“Più immigrati, più crimini efferati”. Niente di più falso di Patrizio Gonnella* rassegna.it, 14 marzo 2019 Non c’è correlazione tra flussi di stranieri in arrivo in Italia e flussi di stranieri che fanno ingresso in carcere. Una politica diretta alle ricongiunzioni familiari avrebbe uno straordinario effetto di deflazione della condizione detentiva. Il mito di Europa, figlia di Agenore, rapita da Zeus, che - assumendo le sembianze di un toro bianco - la portò dalla lontana Fenicia verso l’isola di Creta, è la rappresentazione simbolica del viaggio, dello sconfinamento. La rotta del toro bianco è più o meno la stessa rotta seguita dai profughi siriani. A Creta, Europa mise al mondo i suoi figli. A Lesbo la Grecia detiene in condizioni degradate di vita tra i 7 mila e i 10 mila richiedenti asilo. Creta simboleggia l’Europa che nasce. Lesbo l’Europa che soffre e che fa soffrire. È stata un’Europa timorosa, chiusa in se stessa, rinunciataria nei confronti di politiche di coesione sociale, afflitta da una pericolosa tendenza verso l’egoismo proprietario e identitario, a suggerire ai suoi Stati, sin dalla fine del decennio scorso, una declinazione della questione migratoria in termini di sicurezza pubblica, con accostamenti avventati e ingiustificati al tema della criminalità. Il risultato, in epoca di pericolose ondate nazionalistiche, è un approccio emotivo, irrazionale, disumano. Lo straniero, sempre più, è divenuto il nemico intorno al quale costruire un diritto penale parallelo e privo di quelle garanzie che sono abitualmente assicurate ai criminali ordinari. D’altronde, cos’altro è il sistema della detenzione amministrativa dei migranti sregolata nei contenuti e indeterminata nel tempo - questa è la condizione attuale, per esempio, di 700 mila immigrati in attesa di espulsione negli Stati Uniti d’America - se non una forma di diritto penale parallelo e dunque privo di limiti e cautele giurisdizionali. Chiare sono state le parole di papa Francesco espresse nel 2014 nel descrivere il dramma di un diritto penale che si mette a disposizione delle idee xenofobe: “Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina… Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici”. Nel momento in cui la retorica anti-migratoria è forte e viene urlata con toni identitari, escludenti, discriminatori, non saranno gli argomenti razionali di tipo economico, finanziario, demografico, previdenziale a scalfirla. Anzi, questi rischiano di rafforzarla. Al cittadino impaurito, nonché pronto ad alimentare una tendenza diffusa alla xenofobia, interessa poco il motivo per cui la persona è immigrata, e non è confortato dall’idea che lo straniero (ancor più se di colore) possa compensare il calo delle nascite. Dunque, ad argomenti irrazionali e identitari vanno contrapposti argomenti di principio, i quali sono: l’universalità dei diritti, tra i quali va incluso il diritto alla libertà di movimento, e la loro fondazione sulla dignità umana, la quale non è nella disponibilità di nessun governante. Il migrante come nemico non ha fondatezza giuridica. Il migrante come criminale è un declino post-lombrosiano della cultura politica oggi dominante. Esso è una costruzione artificiosa del diritto in evidente distonia con il principio dell’offensività penale. I dati riguardanti gli stranieri che commettono reati diversi da quelli di mero status (ossia il delitto di immigrazione irregolare laddove presente negli ordinamenti giuridici interni), qualora letti in modo dinamico e appropriato, contribuiscono a decostruire letture distorte e stereotipate. Uno sguardo alle vicende italiane è paradigmatico. Non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere. Uno sguardo diacronico nel tempo aiuta la riflessione. Rapporto tra stranieri residenti e stranieri detenuti - Il primo stereotipo da cancellare è il seguente: aumenta il numero degli immigrati residenti in Italia e di conseguenza aumenta quello dei criminali. Falso. Negli ultimi 15 anni, a partire dal 2003, alla più che triplicazione degli stranieri residenti in Italia è seguita, in termini percentuali, una riduzione di quasi tre volte del loro tasso di detenzione. Un dato straordinario in termini di integrazione e sicurezza collettiva. Il secondo stereotipo da cancellare è il seguente: gli stranieri commettono i crimini più efferati. Falso. Gli stranieri sono l’1,1% dei detenuti in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso e, in percentuale, commettono meno delitti contro la persona rispetto alla loro rappresentanza generale della popolazione detenuta. Di converso, gli stranieri costituiscono il 38,9% dei detenuti in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti. Cancellato questo doppio stereotipo si potrebbe costruire una più saggia politica di prevenzione criminale, partendo dall’analisi dei dati di flusso. I rumeni per vari anni sono stati considerati il pericolo primo delle nostre città, con generalizzazioni e stigmatizzazioni. La storia della loro comunità nel nostro Paese evidenzia come il tempo aiuti l’integrazione socio-lavorativa e di conseguenza riduca i rischi di effettuare scelte delittuose. Il patto di legalità ha pienamente funzionato per la comunità rumena (così come per quella albanese): all’aumentare della presenza quantitativa di cittadini romeni in Italia, è diminuita nettamente, sia in termini assoluti che percentuali, la presenza di detenuti romeni nelle nostre prigioni. I cittadini italiani residenti in Italia sono circa 55 milioni. I detenuti italiani ristretti nelle nostre carceri sono 38.412. Il tasso di detenzione degli italiani è dello 0,06%, superiore a quello di alcune comunità straniere, a cominciare da quella filippina. Quest’ultima merita un’attenzione specifica e introduce un ulteriore concetto nel dibattito criminologico e sociologico sull’immigrazione, ossia quello di fiducia. La comunità filippina è, a differenza di altre nazionalità (si pensi a quella tunisina, molto presente nelle carceri e composta al 62% da uomini), prevalentemente costituita da donne. E le donne hanno in generale un tasso di detenzione bassissimo, ossia intorno al 5%. Una politica diretta alle ricongiunzioni familiari avrebbe dunque uno straordinario effetto di deflazione carceraria. La società, in tutte le sue articolazioni, ivi comprese quelle istituzionali e giudiziarie, mostra nei confronti delle donne un tasso di fiducia umana maggiore che a sua volta aiuta a comprimere le tensioni discriminatorie. Una maggiore presenza delle donne è dunque un’efficace politica di sicurezza pubblica. Chiunque sia straniero in una nazione lontana ha più difficoltà a integrarsi per oggettive condizioni di vita, per lo sradicamento dai propri affetti, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di