Fieri di contribuire a far vivere un frammento di Costituzione in carcere Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2019 Ristretti Orizzonti e il viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. La Casa di reclusione di Padova è stata, il 15 marzo 2019, una delle tappe del viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. Luca Antonini, giudice della Corte, ha incontrato le persone detenute per rispondere alle loro domande, ma anche per tenere una lezione sul diritto a esprimere liberamente la propria opinione, che era il tema scelto proprio per l’intervento a Padova. Per una realtà come quella di Ristretti Orizzonti, sentire le sue parole è stato come respirare una boccata di ossigeno per riprendere fiato in un momento particolarmente difficile della vita della redazione. Luca Antonini ha rappresentato una Istituzione, la Corte costituzionale, che ha capito, in un luogo in cui sono chiuse persone, che spesso hanno odiato, attaccato, disprezzato le Istituzioni, ma che hanno a volte anche incontrato Istituzioni sorde o disattente, quanto è importante dimostrare di saper dialogare con tutti e di voler conoscere la realtà andando ad ascoltare le voci dei protagonisti. Anche dove i protagonisti sono “i cattivi“, quelli che pezzi della società sempre più consistenti vorrebbero vedere marcire in galera, e invece il giudice Antonini ha scelto di ascoltarli, e lo ha fatto anche usando proprio il nostro giornale “Ho voluto iniziare a conoscervi e mentre mi preparavo per questo incontro mi è venuta la domanda su chi eravate, capire chi eravate, e ho voluto farlo leggendo le vostre lettere, testimonianze, racconti che sono sul sito di Ristretti Orizzonti, e così ho conosciuto il vostro mondo, con la sua complessità, drammaticità e ricchezza”. La lettura delle testimonianze pubblicate sul sito di Ristretti è stato lo spunto per Luca Antonini per ripensare alle parole di un grande giurista: “Mi è ritornato alla mente uno scritto del grande Francesco Carnelutti che distingueva il delinquente e il carcerato: il delinquente mi ripugna, in certi casi mi fa orrore, diceva, ma quando quella stessa persona diventa carcerato, quando il diritto ha ristabilito il suo vigore, riappare l'uomo e allora nasce, dall'orrore, la compassione". “Compassione”, ha spiegato però Antonini, “intesa in modo alto, come comunione intima e difficilissima”. Ed è stato davvero, questo pezzo di viaggio a Padova di un giudice costituzionale, non una semplice lezione, ma un momento di “comunione”, di confronto, di dialogo straordinario. Luca Antonini ha voluto, con le sue parole, anche dare valore e importanza a quello che, da anni, è il difficile lavoro di chi fa informazione da un luogo, il carcere, dove “esprimere liberamente la propria opinione” non è così facile: “Un'attività senz'altro importante è quella della diffusione delle redazioni giornalistiche all'interno degli istituti penitenziari, dove si curano riviste online e a stampa. L’Ordinamento penitenziario ha posto l' accento sulla necessità di promuovere la cultura all'interno del carcere, è interessante ricordare che nel duemilaquattro è nata la Federazione dei giornali dal carcere, giornali che permettono anche, come è stato nel mio caso, di dare visibilità all'esterno al mondo carcerario, insieme alle altre forme di coinvolgimento posto in attività culturali. Credo che queste espressioni insieme a quella del lavoro dentro il carcere costituiscano occasioni fondamentali nel garantire quelle finalità educative a cui deve tendere la pena in forza dell'articolo ventisette della Costituzione”. Il lungo incontro, di cui parleremo nei prossimi giorni più diffusamente, dopo le risposte date dal giudice Antonini alle tante domande delle persone detenute, si è concluso con una visita, guidata dal Direttore, dal Provveditore e dalle magistrate di Sorveglianza, alle molteplici, innovative attività del Due Palazzi nel campo del lavoro, della scuola, dello sport, della cultura (teatro, coro, biblioteca). Anche perché, come ha voluto sottolineare il provveditore Enrico Sbriglia, “la cultura è libertà”. E c’è stata poi una lunga sosta in redazione, dove alcuni detenuti-redattori hanno potuto raccontare la loro esperienza, in particolare il progetto di confronto con le scuole, ma anche quella importante sperimentazione, che vede la partecipazione di alcuni detenuti dell’Alta Sicurezza al lavoro di Ristretti Orizzonti, e la loro scelta di prendere le distanze in modo netto e chiaro dalle realtà criminali di cui facevano parte in passato. Da persone che si occupano, con fatica, di informazione dal carcere da ben ventun anni, vogliamo ringraziare anche Donatella Stasio, per anni giornalista del Sole24Ore, profonda conoscitrice dei temi della Giustizia, delle pene e del carcere, oggi portavoce della Corte costituzionale, per le sue parole di stima e apprezzamento, che sono state la seconda fondamentale boccata di ossigeno di questa giornata così significativa: “Un’ultimissima annotazione la devo fare. Io sono una giornalista, quindi sono particolarmente sensibile a questo frammento di Costituzione che è stato scelto per questa lezione, che è la libertà di manifestare il proprio pensiero. Io vorrei allora, consentitemelo, fare un ringraziamento particolare, speciale alla redazione di Ristretti Orizzonti, che per anni è stata per noi, e spero continui ad essere, fonte preziosissima di informazioni, notizie, testimonianze sul carcere, in maniera veramente giornalisticamente impeccabile”. Ma c’è anche, per finire, una citazione dello scrittore Georges Bernanos, che ha fatto il giudice Antonini e noi vogliamo sottolineare: “La minaccia peggiore per la libertà non consiste nel lasciarcela strappare - perché chi se l'è lasciata strappare, può sempre riconquistarla - ma nel disimparare ad amarla e nel non capirla più”. Ecco, in fondo Ristretti Orizzonti lavora anche perché nessuno, né delle persone detenute, e neppure delle Istituzioni, disimpari mai ad amare la libertà, quella sua ma anche quella degli altri. A cura di Ornella Favero e della redazione di Ristretti Orizzonti Post di Donatella Stasio (Facebook). “Dall’amore non si fugge”, cortile passeggio carcere Due Palazzi di Padova. Il “Viaggio nelle carceri” della Corte costituzionale oggi ha fatto tappa qui, con il giudice costituzionale Luca Antonini. Si è parlato di libertà di manifestazione del pensiero e sono stati visitati i reparti detentivi comuni e alta sicurezza. Poi la straordinaria testimonianza dei redattori di Ristretti Orizzonti, la professionalità degli operatori del call center, la perizia degli addetti alla lavorazione dei tacchi delle scarpe di Prada e di altre griffe di alta moda. Dulcis in fundo, l’abilità dei pasticcieri della Cooperativa Giotto. Abbiamo respirato tanta voglia di farcela. Prossima tappa, Napoli Secondigliano. Registrazione audio-video dell’incontro (Radio Radicale). https://www.radioradicale.it/scheda/567993/il-giudice-della-corte-costituzionale-luca-antonini-incontra-i-detenuti-nellambito-del Medicina penitenziaria. Fimmg: “Mancano medici nelle carceri. Serve Accordo Nazionale” quotidianosanita.it, 16 marzo 2019 I medici di famiglia denunciano come “a fronte di un sovraffollamento di detenuti negli istituti di pena diventa difficile assicurare un servizio di assistenza sanitaria adeguato”. E lancia la proposta: “È necessario ricondurre la medicina penitenziaria nazionale in uno stesso alveo proponendo l’istituzione di una unica Asl Nazionale Penitenziaria interregionale”. “Manca personale medico nelle carceri italiane. A fronte di un sovraffollamento di detenuti negli istituti di pena diventa difficile assicurare un servizio di assistenza sanitaria adeguato”. Lo dichiara Franco Alberti, coordinatore nazionale di Fimmg Medicina Penitenziaria. “I medici che lavorano nelle carceri sono così costretti in alcuni casi a turni continuativi con i rischi connessi alla situazione di stress legata all’ambiente di lavoro a scapito della salute dei detenuti - prosegue Alberti. Con il Dpcm del 1 aprile 2008 l’assistenza sanitaria è transitata dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute e quindi al Ssn. A distanza di 11 anni non è ancora stato fatto un contratto collettivo per i medici penitenziari, contemplato nell’Acn della Medicina generale creando situazioni paradossali e contratti legati alle interpretazioni delle varie regioni, dimostrando una enorme ‘ignoranza’ sull’operato dei medici in carcere volendo equipararli alla continuità assistenziale che svolge altre funzioni”. “Si sta assistendo - sottolinea Alberti - a una fuga dei vecchi medici legata alla situazione precaria, sostituiti da colleghi che non sono preparati ad affrontare questo lavoro, e tra l’altro sottopagati, che appena possono scappano perché non vedono un futuro”. Per Alberti: “È necessario garantire una formazione adeguata istituendo un corso di un anno che permetta di lavorare in carcere perché, sia per l’abbandono volontario sia per i pensionamenti, il sistema potrà entrare in crisi. Sono ripartite le trattative per l’Acn della medicina generale e di conseguenza anche per la medicina penitenziaria”. “Ci auguriamo - conclude - che stavolta sia presa in dovuta considerazione la nostra richiesta di un sollecito accordo che riconosca sia da un punto di vista normativo che economico il lavoro svolto. È necessario ricondurre la medicina penitenziaria nazionale in uno stesso alveo proponendo l’istituzione di una unica Asl Nazionale Penitenziaria interregionale che possa sovrintendere all’organizzazione del servizio e al personale sanitario dei 206 istituti penitenziari Italiani, con un’organizzazione autonoma e un proprio budget uniformando su tutto il territorio nazionale”. Quando i magistrati che fanno politica piacciono ai politici di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 marzo 2019 Il presidente del Tar di Brescia ha salutato “un Esecutivo finalmente non più pavido”, invocando “prioritaria, quanto necessaria, tutela alla tradizione socio-culturale e all’appartenenza identitaria del nostro Popolo”. Il vicepremier Salvini ha zittito il presidente del Tar - Tribunale Amministrativo Regionale di Brescia, Roberto Politi, dicendogli che, se vuole fare politica, allora deve farsi candidare ed eleggere prima di criticare, come ha fatto all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, “taluni recenti interventi normativi dell’Esecutivo” sull’immigrazione a favore di “stranieri nati all’estero da cittadini stranieri”. Anche il vicepremier Di Maio lo ha rampognato, rimarcando che con il governo del popolo la musica è cambiata per chi, come il magistrato, definisce “un mantra” il prima-gli-italiani, e censura “la penosa litania” del voler accordare “priorità all’appartenenza identitaria del nostro Popolo”. E per il premier Conte è “inaccettabile” che il n.1 del Tar di Brescia inviti ad “attribuire apoditticamente diritti fondamentali a tutela di posizioni viziate in origine dalla clandestinità”. Ops, contrordine: non è andata così, mai i ministri hanno criticato il presidente del Tar di Brescia. Perché non ha detto quelle cose. Ma il contrario. Ha cioè salutato “un Esecutivo finalmente non più pavido”, invocando “prioritaria, quanto necessaria, tutela alla tradizione socio-culturale e all’appartenenza identitaria del nostro Popolo”. Ha esortato a uscir “fuori da un coro sempre pronto ad affratellare le voci più disparate nel mantra della penosa litania dei diritti fondamentali”; e a entrare invece nella “stagione in cui la fin troppo frequente evocazione di non negoziabili posizioni giuridiche” possa “finalmente essere declinata anche a favore dei cittadini italiani, nati in Italia da cittadini a loro volta italiani”. Altrimenti, ammonisce, “contribuiremmo ad alimentare una “classe super protetta” di diritti fondamentali, apoditticamente attribuiti a tutela di posizioni selettivamente individuate e contraddistinte dal vizio originario della clandestinità”. Conte, Salvini e Di Maio, stando in silenzio, stanno quindi rivelando uno scoop: anche i “magistrati che fanno politica” piacciono. Quando “fanno la politica” che piace alla politica. Il pg di Cassazione: “Basta con le sentenze che contengono giudizi morali o estetici” Il Messaggero, 16 marzo 2019 “Nelle sentenze bisogna occuparsi di fatti e non dare giudizi morali o estetici. Farlo potrebbe costituire illecito disciplinare”. Il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, in occasione della presentazione del bilancio sociale della procura generale della Cassazione, va dritto al tema che in questi giorni ha acceso il dibattito: sentenze motivate in modo quantomeno inopportuno e aggiunge: “Le sentenze - sottolinea - devono essere risolte ed espresse in termini tecnici e deve essere rispettata la dignità delle persone e la correttezza verso le parti del processo”. Sui recenti verdetti che hanno riguardato violenze sessuali e un femminicidio e uno stupro ritenuto non possibile per la “bruttezza” della vittima sono in corso acquisizioni di documentazione per valutare eventuali iniziative disciplinari che il Pg non esclude affatto. Per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede il problema non sono tanto le singole sentenze ma l’escalation della violenza contro le donne che quotidianamente allunga la sua