2014 via twitter sosteneva che “la sinistra, a livello mondiale, ha pianificato un’invasione (di immigrati), una sostituzione di popoli”, o, nello stesso anno dai microfoni di “Radio Anch’io” spiegava che “lo Ius Soli in Italia non lo accetto, è una sostituzione di popoli”. Migranti. La “giustificazione politica” dei reati ministeriali di Alfonso Gentili Left, 17 marzo 2019 Durante l’estate scorsa il Ministro dell’interno pro tempore del nuovo Governo italiano è stato protagonista della nota vicenda dell’unità navale “U. Diciotti”. Sul pattugliatore del Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera e cioè di un Corpo specialistico della Marina Militare italiana, erano stati trasbordati, il 16 agosto nei pressi di Lampedusa, 190 migranti (143 uomini, 10 donne e 37 minori) a seguito dell’operazione notturna di soccorso e salvataggio su un barcone in imminente pericolo di affondamento. L’operazione era stata attuata da due motovedette della Guardia Costiera italiana al largo di Lampedusa in zona SAR (Search and Rescue-Ricerca e Soccorso) maltese, che però disconosceva la situazione di emergenza, e su ordine della Centrale operativa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto-Guardia costiera (Imrcc- Italian Maritime Rescue Coordination Center) di Roma che per prima aveva ricevuto la notizia di persone in pericolo in mare. Il Comando Generale, il 17 agosto, richiedeva il POS (place of safety-posto sicuro) sia al Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del nostro Ministero dell’Interno che al RCC di Malta, senza però ricevere comunicazioni ufficiali. In assenza di tali comunicazioni il Comando Generale il 19 agosto ordinava al comandante dalla nave “Ubaldo Diciotti” di dirigersi verso Pozzallo (RG) dove giungeva al mattino seguente ricevendo però da Imrcc Roma il nuovo ordine di portarsi ad est di Catania e poi di dirigersi verso il porto di Catania, dove infine attraccava il 20 agosto con a bordo i 177 migranti rimasti, in quanto 13 in precarie condizioni di salute erano stati fatti sbarcare a Lampedusa, ma il comandate della nave riceveva anche l’ordine di “non calare la passerella e lo scalandrone”. Permanendo la situazione di stallo e il diniego di POS, il 22 agosto è stato autorizzato lo sbarco dei minori non accompagnati presenti a bordo e, dopo ulteriore richiesta di POS, il 25 agosto lo sbarco di sei migranti per urgenti accertamenti clinici. Solo nella tarda serata del 25 agosto Ministero dell’Interno ha rilasciato il POS, indispensabile per autorizzare lo sbarco dei migranti ancora a bordo, con inizio delle operazioni al mattino successivo e conseguente loro trasferimento all’hotspot di Messina per ultimare le procedure di riconoscimento e identificazione. Sulla vicenda la Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un fascicolo nei confronti di Matteo Salvini (iniziativa obbligatoria rispetto ad una notitia criminis in base all’art. 112 Cost.) e lo ha trasmesso, tramite la relativa Procura, al Tribunale dei Ministri di Palermo (Sezione specializzata del Tribunale ordinario, prevista dall’art. 7 della legge costituzionale n. 1 del 1989 e formata da 3 giudici in possesso, da almeno cinque anni, della qualifica di magistrato di tribunale o superiore) che però ha escluso condotte penalmente rilevanti del Sen. Salvini fino alla data del 19 agosto e ha dichiarato la propria incompetenza territoriale per i fatti successivi, rimettendo gli atti alla competente Procura di Catania. Il Procuratore della Repubblica di Catania con istanza del 29 ottobre ha richiesto di disporre l’archiviazione del procedimento nei confronti del Ministro Salvini “per infondatezza della notizia di reato” perché, a suo avviso, la decisione del Ministro avrebbe avuto natura di atto politico insindacabile in sede penale. Il Tribunale dei ministri di Catania ha deciso invece di non archiviare gli atti del procedimento penale ricevuti in quanto, sulla base delle risultanze delle indagini della Procura di Agrigento e di ulteriori attività d’indagine preliminare ritenute necessarie ai fini della decisione, dopo aver riacquisito il parere confermato dal Procuratore di Catania e senza che il