opportunità formative, educative o sociali per il gap linguistico. Man mano che passa il tempo dal suo insediamento in Italia, una comunità esprime un minor numero di detenuti al proprio interno. Ciò accade in quanto quella comunità diventa parte integrante dell’economia e della società italiana. Aumenta la fiducia nei suoi confronti. Di conseguenza diminuisce il rischio per i suoi membri di finire in carcere. Gli ucraini hanno un tasso di detenzione più o meno identico a quello degli italiani. Poco superiore è il tasso di detenzione di moldavi, romeni, etiopi, ungheresi. L’amministrazione penitenziaria non censisce la condizione di regolarità o meno degli stranieri detenuti. Questi compongono dunque un indistinto contenitore pari a circa il 34% della popolazione detenuta. Si dirà che vi è un gap significativo rispetto all’8% degli stranieri liberi presenti in Italia. Ossia in carcere vi è una loro sovra-rappresentazione. Ma se guardiamo agli stranieri regolari presenti negli istituti penitenziari italiani la percentuale si riduce drasticamente, ritornando a dati fisiologici. Dunque, un’eventuale regolarizzazione sarebbe funzionale alla sicurezza del paese. Per spiegare la maggiore presenza degli stranieri nelle prigioni va detto che nei loro confronti vi è un uso più massivo della custodia cautelare in carcere e una minore concessione di misure alternative a causa di minori disponibilità economiche, linguistiche, tecniche, sociali. Ogniqualvolta il legislatore prevede opportunità di misure detentive a più basso indice di custodialità gli stranieri hanno inevitabilmente meno chance. Lo sguardo alla composizione socio-criminale della popolazione detenuta offre dunque argomenti a supporto della decostruzione di un’ideologia punitiva intrisa di tendenze razziste, così come l’ha definita coraggiosamente papa Francesco. *Ricercatore all’Università Roma Tre, dove insegna Sociologia del diritto, e presidente di Antigone Mille storie di ordinaria, quotidiana ingiustizia. Quando la detenzione è tortura di Valter Vecellio lindro.it, 14 marzo 2019 Si prenda un qualunque giorno della settimana. A Spoleto accade che un detenuto tenti il suicidio; gli agenti intervengono tempestivamente, l’uomo viene salvato, ma è comunque in coma. A Terni un detenuto muore per febbre. A Sollicciano (carcere di Firenze) militanti e dirigenti radicali aderenti al gruppo Progetto Firenze dopo una visita denunciano “sovraffollamento e igiene assente”: a fronte di una capienza regolamentare di cinquecento persone, i detenuti sono 757, il 151 per cento. Nell’istituto, “permangono i problemi all’impianto di riscaldamento, con aree surriscaldate e altre gelide”, mentre “nella sesta sezione una buona parte delle lampade a neon nel corridoio sono rotte e di notte gli agenti possono contare solo sulla luce proveniente dall’esterno”. Inoltre, “è stata operata una disinfestazione approfondita, destinata a non durare per il perdurare del problema piccioni. Lo stato delle docce nelle sezioni maschili permane inaccettabile”. A Napoli (carcere di Poggioreale) i sindacati denunciano che “qui i reparti sono i più sovraffollati d’Europa…Queste condizioni penalizzano il corretto e sereno svolgimento delle attività quotidiane e incidono sul benessere psicofisico del personale...”. Nel carcere di Taranto i detenuti in pianta stabile sono 640, a fronte di una capienza regolamentare di 306 unità. È il primo carcere in Italia, dice la radicale Rita Bernardini, “per sovraffollamento. A Bologna sono i dirigenti della Funzione Pubblica CGIL a denunciare il sovraffollamento nel carcere minorile”. C’è poi un dossier, inviato al Governo sulle peggiori strutture in Campania. Il segretario generale regionale Campania Uil-pa Polizia Penitenziaria Domenico De Benedictis non le manda a dire: “Abbiamo riscontrato la presenza di istituti fatiscenti ovunque. Questo di Ariano Irpino, in modo particolare, è totalmente da chiudere. Mancano le unità lavorative, di pomeriggio è completamente aperto, con pochissime forze, come baluardo della sicurezza. Chiediamo interventi urgenti da parte del Governo. Vogliamo segnali tangenti in questa regione. La Campania, non è da sottovalutare. È una terra che da sempre produce purtroppo criminalità, ed occorre quindi mantenere alta l’attenzione. Allo stato attuale ci troviamo di fronte ad una situazione esplosiva. Quasi tutti gli istituti, sono allo stesso livello di Ariano Irpino, dove la struttura si presenta arcaica, rispetto a quelle più moderne. Ma la sofferenza maggiore la si ha con le risorse umane. Manca tutto, fondo per gli straordinari, manutenzione dei fabbricati. Da Poggioreale alle aree interne ci troviamo di fronte ad una situazione molto allarmante e ad altissimo rischio”. Anche il carcere romano di Rebibbia è in sofferenza: conta complessivamente 649 stanze di detenzione; due intere sezioni detentive sono chiuse per ristrutturazione, i detenuti sono 1.567. Per la Fp Cgil Roma-Lazio la situazione “è insostenibile, ed è solo la punta dell’iceberg”. Come in gran parte degli istituti del Lazio, il numero di detenuti supera la capienza regolamentare di 1.212 unità. L’istituto conta complessivamente 649 stanze di detenzione, ad oggi, due intere sezioni detentive sono chiuse per ristrutturazione, e i detenuti sono 1.567. “In rapporto al sovraffollamento, per cui i detenuti in stanza sono sei anziché quattro, spesso anche con problemi psichiatrici per mancanza di posti nelle Rems”, si legge in una nota, “ancor più grave è la carenza di personale denunciata: gli agenti sono 590, mentre gli educatori sono solo 17 in tutta la struttura, e poco personale c’è anche all’ufficio matricola, che cura e segue tutta la vita giuridica del detenuto”. Impossibile anche pianificare una formazione adeguata, dove invece sarebbe necessario: “A Rebibbia vengono seguiti anche i transiti dei detenuti estradati (o in via di estradizione) che transitano da Fiumicino e chi è in sosta temporanea per questioni di giustizia…Rispetto ai contingenti minimi, mancano 27 ispettori, 60 sovrintendenti e 52 agenti assistenti” - prosegue il sindacato - “Nel turno 7,30-15,40, abbiamo verificato che gli agenti in servizio erano 134, di cui alcuni non in reparto, ma in servizio esterno (per piantonamenti e visite ospedaliere urgenti), mentre avrebbero dovuto essere 189. In più di un reparto, gli agenti in servizio erano circa la metà rispetto a quanti dovrebbero essere: da una parte solo 11 poliziotti, anziché 20 per 452 detenuti, in un altro 5, anziché 10, in un altro ancora 9, anziché 13. E nei turni pomeridiani e notturni va ancora peggio: può succedere che un agente vigili un intero reparto, e spesso si lavora su doppi turni di oltre 16 ore, a cavallo dei