lista. “Non si tratta di stare a vedere le singole sentenze, il problema vero - per il Guardasigilli - è che sulla violenza di genere c’è un degrado, ogni giorno un fatto nuovo, una degenerazione culturale gravissima: in questa situazione il legislatore deve mettere mano alla legge e faccio appello affinché la riforma “Codice rosso” sia approvata all’unanimità”. Le nuove norme dovrebbero consentire un accesso rapido alla giustizia da parte di chi denuncia. Per quanto riguarda la sentenza di Bologna che per la “tempesta emotiva” ha dimezzato la condanna all’omicida di una giovane donna che lo aveva lasciato, il Pg Fuzio ha comunicato che l’ufficio giudiziario bolognese ha mandato alla Cassazione la sentenza che ha sollevato tante proteste. “Sembra che lo stesso estensore della sentenza abbia fatto una conferenza stampa e questo è un fatto censurabile”, ha aggiunto Fuzio, che competente per l’azione disciplinare, precisando che il suo ufficio valuterà tutte queste ultime decisioni della magistratura. Chi ci difende dalle armi? di Fiorenza Sarzanini Io Donna - Corriere della Sera, 16 marzo 2019 Avere il porto d’armi fa sentire più sicuri o aumenta il tasso di violenza? Allargare le maglie della legge sulla legittima difesa comporta il rischio di vendette personali. E poi “più pistole in circolazione significano più sangue”, come ricorda chi ha vissuto questo dramma in prima persona quando mio padre Agostino si è sparato, l’ultima persona ad averlo visto vivo sono stato io. Si era alzato presto e, come sempre, era venuto a svegliarmi per andare a scuola. Della mattina di quel 30 maggio 1994 ricordo ogni singolo momento. L’unica cosa che non ricordo è la pistola con cui si è tolto la vita. Quando l’ho salutato con un bacio, Ago era seduto in terrazza e la Smith & Wesson calibro 38 a canna corta sono sicuro non l’avesse ancora presa. Lo dico subito: se qualcuno vuole accusarmi di usare la vicenda personale mia e della mia famiglia coglie nel giusto”. Luca Di Bartolomei aveva 12 anni quando suo padre, calciatore e grande capitano della Roma, si è ucciso. “Dritto al cuore” è il libro che ha deciso di scrivere quando il governo ha deciso di cambiare la legge sulla legittima difesa. Ha studiato il problema, ha analizzato ogni aspetto. In tutta Italia ogni anno ci sono appena una decina di casi di persone che sparano per difendersi contro il ladro che viola la loro proprietà. Finiscono sotto inchiesta, vengono svolte le verifiche e la maggior parte viene archiviata perché si riconosce che è stata davvero una difesa “legittima”. Ma che cosa accadrà da ora in poi? Quante persone utilizzeranno le nuove norme come scudo per regolare conti personali? O, peggio, per vendicarsi? Il rischio è altissimo, fin troppo evidente quando si deroga al principio che affida allo Stato il compito di occuparsi della sicurezza dei cittadini, di proteggerli e difenderli. Lui lo spiega bene. “Più armi in circolazione significano solo più sangue. Nelle occasioni in cui si parla - come puntualmente avviene da troppi anni - di ampliare le maglie della detenzione e del porto d’armi con la scusa della legittima difesa, io ripenso sempre a quel bagliore. Quella canna lucida che dopo il suicidio di mio padre ho rivisto diverse volte. Se ho deciso di partire da qui, da una storia personale, strumentalizzando la morte di Ago, è perché non mi interessa più ricordare quanto allora ho perso come figlio. Adesso, di fronte all’abisso verso cui ci stiamo lasciando guidare, non mi pesa più tanto quel dolore passato. M’importa pensare a tutto quello che, da domani, potrei perdere come padre, come zio, come amico. E ne ho paura”. Salvini: stop alle baby-gang, sì all’arresto dei dodicenni di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 16 marzo 2019 “Alla Camera dei deputati abbiamo depositato una proposta di legge che abbassa il limite dell’età imputabile da 14 a 12 anni. I tempi sono cambiati, e l’abbassamento dell’età imputabile - come illustrano ormai talune tra le più accreditate acquisizioni delle scienze criminologiche e le riflessioni della dottrina penalistica - appare non più dilazionabile”. Da Napoli, al termine della riunione del Comitato per l’ordine pubblico presieduto in Prefettura, Matteo Salvini risponde a chi gli chiede che cosa intenda fare la maggioranza di governo per arginare il fenomeno della devianza minorile declinata sia rispetto alla microcriminalità che al coinvolgimento, sempre più drammaticamente frequente, di ragazzini nelle fila dei clan di camorra. Non a caso il numero uno del Viminale sceglie Napoli per replicare a chi gli chiede quale ricetta si debba adottare per arginare i fenomeni della violenza metropolitana che vedono sempre più in prima linea poco più che bambini e adolescenti. E Salvini fa riferimento ad una proposta di legge già depositata presso la segreteria di Montecitorio (primo firmatario il deputato napoletano Gianluca Cantalamessa), che in tre semplici articoli rimodula l’approccio penalistico al problema. “Affido nelle mani dell’onorevole Cantalamessa - prosegue il ministro dell’Interno - l’iter parlamentare di questa modifica di legge nella quale abbiamo creduto e crediamo”. Se approvata, la proposta di legge avrebbe effetti importantissimi: “La commissione di gravi reati da parte di soggetti infra-quattordicenni - si legge nel testo di modifiche al codice penale presentato nel febbraio scorso - rende necessario abbassare l’età “ufficiale” della responsabilità penale a 12 anni, soluzione peraltro in linea con l’ordinamento di Paesi particolarmente evoluti, tra i quali il Canada)”. Conclude Salvini: “Lo proporrò agli amici con cui stiamo governando. Non è nel contratto di governo, ma se ne può discutere”. Ad aprile, comunica sempre in conferenza stampa, verrà abbattuta la Vela Verde nel quartiere napoletano di Scampia: “Sarà un periodo complicato, ma se riuscirò a trovare due ore sarò orgoglioso di assistere all’abbattimento”. Una battuta che scatena l’immediata reazione al cianuro del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris (assente al vertice). “Noi non consentiremo a nessuno di prendersi meriti che non ha - dichiara il primo cittadino - e tanto meno di fare passerelle politiche sulla pelle dei napoletani”. Due ore di discussione con tutti i vertici di magistratura e forze dell’ordine: tanto è durato il Comitato per l’ordine pubblico in Prefettura. Magistrati e responsabili delle forze dell’ordine hanno illustrato il quadro degli ultimi successi investigativi. “A Napoli - spiega il ministro - calano i reati, si registra un eccellente lavoro di sinergia tra investigatori e Procura. La camorra sa che al governo ci sono dei nemici disposti a tutto pur di portargli via anche l’ultimo paio di mutande. E proprio oggi è stato disposto il 41 bis per Marco Di Lauro”. Soddisfazione anche per le promesse mantenute in tema di videosorveglianza: in pochi mesi si è avuto un incremento dell’85 per cento in più di impianti. Già da aprile, poi, inizierà anche lo svuotamento delle depositerie giudiziarie dove giacciono migliaia di motorini sequestrati. Salvini si concede un fuori programma: prima del Comitato va a far visita - per la seconda volta in pochi mesi - a don Vincenzo Balzano, parroco della chiesa del Buon Consiglio, e con lui resta a mangiare (pizza fritta, Coca Cola e dolcetto alle fragole). “Al Vasto ci sono oggi 200 immigrati cosiddetti “richiedenti asilo” in meno. E a breve partiremo con gli sgomberi, ma non vi dico di più. Tra dicembre e febbraio a Napoli sono arrivati 102 poliziotti in più. E a breve partirà anche il progetto “Spiagge sicure”, che riguarderà sette località costiere napoletane tra le quali Capri, Vico Èquense, Sant’Agnello e Piano di Sorrento”. Salvini difende anche il progetto dell’autonomia differenziata per le Regioni del Nord: “Manderò una copia della proposta al governatore De Luca e agli esponenti di Forza Italia che la criticano. Così almeno capiscono di cosa si parla. Evidentemente si ha paura perché con l’autonomia ci si devono assumere le responsabilità: oggi se ci sono le formiche negli ospedali, se i malati stanno a terra, è sempre colpa degli altri. Troppo facile”. “Oggi in piazza - conclude Salvini - c’erano alcuni “bravi ragazzi” dei centri sociali che inneggiavano alla morte del ministro dell’Interno, strattonando i poliziotti. Ci sono mamme e papà che hanno figli cretini che andrebbero educati, evidentemente. Ma io sono orgoglioso di come donne e uomini in divisa affrontano i problemi ogni giorno”. La norma spazza-corrotti minaccia il Terzo settore: “Non siamo partiti politici” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 16 marzo 2019 Una modifica alla legge sulla trasparenza impone i costi e gli obblighi dei partiti agli enti del non profit che abbiano un ex amministratore pubblico in un organo direttivo. L’ex sindaco di Vimodrone, Antonio Brescianini, nel 2017 aveva deciso di non ricandidarsi “per tornare a occuparmi di sociale” nel suo comune. Peccato che, stando a una novità introdotta dalla legge cosiddetta “spazza-corrotti”, la presenza di Brescianini fosse anche nella bocciofila della sua cittadina, da oggi equipara questo ente (sì, anche la bocciofila) a un partito, con tutti gli obblighi, le spese burocratiche, le complicazioni che ne conseguono. Possibile? Possibilissimo e quello di Brescianini è solo il caso di una norma che riguarderà ex consiglieri comunali, ex assessori, ex ministri, anche quelli che si sono prestati a fare politica solo per un brevissimo periodo delle loro vite e che poi, per spirito di servizio, si impegnano nel volontariato, nelle fondazioni, negli enti filantropici. La legge 3/2019 (la “spazza-corrotti”, appunto) ha modificato un comma dell’articolo 5 della legge 149/2013 in materia di trasparenza dei partiti: “Sono equiparate ai partiti e movimenti politici ... le fondazioni, le associazioni, i comitati i cui organi direttivi siano composti in tutto o in parte da persone che siano o siano state, nei dieci anni precedenti, membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee elettive regionali o locali, ovvero che abbiamo ricoperto nei dieci anni precedenti incarichi di governo al livello nazionale, regionale o locale”. Gli effetti del decreto così rivisto potrebbero essere devastanti: tutte queste realtà verrebbero chiamate ad esempio a far esaminare i bilanci a (costose) società di rendicontazione; dovrebbero comunicare tutti i propri dati al presidente della Camera che li registrerebbe sul sito internet del Parlamento italiano (sì, anche quelli della bocciofila); in caso di inadempienze incapperebbero in multe esorbitanti. Tutti obblighi, per capirci, che invece non sono chiesti alle aziende private, alle srl e così via. Al Forum del Terzo settore stanno affrontando il problema, come spiega la portavoce Claudia Fiaschi, “per capire se possa esserci una diversa interpretazione che salvi tutte le nostre realtà da questi obblighi insensati”. Che poi il problema è il principio che sta al fondo: “Fanno passare - riassume Fiaschi - la politica come fonte naturale di corruzione, come elemento che inquina e non rafforza le organizzazioni del Terzo settore”. Il comma è oggetto in queste ore di esame di molti esperti, anche per capire se, come e da quando ne scatterebbe l’applicazione. Il professor Luca Gori, costituzionalista e docente di Diritto del Terzo settore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, si sbilancia: “A mio parere, siamo di fronte a una previsione normativa a rischio di incostituzionalità perché estende irragionevolmente obblighi specifici dei partiti politici a soggetti privati che hanno tutt’altro fine ed ambito di attività, semplicemente, partendo dal sospetto che un ex amministratore o un ex politico usi l’associazione di cui faccia parte per fini non trasparenti”. Non finisce qui (speriamo). L’accordo segreto che ha messo una pietra sopra il caso Moby Prince di Fabio Pozzo La Stampa, 16 marzo 2019 Firmato due mesi dopo la collisione di Livorno tra armatori, proprietari del carico e assicuratori. Il documento trovato dallo Scico della Finanza e svelato dalla commissione d’inchiesta parlamentare. In un libro nuove rivelazioni sul sinistro di 28 anni fa. L’accordo segreto è raggiunto a Genova il 18 giugno 1991, dopo poco più di due mesi dalla collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo, entrati in collisione nella rada di Livorno il 10 aprile, che causa la morte di 140 persone. Si siedono attorno al tavolo sei persone: rappresentano la Navarma (Onorato), l’armatore del traghetto; la statale Snam, che arma la petroliera; l’Agip, proprietaria del carico; gli assicuratori. È un momento decisivo, questo, nella storia del caso Moby Prince perché, scrivono Francesco Sanna e Gabriele Bardazza nel libro Il caso Moby Prince. La strage impunita (Chiarelettere) in uscita domani, “è la traduzione giuridica e assicurativa del mettiamoci una pietra sopra”. La transazione - L’accordo, ricostruito dalla commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moby Prince istituita dal Senato nel 2015 e il cui documento è stato trovato dallo Scico della Finanza, vale circa 70 miliardi di lire. Che cosa si conviene a Genova? Navarma (e i suoi assicuratori) devono risarcire i familiari dei passeggeri e membri d’equipaggio, Snam pagare i