Bonafede firma il decreto per nuovo Piano di edilizia penitenziaria agvilvelino.it, 15 marzo 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli hanno firmato il decreto con cui viene approvato il Piano di edilizia penitenziaria 2019. Il provvedimento dà il via dunque alla realizzazione del programma dei lavori, nel rispetto delle priorità attribuite loro, come proposto dal Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sentito anche il Comitato paritetico sulla materia costituito presso il Ministero della Giustizia. Due anni di tempo, dal 1 gennaio 2019 al 31 dicembre 2020, per elaborare “progetti e perizie per la ristrutturazione e la manutenzione, anche straordinaria, degli immobili in uso governativo all’Amministrazione penitenziaria”, per la realizzazione di nuove carceri e alloggi di servizio per gli agenti. E’ quanto prevede l’articolo 7 del Decreto-legge n. 135 del 14 dicembre 2018, convertito in Legge n. 12 dell’11 febbraio 2019. Al Dipartimento la legge assegna, inoltre, anche la possibilità di individuare immobili “nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali” per la realizzazione di strutture carcerarie. Allo scopo sarà possibile avvalersi anche di personale del Genio militare del Ministero della Difesa. Molti sono gli interventi di ristrutturazione già in corso. Alcuni padiglioni dell’Ucciardone di Palermo e del carcere di Poggioreale a Napoli sono oggetto di recupero conservativo e ammodernamento mentre sono in progettazione nuove sezioni negli istituti di Bari, sezione femminile, Potenza, Brindisi e Lecce. La riconversione in carceri di caserme dismesse, individuate grazie anche alla collaborazione con l’Agenzia del demanio e con il Ministero della Difesa, consentirà - oltre a un sensibile risparmio rispetto alla costruzione ex novo di strutture penitenziarie - anche il raggiungimento dell’obiettivo di realizzare 5.000 ulteriori posti detentivi. Infine, a cura del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, è prevista la realizzazione di due nuovi istituti, quello di Forlì e quello di Nola per una capacità complessiva di 1.450 posti. Internati al 41bis, sciopero della fame a Tolmezzo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2019 Hanno scontato la pena, ma non c’è lavoro per poter ottenere la libertà. Restano rinchiusi per anni senza far nulla e senza “fine pena” certo, nonostante hanno finito già di scontare la pena. Da tre giorni gli internati al 41bis del carcere di Tolmezzo sono in sciopero della fame a causa della mancanza del lavoro. Ma perché questa esigenza? “È fondamentale - spiega a il Dubbio l’avvocato e attivista dei Radicali Italiani Michel Capano - perché senza il lavoro il magistrato di sorveglianza non ha gli strumenti per valutare la mancata cessazione della pericolosità sociale”. La figura dell’internato, che teoricamente è diversa da quella di detenuto, è un argomento spesso affrontato da Il Dubbio. Per l’internato, di fatto, c’è una pena prolungata nonostante sia già scontata e con poche concessioni rispetto ai detenuti. Parliamo della cosiddetta misura di sicurezza che risale al codice Rocco che ha come impronta il retaggio fascista che considera il lavoro come misura correzionale. Tolmezzo, formalmente, è una casa lavoro pensata proprio per queste persone che, appunto, pur avendo terminato di scontare la pena, non vengono rimesse in libertà in quanto ritenute ‘socialmente pericolose’. Senza lavoro, l’istituto rischia di diventare per gli internati un luogo di disperazione. “A Tolmezzo - sottolinea l’avvocato Capano - gli internati stanno scontando la misura di sicurezza in regime di 41bis, parliamo sostanzialmente di persone che hanno finito di scontare il regime duro, ma di fatto ci rimangono”. Teoricamente dovrebbero lavorare per essere proiettati verso la libertà. “Questa serra che viene presentata come uno specchietto per le allodole - denuncia sempre Capano, in realtà non è in funzione da moltissimi mesi e quindi accade che la misura di sicurezza si svolge quasi interamente al 41bis come gli altri detenuti”. In effetti il carcere di Tolmezzo viene, a torto, definito “casa lavoro”, mentre in realtà è un carcere normale dove all’interno dovrebbe esserci una sezione apposita dedicata agli internati. “Ma non è così - precisa sempre Capano, perché nella stessa sezione al 41bis si ritrovano internati e detenuti, mentre sulla carta dovrebbe esserci una “casa lavoro” a parte”. Come se non bastasse, proprio a causa che, di fatto, gli internati si trovano ancora nel 41bis, il magistrato di sorveglianza non concede la licenza come previsto, perché, appunto, prevale la regola restrittiva del carcere duro. Da ricordare che la paradossale condizione di internamento a Tolmezzo era stata oggetto già di apposita menzione e segnalazione da parte del Collegio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella relazione al Parlamento del 2018, ed è esplicitata anche nel “Rapporto tematico sul “41bis” pubblicato il 5 Febbraio scorso. In seguito a una visita effettuata a Tolmezzo assieme ad una delegazione composta dall’attivista dei Radicali Italiani Antonello Nicosia e la deputata di Liberi e Uguali Giuseppina Occhionero, è stata presentata un mese fa una interrogazione parlamentare - ancora senza risposta - da parte di quest’ultima al ministro della Giustizia proprio per denunciare queste condizioni. Oltre al problema della mancanza di lavoro, nell’interrogazione viene denunciato il fatto che gli internati non vedono mai uno educatore né uno psicologo. Figure importanti proprio per la prospettiva delle valutazioni di competenza del magistrato di sorveglianza. Uno degli internati, “con il quale la sottoscritta - scrive nell’interrogazione l’onorevole Occhionero - ha colloquiato dopo avere scritto 28 “domandine” nell’ rco di un anno per chiedere di parlare con un educatore (mentre sarebbe stato l’educatore a dovere andare da lui) ha minacciato poche settimane or sono di darsi fuoco alla cella se tale contatto gli fosse stato ancora negato: e solo così è riuscito ad avere un colloquio di 10 minuti con un educatore”. L’avvocato Capano spiega a Il Dubbio che l’internato Filippo Guttadauro, suo assistito, da un anno fa domande per chiedere un colloquio con l’educatore, ma ad oggi ancora non l’ha visto. “È importante per lui - sottolinea Capano, perché serve per avere una rivalutazione sulla sua pericolosità sociale”. Il suo assistito è un caso emblematico. Il 20 marzo l’avvocato Capano ha udienza per il riesame della sua pericolosità. “Nel 2016 aveva finito di scontare il 41bis - spiega l’avvocato Capano -, ma poi è stato raggiunto da una misura di sicurezza per tre anni che sono scaduti a gennaio scorso: resta il fatto che è dentro oltre la scadenza e l’udienza per la rivalutazione ci sarà il 20 marzo”. Ma il responso è quasi certo. “Non essendoci il lavoro e né il regime educativo - dice con amarezza il radicale Capano, è quasi certa la proroga visto che mancano gli strumenti per permettere una rivalutazione”. Con tutte queste problematiche, il terreno diventa fertile anche per dei probabili abusi da parte di soggetti istituzionali. “Abbiamo appurato che questa è una situazione - denuncia Michele Capano - funzionale al fatto che dentro il carcere ogni tanto entrano persone che parlano con gli internati chiedendogli di collaborare con la giustizia, facendogli capire che lì dentro ci passeranno ancora per altri decenni”. Reperti di archeologia giuridica Gli internati - definizione che richiama il vecchio linguaggio manicomiale - vivono in carcere a tempo indeterminato, quasi come se fosse un fine pena perché, appunto, una pena da scontare non ce l’hanno. Il rischio è di scontare, di fatto, una lunghissima pena nonostante abbiano già fatto i conti con la giustizia. Gli internati, infatti, pensano che la loro condizione sia una specie “ergastolo bianco”, perché la misura di sicurezza può essere prorogata diverse volte. Il motivo? Subentra un meccanismo nel quale, non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. A far fronte a questo problema, grazie alla legge n. 81 del 2014, si prevede che “le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. Questi internamenti sono misure che risalgono al codice fascista Rocco, che non a caso diversi giuristi le definiscono “reperti di archeologia giuridica”. Reperti che hanno anche una definizione ben precisa: “il doppio binario”. Ovvero un doppio sistema sanzionatorio caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: le pene, ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest’ultimo, e le misure di sicurezza, imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell’autore del reato e di durata indeterminata. Il doppio binario si risolve, con riferimento ai soggetti imputabili e al contempo socialmente pericolosi, nell’applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza: è questo il profilo più problematico dell’istituto, che può tradursi in una duplice privazione della libertà personale dell’individuo, ben oltre il limite segnato dalla colpevolezza per il fatto. Non a caso, la Corte Europa ci bacchettò su questo punto specifico. Sentenziò che non si può giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva solo in ragione della funzione preventiva dalla stessa svolta, se poi di fatto la sua esecuzione non si differenzia da quella di una pena. Eppure ancora oggi persiste la mancata differenziazione con la pena detentiva. Diritti umani, un medioevo grigio che ancora alberga nel cuore dell’Europa di Guido Alpa La Stampa, 15 marzo 2019 Compie 60 anni il tribunale Ue per la difesa della persona. La Corte europea per i diritti umani ha emesso una mole impressionante di condanne anche a carico di Paesi che passano per essere vessilli della libertà e della democrazia. Sul sito della Corte europea dei diritti umani, espressione del Consiglio d’Europa (hudoc.echr.coe.int), qualche settimana fa sono state pubblicate le statistiche delle violazioni dei diritti umani commesse dal 1959 al 2018 dagli Stati appartenenti al Consiglio. Questa istituzione, nata a Londra sulla base di un Trattato del 1949 con lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa è composta oggi da 47 Stati e comprende quindi un numero di Paesi più numerosi di quelli appartenenti all’ Unione europea. In seno al Consiglio opera la Corte europea dei diritti umani, che applica la Convenzione europea dei diritti umani firmata a Roma nel 1950. La Corte si compone di due collegi: il Tribunale di Prima Istanza e la Grande Camera che decide in secondo grado. La Corte è stata istituita nel 1959, ha natura internazionale, e si pronuncia sui ricorsi presentati direttamente dagli individui e dagli Stati riguardanti le presunte violazioni della Convenzione. I diritti protetti dalla Convenzione corrispondono grosso modo a quelli sanciti dalla Dichiarazione dell’Onu del 1948, dalle Costituzioni dei Paesi europei, inclusa la nostra, e i diritti declinati della Carta europea del diritti fondamentali del 2007 (divenuta documento giuridicamente vincolante nel 2009) sono un po’ più articolati e ammodernati e sono applicati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. La Corte Edu ha sede a Strasburgo e la sua giurisdizione riguarda più di 800 milioni di persone. Essendo quasi giunti al compimento del primo ventennio del Duemila e a sessant’anni dalla sua istituzione, ciascuno di noi potrebbe - fondatamente - credere che in Europa, nella civile e democratica