notturni”. Ora una storia di giustizia tetragona: crudelmente inutile, inutilmente crudele. È la storia del signor Giorgio Mancinelli, 72 anni, napoletano. Soffre di encefalopatia erpetica, di diabete mellito e di un principio di Alzheimer, quasi cieco. Finisce comunque il carcere. Nel dettaglio, la storia di questo anziano, ormai ridotto quasi a un tronco, incapace di provvedere a se stesso e bisognoso di cure e assistenza costante. In primo grado l’uomo viene condannato per bancarotta fraudolenta ed evasione fiscale. Non si discute il verdetto, e neppure la condanna; cinque anni di carcere. Il fatto è che Mancinelli non presenta appello, così alla fine la pena diventa esecutiva. Perché? Perché durante lo stesso svolgimento del processo Mancinelli si è difeso poco e male? L’uomo non sembra neppure rendersi conto di quello che gli accade intorno. Non sa neppure ricostruire i fatti, a causa di un “decadimento cognitivo di grado severo”; non sa neppure come sia finito sul banco degli imputati. A casa non aveva mai raccontato la verità, che si è trasformata poi nella sua unica, vera colpa: nemmeno a sua moglie racconta di essersi prestato a fare da prestanome per la persona sbagliata. L’avvocato difensore? Non potendoselo permettere, a Mancinelli è stato un avvocato d’ufficio. È andata come è andata. Ora ci si aspetterebbe un po’ di logica, condita da una briciola di misericordia. Macché: la legge è legge. E con i poveri cristi è arcigna più che mai. Il magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Napoli respinge l’istanza con la quale si chiede una misura cautelare meno afflittiva: la trasformazione della detenzione carceraria in arresti domiciliari. Il giudice non ritiene convincenti le diagnosi che indicano il condannato come soggetto incompatibile con il regime carcerario. Un bell’esempio di prosa giuridico-carceraria: “Deve evidenziarsi”, si legge nell’atto di differimento provvisorio dell’esecuzione di pena, “che i Centri terapeutici degli istituti penitenziari dovrebbero essere bene in grado di fronteggiare situazioni sanitarie come quella in esame all’interno del carcere; lì dove non fosse possibile nello specifico, resta onere della Direzione del carcere, a fronte di patologie che non implichino incompatibilità assoluta del condannato col regime detentivo, individuare la migliore collocazione all’interno della struttura stessa o collocare il condannato in strutture sanitarie adeguate alla cura del caso concreto”. Ministro della Giustizia, questa è la situazione, questi (alcuni) fatti. Uccise la compagna: condannato con l’attenuante della “delusione” di Marco Lignana La Repubblica, 14 marzo 2019 L’avvocato della parte civile: “Torna il delitto d’onore”. Il pm aveva chiesto 30 anni, il giudice applica gli sconti di pena per l’attenuante e il rito abbreviato e lo condanna a 16 anni: “Era disperato”. Sentenza choc a Genova su una donna uccisa dal marito pochi giorni dopo quella della Corte d’Appello di Bologna sulla “tempesta emotiva” come attenuante. Il pm aveva chiesto una pena di 30 anni per un uomo che aveva ucciso la compagna: la colpì con diverse coltellate al petto dopo aver scoperto che non aveva mantenuto la promessa di lasciare l’amante. Il giudice, per questo, ha concesso le attenuanti generiche e ha condannato l’uxoricida a 16 anni. Accade a Genova. Nella motivazione della sentenza si legge che l’uomo ha colpito perché mosso “da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento”. Nella motivazione da una parte ci sono i rimandi a “una pena severa perché nulla può giustificare l’uccisione di un essere umano”, ma in altri passaggi si evidenzia che l’uomo ha colpito perché mosso “da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. E ancora: “Non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a se stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto contraddittorio che lo ha illuso e disilluso allo stesso tempo”. Le attenuanti, combinate con lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato con cui è stato celebrato il processo, hanno portato alla pena di 16 anni, rispetto ai 30 chiesti dal pubblico ministero Gabriella Marino L’omicida è Javier Napoleon Pareja Gamboa, ecuadoriano di 52 anni. La vittima, una connazionale dell’assassino, si chiamava Jenny Angela Coello Reyes, 46 anni. L’omicidio avvenne nell’aprile del 2018 nel loro appartamento di via Fillak, a Rivarolo. Durissimo il commento dell’avvocato della parte civile: “Con questa motivazione è stato riesumato il delitto d’onore - dice Giuseppe Maria Gallo che assiste i familiari di Jenny Angela Coello Reyes. Ormai assistiamo a un orientamento più culturale che giuridico, gli omicidi a sfondo passionale sono inseriti in un circuito di tempesta emotiva. Ma quali omicidi di questo tipo non avvengono in uno stato emotivo di questo genere - argomenta Gallo?. È tautologico”. “Questa sentenza di Genova anticipa quella di Bologna”, prosegue l’avvocato parlando del caso: la condanna infatti è stata emessa a dicembre scorso, prima della pronuncia diventata ormai nota della Corte d’Appello di Bologna che fa riferimento alla ‘tempesta emotiva’, come circostanza attenuante nei confronti di un 57 enne condannato per l’omicidio della compagna. “Indubbiamente - aggiunge ancora l’avvocato - sono state date circostanze attenuanti generiche ed è in questo che consisterebbe la ‘tempesta emotiva’ che il giudice genovese non definisce così ma è quella che ha prodotto l’abbattimento della pena insieme al rito abbreviato”. Mentre i familiari e parti civili di fatto non possono impugnare la sentenza, ad oggi non sono arrivati ricorsi dalla procura. “Le nostre richieste economiche come parte civile sono state accolte - sottolinea Gallo - ma l’imputato non potrà risarcire neanche un euro. Sono accolte ma virtualmente. In più ci tolgono linfa per produrre un appello perché l’accoglimento integrale ci preclude la possibilità di impugnare non avendo titolo giuridico per farlo”. “Ho sollecitato anche il pm ad appellarsi a questa sentenza - conclude il legale - Il termine scade il 21 marzo ma il pm stesso, su istanza della difesa, ha già comunicato che non impugnerà”. “La legge sul codice rosso è un punto di svolta importante. Un via libera celere ed all’unanimità su questo testo dimostrerà quanto alta sia l’attenzione sul tema”. Lo dice il ministro della giustizia Alfonso Bonafede riferendosi, con i cronisti in Transatlantico, alla sentenza di Genova. “Da ministro della Giustizia non commento le sentenze e rispetto l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Sul codice rosso c’è un impegno concreto”, ribadisce. “Nessuna attenuante andrebbe riconosciuta nei femminicidi. Preoccupa l’orientamento di alcuni Tribunali che hanno dato pene ridotte