danni ambientali, nessuna delle parti può fare causa all’altra e insieme si obbligano a stare insieme in giudizio qualora le famiglie delle vittime avessero citato una di esse. Il risarcimento ai familiari prevede che questi ultimi rinuncino a qualsiasi azione legale. Lo sottoscriveranno quasi tutti gli eredi delle 140 vittime del traghetto, ma non nella totalità (c’è chi ha più parenti), il che lascia uno spiraglio per la costituzione di parte civile che porterà avanti i processi. L’accordo sancisce anche una verità, che attribuisce la colpa al comando del traghetto (morti tutti). In sintesi: il ferry in uscita dal porto di Livorno e diretto ad Olbia sperona la petroliera, alla fonda. Perché? Non la vede a causa della nebbia. “Una verità che traccia un solco, certificata dalla magistratura nei successivi procedimenti penali”, sostengono Sanna e Bardazza. Questa verità regge per 27 anni, finché non arriva la relazione finale dei lavori della commissione d’inchiesta parlamentare, che prende il via da un documento delle due associazioni dei familiari delle vittime. La dinamica - Bardazza e Sanna mettono a fuoco nel libro i risultati dell’inchiesta parlamentare arricchiti da nuovi studi, rivelazioni, testimonianze. La dinamica della collisione, ad esempio. “La nebbia non ha sicuramente causato l’incidente e probabilmente non c’era: chi l’ha vista, l’ha scorta dopo la collisione, e spesso l’ha confusa col fumo dell’incendio. La petroliera era ferma in una zona vietata all’ancoraggio, disposta con la prua verso il largo, sud-ovest. Potrebbe avere avuto un guasto ed essere stata in black-out e quel guasto potrebbe aver generato una dispersione di vapore acqueo simile a nebbia, una nuvola biancastra come quella raccontata da molti testimoni. L’esatta dinamica dell’incidente resta un mistero, ma l’ipotesi più plausibile è che il traghetto davanti a quella situazione anomala passi a poppa della petroliera e poi viri a dritta per riprendere la rotta. Nel rientro il timone resta in bando, il ferry compie una sorta di inversione e va a speronare la petroliera sul lato opposto, il destro”. La virata è provata, il motivo no. Un altro ostacolo che spunta d’improvviso?Si è parlato di bettoline, di operazioni di carico e di scarico d’armi o di greggio (o nafta?). E anche di un’esplosione a prua della Moby Prince, che danneggia le tubolature della timoneria, mandandola in tilt. “Ci sono tracce dell’esplosione. È da capire se è avvenuta dopo la collisione, a causa del gas, oppure prima, con un esplosivo a bassa potenzialità, ipotesi non esclusa dai consulenti”, spiegano ancora Sanna e Bardazza. “Per ottenere la verità su questo passaggio importante è sufficiente un’analisi di residui ancora agli atti, non realizzata inspiegabilmente dalla commissione d’inchiesta. Sarebbe un ulteriore tassello della verità anche se è chiaro che non sapremo mai esattamente come è andata quella notte, se qualcuno non parla”. I soccorsi - In mare una collisione, ancorché complessa da ricostruire, può verificarsi. L’incredibile è che quei poveretti del traghetto non siano stati soccorsi. Se infatti l’equipaggio dell’Agip Abruzzo è tratto in salvo dopo un’ora e 20 minuti dalla collisione, i mezzi della Capitaneria di porto di Livorno scovano in modo fortuito il traghetto - che nel frattempo si è allontanato dalla petroliera, motori indietro - 80 minuti dopo l’incidente e non prestano alcun soccorso a chi vi era rimasto sopra. Perché la Moby Prince diventa prima una nave fantasma e poi, quando trovata, nessuno soccorre le persone a bordo? “La Capitaneria ha sempre dichiarato di non aver udito il mayday lanciato dalla Moby Prince e di essere stata attirata dalla chiamata in soccorso dell’Agip Abruzzo, che non segnala il coinvolgimento di un traghetto nell’incidente. Ma il punto è che il comandante della Capitaneria ha evitato ogni soccorso alla Moby Prince perché, così ha dichiarato alla commissione d’inchiesta, la logica gli ha suggerito che a bordo erano già tutti morti. Così ha concentrato l’operazione di soccorso sulla petroliera, perché se fosse esplosa sarebbe stato un disastro”. L’omissione di soccorso verrà poi meno, in sede processuale, perché si riterrà valida questa tesi della morte rapida, sostenuta da una perizia medico legale. Perizia che sarà poi smontata dai consulenti della commissione d’inchiesta. “Non sono morti tutti in mezz’ora - dice Sanna. Il mozzo Alessio Bertrand, si è salvato ed era vivo un’ora e venti minuti dopo la collisione. E stando alla consulenza medico legale disposta dalla commissione d’inchiesta anche altre persone sopravvissero per ore: tra queste il passeggero Gerhard Baldauf e il marittimo Giovanni Abbattista, rifugiatisi in sala macchine, o il cameriere Antonio Rodi, il cui corpo integro è stato sorvolato da un elicottero dei carabinieri 9 ore dopo la collisione”. Le nuove indagini - La procura di Livorno ha annunciato l’apertura di una nuova inchiesta. “Potrebbero ripartire dall’esplosione a prua. Probabilmente si andrà a un’altra archiviazione, ma i nuovi magistrati potrebbero riscrivere la verità storica di questo caso. Sarebbe un riscatto”. Uccisa da un mix di sostanze radioattive. Il mistero della testimone del caso Ruby di Grazia Longo La Stampa, 16 marzo 2019 La causa della morte di Imane Fadil confermata dagli esami tossicologici. La procura indaga per omicidio volontario. Avvelenata da un mix di sostanze radioattive che avrebbe ingerito o con un cocktail o con del cibo. È questo che raccontano le cartelle cliniche sequestrate all’ospedale Humanitas di Rozzano, subito dopo la morte di Imane Fadil, 34 anni, marocchina, teste chiave nel processo contro Silvio Berlusconi per il caso di Ruby Rubacuori e le serate hot del bunga bunga. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo per omicidio volontario e ha disposto l’autopsia sul cadavere. Il procuratore Francesco Greco assicura che “le indagini saranno approfondite perché siamo di fronte a una morte e la vicenda è seria”. La ragazza è deceduta lo scorso 1 marzo, dopo quello che lo stesso Greco definisce “un mese di tormentata agonia”. Era stata ricoverata il 29 gennaio, dopo essersi sentita male a casa di un amico. “Ho un forte mal di pancia e mi sento sfinita” disse ai medici che hanno faticato non poco a capire che fosse stata avvelenata. Ci troviamo infatti di fronte all’uso di un avvelenamento molto raro, un cocktail di elementi radioattivi, che determina il progressivo deterioramento degli organi interni. “Ho paura di morire, mi hanno avvelenata” ha raccontato Imane al fratello e al proprio avvocato Paolo Sevesi. E la procura ora conferma che “dalle cartelle cliniche emergono sintomatologie da avvelenamento”. Ma che tipo di veleno è stato somministrato alla donna? E, soprattutto, da chi? Nel 2012, durante un interrogatorio di fronte ai magistrati, alla domanda se avesse ma ricevuto pressioni la giovane raccontò di essere stata avvicinata da uno strano personaggio, un siriano, che le consegnò una scheda e un cellulare Nokia, per non essere intercettata: “mi chiamò almeno cinque volte per dirmi prendi un taxi e vai là che devi parlare...”. “Là dove?” le chiese il pm, e lei: “Per me era chiaro: era inteso Arcore. Io però non andai, avevo paura...”. Imane Fadil si era costituita parte civile, insieme ad altre due ragazze, nei processi Ruby, bis e ter, ma da quest’ultimo era stata esclusa perché secondo i giudici della settima penale, davanti ai quali si svolge il filone principale del processo che vede imputati Berlusconi e altre 27 persone per corruzione in atti giudiziari, (compresa Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori), i reati contestati non ledessero direttamente le tre ragazze, ma lo Stato. A proposito di questa vicenda va poi ricordato che Imane, con le altre due giovani, aveva avviato una trattativa extragiudiziale con la senatrice di Forza Italia, Maria Rosaria Rossi, fedelissima del Cavaliere. Trapelò che le tre ragazze avessero richiesto un risarcimento intorno ai 2 milioni di euro. Ma il patto saltò e non ottennero nulla. Altra questione insolita riguarda le affermazioni di Imane sul contesto “satanico” in cui si svolgevano le serate del bunga bunga: “Si avvertiva la presenza del demonio e in un camerino accanto alla sala c’erano decine di tuniche che facevano pensare a riti satanici”. Questo e molti altri particolari sono ampiamente raccontati in un libro scritto da Imane Fadil e ora al vaglio del pm Luca Gaglio e dell’aggiunto Tiziana Siciliano. Pordenone: detenuto invalido ritrovato morto in cella di Cristina Antonutti Il Gazzettino, 16 marzo 2019 Accertamenti sulle condizioni di salute e la compatibilità con il regime carcerario. Un uomo di 63 anni in carcere: invalido, malato e con le stampelle. Gianmario Bonivento, residente a Fiume Veneto in via Giovanni XXIII, è morto nella cella n. 2 della Casa circondariale di Pordenone. È mancato nel sonno, una morte naturale, come ha rilevato il medico legale Giovanni Del Ben. Ma la Procura vuole vederci chiaro. Le sue condizioni di salute erano compatibili con il regime carcerario? Riceveva regolarmente i farmaci di cui aveva bisogno? Le indagini, affidate ai carabinieri del Nucleo investigativo, sono coordinate dal sostituto procuratore Federico Facchin. Un fascicolo è stato aperto per l’ipotesi di omicidio colposo, circostanza che, ai fini dell’autopsia, ha determinato un avviso di garanzia nei confronti del medico del carcere, Giovanni Capovilla, affinché possa partecipare all’esame autoptico o nominare eventuali consulenti. Il decesso è stato scoperto alle 7.30 di ieri mattina, quando gli infermieri si sono affacciati alla cella per somministrare le terapie farmacologiche. Sembrava che Bonivento fosse rimasto addormentato nella branda. Inutilmente i tre compagni lo hanno scosso, il suo cuore stanco aveva ceduto durante la notte. Poco dopo è arrivata l’ambulanza, ma non c’era più nulla da fare. “Ho subito avvertito il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la Procura - spiega il direttore Alberto Quagliotto - Bonivento era seguito e curato per le patologie di cui soffriva”. Bonivento era in carcere dal 30 gennaio. Dal 2 giugno 2018 stava scontando un cumulo pene di 3 anni e 8 mesi, principalmente per episodi di bancarotta legati alle coop Gesim e Cosim. Il suo debito con la giustizia si sarebbe estinto nel 2021. A causa delle sue precarie condizioni di salute era agli arresti domiciliari. A gennaio, contrariato per una pratica relativa alla pensione che non era stata accolta, aveva inviato una mail con minacce di morte all’assistente sociale che si occupava del suo caso. La donna si era preoccupata e aveva presentato denuncia ai carabinieri di Fiume Veneto. Questo aveva fatto scattare la revoca dei domiciliari da parte del Tribunale di sorveglianza di Udine. “Non doveva stare in carcere - spiega il suo legale, l’avvocato Roberto Russi - Le sue condizioni di salute erano incompatibili: diabetico, invalido al 100%, per muoversi aveva bisogno dei bastoni”. Era stato fatto ricorso. Bonivento aveva chiesto scusa, ma non aveva ottenuto i domiciliari. A Fiume Veneto viveva con la figlia Giulia, 19 anni. La ragazza andava a trovarlo in carcere e lo sentiva telefonicamente. È sempre stata vicina al padre ed era molto preoccupata per le sue condizioni di salute, tanto che si assicurava che gli fossero somministrate tutte le medicine di cui aveva bisogno. Aveva riposto ogni speranza nel ricorso per Cassazione, ma ieri mattina tutto è finito. Roma: indagini su suicidio a Regina Coeli, sentita la direttrice del carcere askanews.it, 16 marzo 2019 Inquirenti valutano prossimi passi istruttori da compiere. Il direttore del carcere di Regina Coeli, Silvana Sergi, è stata sentita nell’ambito di uno dei filoni d’indagine sulla morte di Valerio Guerrieri, giovane ragazzo di 21 anni, che il 24 febbraio 2017, si tolse la vita nel carcere romano di via della Lungara. A piazzale Clodio si mantiene il massimo riserbo sull’atto istruttorio. Dopo che il gip ha respinto la richiesta d’archiviazione del fascicolo avanzata dal pubblico ministero gli inquirenti dovranno provvedere alla iscrizione formale per l’accusa di omissione d’atti d’ufficio dello stesso direttore del penitenziario di via della Lungara e del responsabile locale del Dap. Si ricorda che già a processo, per la vicenda Guerrieri, ci sono 7 agenti di polizia penitenziaria e due medici psichiatri. In questa tranche, arrivata in aula, i pm contestano il reato di omicidio colposo. Pochi giorni dopo la morte del ragazzo la mamma si rivolse alla associazione Antigone, rendendo nota anche una lettera che il figlio le scrisse poco prima di suicidarsi. Secondo i legali della famiglia di Valerio il giorno in cui si è impiccato il giovane non si sarebbe dovuto trovare a Regina Coeli. Diversi giorni prima era stata revocata la custodia in carcere e, in ragione delle sue condizioni di salute, doveva essere portato in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Per questo il pm aveva avviato in parallelo al filone principale un fascicolo sul presunto trattenimento senza titolo del giovane all’interno del carcere. Dopo che è stata chiesta l’archiviazione il giudice ha accolto l’opposizione della parte civile ordinando l’iscrizione dei presunti responsabili nel registro degli indagati. Padova: il giudice della Corte Costituzionale Antonini al Due Palazzi con i detenuti di Elisa Fais Il Gazzettino, 16 marzo 2019 “Disservizi e ritardi in carcere, una vergogna. Il legislatore deve garantire i diritti costituzionali e poi, se avanzano risorse, metterle su altre cose. Prima vengono i diritti costituzionali, poi il Bonus cultura per i diciottenni”. Lo ha detto Luca Antonini, giudice della Corte costituzionale, ieri, durante l’incontro con i detenuti al carcere Due Palazzi di Padova nell’ambito del progetto Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri. Rispondendo a un detenuto che denunciava ritardi e disservizi all’interno del penitenziario, Antonini ha osservato che “certi problemi non dovrebbero esistere. È una vergogna che esistano, ma sono legati a condizionamenti, come la carenza di risorse e le scelte politiche. Il legislatore deve decidere dove mettere i soldi, ma deve anche ricordarsi che i diritti costituzionali vengono sempre prima, che ci sono spese obbligatorie e spese facoltative”. Un tema affrontato anche da Enrico Sbriglia, provveditore del Triveneto. “Ci confrontiamo con una carenza di risorse ha spiegato Sbriglia Il problema più rilevante nel sistema carcerario padovano è la mancanza di educatori, psicologi e criminologi. Non esiste uno standard normativo che indichi la proporzione tra il numero di operatori e il numero di detenuti. L’amministrazione sta cercando di reperire le risorse per compensare il vuoto”. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la cittadinanza costituzionale non conosce muri perché la Costituzione appartiene a tutti. Il progetto prevede un ciclo di incontri tra i giudici e i detenuti in diverse carceri. Il giudice della Consulta ha anche espresso dubbi sull’ergastolo ostativo. “La Corte costituzionale finora ha difeso in modo forse troppo sbrigativo l’ergastolo ostativo ha detto Antonini. Nella sentenza 149/2018 della Consulta, però, l’ergastolo ostativo è stato investito per la prima volta da una dichiarazione di illegittimità costituzionale. La sentenza ha colpito l’appiattimento in una indifferenziata soglia di 26 anni per chiedere l’accesso ai benefici. Questa preclusione infatti non è compatibile con le finalità rieducative della pena”. Per Antonini si tratta di “un aspetto molto importante”. Un’altra riflessione di Antonini è partita da una domanda sul rapporto tra i detenuti e i loro famigliari. “Gli automatismi legislativi sono pericolosi, perché non tengono conto della complessità della vita ha sottolineato - Ingessare il ruolo del giudice è la negazione del diritto. Rivedere moglie e figli dopo tanti anni di rapporti minimi crea un solco profondo. I rapporti famigliari sono tutelati dalla Costituzione sia come diritto che come dovere, però bisogna fare i conti con i problemi della sicurezza”. Padova: incontro delle realtà del Progetto Carcere con l’Amministrazione comunale padovaoggi.it, 16 marzo 2019 Gli operatori delle cooperative e associazioni che lavorano all’interno della Casa di Reclusione di Padova e i rappresentanti degli istituti scolastici interni al carcere hanno incontrato l’Amministrazione comunale. All’incontro erano presenti l’assessora al Sociale, Marta Nalin, quella al volontariato, Cristina Piva, Francesca Benciolini, assessora con delega ai Diritti Umani, e Diego Bonavina, assessore allo Sport. Le realtà presenti appartengono infatti a diversi mondi: associazione Incontrarci, Ristretti Orizzonti, Granello di Senape, Work Crossing cooperativa sociale, cooperativa sociale Altracittà, Giotto cooperativa sociale, Teatrocarcere Due Palazzi, Coristi per Caso, Coro Due Palazzi, Polisportiva Pallalpiede, associazione Amici della Giotto, Gruppo Operatori Carcerari Volontari, Casa di accoglienza Piccoli Passi, associazione Antigone, Consorzio Giotto, docenti della sezione carcere della scuola Gramsci-Einaudi, il polo universitario carcerario, gli insegnanti del primo periodo di primo livello (scuola media) e del Cpia. “L’incontro è servito a condividere i diversi percorsi di integrazione già attivi - spiega l’assessora Cristina Piva - per pensare allo sviluppo di altre forme di collaborazione con le istituzioni per tenere aperta la porta della condivisione”. Presente anche l’assessora alle politiche sociali, Marta Nalin: “Il Comune di Padova da anni ha un Progetto Carcere animato da diverse realtà per aiutare la garanzia dei diritti dei detenuti. Quella del carcere è per sua natura una realtà racchiusa dentro mura e cancelli, ma è capace anche di esprimersi al di fuori di questi. Esistono già tante esperienze positive in questo senso ed è importante valorizzarle. Anche il carcere è infatti un elemento del nostro territorio e dobbiamo considerarlo come tale, in un’ottica inclusiva, trovando spazi di comunicazione fondamentali anche per la prevenzione”. “Le persone che vivono una parte della loro vita all’interno del carcere sono a tutti gli effetti cittadini di Padova - ribadisce Francesca Benciolini. Avere una città che se ne fa carico attraverso le molte attività che le associazioni, le cooperative, le scuole svolgono all’interno degli istituti cittadini è un modo per creare un legame sociale importante tra chi sta scontando una pena e chi vive nella città. La nomina da parte dell’Amministrazione del Garante dei Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale sarà uno dei prossimi passi che vogliamo rinforzi questo legame e dia valore ai percorsi di chi vive in stato di detenzione”. Anche l’assessore allo sport era presente. Queste le parole di Diego Bonavina: “Siamo vicini a chi porta avanti all’interno del carcere progetti di integrazione e reinserimento attraverso anche un veicolo come lo sport”. Tolmezzo (Ud): la protesta dei familiari degli internati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2019 Hanno manifestato davanti al carcere contro la chiusura della serra. Non si ferma lo sciopero della fame intrapreso dai sette internati al 41bis del carcere di Tolmezzo che teoricamente dovrebbe essere una “Casa lavoro”. Come già denunciato ieri su Il Dubbio tramite le parole dell’avvocato e militante dei radicali italiani Michele Capano, la serra che dovrebbe tenere occupati gli internati, in realtà non è in funzione da moltissimi mesi e quindi accade che la misura di sicurezza si svolge quasi interamente al 41 bis come gli altri detenuti. In mancanza di ciò, il magistrato di sorveglianza non ha gli strumenti per valutare la mancata cessazione della pericolosità sociale e quindi la proroga diventa pressoché automatica. L’avvocato Vincenzo De Rosa, che assiste uno dei sette internati, ha fatto sapere che i familiari degli internati hanno manifestato pacificamente davanti al carcere. “I famigliari del mio assistito - spiega De Rosa a Il Dubbio - mi hanno raccontato che grazie alla protesta davanti al carcere, sono riusciti ad ottenere l’intervento dei Carabinieri che avrebbero effettivamente constatato il disuso della “famosa serra”. La segnalazione è giunta anche a Rita Bernardini del Partito Radicale che della questione se ne occupò da quando nel 2016 andò a visitare il carcere de L’Aquila dove prima erano ospitati gli internati al 41 bis. Ed era lì che c’era il problema della mancanza di lavoro. Grazie a quella segnalazione, l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo li aveva trasferiti a Tolmezzo per farli lavorare nella serra. Ora, il problema si ripropone ugualmente. Ma si aggiunge anche un altro particolare. “In realtà - spiega sempre l’avvocato De Rosa - quando il mio assistito si trasferì a Tolmezzo, si rese conto che la serra era certamente aperta, ma venivano portati lì senza far nulla, senza che ci fosse qualcuno che li istruiva”. L’avvocato racconta che il suo assistito a un certo punto si era ribellato perché, di fatto, sembrava una presa in giro. “È quindi accaduto - denuncia De Rosa - che il magistrato di sorveglianza aveva rinnovato la misura di sicurezza usando come motivazione il fatto che l’internato si era rifiutato di lavorare”. Ora però, i rinnovi avvengono perché il lavoro non c’è e quindi non c’è possibilità di dimostrare la cessazione della propria pericolosità sociale. Un’altra stortura di questi provvedimenti consiste nel fatto che questa misura di sicurezza, sulla carta, non è considerata una pena. Quindi cosa può accadere? L’avvocato Vincenzo De Rosa fa l’esempio del suo assistito. “Formalmente - spiega l’avvocato è in casa lavoro, ma nello steso tempo è stato raggiunto da una misura cautelare agli arresti domiciliari e visto che teoricamente l’internato non sconta una pena, qualora dovrà essere condannato, questi anni da internato non verranno sottratti all’eventuale pena da scontare”. Il dramma degli internati, in realtà, era stato originariamente preso in considerazione dalle scorse commissioni parlamentari per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. C’era stato un decreto apposito, ma poi accantonato dallo scorso governo. Tale decreto si prefiggeva di modificare le misure di sicurezza e portare a un ridimensionamento del sistema del famigerato “doppio binario”. Si tratta di misure che interessano l’autore di reato socialmente pericoloso e che, secondo un assetto che risale al codice Rocco, si aggiungono alla pena (per gli imputabili e i semi- imputabili), ovvero rappresentano l’unica misura applicabile (per i non imputabili): la casa di lavoro, la colonia agricola, le comunità per i minori (già riformatorio giudiziario) e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia (tra quelle detentive); le ultime due già oggetto di un ampio intervento di riforma, negli anni scorsi, ha portato alla chiusura degli Opg e all’introduzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Il decreto in questione non avrebbe eliminato le misure di sicurezza (anche se veniva auspicato da più parti), ma ridimensionato considerevolmente il sistema del doppio binario a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale, fatto salvo il contemperamento con le esigenze di prevenzione e tutela della collettività. Ma il decreto, come detto, è stato accantonato per sempre e così gli internati rimangono senza diritti e vittime di un retaggio del ventennio che li porta ad essere gli “ultimi degli ultimi” all’interno della patrie galere. Napoli: emergenza carceri, finanziata costruzione di un nuovo penitenziario a Nola internapoli.it, 16 marzo 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli: approvato Piano di edilizia penitenziaria 2019. Il provvedimento dà il via dunque alla realizzazione del programma dei lavori, nel rispetto delle priorità attribuite loro, come proposto dal Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sentito anche il Comitato paritetico sulla materia costituito presso il Ministero della Giustizia. Due anni di tempo, dal 1 gennaio 2019 al 31 dicembre 2020 per elaborare “progetti e perizie per la ristrutturazione e la manutenzione, anche straordinaria, degli immobili in uso governativo all’Amministrazione penitenziaria”, per la realizzazione di nuove carceri e alloggi di servizio per gli agenti. È quanto prevede l’articolo 7 del Decreto-legge n. 135 del 14 dicembre 2018, convertito in Legge n. 12 dell’11 febbraio 2019. Al Dipartimento la legge assegna, inoltre, anche la possibilità di individuare immobili “nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali” per la realizzazione di strutture carcerarie. Allo scopo sarà possibile avvalersi anche di personale del Genio militare del Ministero della Difesa. Molti sono gli interventi di ristrutturazione già in corso. Alcuni padiglioni dell’Ucciardone di Palermo e del carcere di Poggioreale a Napoli sono oggetto di recupero conservativo e ammodernamento mentre sono in progettazione nuove sezioni negli istituti di Bari, sezione femminile, Potenza, Brindisi e Lecce. La riconversione in carceri di caserme dismesse individuate grazie anche alla collaborazione con l’Agenzia del demanio e con il Ministero della Difesa, consentirà - oltre a un sensibile risparmio rispetto alla costruzione ex novo di strutture penitenziarie - anche il raggiungimento dell’obiettivo di realizzare 5.000 ulteriori posti detentivi. Infine, a cura del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, è prevista la realizzazione di due nuovi istituti, quello di Forlì e quello di Nola per una capacità complessiva di 1.450 posti. Verona: “muffa nel cibo”, i detenuti chiedono i danni Corriere di Verona, 16 marzo 2019 “A Montorio alimenti marci e avariati”. Ma i fornitori si difendono: nessun inadempimento. “Preferiamo restare a stomaco vuoto che ingerire quello schifo”. Lamentele risuonate più volte in carcere negli ultimi anni, tanto da sfociare in scioperi della fame e lettere di protesta ai mass media. Alla fine, il caso della presunta somministrazione ai detenuti a Montorio di “cibo avariato e ammuffito” arrivò in procura e a fine 2016 il gup Luciano Gorra firmò tre rinvii a giudizio per frode. Ma ieri, al banco degli imputati davanti al giudice Camilla Cognetti, a raccontare tutt’altra verità rispetto a quella accusatoria sono stati due imputati, ovvero i responsabili di una delle ditte subappaltanti, Michela e Savino Tiraboschi, rispettivamente legale rappresentante e gestore di fatto della Ortobergamo srl. Stando a ciò che imputa loro la procura alla