Europa, il cui modello giuridico e politico costituisce un vanto in tutto il mondo, la tutela della dignità della persona e dei sui valori più rilevanti, come la vita, l’integrità personale, le libertà, la famiglia, le identità e le differenze, il lavoro, le professioni, l’impresa, il giusto processo, e la proprietà (valore aggiunto al testo originario con il Protocollo n.1) non costituiscano più un problema e non siano più messi in gioco dai regimi al potere nei Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione. Eppure, leggendo le statistiche pubblicate sul sito si possono trovare molte sorprese. Le sentenze adottate nei sessant’anni di attività sono più di 10.000, la maggior parte di condanna degli Stati per aver violato i diritti umani delle persone a loro soggette e le condanne riguardano anche Paesi che passano per essere vessilli della libertà e della democrazia nel mondo. Solo duemila sono le sentenze che non hanno accertato violazioni, le rimanenti sono davvero preoccupanti. Vi sono Stati che prevedono ancora nei loro ordinamenti giuridici la pena di morte: le sentenze più numerose sono quelle pronunciate contro la Russia (290) e la Turchia (137), ma nelle statistiche figurano anche Paesi come l’ Ucraina (12) la Romania (11) la Polonia (6) e persino il Regno Unito (2) e la Svezia (1). Le condanne per torture riguardano la Russia ed alcuni Paesi ex socialisti. Ma i trattamenti disumani, oltre a questi Paesi, riguardano anche la Polonia, la Slovenia, l’Olanda. Le sentenze più numerose concernono il difetto di un procedimento penale giusto, i diritti di libertà, in particolare la detenzione ingiusta, la mancata esecuzione delle sentenze sanzionatorie degli Stati, il diritto di proprietà e il diritto alla privacy. Anche l’Italia ha collezionato centinaia di condanne, in particolare per la eccessiva durata dei processi (a cui non ha posto fine l’introduzione della c.d. legge Pinto sul giusto processo), e poi per l’espropriazione della proprietà non adeguatamente indennizzata, per la violazione dei diritti della persona con riferimento alla differenza tra i sessi, alla discriminazioni tuttora praticate in materia di orientamenti sessuali e per altre ragioni ancora. L’identità della persona è uno dei capisaldi delle tecniche di protezione della Corte: di qui le famose sentenze sull’imposizione del velo imposto alle donne dai regimi fondamentalisti o le restrizioni al cambiamento di sesso. Le sentenze della Corte non esprimono principi universalmente applicabili, ma sono circoscritte ai casi di specie: di qui le modulazioni delle risposte rispetto a casi apparentemente identici, oppure a qualche revisione dovuta al cambiamenti dei collegi nel corso del tempo o a contrasti tra il Tribunale di Prima Istanza e la Grande Camera. Emblematica la decisione (riguardante un caso italiano) sulla esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche: il Tribunale aveva ritenuto inopportuna l’esposizione in virtù della pluralità di identità religiose degli alunni ma la Gran Corte l’ha ritenuto legittima perché il crocifisso è il simbolo della sofferenza umana, e la croce ormai è divenuta un ornamento portato anche da chi non è osservante della religione cristiana. Tornando alle statistiche vengono in mente tanti interrogativi inquietanti: com’è possibile che Paesi così civili come quelli europei si possano ancora esporre alle sanzioni della Corte sulla violazione di diritti che esprimono i valori della persona? Allora è vero quanto scriveva Stefano Rodotà ne I l diritto di avere diritti, cioè che i diritti umani (o fondamentali) debbono riconquistarsi giorno per giorno, e che non dobbiamo dare ormai per acquisito questo baluardo di civiltà? E che cosa accade nei Paesi non aderenti al Consiglio d’Europa e non sottoposti alla giurisdizione della Corte? E per finire: il rigurgito dell’antisemitismo, l’insofferenza verso gli immigrati, i Rom e gli omosessuali, il femminicidio, le prevaricazioni nei confronti delle donne, il solco sempre più profondo tra ceti sociali sono il volto attuale della civile Europa e rappresentano il fallimento delle speranze nate dal crollo dei regimi totalitari? In questi sessant’anni la Corte ha svolto un lavoro immenso e proficuo, altamente morale, grazie a giuristi provenienti da tutti i Paesi d’Europa, alle associazioni che tutelano i diritti umani, al coraggio dei singoli che si espongono contro i loro Paesi per far valere i loro diritti. È una ragione di più per avere fede nel diritto, come scriveva Pietro Calamandrei, pochi mesi prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale. La giustizia fai-da-te, china ingiusta di Mauro Cozzoli* Avvenire, 15 marzo 2019 Il nuovo testo di legge sulla “legittima difesa” - approvato dalla Camera dei Deputati e che dovrà superare l’esame del Senato della Repubblica - pone serie problematicità, se letto alla luce dell’insegnamento della Chiesa, peraltro appartenente alla sapienza etica dell’umanità. Il nuovo testo di legge sulla “legittima difesa” - approvato dalla Camera dei Deputati e che dovrà superare l’esame del Senato della Repubblica - pone serie problematicità, se letto alla luce dell’insegnamento della Chiesa. Insegnamento appartenente peraltro alla sapienza etica dell’umanità, che la Chiesa fa proprio, approfondisce e trasmette. “La proibizione dell’omicidio - leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica - non abroga il diritto di togliere, a un ingiusto aggressore, la possibilità di nuocere”. C’è un diritto alla vita, che comincia da sé: “È legittimo - è ancora il Catechismo a dirci - far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio, anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale”. Questo diritto diventa un dovere nei riguardi degli altri: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri”. La difesa della vita altrui - in ragione della sua debolezza, piccolezza, impotenza - “esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere”, con il ricorso, se necessario, anche alla forza. Non intervenire, potendolo fare, configura una complicità omissiva e quindi una colpa. L’esercizio di questo diritto-dovere non è però ad arbitrium, ma “è sottomesso a rigorose condizioni di legittimità morale”. La Chiesa insegna che “si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza”. Esse sono essenzialmente tre. La prima è che il ricorso alla forza sia un estremo rimedio. Questo significa che si devono considerare ed esperire prima i mezzi non violenti e meno violenti di dissuasione e di difesa e che questi “si siano rivelati impraticabili o inefficaci”. La seconda è che l’irruzione e la violenza dell’aggressore siano effettive, in atto e non ipotetiche, presunte o possibili. La terza è che la violenza difensiva deve essere proporzionata: non può essere maggiore e causare più mali di quella aggressiva. Dalla seconda condizione deriva l’illiceità di una violenza preventiva, dalla terza di una violenza vendicativa. Alla luce di questo insegnamento - della logica che lo declina e del buon senso che lo ispira - la legge approvata oggettivamente dà luogo a una deriva arbitraria ed emotivistica della legittima difesa. Arbitraria per annullamento o allentamento delle “rigorose condizioni” di legittimità del ricorso alla forza difensiva. Annullamento/allentamento provocati dall’introduzione di un “sempre” nell’articolo 1 della nuova legge che modifica quella preesistente. Essa considera “sempre in stato di legittima difesa” chi, all’interno del domicilio o di un’attività, si difende da un’azione di terzi “posta in essere con violenza o minaccia di armi o di altri mezzi di coazione fisica”. È così decondizionato, svincolato, il ricorso alla forza: esso è a sola e inappellabile discrezione dell’individuo che si sente minacciato. La deriva emotivistica della legge è nell’articolo 2, che esclude la punibilità per chi ricorre alla forza “in stato di grave turbamento, derivante da una situazione di pericolo in atto”. C’è qui una sopravalutazione del turbamento emotivo. Chi in uno stato di pericolo non va incontro a uno sconcerto emotivo? Come poi misurarne la gravità? Per la nuova legge l’alterazione emotiva basta a giustificare e rendere impunibile la violenza difensiva. È così mollata la corda della legittimità dell’uso della forza nella difesa e allargata la strada della giustizia fai-da-te. Certo non va sminuita e trascurata l’esasperazione dei cittadini di fronte ai reati di più diretto “allarme sociale”. La risposta in uno Stato di diritto però non viene da un allargamento o da uno strappo delle maglie della legittima difesa. Viene da una legalità preventiva e punitiva del crimine secondo diritto e giustizia. Legalità che dà sicurezze e certezze ai cittadini, piuttosto che indurli ad armarsi e farsi giustizia da sé. *Professore di Teologia morale nella Pontificia Università Lateranense Conte: “Nessun sentimento giustifica un femminicidio” di Adriana Pollice Il Manifesto, 15 marzo 2019 Post del premier sulle recenti sentenze. Il segretario dell’Anm: “Commenti semplicistici”. “Nessuna reazione emotiva, nessun sentimento, pur intenso, può giustificare o attenuare la gravità di un femminicidio”: è quanto ha scritto ieri su Facebook il premier Giuseppe Conte. Il post fa riferimento a due recenti sentenze e, per essere chiaro, Conte ha pubblicato i titoli dei lanci d’agenzia: “Bologna: uccise una donna in preda a una ‘tempesta emotiva’, pena dimezzata” e poi “Genova: uccise compagna, condanna con l’attenuante della ‘delusione’”. Il premier quindi conclude: “Le sentenze dei giudici si possono discutere. L’importante è il rispetto dei ruoli e, in particolare, la tutela dell’autonomia della magistratura. Le donne, tutte le donne, sono una preziosa risorsa che ci consentirà di costruire una società migliore. Dobbiamo lavorare costantemente a questa rivoluzione culturale”. La replica, dura, è arrivata dal segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Alcide Maritati: “Le sentenze si possono sempre criticare ma se si estrapolano frasi messe in circolazione sui media o sui social in maniera semplicistica questo scatena un dibattito non consapevole, che scandalisticamente estrapola una frase dal contesto logico e giuridico che, invece, andrebbe conosciuto”. La discussione, secondo Maritati, starebbe travalicando i limiti con “commenti, fatti anche da persone che hanno responsabilità politiche o istituzionali, molto duri e semplicistici. Questo ha l’effetto di aizzare l’opinione pubblica contro l’esercizio della giurisdizione”. Per poi concedere solo: “Ogni magistrato ha il dovere di prestare la massima attenzione, anche linguistica, quando affronta procedimenti e motivazioni di questo tipo”. Sulla stessa linea Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali: “Ci troviamo di fronte alle normali dinamiche di un giudizio penale. Non tutti gli omicidi sono uguali e non tutte le condotte dolose hanno la stessa intensità”. Se nello scontro si intravede il conflitto tra governo e magistratura, con al centro le riforme, c’è però un problema culturale che non può essere eluso. La giudice Bernadette Nicotra ammette: “Come cittadina provo sdegno e sfiducia quando sento di pene dimezzate o di motivazioni come quelle legate alla sentenza della Corte d’appello di Ancona sulla ragazza troppo mascolina per essere violentata”. Cristina Ornano, presidente di Area, il gruppo delle toghe progressiste, entra nel merito: “Bisogna fare attenzione alle parole