riconoscendo motivi emotivi in chi ha ucciso”. Lo afferma Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell’Arci, commentando la sentenza del Tribunale di Genova che ha ridotto la condanna all’uomo che uccise la sua compagna. “Riconoscere - prosegue - condizioni quali la gelosia, la delusione, sottolinea la visione che nelle coppie la donna non è libera di scegliere di lasciare un uomo. E se lo fa in qualche modo viene giustificata l’estrema reazione dell’uomo. Il numero di femminicidi in Italia è rimasto pressoché invariato nonostante gli omicidi in assoluto siano diminuiti. L’emergenza è che si sta affermando un modello più culturale che giudiziario che nei rapporti tra uomo e donna fa sì che l’uomo si senta legittimato a uccidere quando qualcosa va storto. Purtroppo - conclude - simili sentenze alimentano questo schema che condanna tutte le donne”. Il giudice: “Nulla giustifica un delitto, ma c’è omicidio e omicidio” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 14 marzo 2019 Silvia Carpanini: “Si tratta del libero convincimento di un giudice, non c’è niente di cui discutere e men che meno c’è da polemizzare”. Salvini dice che chi ammazza così deve marcire in galera? “La pensi come meglio crede”. “Ho preso una decisione ponderata e l’ho motivata con una sentenza. Si tratta del libero convincimento di un giudice, non c’è niente di cui discutere e men che meno c’è da polemizzare. Ciascuno è libero di dire quel che ritiene, ovviamente, ma di certo io in questa polemica non ci voglio entrare”. È sera e la voce di Silvia Carpanini arriva dalla sua casa di Genova, la città dove lavora come presidente aggiunto della sezione giudici delle indagini preliminari. Le motivazioni della sua sentenza stanno sollevando un polverone, lo sa vero? “Guardi, non intendo giustificare quello che ho scritto. Basta leggere per capire che siamo dentro i confini del diritto, e per me è questo che conta. Del resto esistono strumenti precisi per esprimere contrarietà a una sentenza: se il pubblico ministero non è d’accordo può impugnarla”. Il ministro Salvini si è detto “senza parole” e dice che “chi ammazza così deve marcire in galera”. “Con tutto il rispetto, Salvini può pensarla come meglio crede. È evidente che io la penso diversamente. La gente è libera di criticare, fare, anche ritenere discutibile la mia decisione, per carità. Ma vale sempre e per tutti il fatto che bisognerebbe conoscere bene i casi prima di criticare...” Lei ha concesso le attenuanti generiche all’assassino perché la sua è stata una “reazione al comportamento della donna” che lo avrebbe “illuso e disilluso”. “Scusi. Questo signore se n’era andato volontariamente in Ecuador proprio per lasciare spazio alle scelte della moglie. Lei lo fa tornare promettendogli un futuro e lui scopre invece che praticamente c’era l’amante in casa. Tutto nel giro di poche ore. Era un caso in cui non erano mai state contestate né la premeditazione né i futili motivi. Niente può giustificare un omicidio, è chiaro. Ma c’è omicidio e omicidio, c’è dolo e dolo” Qui di che dolo parliamo? “Ho ritenuto che si trattasse di dolo d’impeto e ritengo di aver motivato nel dettaglio la mia decisione. Punto. Sto già andando oltre: non è una difesa della mia scelta perché non c’è nulla da difendere. E poi dov’è scritto?” Cosa? “Non è scritto da nessuna parte che le attenuanti generiche non si debbano dare per i casi di omicidio. Devono essere date in relazione alle circostanze del reato e io ho semplicemente applicato norme che il codice prevede e l’ho fatto in modo argomentato. Non tutti gli omicidi prendono 30 anni di pena”. Le attenuanti facevano la differenza per determinare la pena, però. “È vero. E infatti sono state al centro della discussione”. Quando ha depositato la sentenza? “Prima di Natale. Stamattina (ieri, ndr) quando mi hanno chiesto di quel caso e mi hanno detto che se ne discuteva sono cascata dalla luna”. Dopo Bologna e l’ormai famosa “tempesta emotiva” una sentenza come la sua non passa inosservata. Lei ha letto del caso bolognese? “Solo qualche titolo e non intendo commentare”. Si è parlato allora e si parla adesso di ritorno al delitto d’onore. “Non c’entra assolutamente niente. Comunque: tutta questa polemica non mi sconvolge, non è la prima e non sarà l’ultima. Quel che per me è certo è che un processo non debba essere esemplare”. Niente delitto d’onore di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 marzo 2019 No, a Genova nessun uomo è stato condannato per omicidio con l’attenuante della “delusione”. L’ennesima lettura superficiale, da parte degli organi di informazione, delle motivazioni di una sentenza riguardante l’omicidio di una donna ha scatenato una nuova ondata di indignazione sui social e anche nel mondo della politica. Dopo la sentenza della Corte d’assise d’appello di Bologna di alcuni giorni fa, che secondo la quasi totalità dei giornali avrebbe riconosciuto l’attenuante di un omicidio nel fatto che questo era stato compiuto sull’onda di una “tempesta emotiva” di gelosia (interpretazione del tutto errata se si leggono interamente le motivazioni, come abbiamo sottolineato sul Foglio del 6 marzo), stavolta a balzare agli onori della cronaca è stata una pronuncia del tribunale di Genova, che ha condannato un uomo a 16 anni di reclusione (contro i 30 anni richiesti dal pm) per l’assassinio della moglie, avvenuto a Rivarolo. Stralci, del tutto decontestualizzati, delle motivazioni della sentenza sono stati pubblicati sui quotidiani per lasciar intendere che il giudice abbia inflitto una pena inferiore alle richieste del pm perché “la donna aveva deluso e illuso l’imputato”. Anche stavolta non è andata esattamente così ma, come nel caso di Bologna, numerosi esponenti della politica sono tornati a gridare allo scandalo e al ritorno del delitto d’onore. Persino il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che per il suo ruolo istituzionale avrebbe il dovere di non commentare una sentenza senza averla letta, non ha esitato a esacerbare gli animi con la solita demagogia giustizialista: “Non ho parole. Non c’è delusione o gelosia che possa giustificare un omicidio. Chi ammazza in questo modo deve marcire in galera”. Partiamo col far notare due aspetti di non poco conto della sentenza di Genova, ma completamente ignorati dai giornali. Primo: il giudice che l’ha emessa è una donna, Silvia Carpanini, questo per chi parla a vanvera di giustizia machista e insensibile alle condizioni di vita delle donne. Secondo: l’uomo, l’ecuadoriano Javier Napoleon Parej a Gamboa, è stato condannato al massimo della pena prevista per l’omicidio in un procedimento con rito abbreviato, 16 anni (la pena è stata inevitabilmente ridotta di un terzo rispetto alla pena massima