Ministro avesse chiesto di essere sentito o avesse depositato memorie, ha ritenuto invece fondata la notitia criminis sulla vicenda per quanto riguarda la condotta tenuta dal Ministro nel periodo compreso tra l’attracco della nave al porto di Catania il 20 agosto e la tarda serata del 25 agosto quando, “previa indicazione formale del POS”, veniva finalmente autorizzato lo sbarco dei migranti. Il Tribunale ha anche escluso la configurabilità della causa di giustificazione o c.d. “scriminante” di cui all’art. 51 c.p. (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) e ha accertato la riconducibilità dell’omessa indicazione del POS e del correlato divieto di sbarco ad una precisa direttiva del Ministro sulla base sia delle “numerose esternazioni del Ministro agli organi di stampa nei giorni antecedenti e susseguenti l’ormeggio” che dalle “dichiarazioni rese dai massimi vertici amministrativi preposti al comando delle strutture interne del Ministero dell’Interno investite della questione”. Alla luce di una approfondita valutazione tecnico-giuridica del quadro normativo di riferimento, il Tribunale ha inquadrato il veto, posto “arbitrariamente” dal Ministro all’indicazione del POS, quale atto amministrativo propedeutico e necessario per autorizzare lo sbarco e in quanto tale sindacabile dal giudice, diversamente dagli “atti politici” sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Non competendo però al giudice ordinario di valutare il fine politico della condotta criminosa in quanto prerogativa esclusiva della Camera di appartenenza, il Tribunale ha deciso di ritrasmettere gli atti e il provvedimento adottato alla stessa Procura al fine di rimetterli immediatamente al Presidente del Senato della Repubblica per l’avvio della prescritta procedura di rilascio dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Sen. Salvini. Nel testo dell’atto (Doc. IV-bis n. 1), emesso dal Tribunale dei ministri il 7 dicembre 2018 e pervenuto alla Presidenza del Senato il 23 gennaio 2019, si legge che il capo di imputazione nei confronti di M. Salvini è formulato “in ordine al reato di sequestro di persona aggravato p. e p. (previsto e punito) dall’art. 605, commi I, II n. 2) e III c., per avere, nella sua qualità di Ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso “U. Diciotti” della Guardia Costiera italiana alle ore 23:49 del 20 agosto 2018. In particolare, il Sen. Matteo Salvini, nella sua qualità di Ministro, violando le Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare e le correlate norme di attuazione nazionali (Convenzione SAR - Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979, attuata in Italia con dPR n. 662 del 1994, Risoluzione MSC 167-78 - Linee guida IMO, Organizzazione Marittima Internazionale, per il trattamento di persone soccorse in mare del Comitato Marittimo per la Sicurezza, Direttiva SOP 009/15-Procedureoperative standard per l’individuazione del POS), non consentendo senza giustificato motivo al competente Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione - costituente articolazione del Ministero dell’Interno - di esitare tempestivamente la richiesta di POS (place of safety) presentata formalmente da IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Center) alle ore 22:30 del 17 agosto 2018, bloccava la procedura di sbarco dei migranti, così determinando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale di questi ultimi, costretti a rimanere in condizioni psico-fisiche critiche a bordo della nave “U. Diciotti” ormeggiata nel porto di Catania dalle ore 23:49 del 20 agosto e fino alla tarda serata del 25 agosto, momento in cui veniva autorizzato lo sbarco. Fatto aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età. Fatto commesso in Catania, dal 20 al 25 agosto 2018”. Cosi deciso in Catania in data 07.12.2018 nella Camera di Consiglio del Tribunale- Sezione Reati Ministeriali”. Il Ministro inquisito, dopo aver dichiarato di non temere nulla e di essere pronto a farsi processare, ha poi evidentemente preferito non rischiare ed avvalersi piuttosto del possibile diniego dell’autorizzazione a procedere prevista dal nuovo art. 96 della Costituzione, come