che, nelle sentenze, rischiano di creare una vittimizzazione secondaria” delle donne già vittime di violenza. Ornano denuncia l’emergere di “stereotipi e pregiudizi che permeano la nostra cultura e ai quali i giudici non sono estranei. Per i giudici - conclude - c’è la necessità di dare peso alle parole perché ogni decisione, anche se corretta, se è esposta in maniera inadeguata o poco rispettosa, per ciò stesso diventa sbagliata”. Paola Di Nicola, gip del tribunale di Roma, spiega: “Si fa prevalere il punto di vista dell’autore del reato, si ridimensiona la gravità della condotta criminale, lasciando in ombra la violenza che ha cagionato, anzi romanticizzandola. Si rischia, quindi, che un femminicidio diventi un romanzo d’appendice. La violenza contro le donne non è ancora adeguatamente contrastata all’interno delle aule di giustizia. Se la società la ridimensiona o la giustifica con la gelosia è inevitabile che questo argomento rischi di catturare anche l’adesione dei giudici e viceversa”. Lo psichiatra Claudio Mencacci ammonisce: “Le due sentenze sono mortali per il processo di cancellazione del concetto di raptus, un concetto inesistente dal punto di vista scientifico, a cui ancora si ricorre per giustificare azioni efferate, di prevaricazione e sottomissione delle donne. Si tratta di una legittimazione della brutalità, della violenza emotiva e del possesso, che non vanno confuse con nessuna condizione psicopatologica in grado di ridurre la capacità di giudizio”. Le sentenze sui femminicidi e la regressione non vista di Dacia Maraini Corriere della Sera, 15 marzo 2019 A Genova un uomo accoltella a morte la moglie. Il pm, Gabriella Marino, chiede 30 anni. Un giudice, Silvia Carpanini, riduce la pena a 16 anni, perché “l’uomo ha agito sotto la spinta di un sentimento molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Una riflessione pericolosa e pretestuosa. Cosa vuol dire non “umanamente incomprensibile”? Che la menzogna, l’infedeltà femminile meritano la pena di morte? Curioso che due donne con compiti pubblici siano in tale contrasto. Evidentemente rappresentano due modi di stare al mondo: una docile e sottomessa alla cultura tradizionale ancora legata ai diritti del pater familias, e una consapevole dei cambiamenti e favorevole alla difesa dei nuovi diritti femminili. Ha ragione l’avvocato della vittima, che parla di un ritorno al delitto d’onore che giustificava, piu o meno con gli stessi argomenti, l’uccisione di una moglie da parte del marito. L’aveva tradito, aveva in qualche modo offeso la sua dignità di uomo? Il castigo è in parte comprensibile. Come quando si giustifica lo stupro perché “la ragazza portava le gonne corte”. La realtà di un’Italia divisa in due, più che mai evidente in questi giorni di regressione storica e culturale, la troviamo in un’altra sentenza: quella del caso di Michele Castaldo che ha strangolato la moglie Olga Matei e anche lui ha avuto ridotta la pena perché “oppresso da una soverchiante tempesta emotiva e passionale”. Certo l’uccisione di una persona che si conosce bene e con cui si convive non può avvenire a freddo, come succede con uno sconosciuto. È normale che sia accompagnata da una “tempesta emotiva”. Ma è proprio l’incapacità di reprimere le tempeste emotive che la legge condanna, quando portano alla soppressione di una vita. Queste sentenze sembrano ignorare il clima che stiamo vivendo e le cronache dei tanti delitti in famiglia. Come non sapere che ogni due giorni c’è un uomo che uccide la moglie o la compagna? Come non sospettare che chi giudica condivida lo stesso senso di liceità dell’assassino?: io la amo e quindi la posseggo; è cosa mia e ne faccio quello che voglio. Ma ogni possesso è schiavitù e ogni uccisione è un crimine. Eppure, ci sono ancora molte donne che hanno talmente introiettato il concetto di inferiorità di fronte al pater familias da considerare quasi normale e perdonabile che un uomo tradito abbia il diritto di vendicarsi col sangue. Siamo di fronte a un altro tristissimo segno della regressione di cui parlavo, che ha radici più profonde di quello che pensiamo e pesca nel torbido del nostro passato patriarcale. Ringraziamento ai giudici coraggiosi di Arturo Diaconale L’Opinione, 15 marzo 2019 La cultura che ha prodotto l’elaborazione del reato di femminicidio, cioè di un omicidio rafforzato ed aggravato dal fatto che la vittima è una donna, produce automaticamente la richiesta della pena esemplare da parte della pubblica opinione. Chi si stupisce e si indigna per le tre recenti sentenze che hanno comminato pene segnate dal riconoscimento di circostanze attenuanti per gli autori di femminicidi è inconsapevolmente imbevuto di questa cultura diventata egemone nella società italiana. Una cultura che è nata dall’esigenza di tutelare e garantire le minoranze in passato conculcate, discriminate e non riconosciute. Ma che si è progressivamente evoluta perdendo il suo carattere originario di strumento di garanzia per categorie sociali meno protette ed assumendo, quasi in reazione alle discriminazioni del passato, forme di prevaricazione sempre più estreme nei confronti di chi non crede che la giustizia debba essere sempre e comunque sbilanciata nei confronti delle minoranze più agguerrite. Questo tipo di cultura, che può essere definita quella del giustizialismo delle minoranze più forti, è alimentata da un’informazione sempre più portata alla semplificazione scandalistica. Quella che gonfia sempre e comunque le ragioni della pubblica accusa per avere la possibilità di sbattere il mostro in prima pagina ed ignora sistematicamente il caso giudiziario quando il mostro viene riconosciuto innocente al termine del processo. E che si stupisce e si scandalizza, come è avvenuto nei tre casi più recenti, quando al reato di femminicidio non corrisponde la pena esemplare adeguata all’omicidio potenziato ed aggravato dalla natura femminile della vittima. Chi si è sempre battuto contro la giustizia ispirata al furore popolare alimentato dai media colpevolisti per convinzioni errate e banali interessi commerciali, deve oggi riconoscere che l’unico baluardo contro le sentenze esemplari e la giustizia semplificata della legge del taglione è rappresentato dal lavoro dei giudici togati. Di quelli che hanno il coraggio di applicare la legge senza tenere conto delle pressioni delle minoranze prevaricatrici sostenute da una informazione tanto semplificatrice quanto irresponsabile. A questi giudici coraggiosi (giudici che nei tre casi in oggetto sono donne) deve andare il plauso e la riconoscenza di chi crede nella giustizia giusta e non vendicativa. Lo stato di diritto è nelle loro mani. G8 Genova. Scuola Diaz, a 18 anni dal raid chiesti 3 milioni ai poliziotti di Matteo Indice La Stampa, 15 marzo 2019 Lo Stato li ha più o meno coperti e promossi per quasi vent’anni, nonostante le condanne. Ma adesso, con una sentenza della Corte dei conti, batte cassa ai poliziotti protagonisti dei pestaggi sui manifestanti nella scuola Diaz di Genova dopo il G8 del 2001. E chiede i soldi spesi in primis per pagar loro gli avvocati e quelli che i ministeri dell’Interno e della Giustizia hanno anticipato per risarcire le vittime del raid. Il provvedimento della magistratura contabile è stato depositato martedì: quasi 3 milioni di euro il danno contestato a 24 tra dirigenti, ispettori o ex, chiamati ciascuno a sborsare cifre variabili fra gli 80 e i 120 mila in base agli specifici comportamenti. La somma potrebbe lievitare se si aggiungesse più avanti il danno d’immagine, su cui si pronuncerà la Consulta. Nei guai il numero due della Dia Nell’elenco figurano alti funzionari tuttora in servizio, come il vice-responsabile della Dia (Direzione investigativa antimafia) Gilberto Caldarozzi o il numero uno della Stradale a Roma Pietro Troiani. Senza dimenticare che i giudici ordinano il ristoro delle somme, tecnicamente sotto forma d’una condanna per danno erariale, ad alcune figure molto note nella storia recente della polizia italiana: a Francesco Gratteri, che ne fu a un certo punto il numero tre; a Giovanni Luperi, che è stato al vertice dei servizi segreti; a Vincenzo Canterini, storico capo del nucleo speciale antisommossa, super-squadra da impiegare in particolari contesti di ordine pubblico, poi smantellata. Quanto pagheranno davvero? Non è detto che verseranno l’intera cifra, nel più che probabile rimpallo dei ricorsi. Ma essendo tutti dipendenti dello Stato, o in pensione dopo aver ricevuto emolumenti pubblici, i loro introiti sono facilmente tracciabili e i condannati rischiano di vedersi pignorato un quinto delle entrate mensili. Tra i poliziotti sanzionati figurano sia coloro che sottoscrissero il falso verbale in cui si certificava che nell’istituto c’erano molotov in realtà introdotte dagli agenti, sia i picchiatori. La Corte dei conti, nel rimarcare le varie responsabilità, descrive l’azione della polizia come “una manovra a tenaglia”, “un raid militare”, “una spedizione punitiva” dettata “dal sonno della ragione”. E insiste sul fatto che i protagonisti hanno a lungo avuto “coscienza dell’impunità per le coperture dei vertici”. Per il caso Diaz l’Italia era stata condannata in passato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Atti persecutori, bastano due episodi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 14 marzo 2019 n. 11450. Il delitto di “atti persecutori” - noto anche come stalking - scatta anche per due sole condotte di “minacce, molestie o lesioni”, pur se commesse in un breve arco di tempo. Ciò può essere sufficiente a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice. Non è dunque necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. Giudicando su di un caso di violenza sessuale di gruppo in una comunità, la Cassazione, sentenza 11450di ieri, oltre a confermare la condanna dei due imputati (anch’essi minori ed ospiti della struttura) per la violenza ai danni di un minore, ha anche ribadito la correttezza della condanna per “atti persecutori” nei confronti di un altro ragazzo riuscito a sfuggire alla violenza sessuale. Per la Suprema corte infatti il “delitto di atti persecutori, non richiede che il capo d’imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si è concretizzato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e le conseguenze per la persona offesa”. In questo senso depongono i fatti narrati dalla vittima che ha descritto “non solo la reiterazione delle avances sessuali, delle percosse (come gli scappellotti durante un viaggio in pullman verso Siracusa) e delle minacce, queste ultime poste in essere con delle forbici, ma anche la condizione di paura che ne era derivata, vivendo egli con l’incubo di essere prima o poi violentato, anche perché i ricorrenti avevano creato un clima di soggezione della comunità”. Per cui, conclude la decisione, “sono stati ragionevolmente ritenuti sussistenti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 612 bis cod. pen., a nulla rilevando che le condotte illecite si siano dispiegate nell’arco di poche settimane” (dal 4 giugno al 13 luglio 2016). Rossano (Cs): la famiglia del detenuto morto di polmonite “chiediamo verità e giustizia” quotidianodipuglia.it, 15 marzo 2019 Non era un tipo di molte parole Andrea Cavalera. Era chiuso, riservato, taciturno. In famiglia non aveva mai detto di sentirsi poco bene, anche per questo la notizia della sua morte, improvvisa, è arrivata come un colpo al cuore. Andrea è deceduto