prevista in rito ordinario, 24 anni). Chiarito ciò, passiamo ai dettagli. A determinare la distanza finale tra le richieste del pm e la pena inflitta è stato il riconoscimento di alcune circostanze attenuanti generiche (equivalenti alle aggravanti, quindi senza impatto diretto nel calcolo finale della pena) da parte del giudice, non tenute in considerazione dal pm. Chi pretende che tutti gli omicidi siano valutati in maniera identica, e quindi con una condanna a prescindere al massimo della pena per gli imputati, per “farli marcire” in carcere, ignora l’esistenza nel nostro Paese di un ordinamento penale di stampo liberale, che impone ai giudici di valutare volta per volta le circostanze in cui i delitti vengono commessi. Abbiamo già ricordato, ad esempio, l’esistenza di un’affermata giurisprudenza della Corte di Cassazione (ribadita dalla sentenza n. 7272 del 2014), secondo cui “gli stati emotivi o passionali, pur non escludendo né diminuendo l’imputabilità, possono essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto essi influiscono sulla misura della responsabilità penale”. Anche nel caso di Genova, come in quello di Bologna, quindi, il giudice ha dovuto tenere conto delle diverse circostanze in cui è avvenuto l’omicidio e dello stato emotivo e passionale in cui versava l’imputato. Diversi organi di informazione, ad esempio, hanno riportato un passaggio delle motivazioni in cui si afferma che Pareja ha agito “come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo”, dimenticando di riportare anche il passaggio precedente: “Pareja non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso”. Non si tratta di un riferimento meramente formale, ma cruciale, perché consente di sottolineare che l’uomo non ha dato sfogo “a una sua innata propensione alla violenza” e che il contesto (l’uomo ha ucciso la donna dopo aver scoperto che lei non aveva mantenuto la promessa di lasciare l’amante) ha inciso sulla spinta a delinquere dell’omicida. Queste circostanze, che sono state giudicate come attenuanti, incidono solo sulla “misura della responsabilità penale” e comunque non hanno impedito al giudice di condannare l’uomo al massimo della pena prevista in rito abbreviato. La gip del caso Yara: “Più attenzione alle parole usate nelle sentenze” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 marzo 2019 “Quando si scrivono le sentenze si deve essere attenti all’utilizzo delle parole perché non ci sia nulla che si possa prestarsi a strumentalizzazioni”. Ezia Maccora è presidente aggiunto dei gip di Milano. Giudice di grande esperienza, nella sua carriera ha seguito decine di vicende, compreso l’omicidio di Yara Gambirasio. E ha sempre gestito i casi con equilibrio e misura “perché nei processi occorre sempre considerare che ci sono due parti, l’imputato e la vittima, che meritano la massima attenzione”. Sono tre le decisioni che nelle ultime settimane hanno causato polemiche anche aspre, facendo emergere la possibilità che dietro le assoluzioni di imputati per stupro o lo sconto di pena concesso a imputati che avevano ucciso le compagne ci sia un ritorno al passato o comunque una sorta di giustificazione rispetto alle condizioni psicologiche degli aguzzini. E così si è discusso della sentenza della corte d’assise di Bologna che ha dimezzato la pena inflitta a un uomo che aveva ucciso la fidanzata e aveva una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”. È stato stigmatizzato il giudizio del tribunale di Ancona che ha assolto due imputati di violenza sessuale spiegando tra l’altro che “la vittima ha una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina”. E ieri è esploso un nuovo caso con la pronuncia della Corte d’assise di Genova. Maccora è esplicita: “Pensare che si possa parlare di un arretramento, addirittura di ritorno al delitto d’onore sulla base di queste tre pronunce, è fuorviante. Il codice prevede che nella valutazione della pena e nella concessione delle attenuanti il giudice deve considerare anche la personalità dell’imputato, l’ammissione di responsabilità ed l’eventuale risarcimento del danno effettuato. Nella determinazione finale incidono anche le diminuenti del rito scelto. Se si decide di percorrere la strada del rito abbreviato lo sconto è automatico, al di là delle considerazioni nel merito della vicenda. Attenzione a richiedere, indipendentemente dai casi concreti, pene esemplari”. La giudice ha letto la sentenza di Bologna e spiega come “lo stato psicologico dell’imputato è stato sicuramente descritto, ma non è stato il solo elemento che ha portato alla concessione delle attenuanti generiche e quindi ad una riduzione della pena”. E allora perché inserire quella considerazione: “Non lo so, potrebbe essere anche il tentativo di dar conto del sentire di una Corte d’assise composta anche dai giudici popolari. È bene comunque sapere che la Corte di Cassazione ritiene possibile concedere le circostanze attenuanti generiche in presenza di particolari condizioni psichiche dell’imputato”. Esclude anche che i due uomini ritenuti “non colpevoli” ad Ancona siano stati assolti perché la vittima era brutta. “In quel caso sull’assoluzione ha pesato l’attendibilità del racconto della giovane”, chiarisce. E questo secondo lei giustifica i giudizi negativi e offensivi sul suo aspetto fisico? “Certamente no, visto che non si trattava di un elemento pertinente e per questo dico che bisogna prestare la massima attenzione al linguaggio utilizzato”. Sottolinea come “va considerato che le sentenze non sono riservate ai tecnici, o a una cerchia di giuristi. Bisogna usare un linguaggio comprensibile proprio perché diretto anche ai cittadini, evitando che si presti a strumentalizzazioni. Ed è per questo che occorre eliminare ogni elemento superfluo. Allo stesso tempo credo però che questa regola debba essere seguita da chi riporta la notizia senza estrapolare le frasi dal contesto complessivo, alterandone il significato”. Ieri è stato il ministro dell’Interno Matteo Salvini ad attaccare la sentenza e molti altri politici si sono accodati. Ma su questo Maccora tace e si limita ad osservare: “Le sentenze sono lo specchio del nostro lavoro. Per questo devono essere scritte in maniera inappuntabile. Non dimentichiamo che chiarezza, pertinenza e comprensibilità della sentenza sono indici della qualità della democrazia di un ordinamento”. L’ultima pugnalata alle donne uccise? Troppo spesso la danno i giudici di Gian Antonio Stella Sette del Corriere, 14 marzo 2019 “Un clamore ingiustificato”. È molto difficile, qualche volta, capire certi giudici. Non occorre essere dei forcaioli, infatti, per restare basiti davanti alla sentenza che giorni fa ha dimezzato la pena a Michele Castaldo, reo confesso dell’omicidio della