sostituito dalla legge cost. n. 1 del 16 gennaio 1989, per i c.d. “reati ministeriali” e cioè reati comuni che però possono essere commessi solo da persone che esercitano una funzione di Governo. Prima della riscrittura, l’art. 96 Cost. per i reati ministeriali prevedeva la messa in stato d’accusa da parte del Parlamento in seduta comune, e ciò avveniva dietro indagini della c.d. “Commissione inquirente” (Commissione parlamentare bicamerale abrogata a seguito di uno dei cinque referendum popolari del novembre 1987) e con giudizio di fronte alla Corte costituzionale. Quindi anche tali reati, come gli eventuali reati del Presidente della Repubblica (artt. 90 e 134 originario Cost.), rientravano nella c.d. “giustizia politica”, espressione con cui si era soliti fare riferimento appunto alle funzioni che esercitava la Corte costituzionale quando giudicava “sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica ed i Ministri”. Il nuovo art. 96 Cost. ha invece attribuito al giudice ordinario la competenza a giudicare sui reati del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri, appunto i c.d. “reati ministeriali”, però solo previa autorizzazione a procedere da parte del Senato o della Camera e quindi con una depoliticizzazione solo parziale di tali reati, passando dalla c.d. “giustizia politica” ad un sistema che prevede una “giustificazione politica” del reato ministeriale e cambiando il ruolo del Parlamento da accusatore a difensore dell’azione ministeriale. La nuova autorizzazione a procedere per tali reati viene ora concessa o negata, su relazione scritta delle Giunte parlamentari, da parte della Camera, se deputato, o del Senato, se senatore e in tutte le altre ipotesi, ma può essere negata solo a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea e se, ad insindacabile valutazione della stessa Assemblea, “l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo “(art. 9, c.3, L. cost. n. 1 del 1989). Si tratta di due esimenti speciali che, mediante una valutazione politica, arrivano ad escludere l’antigiuridicità e punibilità di fatti qualificati come reati, limitatamente comunque ad attività di governo chiaramente destinata alla tutela di valori essenziali e preminenti per l’interesse generale. Per i membri del Parlamento invece l’istituto dell’immunità dalla sottoposizione ai processi penali (prima possibile mediante diniego dell’autorizzazione della Camera di appartenenza e a prescindere dal motivo della condotta) è stato abolito dalla l.c. n. 3 del 29 ottobre 1993 che ha interamente riscritto l’art. 68 Cost. e in particolare il secondo comma, con la conseguenza che i parlamentari sono ora sottoponibili al processo penale in posizione di perfetta eguaglianza con gli altri cittadini. Forse sarebbe proprio l’occasione per uniformare la disciplina anche per i membri del Governo, con un ulteriore passo avanti che riduca i c.d. privilegi di “casta” o “elite”, vecchia o nuova che sia, e costituisca piuttosto atto di fiducia nell’indipendenza ed imparzialità della magistratura. Da un punto di vista tecnico-giuridico non dovrebbero sussistere dubbi sul fatto che il perseguimento di un interesse pubblico e vale a dire di un interesse generale, non possa essere preminente (e cioè star sopra) su un diritto inviolabile e fondamentale (art. 2 Cost. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,..) come la libertà personale (cfr. art. 13 Cost. italiana; art. 3 Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU; art. 5 Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo-Cedu- salvo arresto o detenzione regolari; art. 6 Carta dei diritti fondamentali dell’UE). Le maggioranze parlamentari sono però quelle che hanno votato la fiducia ai Governi che, per fatti simili, potrebbero anche cadere (specialmente se il membro del Governo coinvolto è anche il capo di un partito politico) ed aprire la strada perfino ad elezioni anticipate. Ecco allora che appare serio il rischio di trasformare, almeno in molti casi, l’istituto di garanzia dell’art. 96 Cost. in una vera e propria immunità dal processo per i governanti, data anche l’insindacabilità della valutazione del Parlamento. Sarebbe pertanto opportuno