improvvisamente di polmonite mentre era detenuto per detenzione di armi nel carcere di Rossano. Sarebbe uscito nell’arco di un anno. La sorella di Andrea, Carmelina, non se ne riesce a fare una ragione. Chiede giustizia “perché - ripete - nel 2019 non si può morire per una polmonite. E se è successo a lui, non deve succedere mai più”. Andrea era in perfetta salute quando ha ricevuto, lo scorso dicembre, la visita delle sorelle e del cognato. “Era dispiaciuto del trasferimento a Rossano - racconta, tra le lacrime, Carmelina - perché a Lecce aveva la famiglia vicino, si era fatto degli amici che gli volevano bene e poi quello di Lecce è un carcere aperto, non era costretto a stare tutto il giorno in cella. Ma non ha mai detto di non sentirsi bene: era un ragazzone di 42 anni, il nostro piccolino, sempre in salute perché non ha mai bevuto né mai fumato”. Da quando era in Calabria, però, Andrea era un po’ giù. “Ci aveva detto che adesso non viveva più, ma sopravviveva. Anche perché se fosse stato a Lecce avrebbe potuto usufruire dei permessi premio e tornare a casa di tanto in tanto. Invece, a causa del trasferimento, per il primo permesso avrebbe dovuto aspettare sei mesi”. Il dolore dei familiari è inconsolabile, mentre l’anziana madre dell’uomo - ricoverata in ospedale a Gallipoli - non sa ancora nulla della tragedia. “Mia madre - prosegue la sorella - non lo sopporterebbe. Speriamo non si accorga dei nostro occhi gonfi”. Poi la rabbia sale: “Lo hanno fatto morire, non ho più lacrime né fiato. Quando lo hanno portato in ospedale era già in fin di vita e ci è stato riferito che quando è arrivato in ospedale aveva solo il 20% dei polmoni funzionate. Sento il cuore che si spacca. Andrea era il nostro piccolino, non posso farmene una ragione, me lo hanno ammazzato. Nel 2019 non curare una broncopolmonite è inaudito. La devono pagare. Chiederemo l’autopsia perché vogliamo sapere come è morto e se si poteva salvarlo. Voglio giustizia, chi ha colpa deve pagare perché una cosa del genere non deve più accadere a nessun altro”. Venezia: detenuto disabile ferito in carcere e trasferito in sezione psichiatrica di Angela Marino fanpage.it, 15 marzo 2019 “Era ridotto come Cucchi”. Così Antonietta G., mamma di Micheal, 19 anni, disabile detenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia, dove due giorni fa, nella sala colloqui, lo ha trovato con il volto tumefatto ed entrambi gli occhi neri. A Fanpage.it il racconto di cosa è successo. “Mio figlio aveva il viso tumefatto come quello di Stefano Cucchi”. È agitata mamma Antonietta quando racconta quello che è accaduto a suo figlio Micheal, 19 anni, detenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia e disabile. Due giorni fa Micheal avrebbe dovuto essere accompagnato in tribunale di sorveglianza di Venezia per un’udienza a suo carico, ma in aula non è mai arrivato. A mamma Antonietta è stato spiegato che avrebbe saltato l’udienza perché era ‘troppo agitato’, allora lei è andata a trovarlo in carcere, dove allo sportello è stata invitata a tornare in un altro momento, perché suo figlio continuava a essere ‘agitato’. Lei però non si è arresa e quella stessa mattina ha ottenuto di vedere Micheal in sala colloqui. Quello che ha visto è scritto nero su bianco in un esposto presentato alla stazione dei carabinieri di Mestre. Occhi neri e graffi sul volto - “Mio figlio era in pessime condizioni igieniche (era sporco di urina, ndr) con il volto tumefatto ed entrambi gli occhi neri, il naso gonfio e vari graffi su tutto il viso”. È proprio lui a spiegarle che quella mattina ha perso il controllo, ha staccato un pezzo di metallo dalla branda e ha cominciato ad agitarsi. Gli capita spesso, come ci raccontano sia mamma Antonietta sia il suo legale, l’avvocato Stefania Pattarello. “Micheal è affetto da un disturbo di personalità e ha provato più volte a farsi del male. Ha tentato di ingoiare lamette e frammenti di coperte tanto spesso che per evitare che si facesse del male lo hanno isolato”. “Nella cella dove sono avvenuti i fatti, non c’era quasi nulla - spiega l’avvocato - ma far dormire un ragazzo di 19 anni sul pavimento, non è stato ritenuto dignitoso e per questo gli hanno lasciato la branda. Micheal, però, è riuscito a staccarne una gamba e ha cominciato a sbatterla contro la porta finché non sono intervenuti gli agenti. Ci hanno riferito che lo hanno bloccato con una siringa di sedativo”. Non è andato in ospedale - Micheal, invece, alla mamma racconta altro. “Dopo qualche ora da questo episodio - scrive Antonietta nella denuncia - è stato portato in un’altra cella separata nel padiglione sinistro del carcere e in quella cella, che si trova al secondo piano, sarebbero entrati sei o otto agenti che lo avrebbero malmenato”. “Al di là di come sono andati i fatti - dice l’avvocato - Micheal è affetto da un disturbo di personalità: perché si trova in carcere e non in una Rems o in un’altra struttura dove può ricevere assistenza psichiatrica? Ritengo che questo sia il vero punto della questione. Micheal, al di là di quello che è successo, non doveva trovarsi là”. Perché Manuel non è considerato un malato psichiatrico? “Il suo disturbo di personalità è stato ricondotto al ritardo mentale di cui è affetto - spiega l’avvocato - e per questo è stato ristretto in carcere e non in un’altra struttura. Ma in carcere - spiega l’avvocato - non si possono effettuare Tso né costringere i reclusi ad assumere i farmaci prescritti (in questo caso psicofarmaci). Al di là di quanto successo, bisogna interrogarsi sul perché, dopo innumerevoli segnalazioni degli atti di autolesionismo non si sono presi provvedimenti”. Dov’è Micheal ora? “Non è stato soccorso in ospedale (infatti non ci sono foto né referti, ndr) - spiega la mamma - è stato immediatamente trasferito al carcere di Verona, dove c’è una sezione per psichiatria. Ora verrà formulata una diagnosi”. Micheal, per chi se lo stesse chiedendo, è detenuto per reati commessi con una baby-gang. Napoli: carcere di Poggioreale, successo per due progetti per i detenuti askanews.it, 15 marzo 2019 Si sono conclusi ieri, all’interno del carcere di Poggioreale, a Napoli, i progetti iniziati ad ottobre 2018 ideati e strutturati dall’associazione “La Mansarda” guidata dal presidente Samuele Ciambriello, destinati ad alcuni detenuti del padiglione Firenze e del padiglione Genova. I progetti, dal titolo “condividendo” e “ri-esco”, sono stati portati avanti nel tempo dalle volontarie dell’associazione, ente che dalla fine degli anni 80 opera negli istituti penitenziari campani. Con i due progetti si è lavorato sulle emozioni dei detenuti, sull’analisi ed il confronto di sensazioni ed idee, attraverso l’aiuto di testi letterali e corti cinematografici. Questo ultimo incontro ha visto la partecipazione dell’attore napoletano Salvatore Striano. “L’associazione La Mansarda all’interno del carcere di Poggioreale opera gratuitamente da diversi anni, nei diversi padiglioni, con professioniste che attraverso i loro progetti fungono da ponte, da zattera per i ‘diversamente liberi’. Ci sentiamo, nello svolgere questa funzione, come coloro che creano relazioni umane finalizzate a valorizzare il tempo passato in carcere”, ha dichiarato Samuele Ciambriello, attuale Garante dei Detenuti della Regione Campania. Emozionante la testimonianza di riscatto che ha tenuto l’attore napoletano Salvatore Striano che ha raccontato dei suoi trascorsi nelle carceri di Nisida, Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere e Rebibbia e della sua nuova vita come attore di cinema e di teatro e testimone di legalità. “Una bella ed emozionante esperienza - l’ha definita l’attore napoletano Salvatore Striano - a cui avrei voluto dedicare personalmente più tempo. Ho spronato i detenuti, attraverso la mia personale testimonianza, a riprendersi in mano la propria vita, anche utilizzando l’arte e la cultura come mezzo. Da oltre 10 anni partecipo o organizzo iniziative come quella di stamane nelle scuole o nei penitenziari, ponendomi non come “vip” ma come “artista socialmente utile”. L’appello che faccio ai miei colleghi è quello di avvicinarsi a questi mondi, affinché attraverso il cinema ed il teatro si possa evitare che la scuola sia vista come un carcere e provare a far si che i carceri diventino sempre più scuola”, ha concluso Striano. Milano: Ghali presenta “I Love You” nel carcere di San Vittore di Andrea Laffranchi Corriere della Sera, 15 marzo 2019 Il rapper incontra i detenuti della prigione milanese e lancia una nuova canzone. Ghali chiacchiera con i detenuti. Se ne sta lì, nel cuore della Rotonda di San Vittore, il punto di partenza dei cinque raggi del carcere. Ha scelto la casa circondariale milanese per presentare “I Love You”, il suo nuovo singolo e ad attenderlo c’è un gruppo di detenuti. Potrebbero essere al suo posto. Hanno la sua età, molti hanno origini simili, e forse tanti hanno una storia simile alla sua alle spalle. Quella di un padre che il carcere lo ha conosciuto. “Il brano è come se fosse una lettera immaginaria di un carcerato, come il papà che ho avuto io”, dice. E apre il libro delle memorie, anche di quelle dolorose: “Ho ricordi chiari di San Vittore, di quando venivo qui a trovare mio padre. Il carcere, come la scuola, mi ha fatto scoprire l’arte. Il beatbox (l’imitazione delle percussioni con la voce ndr) l’ho scoperto grazie al figlio di un altro detenuto”. Per il rapper di origini tunisine “I Love You” è il seguito ideale di “Cara Italia” la canzone da 43 milioni di streaming che l’anno scorso lo ha proiettato al centro della musica italiana, protagonista della trap che ha scombussolato il panorama. “Quella era una canzone d’amore che aveva l’intento di scuotere l’anima di chi sta ai vertici e comanda, era diretta a quelli che con me non vogliono giocare a calcio, era l’inno italiano della nuova generazione. A un anno da quel brano vedo che nulla è cambiato, ma non ho perso la speranza. E allora ho scritto questa che è una lettera anche per chi sta al mio fianco, un fratello, una sorella, un amico, per chi con me a pallone ci gioca”. “Mi sento come se non ci fossero muri” canta Ghali nel brano in cui la ricetta mediterranea si mischia ai suoni digitali, l’italiano a un “ti amo” in arabo, inglese, francese e spagnolo. Un ascolto in anteprima per i ragazzi, una settantina scelti fra i più giovani, dai 18 ai 25 anni, e fra le donne. “Sto arrivando da te Ghali libera tutti” e tutti che tengono il ritmo sotto gli occhi attenti delle guardie. “Ho trasformato in energia positiva la sofferenza di essere cresciuto senza un padre che ha trascorso troppo tempo in prigione - aveva postato sui social Ghali nei giorni scorsi. Tanti utilizzerebbero questo come giustificazione per compiere altri errori e alimentare odio verso chi svolge solo il proprio lavoro. Ho un grande vuoto ma non provo odio: credo che sotto divisa e passamontagna ci sia un essere umano e la canzone è dedicata a entrambe le parti”. La settimana scorsa Ghali era venuto a conoscere i detenuti, quelli più giovani, li aveva intervistati sui loro sogni e speranze, sulle loro vite prima e sui progetti per il futuro (e messo il video su YouTube), e assieme a Jorit, lo street artist napoletano famoso per i grandi ritratti sulle facciate dei palazzi popolari, li ha coinvolti nella realizzazione di un murales nell’area dell’ora d’aria. Mascherine e bombolette per tutti. Adesso nel cortile campeggia la coloratissima scritta “Libera