compagna Olga Matei, con la motivazione che l’uomo era sconvolto da una “tempesta emotiva”. E non occorre essere giustizialisti per restare basiti davanti al commento della Giunta distrettuale dell’Associazione nazionale dei magistrati Anm dell’Emilia-Romagna. Che ha tirato le orecchie ai giornali, alle tivù e ai commentatori rei d’avere criticato quel verdetto stupefacente causando appunto un “clamore ingiustificato, che rischia di delegittimare l’operato dell’autorità giudiziaria, rappresentandolo come arbitrario e misogino”. Quella sentenza, piaccia o no, è tutta nel solco di troppi processi che per troppi anni hanno inferto un’ultima pugnalata a troppe donne uccise per gelosia, rancore, vendetta. Come quella che nel 1983 rimise in libertà un brigadiere che aveva massacrato la moglie, di notte, in camera da letto, con un tubo di ferro. Diceva che lei gli aveva urlato qualcosa tipo: “Sì, è vero, mi fai schifo ed è bene che tu lo sappia che ti metto le corna. Da dieci anni il mio amante è Biagio, che è meglio di te. Ti farò uccidere da lui”. Al che lui non ci aveva visto più. La moglie, va da sé, in quanto morta, non ebbe la possibilità di negare. L’unica testimonianza era la sua, dell’assassino. Dettaglio di cui non s’accorsero né ì giudici né il cronista dell’Ansa. Ecco il titolo dell’articolo: “Omicidio per onore: lieve condanna a imputato”. Ed ecco la cronaca: “Due anni di reclusione con i benefici della sospensione condizionale della pena e la non menzione sul certificato penale. È questa la pena inflitta dai giudici della Corte di assise di appello di Roma all’ex sottufficiale di polizia Alfonso La Gala che il 30 agosto 1978 uccise la moglie Anna Mauriello dopo che costei, durante una lite, gli aveva confessato che da tempo lo tradiva con un altro uomo”. Certo, il 5 agosto 1981 era stato cancellato dal codice penale l’art. 587 per il “delitto d’onore”, ma “tenuto conto che il delitto avvenne quando era ancora in vigore la disposizione ora abolita, i giudici hanno applicato nei riguardi dell’imputato, che è stato giudicato a piede libero, la norma più favorevole”. In primo grado, riassumeva l’Ansa, i giudici di Latina avevano condannato l’assassino (cui era stata concessa la libertà provvisoria subito dopo il delitto) a quattro anni di carcere. Troppi! E l’avvocato difensore era andato in appello. Finendo davanti alla corte presieduta dal leggendario dal “dottor Carnevale”. Corte che, “pur riconoscendo che l’imputato “infierì nei confronti della moglie in maniera crudele e bestiale” (rileggiamo: “crudele e bestiale”) ritenne che all’uomo “giudicato in base alle disposizioni ora abrogate che prevedevano in sette anni la pena massima, dovessero essere concesse le attenuanti ed i benefici, così come aveva chiesto la difesa”. Risultato finale, quello che dicevamo: due anni di carcere con la condizionale (cioè zero giorni di galera) e fedina penale candida come quella di un cherubino. In fondo, avrebbero potuto scrivere nella sentenza, era stato lui pure una vittima. Di una “tempesta emotiva”. Annamaria Bernardini de Pace: “Serve una supervisione sull’operato dei giudici” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 14 marzo 2019 “La sentenza di Genova mi ha lasciato di stucco, ma ormai non è l’unica di questo tenore, stiamo assistendo ogni giorno a decisioni di giudici completamente fuori dalla giurisprudenza e, soprattutto, fuori dai tempi in cui viviamo”. Annamaria Bernardini de Pace, avvocato specializzato nel diritto alla famiglia, scrittrice e giornalista di successo, è incredula rispetto al caso di Genova in cui i giudici hanno dato l’attenuante della “delusione” all’uomo che ha ucciso la compagna. Come è possibile leggere ancora sentenze del genere? “Non riesco a spiegarmelo, sembra essere arrivati ad una deriva degli anni 50, ormai siamo quasi al delitto d’onore e a quando era ancora contemplato. E come dire a quella donna di essersela cercata perché doveva sottostare al volere del suo aguzzino. Mi sembra una sentenza che non solo non rispetti le verità processuali, ma anche l’etica comune e il buon senso”. Il caso ha fatto talmente scalpore che ha reso necessario anche un commento del ministro Bonafede. “Comprendo che anche il ministro possa restare basito da questo genere di sentenze. Se proprio vogliamo trovare una soluzione a questo tipo di decisioni allora non c’è altra via che istituire delle figure terze che vadano a supervisionare l’operato dei giudici in maniera costante. Serve una commissione di supervisori. Tutti gli albi professionali ormai prevedono dei corsi di aggiornamento, ma persino per avere il rinnovo della patente bisogna dimostrare di essere in grado di poter proseguire a guidare e invece non c’è nessun tipo di controllo dei magistrati. Si faccia così anche con i giudici, si tratta pur sempre di persone che decidono della vita di altre persone e non è possibile che non siano sottoposte ad un monitoraggio. Così restano e resteranno sempre al di sopra della legge. Poi è stata istituita la responsabilità civile dei magistrati, mi chiedo perché questa legge non è mai stata applicata, si dà la sensazione che in qualsiasi mestiere si paghino gli errori commessi tranne che per i magistrati”. Non è stato l’unico caso negli ultimi giorni di sentenze particolari. “Oggi a Milano non è stato messo in carcere l’aggressore del figlio di Stefano Bettarini e Simona Ventura perché aveva problemi di droga. L’altro giorno il caso della ragazza stuprata che è stata definita brutta nella sentenza e quindi non poteva subire uno stupro. Siamo davvero ritornati agli anni 50. Oggi tutti vengono messi sotto accusa per l’uso di parole sbagliate, sulla scia di questo insopportabile politically correct, ma poi con parole inappropriate dei magistrati concedono attenuanti a chi ammazza, a chi rapina, a chi stupra. Non so, forse i giudici sono anche condizionati dai media, altrimenti non mi spiego questa deriva”. Nella sua attività le è capitato di osservare sentenze particolari? “Certo, tanti bimbi assegnati in case famiglia quando non ce n’era assolutamente bisogno, ma ho incontrato anche molti giudici bravissimi in grado di leggere ogni situazione e rispettare le esigenze dei minori. Non si possono attaccare indistintamente tutti i magistrati, ma serve una supervisione del loro operato proprio per premiare chi è in grado di svolgere correttamente un lavoro che va ad incidere sul destino della vita delle persone e della società in cui viviamo. E magari anche punire chi invece non è più in grado”. Niente reddito di cittadinanza dopo una sentenza non definitiva di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 marzo 2019 Per i reati di mafia o terrorismo la presunzione di non colpevolezza non vale. Continuano