che il Parlamento integrasse l’art. 9 della legge costituzionale n. 1 del 1989 con una norma che espressamente escluda la preminenza dell’interesse pubblico sui diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo come sanciti dalle norme interne e internazionali e sui quali si fonda la dignità umana e la tutela della persona. Nella fattispecie specifica esiste anche la norma dell’art 2 del testo unico sull’immigrazione che recita: “Allo straniero comunque presente (e quindi anche se irregolare) alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti” e la fascia di mare territoriale è già territorio dello Stato italiano (art. 2 Codice della navigazione vigente). La tanto sbandierata “chiusura dei porti italiani” è stata messa in pratica, nel caso specifico, nella forma di un illecito impedimento dello sbarco di passeggeri stranieri (i migranti) tenuti per giorni come in “ostaggio” per ottenere una ripartizione degli stessi tra gli Stati membri dell’UE, tra l’altro in deroga al Regolamento UE n. 604/2013 denominato Dublino III ( v. art. 13) e non ancora modificato, mentre il medesimo interesse pubblico avrebbe potuto ugualmente essere perseguito secondo modalità legittime e soprattutto lecite. La Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato della Repubblica, cui spetta di riferire al Senato sugli atti trasmessi dal P.M. per l’autorizzazione a procedere per i reati ministeriali di cui all’art. 96 Cost., nella seduta del 19 febbraio scorso ha approvato, a maggioranza, la proposta formulata del Presidente Gasparri, in qualità di relatore, volta al diniego dell’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro e l’ha incaricato di redigere la relazione per l’Assemblea. Tale relazione (Doc. IV-bis n. 1-A) è stata comunicata alla Presidenza del Senato il 21 febbraio scorso e l’Assemblea dovrà pronunciarsi entro il 24 marzo; l’argomento risulta già calendarizzato per la seduta del 20 marzo 2019. Di tale relazione lascia perplessi innanzi tutto la costruzione di una nuova e improbabile categoria di interesse pubblico, vale a dire “l’interesse pubblico governativo” che potrebbe sussistere anche con riferimento agli atti amministrativi, per giustificare il veto posto da parte del Ministro dell’interno “per ragioni politiche” (come precisamente denominate nelle Conclusioni dell’atto del Tribunale dei ministri e non “governative”) al competente Dipartimento delle Libertà civili e per l’immigrazione, a rilasciare il POS che è un atto endoprocedimentale “dovuto” (cioè privo di discrezionalità nell’an) che si inserisce in una normativa sovranazionale vincolante per lo Stato italiano. Tale atto, tra l’altro e ai sensi dell’art. 4, c. 2, del d.lgs. 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego), è di natura gestionale e di competenza e responsabilità esclusiva del dirigente del Dipartimento, il quale, a nostro modesto avviso, avrebbe dovuto invece disattendere il veto del Ministro, dato la natura di illecito penale configurabile nella condotta indicata dalla direttiva ricevuta, magari rischiando l’importante incarico dirigenziale, ma evitando di concorrere alla commissione di un reato procedibile d’ufficio e per di più essendo lo stesso dirigente, diversamente dal Ministro, privo del possibile “scudo” dell’autorizzazione a procedere. La relazione arriva singolarmente anche ad ammettere che l’indirizzo politico di un Governo si possa estrinsecare attraverso “comportamenti concludenti” che non hanno la forma di deliberazione del Consiglio dei Ministri ma pur sempre “valenza governativa” e solo comunicati in sede informativa ad un ramo del Parlamento. Sarà forse perché l’azione di questo C.d.M. appare in generale molto fugace e sostituita molto spesso da lunghi “vertici” a tre - più talvolta qualche altro - quali sedi privilegiate di vera discussione e decisione. La relazione si dilunga a distinguere in modo superfluo tra “scriminante” ed “esimente” facendo però sempre riferimento alla neo categoria dell’interesse pubblico “governativo”, non affronta la questione della “preminenza” o meno dell’interesse pubblico perseguito e arriva piuttosto a distinguere tra la irreversibilità o meno