tutti”. “Ho preso facce, immagini e storie da qui dentro e ho cercato di portarle fuori. E a simboleggiare questo abbiamo realizzato una parte di quel murales su una tela che andrà all’asta in beneficenza per la sezione femminile”. La copertina di “I Love You” ricorda la celebre mossa di Michael Jackson in punta di piedi. Però qui Ghali ha una palla al piede, non da carcerato ottocentesco ma una mirror ball da discoteca. “Sono circondato dalle sbarre e dal cemento ma la vegetazione e la mia luce preferita, quella del tramonto, simboleggiano la voglia di evadere. Di Michael Jackson sono un super-fan, è un’icona. Mi sono messo anche il calzino bianco”. Per una giornata i detenuti hanno vissuto qualcosa di diverso. “Vi ringrazio io perché mi avete ispirato, ho imparato un sacco di cose. Anche semplici come lo stare ore senza il telefonino con persone che ne hanno uno e non pensano a quello che c’è dentro a quegli oggetti. Fuori di qui sarebbe impensabile”. E alla fine niente selfie, ovviamente, solo strette di mano e autografi. Milano: il rapper Ghali a San Vittore “venivo qui a trovare papà” di Andrea Spinelli Il Giorno, 15 marzo 2019 Sette cancelli ti si chiudono alle spalle prima di raggiungere la Rotonda di San Vittore. Ed è lì nel cuore del “dù”, come lo chiama il gergo della mala alludendo all’ingresso in piazza Filangeri 2, che Ghali ha presentato ieri pomeriggio I love you, il nuovo singolo da oggi in radio e sulle piattaforme streaming. “Cara Italia era una lettera d’amore al mio Paese che ho scritto con l’intento di scuotere qualcosa dentro a chi decide le nostre sorti” spiega il rapper milanese di genitori tunisini. “Preso atto che a un anno dall’uscita niente è cambiato - prosegue Ghali - ho deciso di scrivere un’altra canzone d’amore, ma, stavolta, dedicata a chi mi sta vicino e quindi a un fratello, a una sorella, a un amico con cui posso parlare o andare a giocare a pallone; perché forse bisogna guardarsi accanto prima di provare a cambiare la testa di chi non vuol scendere a giocare”. Ghali di San Vittore ha fra i ricordi un fermo-immagine virato dal tempo “...quando da bambino venivo con mia madre a trovare papà”. Sulla copertina di I love you c’è un ballerino alla Michael Jackson che si agita con una sfera stroboscopica agganciata sopra il mocassino come una palla da carcerato. “E vengo in discoteca come gli Alcazar / sboccio ma non bevo sono in ramadan / ho quaranta ladroni come Alibaba non finiamo in rehab ma finiamo il kebab” canta Ghali con i detenuti lì in piedi a ballare, mentre in sottofondo arrivano urla dal sesto raggio, quello delle celle chiuse. “Quanto è importante la musica qua dentro?” “una cifra” gli risponde una detenuta nel filmato in bianco e nero che introduce l’incontro con stampa e detenuti. Il video che compare sullo schermo davanti all’ingresso del 4° raggio vede Ghali ripercorre con le testimonianze di Karim, di Veruska di altri detenuti, storie che avrebbero potuto essere pure la sua se la musica e i casi se la vita non avessero deciso diversamente. “Cosa vorresti dire a chi sta fuori” incalza lui con Elisa. “Fermati e pensaci”. Saluzzo (Cn): “Ri-comincio da me”, cortometraggio ispirato alla lettera di un detenuto targatocn.it, 15 marzo 2019 La “prima” del cortometraggio per la regia di Simona Sanmartino al liceo Bodoni. In evidenza la riflessione sul ricominciare un’altra vita dopo l’errore. “Ri-comincio da me”: il titolo del “corto” firmato da Simona Sanmartino, presentato martedì 12 marzo nell’aula Magna del liceo Bodoni, è la traiettoria verso la libertà e una ripartenza che “Alberto”, nome di fantasia di un detenuto del carcere Morandi, ha già intrapreso. Era anonimamente in sala, tra il pubblico alla “prima”. Chissà se si è riconosciuto nella storia dove esserne stato l’ispiratore, grazie ad una lettera autobiografica (è stata letta in sala) con la quale ha vinto il concorso “indelebili” dell’Associazione For Family e il relativo premio che ha tradotto il suo testo in cortometraggio. Ora lavora esternamente alla casa penale e fa volontariato: la sua nuova possibilità dopo l’errore, esemplifica il messaggio a cui mira il lavoro della regista. Nei 20 minuti del film che ha creato emozione, si racconta la confessione di un uomo, rapinatore seriale di istituti bancari che si fingeva impiegato in una concessionaria d’auto e che, dal carcere dopo l’arresto per lui quasi fatale, scrive alla donna che ha amato, Martina all’oscuro di tutto, raccontandole la verità e chiedendole perdono. “Entrando nella doppia vita di quest’uomo ho voluto fare una introspezione psicologica dando evidenza ai sentimenti profondi e prevalenti in questa situazione, alla sua angoscia, al suo essere terrorizzato dietro le sbarre e alla volontà di ritrovare sé stesso, l’autostima che ti rimette in moto dopo l’errore- afferma Simona Sanmartino, alla sua prima esperienza cinematografica da regista, insegnante al liceo Bodoni. “Mi auguro di poter presentare il lavoro a scuole ed associazioni, per creare occasioni di riflessione”. E’ sempre importante e utile portare “fuori” la realtà del carcere per farne parlare, le sottolineature di Bruna Chiotti garante comunale nel carcere saluzzese che ha sostenuto la realizzazione del “corto” e del garante regionale Bruno Mellano, presente alla proiezione. Nella panni del rapinatore Matteo Ferreri, attore della “Masca Teatrale” di Fossano e degli “Instabili” di Trinità. La protagonista femminile è invece Monica Giolitti di Busca. Nel cast anche il marito di lei Silvio Oreglia e i due giovani Antonio Crabu e Miriana Arnaudo. Alle riprese cinematografiche Fabio Isoardi e Massimo Aimale di Isofoto (Costigliole), Simona Turina, trucco e parrucco. Le prime scene sono state girate nell’agriturismo “Il nido di Bacco” a Castellar e successivamente a Casa Donatella, alloggio comunale, ex casa del custode, data in gestione all’Associazione Liberi Dentro per offrire ospitalità temporanea a detenuti in permesso premio, lavoro esterno o ai parenti in trasferta per i colloqui. Come set anche la Castiglia, nella sua dimensione di carcere, quale è stato fino al 1992 e dove sono state ultimate le riprese. Il cortometraggio ha il patrocinio del Comune di Saluzzo, la collaborazione della garante comunale del Morandi e di Liberi Dentro. “Sono molto soddisfatta del lavoro - commenta Sanmartino - e del gruppo unito che si è creato, anche grazie all’emozione della storia raccontata”. Vercelli: clown-terapia in Carcere per i figli dei detenuti notiziaoggivercelli.it, 15 marzo 2019 Grazie al Pianeta dei Clown e agli educatori carcerari. Innovativo progetto sociale a Vercelli, rivolto ai genitori che si trovano in carcere, per aiutarli a ridare il sorriso ai loro figli. Una bella iniziativa che si realizza grazie alla collaborazione tra il “Pianeta dei Clown”, organizzazione di volontariato che opera nelle strutture sanitarie della zona, e l’Area Trattamentale della Casa Circondariale di Vercelli, finalizzata alla rieducazione del condannato, nelle persone di Valeria Climaco e Antonietta Pisani, funzionari giuridici pedagogici. Diciannove pionieri - Il gruppo dei volontari del Pianeti dei Clown è composto da 19 pionieri, di cui 10 saranno presenti già il 20 marzo, in occasione della Festa del papà, durante i colloqui con le famiglie. I volontari sono capitanati dalla criminologa e mediatrice familiare e comunitaria Giovanna Ruffin, in arte clown Girandola. Sciopero globale del clima, il giorno dei ragazzi nelle 182 piazze d’Italia di Leonard Berberi e Chiara Sandrucci Corriere della Sera, 15 marzo 2019 Da Torino a Palermo migliaia di studenti scenderanno in strada nell’ambito di “Fridays for Future”, l’iniziativa globale in difesa dell’ambiente. Ecco tutti gli appuntamenti. Sarà un enorme orologio umano in piazza Madonna di Loreto a concludere oggi l’appuntamento romano di “Fridays for Future”, la più grande iniziativa studentesca globale in difesa dell’ambiente. Una delle 182 piazze in Italia (e delle 1.693 città di 196 Paesi) che con orari diversi hanno aderito all’”ondata verde” della 16enne svedese Greta Thunberg. Nella Capitale sono previsti diversi cortei. L’evento clou sarà quello di piazza Madonna di Loreto con gli interventi alle 11 del geologo Mario Tozzi (“unico adulto al quale sarà concesso il microfono”) e di Alice (9 anni), Riccardo (13), Francesca e Martina (18), Luca (20) e Federica (24). Nelle città - Appuntamenti anche a Milano, con il sindaco Beppe Sala che marcerà dalle 11 con la scuola media “Pertini”. Non sarà da meno Torino con tanto di flash mob. A Bologna manifesteranno insieme giovani, prof e famiglie. Eventi simili a Firenze, Napoli, Genova, Venezia, Padova, Trieste, Bari, Palermo, Perugia, L’Aquila, Cagliari e Ancona. Nel capoluogo marchigiano ci sarà un presidio davanti all’Università Politecnica delle Marche dove i giovani vogliono contestare la visita del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti che l’altro giorno ha spiegato come “venerdì si andrà a scuola regolarmente”. Il ministro Bussetti - Il ministro, con un post su Facebook, ha voluto fare chiarezza. Apprezzando i motivi della manifestazione, ma replicando alle associazioni che l’hanno preso di mira. “Mi accusano di aver detto che gli studenti non devono manifestare, che domani devono andare a scuola - ha scritto. Come ministro ho solo confermato, non potrei fare altrimenti, che domani (oggi, ndr) le lezioni si svolgeranno regolarmente. Si tratta di un servizio pubblico che è mio dovere garantire”. Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale dei presidi, la pensa come Bussetti. “L’attenzione sui cambiamenti climatici deve essere massima”, ragiona. “Ma non capisco come possano dei 15enni pensare di invertire questa rotta dannosa scendendo in piazza: avrebbe più senso che il dibattito si svolgesse tra i banchi”. Altrimenti, sottolinea, “mi viene il sospetto che serva solo per marinare le lezioni”. I presidi - Il fronte dei dirigenti scolastici non è unito. A Bologna il preside del Scientifico Copernico, Roberto Fiorini, chiederà la giustificazione, ma senza contarla come assenza. Al liceo Russell di Roma la partecipazione sarà giustificata, al Mamiani non scatterà l’assenza se studenti e insegnanti usciranno insieme. Per quattro dirigenti di Torino - Umberto I, Cavour, Berti ed Einstein - oggi sarà giorno di “assenza giustificata”. Giulia Guglielmini, preside del Convitto Umberto I, ha organizzato una giornata di co-gestione. Gli studenti del liceo entreranno alle 8, poi andranno al corteo come assenti giustificati. “Sarò presente anch’io alla marcia perché coinvolge la scuola, dato che alcuni nostri studenti parleranno dal palco - dice la dirigente -. E poi per capirli da vicino. Già solo il fatto che se ne stia parlando tanto mi sembra un grande risultato”. “Essere a fianco degli studenti in queste richieste così importanti è fare scuola, è questa la scuola che intendo - continua. Oggi è bene ascoltarli, è importante capire cosa ci dicono e come lo dicono”. Manconi (Unar): “C’è un’Italia che rifiuta il razzismo” adnkronos.com, 15 marzo 2019 Dal 18 marzo eventi e iniziative coinvolgeranno il mondo della scuola, delle università, dello sport e delle associazioni. “La manifestazione di Milano ha dimostrato che esiste una parte ampia della società che, sotterraneamente e silenziosamente, rifiuta l’intolleranza e la politica della discriminazione. Con la Settimana contro il razzismo, Unar vuol riprendere questo messaggio