luce delle segnalazioni dalla direzione del penitenziario e del blitz condotto dai carabinieri del Nas, avrebbero “fornito beni in cattivo stato di conservazione e alterati, con muffa, marci, spesso inadatti al consumo, da qualificare in più occasione come materiali di scarto e difformi per qualità dal contratto di fornitura”. Contestazioni riferite all’arco di tempo racchiuso tra l’ottobre del 2012 e quello del 2013, ma a detta dei detenuti la “malagestione” si sarebbe protratta oltre: 8 di loro, costituiti parte civile, chiedono ora i danni e vogliono essere risarciti. Ieri, tra i vari testimoni, spiccavano appunto i Tiraboschi, padre e figlia, secondo cui “nessuno ha mai agito per lamentare l’inadempimento nelle forniture svolte a Montorio né chiesto la risoluzione del contratto e le occasionali contestazioni sulla qualità della merce giungevano solo da questa casa circondariale, e non da altre strutture, come quella di Vicenza”. A luglio, quando si tornerà in aula, è attesa anche la sentenza. Messina: “Detenuti e genitorialità”, il progetto del Rotary Club di Francesca Cali tempostretto.it, 16 marzo 2019 L’iniziativa ha come obiettivo quello di favorire il rapporto tra i genitori in carcere e i figli. Organizzata per lunedì 25 al “Circolo” anche una serata benefica per raccogliere fondi per finanziare il progetto. Nasce dalla collaborazione tra il Rotary Club Stretto di Messina e il Centro Prima Accoglienza Savio il progetto “Detenuti e genitorialità”. Un impegno comune con l’intento di migliorare il rapporto fra genitori in carcere e figli. Entusiasmo e soddisfazione per il progetto sono stati espressi dal presidente del Rotary Club, Giuseppe Termini che ha presentato l’iniziativa che vedrà impegnati i soci del club-service insieme ai volontari del Cepas. Aprire il carcere alla città e la città al carcere è da sempre stato l’intento del Cepas che da trent’anni opera all’interno del carcere di Gazzi per rendere la detenzione più umana. Un impegno descritto nel video “Il tempo fermato”, che racconta l’atmosfera, le condizioni e le attività svolte all’interno della Casa circondariale. “Il carcere è molto migliorato grazie all’impegno di tutti, ma il motore- ha sottolineato il presidente del centro, don Umberto Romeo- è stato il direttore Tessitore che, per sedici anni, ha operato con passione e dedizione. Il carcere è luogo di restrizioni, nel quale scontare il proprio debito ma anche un luogo di recupero. Da volontari ci impegniamo affinché dal carcere possano uscire uomini e donne nuove e capaci di non delinquere più”. Oltre che all’attività organizzate dai volontari, il centro si è impegnato negli anni anche nella realizzazione di opere di carattere strutturale come la ristrutturazione di due piani con l’ausilio degli stessi detenuti e anche una sala operatoria. Un percorso, definito dall’ex direttore Calogero Tessitore, intenso che ha contribuito a cambiare il volto della casa circondariale. Il progetto “Detenuti e genitorialità”, invece, è rivolto ai detenuti della media sicurezza e prevede la realizzazione di un cd di fiabe che i padri leggeranno ai loro figli. Come spiegato dal vicepresidente del Cepas, Lalla Lombardi, l’iniziativa ha come obiettivo rendere i genitori consapevoli della loro genitorialità e mantenere il legame affettivo con i loro figli vivo nonostante la lontananza forzata. Oltre alla realizzazione del cd, il Rotary finanzierà il rifacimento del manto di erba artificiale della zona giochi all’aperto dedicata ai bambini. Per finanziare il progetto giorno 25,presso il “Circolo”, il club ha organizzato una serata danzante. Alla presentazione dell’iniziativa sono intervenuti il comandante della polizia penitenziaria, Antonella Machì, che ha illustrato il loro ruolo all’interno del carcere, e l’assistente del Governatore, Salvatore Alleruzzo, che ha esaltato il valore di un progetto che coinvolge attivamente il club-service. Consegnata, inoltre, una targa al dottor Tessitore per il suo costante impegno, la sensibilità e per aver saputo aprire il carcere alla città. Torino: “Abbona un detenuto”, la proposta del settimanale diocesano di Marina Lomunno Avvenire, 16 marzo 2019 Attivati dai lettori di “La Voce e il Tempo” per il penitenziario del capoluogo piemontese. “Abbona un detenuto” è la proposta che ha lanciato “La Voce e il Tempo’, il settimanale dell’arcidiocesi di Torino, dopo che un lettore, rinnovando il suo abbonamento lo scorso gennaio, ne aveva regalato uno annuale da spedire ad un recluso nel penitenziario cittadino. In poco più di un mese di un mese sono arrivati in redazione altri 20 abbonamenti da donare ai detenuti: tra i sottoscrittori ci sono volontari carcerari, un abbonato anziano che fatica a leggere e ha “girato” il suo abbonamento ai detenuti, tre famiglie che si trovano periodicamente a riflettere sulla Parola di Dio e si tassano per una necessità particolare, altri lettori e lettrici che, grazie all’attenzione che “La Voce e il Tempo” dedica ai temi del carcere, hanno deciso di far sentire ai detenuti e a quanti operano in carcere la vicinanza della comunità diocesana. “Ogni 15 giorni, a partire dallo scorso 26 giugno, festa liturgica di san Giuseppe Cafasso, il santo torinese patrono dei carcerati, il settimanale della nostra arcidiocesi pubblica la rubrica “La Voce dentro” sui temi legati alla detenzione, ospitando interventi dei detenuti e di quanti operano a vario titolo all’interno del carcere” spiega un lettore, volontario nel penitenziario torinese che desidera rimanere anonimo e che ha regalato due abbonamenti. “In carcere è molto apprezzato “Avvenire”, l’unico quotidiano che viene distribuito ogni mattina gratuitamente in varie copie ma la voce della nostra arcidiocesi mancava: per questo ho aderito all’appello de “La Voce e il Tempo”. Così, d’accordo con il direttore del carcere torinese Domenico Minevitti, la responsabile dell’area educativa Arianna Balma e la garante dei detenuti comunale Monica Gallo che da subito hanno sostenuto l’iniziativa della redazione, sono stati attivati 20 abbonamenti annuali ad altrettante sezioni del penitenziario tra cui le biblioteche, il polo universitario per i detenuti, la sezione collaboratori di giustizia, quella dei detenuti i sieropositivi e la comunità di mamme con bimbi minori di sei anni in modo che più reclusi, ma anche quanti lavorano dietro le sbarre, possano leggere il settimanale. Obiettivo del settimanale è di abbonare tutte le sezioni del carcere. “La sensibilità dei nostri lettori è un segnale incoraggiante, vicino alla lezione di papa Francesco, in un momento dove i toni nei confronti della realtà carceraria si stanno inasprendo mettendo l’accento solo sul giustizialismo e sulla necessità di sicurezza dimenticando che, come recita l’articolo 27 della Costituzione, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” commenta il direttore de “La Voce e il Tempo”, Alberto Riccadonna. “Grazie ai lettori che ogni giorno ci incoraggiano a dare voce a chi è più fragile”. Napoli: Michele, l’ex detenuto “apre” le porte del manicomio di Maria Pirro Il Mattino, 16 marzo 2019 “È sempre bello tornare qui. Da uomo libero”, sorride Michele Fragna, 54 anni, dal 1989 fino al 1994 rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario in via Imbriani, e la sua storia di libertà s’intreccia con la rinascita di questo luogo occupato dopo la dismissione e riqualificato da ragazzi come Matteo Giardiello che a mezzogiorno, puntuale, apre il portone perché l’ex internato possa mostrare l’orrore e la speranza. “Forza Michele, ce la puoi fare, resisti, resisti, resisto anche io... Non devo scoppiare...”: è una pagina del diario che il 54enne ha compilato allora, e oggi si trova di fronte alla sua cella, blindata e vuota. “Mi ha aiutato scrivere, declamare Amleto e, soprattutto, avere una famiglia: se non ne hai una è praticamente impossibile uscire”, dice Fragna, mescolando passato e presente. Michele lavora part-time per il fratello medico, ha due sorelle, fuma le Rothmans bianche, studia Lingue e letterature straniere all’Orientale. Ed è un po’ famoso perché già protagonista del documentario Je so’ pazzo di Andrea Canova: scoperto grazie alla memoria e all’ostinazione di Franco Maranta che, negli anni Duemila, in qualità di consigliere regionale sottrasse all’oblio anche Vito, recluso per oltre 50 anni, simbolo di una ferita mai sanata e di un “popolo” che Michele definisce di dimenticati. “Siamo invisibili/ siamo i vostri cattivi pensieri/ siamo i vostri brutti sogni/ siamo, malgrado la vostra indifferenza”, recita i suoi versi davanti alla telecamera. E, alla fine del filmato, una voce fuoricampo chiarisce qual è la malattia, esplosa a 22 anni, che ha portato Fragna a uccidere un caro amico. “Ma se ci vediamo fuori vuol dire che sto bene”, aggiunge lui al microfono, rileggendo una lettera a una donna. “In cella m’innamorai di una psicologa” racconta ora. “Fuori, ne ho amata una conosciuta all’igiene mentale di San Giorgio a Cremano che mi ha dato tanto, fino alla morte, avvenuta da poco”. Perché “è la vita che chiama”, avvisa il cinquantenne in un’altra sua lirica, e “la mia mano destra è buona/ elabora sempre buoni propositi / si occupa di spagnolo e d’inglese/ è una mano socievole con cui è facile andare d’accordo...”. Esempio di come si può essere felici dopo tutto, e restituire al mondo una Luce, che è poi il titolo di una sua raccolta di componimenti. Sotto un albero di mimose piantato nel giardino, Fragna consegna questa pagina del voler dire e del voler fare: “Sono anch’io la storia. Anche io...”. Reggio Calabria: FilmFest, c’è anche la sezione “Cinema dentro le mura” citynow.it, 16 marzo 2019 La sezione prevede la proiezione in carcere del lungometraggio “Michelangelo, Infinito”. Film Fest, è iniziato il conto alla rovescia. E in questa XIII° Edizione del Reggio Calabria FilmFest ritroviamo anche la sezione il “Cinema dentro le mura” presso il “G.Panzera” di Reggio Calabria. Si tratta di una sezione molto cara alla Organizzazione del Festival che quest’anno ha finalmente ricevuto, nuovamente, l’autorizzazione da parte del Provveditore Parisi. La sezione prevede la proiezione in carcere del lungometraggio “Michelangelo, Infinito”. La sezione fortemente voluta dal Direttore Michele Geria vede il coinvolgimento organizzativo, come già avvenuto in alcune precedenti edizioni, dell’Avv. Agostino Siviglia del foro di Reggio Calabria, criminologo ed attuale Garante Comunale dei diritti per i detenuti, da sempre impegnato sul delicato fronte del recupero e del reinserimento sociale di chi sta scontando una pena detentiva. La sezione in questione rappresenta certamente uno straordinario strumento per favorire la fruizione della cultura nella sede carceraria. Il convincimento è che la bellezza dell’arte possa rappresentare per questi uomini un messaggio di speranza con lo scopo di favorire il reinserimento e l’integrazione sociale dei detenuti. Di qui la scelta concordata e condivisa dagli addetti ai lavori di proporre la proiezione del docu-film “Michelangelo, Infinito” che vedrà la presenza, in riva allo stretto, di Ivano Marescotti che nel film interpreta Vasari. Dopo la proiezione del film, prevista per giovedì 28 marzo p.v., seguirà un momento di riflessione e confronto tra i detenuti, il regista e gli attori. L’iniziativa ha trovato pieno riscontro da parte del Garante Agostino Siviglia che l’ha considerata davvero fondamentale nel percorso risocializzante dei detenuti, tanto da proporne l’avvio a livello nazionale ed internazionale a seguito di un’udienza privata in cui Papa Francesco ha invitato a portare i film d’arte nelle carceri di tutto il mondo per trasmettere un messaggio di bellezza e di speranza ai detenuti. Insomma, possiamo concludere che anche questa XIII° Edizione 2019 del RCFF si qualifica specificamente di un significativo dall’elevato valore sociale, includendo in un’iniziativa di intrattenimento anche chi in questo momento sta vivendo un drammatico momento di esclusione dalla società e privazione della libertà personale, restituendo al cinema il suo senso proprio di “settima arte”. Vi auguriamo un Buon festival. Napoli: canzoni classiche napoletane per i detenuti di Poggioreale di Nello Fontanella Il Mattino, 16 marzo 2019 “La pena non sia solo dolore”. Il repertorio classico napoletano dal 600 e fino alla fine del 900: da Michellemmà a o’ Sarracino passando per O’ Sole mio. Un’ora di canzone napoletane per i detenuti dei padiglioni Genova (definitivi) e Firenze (nuovi arrivi) del carcere di Poggioreale, a cura del coro di Massabielle (dalla grotta di Lourdes) organizzato dall’associazione “Carcere Vi.Vo” volontari Vincenziani del presidente Carmine Uccello. Oltre cento detenuti, giovani e meno giovani e con reati vari, che per un’ora hanno cantato insieme alle coriste dirette da Ninì Spinelli e accompagnate al piano dalla maestra Lucia Piatto. Detenuti con pena definitivi e nuovi arrivati che hanno socializzato con i volontari dell’associazione contando e accompagnando con le mani i brani. Prima del coro si sono esibiti alcuni detenuti, uno in particolare che ha cantato l’Ave Maria nella versione di Mario Merola. Nella chiesa dell’istituto penitenziario, dove si è tenuto lo spettacolo, con il presidente Carmine uccello, c’erano anche l’avvocato Patrizia Sannino e il responsabile dell’area pedagogica del carcere Ercole Formisano, oltre alla direttrice Maria Luisa Palma. “È stata un’ora di totale generosità - ha detto la direttrice di Poggioreale Maria Luisa Palma - generosi voi dell’associazione e generosi noi con questa voglia di accoglienza che abbiamo. Apriamo volentieri le porte a quanti vogliono aiutarci”. Nella chiesa anche un particolare gruppo di agenti specializzati in questi tipi di sorveglianza. “A noi spiace quando si parla di inferno Poggioreale - ha detto ancora la direttrice Palma - qui invece si lavora, si fa attività. Facciamo in modo che la pena non sia solo dolore, tante attività che coinvolgono anche gli agenti che servono anche a stemperare le tensioni”. L’organico in servizio a Poggioreale conta oggi 730 agenti a fronte di un organico che ne prevede 911 per 2400 detenuti. “Spesso - ha detto infine il comandante della Penitenziaria - questi agenti si trattengono anche al di fuori dell’orario di servizio senza percepire straordinario. E anche questa è solidarietà e generosità”. L’associazione Carcere Vi.Vo si occupa del sostegno ai detenuti, e alle famiglie, degli istituti di Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli, con colloqui, incontri e progetti anche al di fuori delle mura del carcere. Quelle “vite sospese e spezzate” oltre le sbarre di Giuseppe Maurizio Piscopo malgradotuttoweb.it, 16 marzo 2019 Incontriamo la giornalista siciliana Katya Maugeri. A fine mese uscirà il suo libro “Liberaci dai nostri mali”. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento” (Villaggio Maori Edizioni), con la prefazione di Claudio Fava. Il testo, arricchito dal progetto fotografico di Alessandro Gruttadauria, è un viaggio inchiesta nelle carceri. Sette detenuti raccontano le loro storie. Come è nato questo libro? Liberaci dai nostri mali, nasce dall’esigenza di voler raccontare una realtà spesso lasciata in ombra: quella carceraria. Fatta di errori - spesso atroci - ma anche di uomini che cercano di raggiungere un cambiamento. Tutto è cominciato alla Casa di reclusione di Augusta, seguendo il laboratorio teatrale diretto dal magistrato e scrittrice Simona Lo Iacono, da quel momento, come spesso ha definito il direttore Antonio Gelardi, la “carcerite” non mi ha più abbandonato. Il desiderio di raccontare i pensieri dei detenuti mi ha portato a voler realizzare, un anno dopo, insieme ad Alessandro Gruttadauria e Salvo Gravina, il reportage, Oltre le sbarre. Un video reportage nel quale abbiamo raccontato sfaccettature legate al loro stato d’animo, alle loro speranze e al desiderio di riscattare i loro errori. Molti di loro hanno espresso la voglia di costruire sul fango un nuovo progetto di vita, altri - invece - riconoscono di averlo distrutto per sempre. Che cosa c’è dietro il cancello di un carcere. Il cancello è il confine fra due realtà? Ci sono uomini che hanno sbagliato e che pagano per le azioni commesse, il confine è delineato dall’indifferenza e dai pregiudizi. E la libertà è vissuta come un’utopia. In che modo il percorso del carcere può portare ad una nuova strada? Attraverso le attività artistiche, ricreative, i laboratori, il teatro, la scrittura, le attività con i volontari: con il contatto umano capace di allontanare da loro l’idea che fuori non ci sia alcuna alternativa. L’alternativa c’è sempre. Dario Fo un giorno ebbe a dire “Le carceri non servono agli uomini ma al potere”. Che ne pensi? Chi sbaglia chiaramente deve pagare gli errori commessi. La giusta pena va garantita. Cosa ti ha insegnato l’esperienza del carcere durante la scrittura di questo libro? È stata una esperienza forte, intensa. Ricca di parole e riflessioni che sentivano l’esigenza di manifestarsi attraverso la scrittura: le loro storie sono colme di sofferenza, di rimpianti, di sensi di colpa e scelte sbagliate. Scelte consapevoli che hanno pagato con la libertà. Loro mi hanno insegnato che non dovremmo mai limitarci alle etichette, che i pregiudizi esistono e ne siamo fortemente condizionati. Mi hanno insegnato che le persone andrebbero ascoltate, nonostante gli errori e gli orrori commessi. Ascoltati, non giustificati. Cosa hai letto negli occhi dei detenuti: disagio, paura, squilibrio, terrore o altro ancora? Nei più giovani sicuramente rabbia, in alcuni imbarazzo quando raccontavano episodi forti della loro vita. Paura nei confronti della società: la paura di non essere accettati una volta usciti dal carcere, terrore di portare addosso il marchio di “ex detenuto”. Incertezza per il loro futuro. Chi assumerebbe uno di loro? In alcuni ho letto la voglia di cambiare, in altri no. Nel tuo libro c’è molta sofferenza e molta poesia. Hai scritto: “La valigia era piena di errori, di dolori e di solitudine, l’aria era pesante”... Portano un bagaglio di errori che li ha emarginati sicuramente in quella solitudine e in quel dolore che provano adesso. Consapevoli del dolore inflitto fuori da quelle sbarre. C’è gente, oltre quelle mura, che non potrà mai perdonare le loro azioni. Nel tuo libro hai espresso dei concetti molto moderni, soprattutto quando parli di giustizia retribuitiva, riabilitativa, rigenerativa e riparativa, argomento sviluppato e approfondito dall’Università di Trento... La giustizia riparativa o anche definita giustizia rigenerativa, cerca di riparare la vittima e di fare assumere al condannato la totale responsabilità del suo gesto, spostando l’attenzione alla ricostruzione del legame tra vittima e colpevole e non più esclusivamente alla punizione del reato. Ad agire in questo campo specifico sono i mediatori che attraverso degli incontri tentano di riparare il legame tra vittime, familiari, rei e società civile. Partecipare, quindi, a un processo di giustizia riparativa significa assumersi la responsabilità della propria azione, comprendere pienamente il male inflitto e avere la possibilità di rimediare. L’attualità del libro “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria oggi? È un testo prezioso che andrebbe riletto per risvegliare la coscienza collettiva, perché “non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa”, scrisse Beccaria nel 1763. “Chi si suicida in carcere - scrivi nel libro -non fa rumore, se ne va nel silenzio di una cella all’improvviso”. La morte in carcere è l’unica liberazione... All’interno del libro affronto questo terribile argomento insieme al presidente dell’associazione Antigone Sicilia, Pino Apprendi. Togliersi la vita, per molti di loro diventa la soluzione estrema a un dolore intollerabile, a causa delle condizioni di degrado, assenza di speranza, solitudine, segregazione, scarsa autonomia e ambienti fisici angusti. In una intervista un detenuto dice: “Porto addosso l’odore di tutte le fiabe che non ho raccontato a mio figlio”... Le loro vite sono piene di azioni terribili e di gesti mai compiuti. Quest’ultimi, a distanza di anni, pesano moltissimo. I detenuti hanno scelto il lato sbagliato del mondo? Hanno scelto, molto spesso, la strada più semplice: quella del potere, del denaro facile. Le scorciatoie che alla fine non hanno via d’uscita. “Liberaci dai nostri mali” è il racconto delle loro vite, sospese e spezzate per aver intrapreso il lato sbagliato del mondo, ma è anche un percorso di redenzione. Terrorismo. L’odio al posto delle idee di Piero Sansonetti Il Dubbio, 16 marzo 2019 Brenton Tarrant ha sparato, sparato, sparato: guidato da un odio cieco. Come negli anni passati è successo tante volte in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna. Qui in Europa era l’odio antioccidentale dei terroristi islamici. Lì in Nuova Zelanda è successo l’opposto. La strage è in nome di un dio bianco, cristiano, e in nome della nostra razza. E l’odio è contro gli islamici, ammazzati in un’ecatombe, come bestie. Razza, dio, nazione, sovranità: queste parole non sono idee, sono slogan sentiti dire, sono precipitati dell’odio che sostituisce il pensiero, la cultura, il sapere, i sentimenti. Brenton Tarrant ha ucciso travolto dalla propaganda e dall’ideologia. Così come avevano fatto i seguaci di Allah. Brenton ha ucciso nel nome di tanti suoi idoli, politici e religiosi, tra i quali anche due italiani. Un vecchio doge di Venezia, che si chiamava Venier e che guidò mezzo millennio fa la Lega Santa, contro gli Ottomani; e il giovane Luca Traini, il sovranista pentito, ex leghista, che qualche mese fa sparò all’impazzata, a Macerata, contro i “negri”, gli immigrati, anche lui con la mente travolta dalle campagne razziste miserabili, che qui da noi non sono più rarità. È inutile dire che non esistono politiche che possano fermare con certezza il terrorismo, bianco o arabo che sia, cristiano o musulmano. Occorre il lavoro degli 007, della polizia. Qui da noi, finora, si è lavorato bene. La sicurezza però non esiste mai. E certo non la si ottiene con campagne xenofobe, prendendosela con gli stranieri, solo perché i terroristi spesso sono stranieri. Esistono invece politiche che possono fermare la propaganda razzista dissennata. Dipende solo dalla volontà: dei giornalisti, dei politici soprattutto. Sono disposti a rinunciare a qualche voto e qualche copia di giornale venduta, in cambio di un po’ di civiltà? O pensano che il prezzo sia troppo alto, che conviene continuare a dire e scrivere sciocchezze? Sul numero di oggi del Dubbio Valter Vecellio racconta di Leonardo Sciascia, e di come proprio lui - uno dei maggiori scrittori europei del secondo novecento - spiegasse che l’impegno intellettuale costa, costa caro. Qualcuno è disposto a spendere due spiccioli? Mi tornano in mente alcuni titoli di giornale, qualche tempo fa, in occasione di alcune stragi compiute dai terroristi arabi. Dicevano più o meno così: “bastardi islamici”. Pensate se qualche giornale, restando in quell’ordine di idee, titolasse a tutta pagina, oggi: “bastardi cristiani”. Speculando sulle idee folli di Brenton Tarrant, sui suoi idoli, sui suoi miti. Il problema è che spulciando tra le righe dei manifesti ideologici di questo folle ragazzo australiano, si scopre che era finito vittima di quelle teorie del complotto giudaico-islamico-massonico che tende a sostituire la popolazione bianca e cristiana, in tutto il mondo, con una maggioranza araba e musulmana. Le avete mai sentite queste teorie bislacche? Penso di sì. Le avete sentite anche qui da noi, le avete lette sui giornali, scritte da editorialisti, e le avete ascoltate in Tv, spiegate da leader politici. Da noi sono solo teorie buffe, fragiline, che per fortuna non provocano eccessi di violenza. Tanto che lo stesso Luca Traini, che pure ne era rimasto vittima ed era stato spinto ad armarsi e a sparare, poi si è pentito molto profondamente e oggi maledice la sua idiozia. Ma questo non vuol dire che siano teorie innocue. Sono teorie sciaguratissime, perché mescolano fake news e ideologia, perché sostituiscono il pensiero e le idee, generano solo odio, odio, odio e impediscono la politica, il confronto, la lotta e il conflitto veri. Roma è lontanissima, per fortuna da Christchurch, però non bisogna sottovalutare il rischio del fondamentalismo. Il fondamentalismo è morte dell’intelletto e produce anche morte fisica. Disperazione, dolore. Vediamo se l’intellettualità italiana ha la forza per mettere da parte calcoli e narcisismo, e per schierarsi contro. Anche al costo di tirarsi addosso la rabbia di qualche politico. Se ha il coraggio di farlo, anche i politici dovranno seguire la strada della ragionevolezza e della civiltà. Cambieranno molte cose. Terrorismo. Quei limiti invalicabili di Antonio Polito Corriere della Sera, 16 marzo 2019 È bene sapere che Tarrant, come Traini, è in mezzo a noi. E che ogni volta che dibattiamo i problemi delle nostre società, nella politica o sui media, non dobbiamo mai andare oltre i confini della ragione e della tolleranza. Quando Bin Laden rase al suolo le Twin Towers di New York, Ferruccio de Bortoli, allora direttore del Corriere, scrisse un fondo intitolato “Siamo tutti americani”, che rappresentò alla perfezione il sentimento della grande maggioranza degli italiani. Mi sono chiesto se avrei potuto cominciare questo pezzo con la frase “siamo tutti musulmani”. Se cioè schierarsi, oggi come allora, dalla parte delle vittime, avrebbe ugualmente interpretato un sentire unanime. Temo di no. Da quel terribile settembre di 18 anni fa infatti, lo scontro di civiltà, per quanto esorcizzato da intellettuali illuminati e autorità religiose, ci è purtroppo entrato nella testa. Una coppia concettuale si è radicata nei nostri cervelli: noi e loro. Noi europei e loro migranti. Noi americani bianchi e loro americani neri. Noi cristiani e loro musulmani. È in questa rappresentazione collettiva, che si è fatta spazio anche nell’intelletto dei migliori di noi, di persone peraltro gentili, razionali, moderate, che si deve cercare l’uovo del serpente. Ogni tanto quell’uovo si schiude, e il serpente uccide. Come è successo ieri a Christchurch (che nome per una strage anti-islamica). O come era successo il 22 luglio del 2011, su una piccola isola norvegese, con la ferocia di Anders Behring Breivik, cui si è esplicitamente ispirato l’assassino di ieri. O come sarebbe potuto succedere nel febbraio di un anno fa a Macerata, se solo fosse stata migliore la mira di Luca Traini, onorato anche lui di una citazione dal killer