gli emendamenti tesi a peggiorare ulteriormente il meccanismo del “reddito” e a restringerne la platea dei potenziali beneficiari. Dalila Nesci (M5S) ed Elena Murelli (Lega) ne hanno presentato uno in commissione lavoro e affari sociali della Camera presto ribattezzato “anti-Spada”. Obiettivo: sospendere il sussidio in caso di condanne per reati di tipo mafioso o terroristico, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, attentato contro organi costituzionali o assemblee regionali. Il decreto già prevedeva la sospensione ai soggetti condannati per questi reati in terzo grado, l’emendamento vuole che scatti al primo. Nonostante il principio della presunzione di non colpevolezza: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (art. 27 Costituzione). Questa proposta di irrigidimento dell’erogazione del sussidio nasce dalla polemica scatenata nei giorni scorsi da una presunta richiesta avanzata al Caf Cisl di Ostia da presunti appartenenti all’associazione mafiosa facente capo alla famiglia Spada. Sebbene successivamente non siano arrivate conferme dell’episodio, la macchina del populismo penale gialloverde ha acceso subito i motori. L’emendamento aggiunge un altro tassello: interrompere il reddito a chiunque riceva una misura cautelare. Spada o non Spada. Class action verso il sì finale, adesioni anche post sentenza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2019 Class action in dirittura d’arrivo. E senza modifiche. Ieri la commissione Giustizia del Senato ha concluso l’esame del provvedimento che ora aspetta il via libera dell’Aula; il testo del Ddl è stato approvato nell’ottobre scorso dalla Camera. La nuova class action, appannaggio dei 5 Stelle, si avvia al sì finale confermando un impianto assai contestato dalle imprese, con Confindustria in prima fila nel metterne in evidenza le criticità. Nel dettaglio, l’azione di classe cambia innanzitutto la sua collocazione, venendo traghettata dal Codice del consumo al Codice civile. Passaggio tutt’altro che formale, dal momento che, anche per effetto di questo cambiamento, l’azione non sarà più proponibile solo dai consumatori, ma da chiunque avanza delle richieste di risarcimento in relazione a “diritti individuali omogenei”. L’azione sarà quindi nella disponibilità di ogni singolo appartenente alla classe, oltre che dei soggetti collettivi che tutelano in maniera organizzata i diritti lesi. Le ipotesi di illecito che possono giustificare un’azione di classe sono, così, individuate, non solo in quelle di responsabilità contrattuale, in linea con quanto già oggi previsto dal Codice del consumo, ma anche in quelle di qualsiasi responsabilità extracontrattuale (oggi invece possono essere fatti valere solo illeciti relativi a pratiche commerciali scorrette e a comportamenti anticoncorrenziali). La competenza sarà del tribunale delle imprese, la domanda si proporrà con ricorso e al procedimento si applicherà il rito sommario di cognizione. Per assicurare una pubblicità significativa alla procedura, il ricorso, insieme al decreto di fissazione dell’udienza, verrà pubblicata su un portale del ministero della Giustizia. La modalità di adesione è digitale con invio tramite pec. Ma nella classe si potrà fare ingresso anche successivamente, una volta pronunciata la sentenza di accoglimento della domanda. Proprio questo è uno dei punti più critici, sottolineati da Confindustria: la previsione di una doppia fase di adesione provoca infatti una costante incertezza sulle dimensioni della classe, e, di conseguenza, rende problematica una stima dell’impatto che la class action potrebbe avere per l’impresa; inoltre, la preoccupazione è per una dilatazione della classe per l’effetto di condotte opportunistiche da parte di chi potrebbe scegliere di aderire solo dopo avere verificato il successo dell’azione. L’adesione tardiva, infine, rischia di rendere impervia la proposta di accordi di transazione, visto che a essere incerto sarebbe proprio il perimetro degli aderenti. Altro aspetto assai contestato è poi l’introduzione di significativi incentivi all’azione di classe, con l’obbligo per l’impresa condannata di pagare un compenso di natura premiale al rappresentante comune della classe e agli avvocati dei ricorrenti, sulla base di scaglioni legati al numero dei componenti della classe. Una disposizione che, è la preoccupazione delle imprese, potrebbe prestarsi a pratiche spregiudicate, contribuendo a moltiplicare il contenzioso. Nella riforma poi è stata inserita anche la possibilità di un’azione inibitoria che chiunque abbia interesse può proporre al giudice per fare cessare un comportamento posto in essere da un’impresa a danno di una pluralità di individui. Misure cautelari, niente domiciliari se la prognosi non è positiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 13 marzo 2019 n. 10947. Una prognosi negativa sul rispetto della misura cautelare degli arresti domiciliari giustifica il carcere preventivo. Con questa motivazione la Corte di cassazione, sentenza 10947di oggi, segnalata per il “Massimario”, mediante l’apposita indicazione sul frontespizio, ha rigettato il ricorso di un trentenne albanese coinvolto in una indagine per traffico di stupefacenti - cocaina e hashish - in connessione con “organizzazioni criminali di alto livello”. Per la Suprema Corte infatti “l’inadeguatezza degli arresti domiciliari” può scattare “quando elementi specifici in relazione alla personalità del soggetto inducano a ritenere che quest’ultimo possa essere propenso a violare prescrizioni della cautela impostagli”. Per esempio “disubbidendo all’ordine di non allontanarsi dal domicilio”. Una valutazione, aggiunge la sentenza, che va fatta “soppesando, nella loro globalità, sia gli elementi inerenti alla gravità ed alle circostanze del fatto e sia quelli inerenti alla personalità del prevenuto”. Nulla da fare dunque per il ricorrente che aveva lamentato l’assenza di elementi reali nelle mani della Procura per giustificare la dedotta prognosi negativa. Il Tribunale, infatti, ha ritenuto - “congruamente” e “logicamente”, secondo la Cassazione - l’assenza “di alcun elemento concreto che potesse fondare una prognosi positiva di rispetto degli ambiti di libertà connaturati a misure meno afflittive, che avrebbero frustrato del tutto le ravvisate esigenze cautelari”. In particolare, prosegue la decisione, il Collegio cautelare ha rimarcato le seguenti circostanze: “l’assenza di una capacità di autocontrollo attraverso la scelta di uno stile di vita dedito ai facili guadagni attraverso il commercio della droga”; “la possibilità di eludere ogni sorveglianza per il contatto con organizzazioni criminali di alto livello tali da procurare cocaina con principio attivo puro complessivo pari a 2481 