e diffonderlo attraverso iniziative che valorizzino la memoria, la possibilità della convivenza pacifica, il contributo culturale che gli stranieri - in particolare le nuove generazioni, tra essi - possono dare al nostro Paese”. Lo dice all’Adnkronos Luigi Manconi, direttore dell’Unar, lanciando così la ‘Settimana di azione contro il razzismo’ (dal 18 marzo), che come ogni anno viene organizzata in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali che si celebra il 21 marzo. Quest’anno il tradizionale appuntamento sarà prolungato nel tempo: al posto di una sola settimana, le iniziative si protrarranno lungo tutto il mese di marzo, che coinvolgerà il mondo della scuola, delle università, dello sport e delle associazioni. L’offerta culturale è stata resa ancora più ampia e diversificata e, oltre ai numerosi eventi territoriali, è previsto il lancio di una campagna di informazione dal titolo “Diversi perché unici” e di uno spot, che andrà in onda sulle reti Rai. L’obiettivo è quello di diffondere un messaggio di rispetto e tolleranza della diversità, di contrasto nei confronti di ogni forma di discriminazione e di sostegno attivo alle vittime. Si prevede, inoltre, l’avvio di una campagna sui canali social dell’Unar, così da raggiungere anche il pubblico dei più giovani. Ufficialmente la settimana prenderà il via lunedì 18 marzo alle ore 15 a Roma presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Via S. Maria in Via, 37 con la conferenza ‘Testimoni’. Gli ospiti come Roberto Piperno, la famiglia Spinelli, Fabio Ciconte e l’Orchestra dei Braccianti di Terra! racconteranno storie di persecuzione e discriminazione legate ai temi della Shoah, del Porrajmos e del caporalato bracciantile. I testimonial saranno intervistati da Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio3. L’evento si concluderà con l’intervento di Fabio Ciconte, Direttore dell’Associazione ambientalista Terra!, e con il concerto dell’Orchestra dei Braccianti, formata da 15 musicisti e lavoratori agricoli provenienti da Italia, India, Gambia, Ghana, Senegal, Nigeria, Libia, Tunisia, Francia. Molti di loro hanno conosciuto la piaga del caporalato bracciantile e alcuni vivono ancora nel ghetto di Borgo Mezzanone, a Foggia. Il 20 marzo alle ore 10.30 a Roma presso la Città dell’Altra Economia, si aprirà la due giorni del Festival sulla cultura italiana di origine straniera ‘A ciascuno piace l’altro’, dedicato alla presenza degli immigrati di seconda generazione sul territorio nazionale, con particolare attenzione alla loro produzione culturale. Il progetto ha come fine quello di diffondere la conoscenza di quella parte di cultura italiana garantita da autori, registi, storici, attori, musicisti di origine straniera in modo da poter promuovere un contesto di pacifica convivenza e sempre maggiore integrazione all’interno della società nazionale. Le due giornate e si snoderanno attraverso un ricco calendario: le mattine saranno dedicate alle classi di alcuni istituti superiori, che potranno partecipare a laboratori di scrittura giornalistica, di sceneggiatura, di scrittura narrativa, e rap. Tra le attività anche una passeggiata sul rimosso coloniale che prevede il racconto orale di alcuni testimoni dell’esperienza migratoria. Nel corso dei pomeriggio si svolgeranno, invece, tavole rotonde aperte al pubblico sui temi legati ai vari aspetti della vita, culturale e non, delle seconde generazioni, con la presenza di professionisti del mondo del giornalismo, della letteratura, del teatro e ancora con storici, intellettuali ed esperti dei fenomeni discriminatori e delle strategie di inclusione. Interverranno tra gli altri Luigi Manconi direttore dell’Unar, Goffredo Fofi, giornalista, saggista e critico cinematografico, letterario e teatrale Jonis Bascir attore, compositore e musicista, Jean Claude giornalista, Mohamed Hossameldin regista il cui ultimo lavoro è il cortometraggio ‘Yousef’ (2018), Brahim Maarad giornalista, il rapper Daniele Vitrone, in arte Diamante. La serata di mercoledì 20 marzo a partire dalle ore 21 sarà animata dallo spettacolo teatrale aperto al pubblico, ‘Albania Casa Mia’ presentato dal regista Paolo Virzì. Il 21 marzo invece a partire dalle 21 vedrà l’esibizione dei ‘QuadraCoro’ coro amatoriale che nasce da un progetto musicale e di inclusione sociale e l’esibizione de ‘La Piccola Orchestra di Tor Pignattara’ nata per mettere insieme ragazzi con radici in diversi paesi del mondo con l’unico obiettivo di fare musica e di cercare un proprio sound e vincitore del premio MigrArti 2018. Il 22 marzo alle 17.30 a Roma, presso il campo sportivo della S.S. Romulea in via Farsalo n.21 ci sarà l’incontro calcistico aperto al pubblico ‘In gioco contro il razzismo’ tra le squadre Liberi Nantes e Montespaccato Savoia e patrocinato dalla Regione Lazio. La prima è un’associazione sportiva, riconosciuta dall’Unhcr, che promuove e garantisce l’accesso allo sport ai rifugiati e ai richiedenti asilo politico. Il Montespaccato Savoia invece è una società dilettantistica senza scopo di lucro che svolge attività sportiva in uno dei territori più fragili della Capitale. Gli atleti coinvolti, infatti, sono circa 600 giovani che risiedono in un quartiere romano connotato da un forte disagio economico e sociale. La polisportiva, nel luglio del 2018, è stata sequestrata per reati di mafia e affidata poi all’Asilo Savoia. Una gara, dunque, tra due realtà sorte per restituire speranza a giovani in difficoltà, per educarli alla reciprocità e per trasmettere loro i valori di una cittadinanza attiva che accoglie e che sostiene. All’evento parteciperanno Luigi Manconi, Roberto Tavani- Delegato allo sport della Regione Lazio, Daniele Frongia - Assessore Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi del Comune di Roma, Alberto Urbinati - Presidente della Liberi Nantes Asd, Massimiliano Monnanni - Presidente del Montespaccato Savoia e dell’Ipab Opera Pia Asilo Savoia e Nicola Vilella - Presidente della Società Sportiva Romulea. Sono stati inoltre inviati, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti ed alcuni calciatori della A.S. Roma, da cui si attendono conferme. Antisemitismo. Oltre la linea rossa dell’intolleranza di Lia Tagliacozzo Il Manifesto, 15 marzo 2019 “Sette milioni di italiani non nascondono più il loro antisemitismo”. Lo sdoganamento dell’odio preoccupa gli ebrei italiani. C’è un interrogativo antico che percorre di nuovo l’ebraismo italiano: la linea rossa dell’antisemitismo è già stata superata? Quando si guarda al passato è facile identificare eventi periodizzanti che dividono il corso della storia in un prima e in un dopo. E’ facile definire che le leggi razziali iniziate nel settembre del 1938 siano state un passaggio irreversibile, oggi l’impressione è di stare in mezzo al guado: da un lato lo sforzo di dare fiducia alla democrazia italiana e alla sua società civile dall’altro l’impressione crescente che la linea rossa, il confine invisibile, sia stato varcato. L’ebraismo italiano si guarda intorno con preoccupazione e le sfumature di questa inquietudine riguardano proprio la prossimità della linea rossa: “Ci sono sette milioni di nostri concittadini che non esitano a definirsi antisemiti - spiega Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea e autore di “Antisemitismo” (casa editrice Biliografica) - La differenza è che prima non lo dicevano e adesso invece lo rivendicano. Più che un aumento dell’antisemitismo c’è la sua emersione”. I dati, d’altro canto, confermano le preoccupazioni. La Relazione annuale sull’antisemitismo in Italia l’Osservatorio antisemitismo del Cdec di Milano rileva il riproporsi di temi arcaici contro gli ebrei, il “nuovo” antisemitismo sul web, il ritorno del linguaggio nazista. 130 gli episodi censiti nel 2018 e 2017 ma i dati per il 2019 giustificano il nuovo allarme: “A gennaio e febbraio - osserva Betti Guetta, ricercatrice - siamo già a 46 episodi censiti a fronte dei 27 dell’anno scorso e dei 23 del 2017. Si tratta soprattutto di episodi rilevati sul web a cui si aggiungono però sei insulti, due aggressioni fisiche e una minaccia alle persone”. “E’ proprio quello che vogliono - commenta Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma - rinchiuderci nella paura ma noi non dobbiamo far passare nulla. La situazione di allarme è innegabile ma non solo per il mondo ebraico, per l’intera società civile”. Le strategie per affrontare il clima sono molte, alcune di lunghissimo periodo: “Si tratta di considerare la cultura ebraica - spiega Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, l’organo rappresentativo a livello nazionale - parte integrante della cultura italiana: se siamo un segmento culturale integrato e riconosciuto non si tratta più di difendere gli ebrei ma di difendere la cultura italiana nel suo insieme. Forse è utopistico ma credo sia un obbiettivo importante”. A rispondere alle sollecitazioni è intanto il rabbino capo di Firenze Amedeo Spagnoletto: “E’ necessario essere molto chiari: nella nostra città chiunque tocchi anche solo un capello a qualcuno per un crimine di odio riceverà una risposta compatta e concorde - racconta da una realtà dove gli incontri tra il rabbino, l’imam e la diocesi sono frequenti - Se qualcuno subisce qualcosa, può starne certo, gli altri interverranno per lui”. Ma l’inquietudine di una minoranza presente in Italia da oltre due millenni, i cui testimoni dello sterminio nazifascista sono ancora vivi e impegnati a parlare nelle scuole di tutta Italia, è forte. Le parole di odio, i toni aggressivi verso tutti ‘i diversi’ turbano i sonni di molti. La parola “sdoganamento” compare di frequente: “C’è preoccupazione per la caduta di tanti paletti su cui si fonda la convivenza civile e democratica - spiega Stefano, cinquantaquattro anni - C’è una crescita dell’odio utilizzato come strumento per ottenere consenso”. “Si colpisce chi è diverso - si interroga Aron, 18 anni - ma come è possibile che un ragazzo, dopo quello che è successo in un paese che è stato protagonista del fascismo, non sappia niente?”