che ha falciato 49 fedeli musulmani in preghiera. Quella di Brenton Tarrant non è dunque la strage di un folle. Infatti è già successo, e può succedere ancora. È una folle strage, certamente, perché è folle fare scempio della vita umana. Ma l’assassino aveva un programma politico, mentre uccideva. E ce ne ha lasciato una copiosa e dettagliata documentazione. Alcune delle idee di quest’uomo, che si definisce un “eco-fascista”, sembrano anzi appena uscite dal telegiornale della sera, sono cioè parte quotidiana del dibattito pubblico che si svolge da anni nei Paesi europei e negli Stati Uniti: la crisi di fertilità nelle nazioni occidentali, con un numero di nascite inferiore al tasso di rimpiazzo della popolazione (l’intero documento è titolato “Il Grande rimpiazzo”). La paura che il vuoto demografico sia riempito da “un’invasione mai vista prima nella storia”. Dunque la necessità di mettere fine all’immigrazione e di “deportare gli invasori che già vivono sul suolo europeo”. L’espulsione della Turchia dalla Nato. L’odio per Merkel e per Macron, “globalista, capitalista, ex banchiere”. I musulmani che dovrebbero restare a casa loro. Le Ong che trasportano gli invasori sulle coste dell’Europa, contribuendo così al “genocidio bianco”. L’Europa agli europei. Perfino un omaggio al “populismo”: “Tutti i veri movimenti sono movimenti populisti”. Per quanto sia australiano di nascita e per quanto abbia agito in Nuova Zelanda, Tarrant è un europeo, di origini scozzesi, irlandesi, inglesi. Sostiene anche la Brexit nel suo testo. È uno di noi. Si descrive come un “angry white man”, quel gruppo di giovani maschi arrabbiati, il “forgotten people” che è stato identificato come il motore del successo elettorale di Trump, lodato peraltro nel testo: “Sono un uomo bianco, di 28 anni, nato in una famiglia a basso reddito della working class”, scrive di sé. Anche il pantheon di eroi che ha inciso sulle impugnature delle sue armi lo conosciamo bene. Di Traini abbiamo detto. Ma ci sono pure i veneziani che nel XVI secolo fermarono l’espansione ottomana nella grande battaglia navale di Lepanto, ancora oggi simbolo dell’islamofobia (in Italia c’è anche una rivista che si chiama Lepanto). E poi Carlo Martello, il condottiero che fermò i musulmani a Poitiers, prima che varcassero i Pirenei e dilagassero in Europa. Forse Tarrant non lo sa, o forse sì: ma fu proprio in una cronaca di quella battaglia del 732 d.C. che comparve per la prima volta il termine “europei” per definire i cavalieri Franchi, progenitori del Sacro Romano Impero. Naturalmente chiunque può usare la storia per perseguire un disegno senza storia. E i fanatici lo sanno fare meglio di chiunque altro. Naturalmente chiunque può nascondere la sua disumana pulsione omicida dietro idee politiche in ogni caso legittime, quando non violente. Ma è bene sapere che Tarrant, come Traini, è in mezzo a noi. Anzi, è dentro di noi. E che ogni volta che dibattiamo i problemi delle nostre società, nella politica o sui media, anche dividendoci, anche litigando, dobbiamo ricordarci di osservare sempre rigidamente il limite invalicabile della ragione e della tolleranza, del rispetto per gli altri e soprattutto della ripugnanza per il razzismo, di pelle, di religione, di etnia. Se vogliamo impedire che, come avvenne poco più di un secolo fa, quelle uova di serpente si schiudano tutte insieme, e distruggano loro sì, e per davvero, l’Europa. Terrorismo. I frutti avvelenati della propaganda sull’invasione di Luigi Manconi Il Manifesto, 16 marzo 2019 La massa d’odio del web. Al momento non c’è prova che già esista o che sia in formazione una Internazionale armata sovranista, ma - allo stesso tempo - molte sono le tracce di contatti, di legami in corso, di incontri fatti e di collegamenti all’interno di un pulviscolo di nuclei e cellule che, in moltissimi paesi, fanno riferimento a un’ideologia suprematista. A poche ore dagli attentati anti-islamici in Nuova Zelanda, emergono due opposte interpretazioni. Una “drammatizzante” che vede il manifestarsi di una vera e propria Internazionale armata sovranista che trova i suoi precedenti nel terrificante attentato del 2011 in Norvegia (77 morti), a opera di Anders Breivik e in quello, di più modeste proporzioni, di Luca Traini nel 2018 a Macerata (6 feriti). Il che farebbe prevedere il prossimo intensificarsi di atti di altrettanta efferatezza. Un’altra interpretazione è quella di tipo “tranquillizzante”: si tratta di fatti l’uno indipendente dall’altro distanti temporalmente e spazialmente, messi in atto da individui psicopatici. Questa tesi non è priva di qualche motivazione: Traini come Breivik come Brenton Tarrant appaiono personalità deliranti, dal quadro psichico alterato, che si esprimono attraverso farneticazioni. Ma giova ricordare che pressoché tutti i terroristi di notevole capacità operativa e di linguaggio privo di coerenza logico-intellettuale sono stati classificati come “casi psichiatrici” e, conseguentemente, sottovalutati. Questo è un motivo per propendere verso la prima interpretazione, possibilmente spogliata da qualsiasi enfasi e da qualsiasi paranoia complottista. Al momento non c’è prova che già esista o che sia in formazione una Internazionale armata sovranista, ma - allo stesso tempo - molte sono le tracce di contatti, di legami in corso, di incontri fatti e di collegamenti all’interno di un pulviscolo di nuclei e cellule che, in moltissimi paesi, fanno riferimento a un’ideologia suprematista. E che - attenzione alle parole - agitano parossisticamente i fantasmi della “invasione” e della “sostituzione”. È ovvio, dunque, che Traini dalla cella in cui si dichiara “pentito” e Breivik dalla prigione rispettosa dei diritti umani di Skien (gran paese la Norvegia) non sono in contatto né epistolare né telematico e nemmeno, penso, telepatico, con i criminali della Nuova Zelanda. Ma so anche che, su questo terreno, lo spirito di emulazione, il fascino dell’orrore e il primato nella crudeltà sono incentivi potenti, assai più di quanto possano esserlo cenacoli clandestini e messaggi online. Non solo. Chiariamolo una volta per tutte: non ritengo in alcun modo che Salvini o Orban o Le Pen siano i mandanti dell’Internazionale armata sovranista. Ma, quando si parla di “clima” e di “incitamento all’odio, non si tratta di temi su cui è consentito scherzare. Clima significa la diffusione massiccia di un discorso pubblico, che si articola in milioni di rivoli domestici, che lavora intorno a rappresentazioni elementari e dà corpo a figure tanto più rozze quanto più efficaci: le maschere del nemico così facilmente riconoscibili nello straniero della porta accanto o, ancor peggio, in chi sbarca sulle nostre coste. Così come lo sprezzo del fedele di un’altra confessione, ridotto a caricatura o a insidia letale per la religione e per la cultura di maggioranza. E anche l’idea di piccole patrie munite come fortezze, al fine di respingere tutti i diversi, qualunque ne sia l’identità. Questo, va da sé, non costituisce un’area di consenso e di proselitismo incondizionato e immediato per il terrorismo, ma è altrettanto certo che non rappresenta alcuna forma di resistenza rispetto al suo operare e al suo possibile diffondersi. Si vedano i commenti sui social di rifiuto della compassione nei confronti delle vittime musulmane di ieri. È indubbio che il web - oltre che un’immensa risorsa - è una sordida latrina e un rifugio per pazienti mentali, ma comunque la quantità di messaggi complici in qualche modo degli attentatori fa impressione. E documenta lo spessore greve della massa d’odio che circola, magari sotterraneamente, nella società. O questa inimicizia assoluta viene disincentivata e questa spirale di disprezzo viene disinnescata oppure si rischia davvero una frantumazione delle ragioni della convivenza e la dissoluzione del legame sociale. Il fatto che Tarrant dichiari di ispirarsi a Traini e Breivik non è certo la prova di un’appartenenza né (ancora) l’annuncio di un esercito clandestino sul punto di aggredirci, ma è in ogni caso il segnale inequivocabile di una crisi drammatica che sarebbe irresponsabile sottovalutare. Ecologia. Un’impensabile speranza di Paolo Giordano Corriere della Sera, 16 marzo 2019 Ieri è stata una giornata buona per il Pianeta. Greta Thunberg sembra il prodotto del nostro inconscio collettivo. In un discorso del 1972, Ray Bradbury disse che l’umanità aveva due lavori “enormi” da portare a termine nei cinquant’anni successivi: fare pace con sé stessa e fare pace con il clima del suo pianeta. Oggi i cinquant’anni sono quasi scaduti, Ray Bradbury non c’è più, ci restano solo le sue strane profezie, e con i compiti siamo parecchio in ritardo. Il nodo del clima, in particolare, è relegato ancora alla fantascienza di cui Bradbury era un maestro, non più negato ma comunque evitato cautamente sul piano della realtà, sebbene sia presente qui e ora. E tuttavia, qualcosa in più l’abbiamo capito nel frattempo: che per affrontare come si deve il cambiamento climatico occorre anzitutto affrontare il problema psicologico gravissimo a cui è connesso - sempre che ce ne resti il tempo, è chiaro. Occorre capire, cioè, da cosa origina la nostra tendenza naturale a evitare di parlarne, di occuparcene e preoccuparcene. Quando aleggiava la grande minaccia del buco dell’ozono, per esempio, siamo stati più bravi. Per quanto astratto, il buco era immaginabile: una voragine lassù, da qualche parte sopra le nostre teste, una specie di strappo nel tessuto del cielo. Ciò che si doveva fare per chiuderlo era altrettanto chiaro: smettere di usare quella lacca profumata che compariva anche sulla mensola del bagno di mia madre. Cambia pettinatura e salverai il mondo: era facile, potevamo farlo e l’abbiamo fatto. Purtroppo, con il cambiamento climatico non funziona. Perché, rispetto al buco dell’ozono, è ordini e ordini di grandezza più elevato in complessità, così tanto da renderne impossibile una visione unitaria. Nel cambiamento climatico c’entrano la nostra abitudine di spegnere le luci e le multinazionali del petrolio, il pesce che compriamo al mercato e gli allevamenti intensivi di vacche in Sud America, i piani per le nostre vacanze estive e la competizione economica fra Stati Uniti e Cina. C’entrano gli smartphone, il frumento, la povertà e il plancton. Personale e globale s’intrecciano in modi così contorti che avere un’idea completa delle cause è pressoché impossibile. Per non parlare poi delle conseguenze: da una parte incendi e siccità dall’altra le piogge torrenziali, le estati più torride di sempre ma anche gli inverni più rigidi. Gli scenari prospettati per le varie aree del pianeta sono così diversi e (apparentemente) contraddittori da farci sorgere più volte il dubbio che, dai, diciamoci la verità, anche gli scienziati stanno un po’ sparando nel mucchio... In tanta confusione, di evidente resta solo questo: che il nostro cervello non è equipaggiato per gestire un simile ingorgo. E sappiamo bene cosa succede a quello che non riusciamo a rappresentare: smettiamo semplicemente di provare a rappresentarlo. Ma la complessità non è il solo ostacolo per la nostra mente, né il più grave. Il vero problema del climate change è che c’impone di “pensare l’impensabile”. La desertificazione di gran parte del pianeta è impensabile. Venezia e Miami ridotte a nuove Atlantidi sono impensabili. La fuga scomposta verso altri pianeti brulli e ancora più roventi del nostro è impensabile. E lo sterminio della specie umana per mano di sé stessa è il pensiero meno pensabile di tutti. A meno che, ovviamente, non ti chiami Ray Bradbury e non ti occupi di fantascienza. Ecco un altro dato affascinante: pare che gli scienziati che si occupano di cambiamento climatico siano tra i più esposti alla depressione. Avere ogni giorno sotto gli occhi scenari apocalittici con le relative probabilità, scontrarsi di continuo con la sordità del mondo, o quanto meno con il suo torpore, li hanno trasformati nelle Cassandre del nostro tempo (e Cassandra era senza dubbio depressa). Nuove definizioni sono state coniate per questi scienziati e per noi altri, angustiati da ogni pomeriggio insolitamente caldo, da ogni centimetro in meno sui ghiacciai e in più sugli oceani. Gli psicologi parlano di “preoccupazione biosferica”, di “sindrome da stress pre-traumatico” e di climate grief, “cordoglio climatico”. Nell’assegnarci i compiti per il secolo a venire, Bradbury non si era reso conto che la pace con noi stessi e la pace con il pianeta potevano essere realizzate solo contemporaneamente. In questa situazione di stallo emotivo, cosa serviva per scuoterci, per toglierci dalla paralisi del pensiero? Ci voleva una ragazzina con le trecce. Un’adolescente svedese, un po’ mistica e un po’ rabbiosa, con il cappuccio dell’impermeabile calcato sulla testa e un velo di occhiaie incongruo per la sua età. Un’eroina da cartone animato. E ci volevano centinaia di migliaia di altri ragazzi e ragazze dietro di lei, ispirati da lei e in marcia, come nei film. Ci voleva, insomma, un simbolo nuovo, più gradevole da guardare di un orso polare emaciato e alla deriva su una zattera di ghiaccio. Mi piace pensare a Greta Thunberg così, non come a una pasionaria animata da un’ossessione individuale, ma come a un prodotto del nostro inconscio collettivo, un razzo luminoso sparato