della lesione dei diritti fondamentali, concludendo che nel caso di specie non si può configurare alcuna lesione irreversibile degli stessi. Per valutare la ministerialità del reato (già peraltro riconosciuta dal Tribunale dei ministri), la Giunta arriva ad affermare che la nave poteva considerarsi luogo sicuro in quanto “ancorata in porto” (che è quasi come dire che potevano restarci anche per sei mesi) e continuamente assistita, senza specifici danni subiti dagli immigrati, che comunque, se sbarcati, sarebbero stati portati in un hotspot, non esitando così ad indossare addirittura la toga di giudice e a modificare, indebitamente e impropriamente, il capo d’imputazione originario laddove sostiene che il diritto compresso non sembra nemmeno essere quello della libertà personale ma semmai quello della libertà di circolazione. La relazione conclude pertanto nel senso che la Giunta, essendo evidente che “sussiste in maniera inequivocabile l’esimente del preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”, propone “, a maggioranza, all’Assemblea il diniego della richiesta di autorizzazione a procedere”. Nell’imminente seduta di mercoledì 20 marzo p.v. occorrerebbe invece che l’Assemblea del Senato discutesse in modo approfondito soprattutto sulla preminenza o meno dell’interesse pubblico perseguito (che, cioè, per poter essere preminente avrebbe dovuto avere valore sociale superiore a quello che si è sacrificato) dal Ministro inquisito rispetto a un diritto fondamentale e inviolabile dell’uomo per espressa previsione costituzionale e di diritto internazionale, nonché sull’esistenza o meno di altri modi legittimi e leciti di perseguirlo, senza limitarsi ad avallare acriticamente la proposta della Giunta delle immunità. Sarebbe anche un buon segnale per uno Stato di diritto se l’Assemblea senatoriale autorizzasse il giudice ordinario a continuare il procedimento penale avviato per accertare giudizialmente l’illiceità o meno della condotta tenuta da un Ministro del Governo della Repubblica (che ictu oculi potrebbe apparire ammissibile solo se gli stranieri di pelle nera fossero gli “schiavi” di una volta o comunque degli “esseri inferiori”) ed anche per cercare di evitare future e già preannunciate reiterazioni di analoga condotta “criminosa”. Mercanti di armi nel mondo in guerra, America first di Luciano Bertozzi Il Manifesto, 17 marzo 2019 Il Sipri: gli Usa si confermano al primo posto nella classifica dei venditori, con il 36% del totale nel periodo 2014-18. Gli Usa si confermano al primo posto nella classifica mondiale dei venditori di armi, con il 36% del totale nel periodo 2014-18, i suoi principali clienti sono nell’ordine: Arabia Saudita, Australia ed Emirati Arabi Uniti. lo ha reso noto il Sipri, prestigioso istituto svedese di ricerche sulla pace. Seguono la Russia con il 21% che ha esportato principalmente in Egitto, India ed Algeria; la Francia, con il 7% del totale, che ha esportato soprattutto in Egitto, India ed Arabia Saudita; la Germania con il 6,4% e la Cina con il 5,2%. Al sesto posto si posiziona il Regno Unito con il 4,2%, che vende soprattutto ad Arabia Saudita, Oman e all’ Indonesia. Rispetto al passato va registrato un notevole incremento delle vendite statunitensi, il calo di quelle della Russia e una forte crescita delle esportazioni francesi. In questa poco lusinghiera classifica l’Italia è collocata al nono posto con il 2,3 % del totale, i maggiori acquirenti delle armi italiane sono: Turchia, Algeria ed Israele. Nonostante la normativa italiana in materia sia molto rigorosa, l’elenco è preoccupante: la Turchia da tempo combatte i curdi, sia nel Paese che in Siria, mentre Israele da sempre occupa militarmente i Territori palestinesi. I dati del Sipri evidenziano un crescita a livello mondiale (+8% rispetto al periodo 2009-13 e +23% rispetto al periodo 2004-08). Ad ogni modo la crescita è trainata dalla spesa dei Paesi del Medio Oriente che hanno quasi raddoppiato le importazioni, mentre tutte le altre Regioni del Pianeta le hanno ridotte. Ciò è dovuto all’Arabia Saudita, il primo importatore mondiale che ha triplicato gli acquisti, così come l’Egitto che si colloca al terzo