. Cercare di raccontare l’attualità è una rincorsa costante e l’impressione che la linea rossa sia stata oltrepassata è forte: gli insulti antisemiti sul web alla senatrice Liliana Segre; le manifestazioni dell’estrema destra negazionista; il senatore cinque stelle Lannutti che su twitter cita “I protocolli dei savi anziani di Sion”, uno dei classici dell’antisemitismo non solo del tempo dello zar. Vittorio Feltri che sostiene di “rompersi i coglioni con la Shoah”. Perfino gli ascoltatori della colta Radio tre a proposito di Primo Levi commentano: “basta con questi ebrei” e “dovete fare cultura, non politica”. Evidentemente le sensibilità sono cambiate anche in ambienti insospettabili. La linea rossa in realtà appare un inquietante territorio di confine in cui si mescolano molte cose diverse: “E’ importante distinguere - spiega Guetta - tra i pregiudizi antiebraici intesi come opinioni, luoghi comuni e stereotipi, e antisemitismo attivo con un attitudine ad agire fatta di azioni, minacce, e insulti interna ad una specifica posizione ideologica”. Così, se le azioni violente di ostilità antiebraica contraddistinguono determinati gruppi politici, il pregiudizio è invece trasversale alle appartenenze ideologiche e sociali. Guetta non ha dubbi “più ci si allontana dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah, lo sterminio degli ebrei, più il tabù dell’antisemitismo viene superato. Oggi poi c’è un aggravante: la straordinaria diffusione dell’utilizzo del web come fonte di informazione fonda un immaginario dell’ebreo anche presso persone che non ne sanno niente”. Sono cambiati però attori e accenti. In alcuni casi si tratta della riproposizione degli stereotipi classici dell’antigiudaismo cattolico anche se Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, sostiene che “nella maggior parte dei casi credo che la Chiesa abbia abbandonato il secolare insegnamento del disprezzo mentre in alcuni situazioni, marginali, ho qualche dubbio”. In altre situazioni si tratta di stereotipi più moderni e rilevati spesso in relazione a ciò che accade in Israele da una parte e alla banalizzazione della Shoah dall’altra. Il negazionismo resta patrimonio dei neonazisti mentre la banalizzazione della Shoah attraversa anche gruppi non militanti e rischia di diventare parte di un senso comune diffuso. Diverso è il discorso per quel che riguarda la critica ad Israele: “Quando si parla del conflitto israelo-palestinesi a volte si usano linguaggi e stereotipi dell’antisemitismo - spiega Gadi Luzzatto Voghera - Il sionismo diviene la rappresentazione dell’imperialismo finanziario occidentale comunque strumento dell’America”. L’analisi dell’Osservatorio riguarda, per esempio, vignette e slogan: “Noi non abbiamo definito il Movimento boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come antisemita ma quando si va su alcune pagine web - spiega Guetta - le matrici delle immagini sono la rappresentazione di stereotipi antisemiti. Il pozzo da cui pescano e le immagini che usano sono spesso molto gravi”. L’ebraismo italiano non è il solo a denunciare il clima di intolleranza crescente: “La violenza verbale e politica è stata sdoganata da personalità eminenti - spiega Luzzatto Voghera - così anche se dove c’è razzismo c’è antisemitismo penso che siano due cose separate, rispondono infatti a genesi e percorsi diversi. Per adesso essere antisemiti non fa vincere le elezioni mentre essere razzisti si”. “Sull’ebreo c’è un immaginario specifico - aggiunge Guetta - Sostenere che gli ebrei siano tutti ricchi o che hanno tutto il potere sono stereotipi sedimentati da decenni”. In questo periodo il fronte cospirativista ha ripreso particolare vigore nel tentare di spiegare gli eventi come il risultato delle azioni di un piccolo gruppo potente che vuole promuovere un programma sinistro, riguarda gli ebrei ma non solo. Il territorio definito dal filo rosso contiene preoccupazioni e amarezze: “Sono preoccupata - spiega Giordana, cinquanta anni - perché non ci si vergogna più”. “Oggi mi rendo conto - aggiunge Claudia, cinquanta anni anche lei - che vivevo nell’illusione che nel dopoguerra fosse cambiato qualcosa”. Per Alberto, cinquantacinque anni, “per un certo periodo abbiamo visto in pochi il fascismo che stava nelle istituzioni invece oggi dichiararsi fascisti è diventato normale”. Sul ruolo che le istituzioni ebraiche debbono avere sono tutti concordi: “Si tratta di monitorare ciò che succede - spiega il rabbino Riccardo Di Segni - segnalare alla autorità competenti, dare l’allarme se necessario e tranquillizzare quando non c’è motivo di preoccupazione”. “I governi e le forze di polizia - aggiunge Dureghello - soprattutto dopo l’attentato palestinese del 1982 non hanno mai fatto passi indietro nella volontà di proteggere le istituzioni ebraiche”. Il corollario di molte interviste è che comunque “l’Italia non è la Francia” ma qualcuno teme comunque “la globalizzazione che avanza anche su questo”. A proporre una commissione parlamentare bicamerale che vigili sui “fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche” è la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio, ma la calendarizzazione della discussione è ancora di là da venire e, con questa maggioranza, sarà una vera sfida. Nell’attesa la strategia dell’Unione delle comunità è pragmatica: la conoscenza della cultura ebraica. Per esempio: una commissione congiunta con la Cei sta analizzando i libri scolastici adottati nelle scuole cattoliche e quelli per l’ora di religione mentre un’altra, indipendente, lavora sui testi di storia e geografia: “Di solito - spiega Noemi Di Segni - si passa dall’antichità alla Shoah senza nulla in mezzo. Sul campione che abbiamo analizzato si nota che c’è un appiattimento molto forte. Per i più piccoli si tratta invece di insegnare la convivenza, le feste degli ‘altri’, il cibo, i valori”. Intanto i dati di frequenza dei musei ebraici fanno ben sperare: a Ferrara i visitatori del Museo Nazionale della Shoah e dell’ebraismo italiano sono stati 30mila di cui il 40 per cento sono scolaresche. Anche a Roma sia il Museo della Shoah che il Museo ebraico accolgono decine di migliaia di visitatori con una forte percentuale di studenti. A Milano invece la Fondazione Binario 21, il luogo da cui tra il 1943 e il 1945 partirono 23 treni diretti ad Auschwitz e ad altri campi di sterminio, si è aperta a nuove esperienze: “Dall’antisemitismo - spiega Marco Vigevani, agente letterario e ideatore del programma ‘Premesso che non sono razzista…’ - ci siamo allargati a tutti i problemi dell’intolleranza della società di oggi e abbiamo inserito anche iniziative dedicate all’eredità del colonialismo, al razzismo, a tutti i sintomi morbosi che si aggirano oggi per l’Europa. La nostra chiave è mantenere la specificità senza isolarla, deve essere una chiave che apre e che fa capire meglio”. Per l’Unione un altro settore prioritario è la formazione specialistica di chi ha responsabilità pubbliche: docenti, magistrati, giornalisti, operatori della cultura. “E poi - prosegue Di Segni - si tratta di ragionare in che modo affinare l’insieme di strumenti normativi che ancora non esistono. Non è detto che reprimere sia sempre la cosa migliore ma ragionare su questi temi fa parte del lavoro necessario. E’ importante sottolineare che non bisogna cadere in una trappola - prosegue allontanando la linea rossa almeno un po’ - in Italia ci sono persone che fanno un lavoro enorme e commovente: insegnanti, amministratori locali, società civile, bisogna mantenere con loro una progettualità positiva. C’è un’Italia bella che bisogna riconoscere”. Migranti. Protezione umanitaria, il Viminale denuncia il proprio errore di Vladimiro Polchi La Repubblica, 15 marzo 2019 L’apparente “capriola” delle commissioni territoriali frutto, secondo il ministero dell’Interno, di un errore di caricamento dei dati ufficiali. Bentornata protezione umanitaria. Nonostante il decreto Salvini l’abbia cancellata, le commissioni per l’asilo riprendono a concederla. Clamoroso il dato dell’ultimo mese: i rifugiati che ottengono un permesso umanitario passano dal 2% di gennaio al 28% di febbraio 2019. Tradotto in numeri: erano solo 150 a gennaio sono schizzati a 1.821 il mese dopo. Almeno a stare al cruscotto statistico ufficiale del Viminale, pubblicato on line sul sito del ministero. Ma nel tardo pomeriggio di ieri, in seguito all’articolo di Repubblica, dal ministero dell’Interno correggono il dato e denunciano un proprio errore di caricamento: le nuove concessioni stando al nuovo dato sarebbero invece ferme a quota 112. Decreto sicurezza: un passo indietro. Il 5 ottobre 2018 è entrato in vigore il decreto sicurezza che tra l’altro abolisce il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da quel momento le commissioni per l’asilo hanno cominciato a stringere sulle concessioni, di fatto azzerandole. Due esempi: a dicembre solo il 3% dei richiedenti asilo ha ottenuto la protezione umanitaria, il 2% il mese dopo. Poi è successo qualcosa. Sentenza della Cassazione. Il 19 febbraio è stata depositata la sentenza della Corte di Cassazione: i giudici hanno riconosciuto che l’abrogazione del permesso per motivi umanitari voluta dal governo riguarda solamente coloro che hanno fatto domanda di asilo dopo il 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del provvedimento. Da qui l’apparente “capriola” delle commissioni territoriali. Stando infatti ai primi dati pubblicati online dal Viminale, degli oltre seimila richiedenti asilo esaminati a febbraio, 425 hanno ottenuto lo status di rifugiati, 274 la protezione sussidiaria e ben 1.821 (il 28%) l’umanitaria. Un dato clamoroso. Frutto però, stando alla correzione successiva del Viminale, di un errore di caricamento dei dati ufficiali. Droghe. La cocaina dilaga ma non sveglia Vienna di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 marzo 2019 Commission on Narcotic Drugs. Nella capitale austriaca i governi riuniti dall’Onu perseverano con vecchie politiche proibizioniste sulle droghe. Amsterdam e Bristol al top della classifica stilata analizzando le acque reflue. Tra il centinaio di ministri e capi di Stato riuniti da ieri a Vienna per il Segmento ministeriale di alto livello che anticipa la 62esima sessione della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) dell’Onu, manca l’Italia. E forse “non è una cattiva notizia”, come fa notare Fuoriluogo ricordando i precedenti del 2009 quando il governo Berlusconi “ruppe il fronte riformista europeo” e le recenti affermazioni del vicepremier Salvini che - almeno a parole - cavalca la linea iper proibizionista del ministro alla Famiglia delegato alle Droghe, Lorenzo Fontana. Eppure passi avanti non se ne sono visti, in questa sessione di lavori, che ogni cinque anni si prefigge lo scopo di fare il punto sul controllo mondiale delle droghe, aperta ieri dal video messaggio del Segretario generale António Guterres e che ha visto la partecipazione tra gli altri del presidente della Bolivia Evo Morales. Il documento (adottato all’inizio del dibattito, anziché alla fine) messo a punto nei mesi scorsi in seguito ad intensi negoziati, “ripete automaticamente formule diplomatiche che si contraddicono tra loro - afferma il radicale Marco Perduca, presente a Vienna per conto dell’Associazione Luca Coscioni -. È un contesto ristretto in cui nessuno si azzarda a criticare radicalmente l’impianto proibizionista derivante dalle tre Convenzioni Onu sugli stupefacenti, quella del 1961, del ‘71 e dell’88, che hanno portato alla concezione delle “tabelle” dentro le quali finiscono, nelle leggi nazionali, piante e sostanze da proibire molto diverse tra loro”. Una dichiarazione politica che sembra affermare tutto e il suo contrario: “Conferma la centralità immodificabile delle tre Convenzioni Onu, pur concedendo una certa flessibilità nella loro applicazione - sintetizza Perduca; riconosce la necessità di promuovere politiche sulle droghe che si basino sul rispetto dei diritti umani, senza però condannare l’uso della pena di morte; sostiene l’accesso alle medicine essenziali, alcune delle quali prodotte con piante proibite, come la morfina, ma nonostante ciò promuove il rafforzamento dei controlli per impedirne il commercio nel mercato “ricreativo”, compresa la cannabis che è sempre più prescrivibile per vari tipi di terapie”. Della stessa opinione è Fuoriluogo, il portale di Forum Droghe, che ricorda come nell’ultimo decennio ci sia stato “un aumento del 31% nel numero di persone che usano droghe e un aumento senza precedenti nella coltivazione dell’oppio e della coca”, e di come anche il crimine organizzato sia “fiorito, con il commercio di droghe illecite valutato tra i 426 e i 652 miliardi di dollari”. Eppure il Segmento ministeriale della Cnd non è certo un monolite: se da un lato sembrano vincere le posizioni più proibizioniste