dalla notte della nostra inquietudine. Chiunque abbia passato periodi bui sa come proprio nei momenti di depressione più acuta, proprio nella stasi, segnali del genere, misteriosi, arrivino dalle profondità della nostra psiche. Suppongo, in realtà, che parecchi scienziati si sentano ancora più avviliti dalla piega che hanno preso gli eventi. Ma come, anni e anni di studi minuziosi, di faticosissimi carotaggi nei ghiacci antartici, di ricognizioni satellitari, di risposte pazienti a detrattori furiosi, di tonnellate d’indifferenza, poi arriva una ragazzina con un cartello e il mondo s’infiamma? Alcuni di loro saranno perfino preoccupati: cosa succederà quando il simbolo sarà esausto, quando la copertura mediatica a tappeto e magari un Premio Nobel l’avranno addomesticato del tutto, quando ci saremo annoiati anche di Greta? Eppure, dopo le manifestazioni di ieri, mi sembra che non potesse accadere altrimenti. Perché soltanto la giovinezza è in grado di pensare l’impensabile, per il semplice fatto che è ancora abbastanza incosciente per farlo; che non vede o forse se ne frega della complessità eccessiva, ed è più immune alla depressione vuota che invece gli adulti conoscono. La giovinezza, che trattiene ancora un po’ della forza ostinata del capriccio, punta il dito e grida sveglia! sveglia! sveglia! Nel 2015 ho partecipato alla Cop21 di Parigi. Mi ricordo la fatica dei negoziati e l’atmosfera di cauta esaltazione dopo la firma dell’accordo. In molti, non solo giovani, si erano impegnati o avevano almeno tifato. Lo sforzo diplomatico abnorme aveva sortito un effetto pratico. Poi è arrivato un presidente smargiasso e con un paio di tweet ha vanificato tutto, o almeno è così che molti si sono sentiti. Il contraccolpo è stato forte e ha inaugurato forse il periodo più tetro riguardo al cambiamento climatico. Ma ieri no. Ieri è stata una buona giornata. E, in questa Grande Terapia del Pianeta, è necessario segnarsi anche le giornate buone, fissare nella memoria gli attimi di speranza, come quando sono rimasto bloccato dal flusso di studenti che scendeva nel verso opposto della via, con striscioni e fischietti e tamburi, in una città piccola come Matera. Oh, che felicità! Che bellezza! Avevo le lacrime agli occhi. Ecologia. I ragazzi italiani: “Guariremo questo pianeta sfregiato dai nostri genitori” di Lidia Catalano La Stampa, 16 marzo 2019 Da Torino a Palermo, un milione in piazza contro i cambiamenti climatici “Il futuro è oggi, diamo una sveglia ai politici che parlano e non agiscono”. A corteo appena partito, quando migliaia di mani iniziano a scandire all’unisono “We will rock you”, è come imbarcarsi in un viaggio nello spazio e nel tempo. E atterrare nel cuore del Wembley Stadium di Londra, tra i 70 mila che assistettero all’oceanica esibizione dei Queen per il Live Aid, la mobilitazione dei big della musica contro siccità e carestia in Etiopia. Era il 1985 e basta uno sguardo ai volti dipinti di verde che affollano il centro di Torino per capire che allora la stragrande maggioranza di loro non era neppure nato. I primi a stupirsi alla fine, sono proprio gli organizzatori dello sciopero Friday for Future. “Avevamo avvertito la questura che saremmo stati duemila - dice fuori di sé per la gioia Luca Sardo, 19 anni, portavoce del ramo torinese del movimento -. Siamo stati troppo scaramantici, pare che ci siano oltre 30 mila ragazzi”. Si aspettavano un fiume e in piazza si è riversato il mare. “Greta chiama, Torino risponde” è il messaggio appeso al collo di Alessandro Mirigaldi, 25 anni, iscritto al dottorato al Politecnico. “È la prima volta nella mia vita che partecipo a una manifestazione - racconta. Sono qui per dire basta a un modello economico basato sulla crescita senza controllo. Ho una formazione scientifica e conosco le prove inoppugnabili dei danni che questo sistema sta facendo al Pianeta. Bisogna invertire la marcia prima che il tempo sia scaduto”. Il senso dell’urgenza, della polvere che si assottiglia nella clessidra, si percepisce forte nella piazza torinese. È nelle centinaia di sveglie disegnate sui manifesti e in quelle vere impostate sui cellulari dei manifestanti, che puntuali trillano alle 11, quando il corteo raggiunge la piazza del Municipio “per dare una sveglia alla politica che dovrebbe agire e invece non fa niente, a partire dai mezzi pubblici, che nella città più inquinata d’Europa dovrebbero essere gratuiti per tutti gli studenti”. Il messaggio recapitato al potere non si presta a equivoci: “Ci siamo rotti i polmoni!”. È l’ironia l’arma affilata della protesta, che chiede “Più Cr7 e meno Co2” e mostra sui cartelli un orso polare che implora: “Antò, fa caldo”. Rebecca, 8 anni, è tra le prime a salire sul piccolo palco allestito in piazza Castello. “Greta Thunberg ha detto che non si è mai troppo piccoli per fare la differenza”, dice prima di snocciolare un Bignami di economia a basso impatto ambientale: “Abbassate la temperatura in casa, usate gli autobus e i treni, rinunciate ai cotton fioc, che vi bucano i timpani. Comprate cibo a chilometro zero, non sprecate acqua: una bottiglietta vive 400 anni e noi la beviamo in 20 minuti”. La plastica in piazza è bandita, e dallo zaino di Sara Gasperini, 23 anni, spunta una borraccia riutilizzabile. “Chiedo l’ossigeno di cittadinanza - dice togliendosi la mascherina antismog - perché prima ancora del reddito e del lavoro abbiamo il diritto di respirare aria pulita”. Poi svela orgogliosa la sua vittoria: “Ho convinto i miei genitori a comprare un’auto elettrica. L’hanno fatto perché si sentono in debito, la loro generazione ci ha consegnato un Pianeta malato, noi ora vogliamo provare a farlo guarire per i nostri figli”. L’immagine stilizzata della coraggiosa Greta, le trecce lunghe sotto il berretto di lana, è ovunque, icona globale che attraversa le 182 piazze italiane, dove secondo le stime dei Verdi si sono riversati oltre un milione di ragazzi. “Greta ha tirato fuori quello che avevamo dentro, dobbiamo limitare i consumi prima che sia tardi, alcuni Paesi del mondo hanno già l’acqua alle ginocchia” spiegano, sullo slargo davanti al Colosseo, i 16enni Sofia e Elvis, studentessa al liceo linguistico lei e lui iscritto allo scientifico. Sono arrivati in metro dal litorale romano e agganciano il serpentone che si snoda su via dei Fori Imperiali mentre alle loro spalle un ragazzo indossa muta, pinne e boccaglio per mimare il rischio che la Città Eterna finisca sommersa. Gli slogan rimbombano verso piazza Venezia: “Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città”, “La nostra protesta non è una passeggiata, ogni scuola sarà una barricata”, “Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra”: non ci sono bandiere, nessuna sigla partitica, solo centinaia di cartelli su cartone riciclato. Laura, Paolo e Dario, rispettivamente 16, 18 e 17 anni guidano lo spezzone dei licei Righi e Tasso, a cui segue la media Buonarroti: “C’interessa l’ambiente e pure la politica, le donne, l’anti-razzismo, sono cose connesse, i partiti ci hanno deluso ma non siamo contro il sistema, vogliamo cambiarlo”. A partire dalle piccole cose. “Ricordandosi ad esempio di chiudere il rubinetto quando ci si lava denti, o di spegnere la luce quando si esce da una stanza”, concordano Virginia e Antonella, 13 anni, aspiranti infermiera e archeologa. La loro scuola, la Don Bosco, si è sfilata, ma i genitori le hanno accompagnate: “La nostra è una battaglia giusta, la scienza è dalla nostra parte”. A Milano il popolo di Greta è talmente vasto da prendersi l’intera Piazza Duomo. “Siamo centomila”, scandiscono. Senza simboli di partito ma con la politica nel mirino. Miriam Martinelli, 16 anni, è l’attivista italiana più famosa di Friday4Future: “Sono stata all’Europarlamento. Tutti i politici mi hanno detto che il clima era il loro primo problema. Solo parole, poi non si fa niente”. La terra sempre meno verde se la dipingono in faccia e sui cartelli scrivono che “Non esiste un pianeta B”. Sono soprattutto studenti, alcuni giovanissimi come la bionda Sveva accompagnata dalla mamma: “Ho solo 11 anni, che vita volete regalarmi?”. Tra tamburelli, fischietti e megafoni c’è Ludovico, 16 anni: “Il nostro futuro è oggi. Greta ci ha dato la spinta per reagire”. Il messaggio agli adulti è chiaro: la bambina che ha messo i potenti del mondo con le spalle al muro ora non è più sola. Il verbale di Cesare Battisti: “Io consegnato dai brasiliani agli italiani” La Repubblica, 16 marzo 2019 L’ex terrorista è stato sentito nel carcere di Oristano. Legali pronti a presentare istanza contro l’ergastolo: lunedì la decisione. Si stava imbarcando, dopo l’arresto in Bolivia, salendo “la scaletta” di un aereo “della polizia federale brasiliana”, dopo essere stato preso in carico da “sette agenti” brasiliani, ma poi “c’è stato un conciliabolo” tra loro e gli agenti boliviani e alla fine l’aereo brasiliano è ripartito “senza di me” e sono poi arrivati i poliziotti italiani. Così Cesare Battisti nel primo verbale reso ieri nel carcere di Oristano, dopo la latitanza durata quasi 40 anni, ha raccontato la sua “consegna”. Battisti, infatti, è stato sentito ieri nel carcere di Oristano dal magistrato di Sorveglianza di Cagliari, in vista dell’incidente di esecuzione che si terrà lunedì prossimo davanti ai giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano. “Le modalità riferite dal detenuto - ha spiegato l’avvocato Davide Steccanella, che lo assiste col legale Gianfranco Sollai - trasferito praticamente sulla pista di decollo dell’aeroporto da un aereo brasiliano ad uno italiano, confermano che si è trattato di una mera consegna diretta alla polizia italiana di soggetto estradato dal Brasile. Si impone - ha aggiunto - quindi l’applicazione di quell’estradizione, perché non penso che lo Stato italiano possa eseguire una pena nei confronti di chi è stato condannato per avere violato la legge, senza a sua volta rispettarla”. Nelle scorse settimane, infatti, la difesa di Battisti ha depositato un’istanza di commutazione della pena dall’ergastolo a 30 anni, proprio sulla base dell’unico accordo di estradizione valido, secondo i difensori, ossia quello tra Italia e Brasile (nel Paese sudamericano non è previsto il carcere a vita). Da qui l’incidente di esecuzione e le dichiarazioni di ieri dell’ex terrorista ai magistrati per ricostruire i momenti della sua consegna all’Italia. In un’ulteriore nota, da poco depositata dalla difesa alla Corte assieme a tre memorie, si riassume così la fase della consegna: “giunto in aeroporto è stato raggiunto da sette agenti della polizia brasiliana e accompagnato fino alla scaletta dell’aereo brasiliano che si trovata sulla pista; mentre saliva la scala vi è stato un conciliabolo tra polizia boliviana e brasiliana e sono rientrati nella sala da dove erano usciti; quindi l’aereo brasiliano è ripartito senza di lui”. Infine, “verso le 17 sono arrivati i poliziotti italiani che lo hanno imbarcato sull’aereo italiano che lo ha riportato in Italia”. “Mi sono recato in Bolivia nel dicembre 2018 per incontrare dei colleghi per il progetto di un libro”, ha spiegato Battisti. In Bolivia “mi sono trattenuto per Natale e Capodanno e sono stato arrestato il 12 gennaio”. Sulle modalità della sua consegna Battisti ha detto di non aver mai ricevuto “spiegazioni”. Iran. “Nasrin libera”, l’Ue contro la detenzione dell’avvocata Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2019 Sono già molte le personalità che hanno aderito all’appello lanciato da Nessuno tocchi Caino e dalla sua presidente Elisabetta Zamparutti per chiedere a governi e parlamenti dei paesi membri dell’Unione europea di fare pressioni sulle autorità iraniane affinché liberino l’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate. All’iniziativa hanno risposto numerose parlamentari e senatrici italiane divari schieramenti, da Rita Bernardini, Cinzia Bonfrisco, Deborah Serracchiani e Deborah Bergamini, oltre a noti nomi del giornalismo e della cultura come Bianca Berlinguer e la regista Liliana Cavani. Più persone aderiranno, più sarà possibile che l’esecutivo e l’aula decidano di intraprendere azioni presso le autorità iraniane contro questa sentenza definita “vergognosa e ingiusta” dalle organizzazioni umanitarie. Nell’appello si legge: “Riteniamo inaccettabile la condanna per fatti essenzialmente legati alla sua attività di avvocato di detenuti politici e difensore dei diritti umani, per le quali nel 2012 il Parlamento europeo l’ha insignita del Premio Sakharov per la libertà di pensiero”. L’avvocata, in carcere dallo scorso giugno, aveva già scontato tre anni di prigione dal 2011 al 2014. Il regime misogino degli ayatollah questa volta ha attinto a tutto il proprio arsenale di accuse prefabbricate per terrorizzare le iraniane con la condanna di Sotoudeh per cospirazione contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo Stato, istigazione alla corruzione ed essere apparsa in pubblico senza chador. “Il regime è in estrema difficoltà dal 2017 sono cominciate le manifestazioni di piazza per i problemi economici conseguenti alla politica corrotta degli ayatollah. Con la condanna gli ayatollah vogliono terrorizzare le donne iraniane e tenerle nell’oppressione”, ha commentato il rappresentante in Italia del Consiglio della Resistenza iraniana, Esmail Mihades.