posto, dopo l’India. Anche l’Iraq, all’ottavo posto ha più che raddoppiato gli acquisti; il Qatar al 14° posto li ha triplicati come l’Oman, al 18° posto. Israele ha moltiplicato gli acquisti per 3,5 volte. In controtendenza, invece, gli Emirati Arabi, al settimo posto, che hanno leggermente ridotto la spesa. Trump del resto, è riuscito ad ottenere dall’Arabia Saudita un mega contratto, firmato nel maggio 2017, per un ammontare di 110 miliardi di dollari. Tutta benzina per alimentare i vari conflitti nell’area. Come si vede i Paesi belligeranti o retti da dittature sono ai primi posti fra i clienti dell’industria militare e così tante armi non serviranno, presumibilmente, per essere schierate in parate di regime, ma per creare nuove tensioni e moltiplicare lutti e rovine, per lo più fra la popolazione civile e per rendere ancora più difficile una soluzione diplomatica. Da segnalare la Grecia al 28° posto fra i Paesi importatori, nonostante la cura draconiana imposta dall’Unione Europea e dalle istituzioni finanziarie internazionali, che compra armi principalmente dalla Germania! Sarebbe il caso di imporre oltre al tetto al rapporto deficit/PIL, anche un drastico ridimensionamento delle spese militari. In tempi di recessione meglio non mettere in discussione l’industria militare, come fa il Governo Giallo-verde, perché crea occupazione e quindi anche consenso elettorale. Ma c’è chi si oppone a questa linea. Ad esempio il Parlamento Europeo e il Senato statunitense si sono espressi per il blocco delle vendite di armi all’Arabia Saudita, in guerra nello Yemen e anche la Germania ha assunto una posizione simile. Il Ministro degli esteri di Berlino ha ribadito il divieto ad esportare armi al Regno arabo, ciò ha creato molta apprensione a Londra, visto che l’inglese BAE, ha firmato un contratto miliardario per la fornitura di aerei Eurofighter. Va posta la necessità della riconversione verso il civile. Libia, l’inferno più vicino a noi di Corrado Formigli Elle, 17 marzo 2019 La riduzione in schiavitù e lo sterminio dei migranti neri d’Africa ci lasciano indifferenti, perfino infastiditi, ma nessuno potrà più dire “io non sapevo”. Sebha, Zintan, Khoms, Bani Walid... ricordateveli questi nomi. Appendete dei bigliettini sul muro della vergogna. Sono i luoghi della Libia - soltanto alcuni dei luoghi in realtà - dove migliaia e migliaia di profughi in fuga dalla guerra e dalla fame vengono detenuti al di fuori di ogni legge, trattato o convenzione. La scorsa settimana le telecamere di “Piazzapulita” sono riuscite a entrare nei centri illegali di detenzione e documentare il traffico osceno di migranti schiavi. C’è il carceriere che racconta la sua tortura preferita “col ferro da stiro rovente”, quello ritratto accanto a due giovani nigeriane con gli occhi sbarrati dal terrore che ci illustra il prezzo della sua merce. C’è il detenuto che invia col telefonino un video clandestino denunciando i novanta morti per malattia dentro il suo carcere. E poi bambini sfigurati dalla scabbia, braccia piagate, schiene solcate da cicatrici di fruste, l’inferno in Terra, l’inferno nel Paese che guarda le nostre coste, pagato per tenersi i profughi diretti in Europa. Oggi, se un barcone affonda all’interno della Sar libica (la zona di ricerca e salvataggio che andrebbe assegnata solo alle nazioni che hanno un porto sicuro, non certo a Tripoli), il centro di controllo italiano smista l’Sos alla guardia costiera di quel Paese. I naufraghi dunque, se non affogano, vengono riportati nei recinti di morte da cui sono fuggiti. Lì ricomincia il ciclo del terrore: violenza, detenzione e lavoro in schiavitù finché dalle famiglie non arrivano i soldi del riscatto. E se i soldi non arrivano, c’è solo la morte. E noi che facciamo? Vent’anni fa, per i diritti umani della minoranza albanese del Kossovo bombardammo la Serbia. Nel 2014 abbiamo applaudito le bombe contro il genocidio pianificato dall’Isis in Iraq. Oggi riduzione in schiavitù e sterminio dei migranti neri d’Africa ci lasciano indifferenti, perfino infastiditi. Chi denuncia è un “buonista”. Ma la Libia è per tutti noi una questione morale. Perché nessuno potrà più dire “io non sapevo”.