e repressive della Russia e dei Paesi africani ed asiatici, dall’altra prendono sempre più piede gli approcci raziocinanti della Bolivia di Morales, di alcuni Stati americani ed europei e dalla stessa Commissione europea che insistono sulla linea della riduzione del danno e della proporzionalità delle pene. Non è un caso, fa notare Fuoriluogo, che in contrasto con il documento politico finale un gruppo di lavoro interistituzionale dell’Onu abbia pubblicato proprio ieri un rapporto secondo il quale “le politiche punitive sulla droga continuano ad essere utilizzate in alcune comunità, nonostante siano inefficaci nel ridurre il traffico di droga o nell’affrontare l’uso e l’offerta di droghe non mediche, e continuano a minare i diritti umani e il benessere delle persone che fanno uso di sostanze, nonché delle loro famiglie e comunità”. E a certificare la diffusione di stupefacenti nelle capitali europee è il rapporto presentato ieri a Vienna dal gruppo europeo Score che, in collaborazione con l’agenzia europea delle droghe (Oedt), ha analizzato nel marzo 2018 le acque reflue di 73 città in 20 Paesi europei per monitorare in un campione di circa 46 milioni di persone i consumi di quattro sostanze: amfetamina, cocaina, Mdma (ecstasy) e metamfetamina. Uno studio che pur non essendo considerato da tutti gli esperti completamente affidabile - in quanto non analizza, ad esempio, i territori fuori dai grandi agglomerati urbani - in ogni caso restituisce una fotografia generale dell’uso di certe sostanze. Secondo Score (che dal 2011 monitora le acque reflue), si nota un aumento dei consumi rispetto al 2017. In particolare al top della “classifica” per la cocaina ci sono Bristol (con 970 mg ogni 1000 persone), Amsterdam (dove il consumo di cannabis è tollerato, con 932 mg ogni mille abitanti), Zurigo (856 mg), Anversa (771 mg) e Barcellona (733 mg). In Italia si distingue Bolzano (392 mg) che supera Milano (362 mg). Il capoluogo lombardo, invece, assieme a Parigi, Bordeaux e Madrid è in fondo alla “classifica” per le amfetamine. Da notare che, spiega Score, “i livelli di cocaina e Mdma aumentano bruscamente nei fine settimana nella maggior parte delle città”, il che “suggerisce un uso ricreativo, mentre in precedenza le tracce sembravano essere distribuite più uniformemente durante la settimana. I carichi di metamfetamina sono invece distribuiti uniformemente durante la settimana”. Egitto. “Malak violentata in cella”. La guerra anti-Lgbt di al-Sisi di Pino Dragoni Il Manifesto, 15 marzo 2019 Il caso della giovane trans accende i riflettori sull’omofobia e la repressione del Cairo: dal golpe del 2013 al 2017 sono quintuplicati arresti e condanne per “promiscuità”. Cresce la preoccupazione per Malak al-Kashif, la 19enne transessuale arrestata il 6 marzo al Cairo, nell’ambito di una vasta campagna di arresti arbitrari seguiti al tragico incidente ferroviario di Ramses. Al-Kashif, la cui detenzione è stata prorogata di 15 giorni dalla Procura della Sicurezza di Stato, sarebbe stata vittima di violenze sessuali e avrebbe subito quello che in Egitto è noto come “test anale” a opera del personale sanitario di un ospedale pubblico. A denunciarlo è la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, che ha fatto appello al ministero dell’interno affinché metta fine al “trattamento disumano” a cui è sottoposta, definendolo una forma di tortura. La ragazza, che meno di un anno fa aveva tentato il suicidio, in prigione è privata delle cure mediche necessarie al suo stato di salute (fisico e psicologico) ancora molto fragile. La brutale pratica dei cosiddetti test anali è stata ripetutamente condannata dalle organizzazioni per i diritti umani egiziane e internazionali, ma continua a essere comunemente esercitata dalle autorità mediche egiziane nel caso di arresti di persone omosessuali, trans o presunte tali. Basata su teorie ottocentesche ampiamente smentite dalla comunità scientifica, la pratica servirebbe ad appurare la “abituale condotta omosessuale” della persona arrestata. Di fatto, costituisce una violenta e ingiustificata violazione del corpo del detenuto, imposta arbitrariamente senza possibilità che quest’ultimo possa rifiutarla. Al-Kashif e la gran parte delle altre persone arrestate nell’ultima ondata repressiva (per lo più giovani sotto i 20 anni, senza alcun passato di attivismo), sono finite nell’inchiesta 1739/2018, con le accuse di partecipazione a organizzazione illegale e diffusione di notizie false. Capi di imputazione che niente hanno a che fare con le scelte sessuali degli imputati. In Egitto l’omosessualità non è esplicitamente un reato, ma è di fatto criminalizzata con l’uso sistematico di una legge del 1961 sulla prostituzione che punisce la “promiscuità”. Il primo clamoroso attacco alla libertà sessuale in Egitto fu il rastrellamento nel maggio 2001 della Queen’s Boat, una discoteca sul Nilo abituale ritrovo di una comunità gay egiziana e internazionale, che fino a quel momento (pur sempre nell’ombra) aveva vissuto in relativa tranquillità. Lo storico processo portò alla sbarra 52 uomini egiziani e fu accompagnato da un’imponente campagna diffamatoria della stampa di regime e non solo, “rendendo lo spettro dell’omosessualità visibile - ha scritto l’attivista per i diritti umani Scott Long - in Egitto e nella regione”. Il caso scatenò anche un dibattito nel movimento per i diritti umani egiziano, tra chi riteneva di dover prendere una posizione netta contro l’accaduto e chi preferiva non schierarsi su una battaglia impopolare. Parlare di diritti Lgbt+ in Egitto è tuttora un tabù, ma dal 2001 sono molte le campagne e le organizzazioni che hanno preso parola e avviato un lavoro sistematico sulla questione. La rivoluzione del 2011 ha finalmente aperto uno spazio di dibattito più ampio e vivace, sebbene l’attivismo Lgtb+ abbia comunque preferito mantenere un profilo basso e un approccio informale. Dal colpo di stato dell’estate 2013, insieme all’inasprimento generale della repressione per qualsiasi attività politica e sociale non allineata, anche l’attacco alle persone e comunità Lgbt+ ha avuto un’accelerazione drastica. L’Egyptian Initiative for Personal Rights ha documentato che il numero di persone arrestate e processate annualmente per crimini legati all’omosessualità è quintuplicato tra la fine del 2013 e l’inizio del 2017. Le forze di sicurezza usano abitualmente app di incontri per attirare le persone nella trappola, usando spesso poi le chat come prove in tribunale. Le autorità hanno iniziato a colpire non solo i ritrovi abituali della comunità, ma anche case private in cui si pensa siano ospitate feste gay. I casi ricevono spesso ampia copertura sulla stampa, che non esita a esporre pubblicamente le persone coinvolte e i presunti dettagli scabrosi, associando spesso l’omosessualità al consumo di droghe e ai riti satanici. Agli occhi di molti osservatori questo accanimento si spiega con la necessità di distrarre il pubblico dai problemi economici e politici sempre più gravi. “I gay” sono il diversivo, il capro espiatorio ideale in un paese ancora in gran parte dominato da una cultura omofoba. Ma sarebbe un errore farne una questione di presunta arretratezza culturale. Dopo aver rovesciato il governo islamista, il regime di al-Sisi ha bisogno anche di legittimarsi come protettore della moralità e della religiosità. Il messaggio, ancora una volta, è che nulla può sfuggire al controllo dello Stato. Arabia Saudita. Attiviste a processo, accusate di “contatti con Amnesty International” di giordano stabile La Stampa, 15 marzo 2019 Si è aperto oggi a Riad il processo a 11 attiviste impegnate nella difesa dei diritti delle donne. Sono state arrestate fra il maggio e il giugno dell’anno scorso e accusate di aver agito “per minare la sicurezza e la stabilità dello Stato”, aver “collaborato con soggetti ostili al Regno” e “fornito sostegno finanziario e morale a elementi all’estero”. Le attiviste sono Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan, Aziza al-Yousef, Amal al-Harbi, Ruqayyah al-Mharib, Nouf Abdulziaz, Maya’a al-Zahrani, Shadan al-Anezi, Abir Namankni, Hatoon al-Fassi e un’altra persona di cui non è noto il nome. Nell’udienza di oggi alcune delle imputate sono accusate di aver promosso campagne per i diritti delle donne e aver chiesto la fine del sistema del guardiano maschile. Altre devono rispondere del “reato” di aver contattato organizzazioni internazionali, compresa Amnesty International. “Queste accuse sono l’ultimo esempio di quanto le autorità saudite usino il sistema giudiziario e la legge per ridurre al silenzio le attiviste pacifiche - ha ribattuto Samah Hadid, direttrice delle campagne di Amnesty International sul Medio Oriente. Il processo è un’ulteriore macchia sulla drammatica situazione dei diritti umani nel Paese”. Sulla direzione che prenderà il processo ci sono segnali contrastanti. Al-Hathloul, ha rivelato la sorella Alia, è stata costretta a confessare e a firmare una richiesta di grazia, segno che Re Salman potrebbe farla rilasciare dopo il giudizio, anche perché è pensabile che Riad non voglia aprire un nuovo fronte di polemica con gli Stati Uniti e l’Europa dopo le tensioni seguite all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi lo scorso 2 ottobre. Ma il fratello di Al-Hathloul, Wahlid, ha specificato che il processo si svolge in una sezione speciale del tribunale di Riad, per casi di terrorismo, e quindi si può temere una maggiore severità. La prossima udienza è prevista il 27 marzo. Nicaragua. Il governo annuncia la liberazione di detenuti politici L’Osservatore Romano, 15 marzo 2019 Era stata posta come condizione per riprendere il dialogo con l’opposizione. Il governo del Nicaragua ha annunciato la liberazione di un numero imprecisato di persone detenute per motivi politici. La decisione è stata presa in considerazione della richiesta in tal senso fatta nei giorni scorsi dall’Alleanza civica e democratica, e che era stata posta anche come condizione indispensabile per la ripresa dei negoziati. La piattaforma che racchiude organizzazioni economiche, studentesche e politiche d’opposizione, che da domenica scorsa aveva interrotto ogni trattativa con il governo, da oggi tornerà dunque a sedersi al tavolo del negoziato, con “l’assicurazione che la richiesta di vedere liberati un numero notevole di persone detenute è presa in conto”. L’Alleanza continua a esigere prove indiscutibili della volontà governativa di negoziare una soluzione alla crisi che ha già provocato molti morti e ha portato il Nicaragua alla recessione economica. Nel primo giorno di negoziati, il governo aveva concesso gli arresti domiciliari a un centinaio di prigionieri politici. Una mossa che tuttavia non aveva soddisfatto l’Alleanza, la quale invece richiedeva la loro libertà incondizionata. Attualmente sono più di 600 le persone ancora dietro le sbarre, alcune delle quali avevano avviato nei giorni scorsi lo sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione. Nell’annuncio del governo non si specifica quante di loro verranno scarcerate. Le parti sono arrivate a un accordo - si spiega in un comunicato governativo - dopo una riunione alla quale hanno preso parte il nunzio apostolico Waldemar Stanislaw Sommertag e l’inviato speciale del Segretariato generale dell’Organizzazione degli stati americani, Luis Angel Rosadilla. Il governo ha spiegato che ora i negoziati riprenderanno dal punto esatto in cui si erano interrotti.