dosi medie droganti nonché hashish pari a 370 dosi medie droganti”. Ma nel giudizio negativo sono rientrate anche “le modalità della condotta connotate da particolare astuzia nella custodia dello stupefacente e nell’utilizzo di mezzo di comunicazione non intercettabile”, il riferimento è a un telefonino definito di “nuova generazione”. Per finire con “l’atteggiamento furbesco e sleale tenuto innanzi alle forze dell’ordine in sede di perquisizione”. Furto con aggravante per chi ruba la sabbia dalla spiaggia di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2019 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 13 marzo 2019 n. 1158. Il furto di sabbia dall’arenile comporta l’aggravante della cosa destinata alla pubblica utilità e dell’esposizione alla pubblica fede secondo quanto stabilito dall’articolo 625, comma 1, n. 7 del codice penale. Lo ha riconosciuto la Cassazione, con la sentenza n. 11158, depositata ieri, ritenendo che per il configurarsi delle circostanze aggravanti non sia necessario che il proprietario o possessore abbia intenzione di esporre il bene alla pubblica fede. La vicenda ha per protagonisti tre individui sopresi all’alba, lungo un litorale del versante ionico della Calabria, a trasportare un carico di 15 metri cubi di sabbia marina. Fermato per un controllo, il conducente del mezzo che trasportava il bottino, riferì che si trattava degli scarti della ripulitura della spiaggia a lui e ai suoi compari regolarmente affidata. Subito dopo, messo di fronte all’evidenza dei fatti, confessò che si trattava di sabbia marina pulita, sottratta illegalmente per essere utilizzata per dei lavori edili. I giudici iniziano col dire che l’estrazione di sabbia dal lido del mare integra il reato di furto risultando irrilevante il quantitativo asportato, a meno che non si tratti di quantità irrilevanti come quelle ad esempio utilizzate per attività ricreative. Quanto all’aggravante della cosa destinata alla pubblica utilità e dell’esposizione alla pubblica fede, la Corte ne riconosce pienamente la sussistenza dal momento che il prelievo del materiale lede, attraverso il danno idrogeologico all’arenile, la pubblica utilità o la fruibilità dei lidi marini. Lombardia: tutte le mafie lavorano qui. E la Regione ha deciso di studiarle bene di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 marzo 2019 È dai lontani giorni del maggio 1974 - quando in via Ripamonti 166 la Guardia di finanza, si dice grazie all’intuizione di un giovane cronista dell’Unità, Mauro Brutto, arresta la primula rossa di Corleone, Luciano Leggio, detto Liggio - che Milano s’interroga sulla presenza e sul ruolo delle mafie sul territorio. Oggi la criminalità organizzata che punta le sue carte dove la crescita del paese è più solida ha forti ramificazioni in Lombardia. Qualche giorno fa la Dda con la procura nazionale antimafia di Cafiero De Raho ha arrestato 19 persone, “da questa inchiesta emerge la presenza di una cellula della ‘ndrangheta che operava stabilmente nelle province di Bergamo e Brescia”, ha detto il procuratore. E così, oltre alla Dda e alla magistratura, anche Regione Lombardia ha messo sotto la lente d’ingrandimento i fenomeni mafiosi, per costruire una rete di protezione, anche sul piano legislativo. Regione Lombardia, grazie a Polis, all’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano (Cross), ha realizzato un rapporto per offrire un quadro più preciso della situazione. Lo studio è stato voluto dalla Giunta regionale e dalla commissione Antimafia del Consiglio regionale. Chiarisce il ruolo che le organizzazioni mafiose giocano, tra l’altro, nell’ambito dell’economia legale, indicando sia le attività economiche “tradizionali” sia i settori che esse hanno sottoposto a maggiori pressioni e penetrazioni negli anni più recenti, una pluralità di settori: il complessivo ciclo edilizio e dei lavori pubblici; il commercio e il turismo; l’industria del divertimento; la sanità. Senza dimenticare i settori “storici”, come le attività estorsive e usurarie, lo spaccio di sostanze stupefacenti. E accanto alle organizzazioni tradizionali “nazionali” da qualche anno hanno fatto la loro comparsa strutture malavitose collegate a gruppi etnici diversi, come la mafia nigeriana, in larga misura dedita alla droga. La ricerca presenta anche una mappatura del territorio indicando il livello di penetrazione delle mafie, in base gli episodi registrati. La prima è dedicata agli incendi di rifiuti - numerosissimi gli episodi in tutta la Regione - segnale evidente della presenza di discariche abusive e rifiuti tossici. La seconda rilevazione riguarda i boschi della droga, divenuti nuove aree di spaccio. Il boschetto di Rogoredo come il parco delle Groane non sono che la punta di un iceberg. Naturalmente il ciclo del cemento, tanto che (soprattutto nelle regioni centro-settentrionali) lo scioglimento per infiltrazioni mafiose delle amministrazioni comunali è spesso associato a una gestione opaca (a dir poco), delle commesse e degli appalti pubblici nel settore. I dati provenienti dalle forze dell’ordine confermano un sistema di illegalità diffuso nel settore. Nel 2017 sono infatti 3.908 le infrazioni totali calcolate a livello nazionale, le quali registrano un lieve decremento di poco superiore al 10 per cento rispetto al dato riferito all’anno precedente. Quanto al dato complessivo regionale, Legambiente segnala 253 infrazioni, 319 le denunce, 45 sequestri e, dato significativo, nessun arresto. La classifica regionale delle infrazioni accertate nel ciclo del cemento sottolinea la centralità delle regioni a tradizionale presenza mafiosa. La regione Campania guida stabilmente la classifica, con 702 infrazioni, 878 denunce e 243 sequestri. Ma al quinto posto (e prima tra le regioni settentrionali) c’è la Lombardia con 253 infrazioni. Rossano (Cs): detenuto trasferito in ospedale muore dopo poche ore Corriere Salentino, 14 marzo 2019 Muore a distanza di poche ore dal ricovero per una sospetta broncopolmonite. E ora i familiari di Andrea Cavalera, 41enne di Gallipoli, detenuto nel carcere di Corigliano-Rossano (in provincia di Cosenza), chiedono verità e giustizia su un decesso a loro dire inspiegabile. Il caso è finito all’attenzione dell’avvocato Angelo Ninni che, nelle prossime ore, chiederà alla Procura di Castrovillari (competente per territorio) di eseguire l’autopsia sul corpo del 41enne dopo il sequestro delle cartelle cliniche. La tragedia si è consumata nella giornata di ieri nel rapido volgere di poche ore. Intorno alle 10 Cavalera è stato trasportato in ambulanza presso l’ospedale di Rossano Calabro per difficoltà respiratorie acute. Alle 11.30 sarebbe emersa una broncopolmonite acuta. Dopodiché sarebbero subentrate difficoltà respiratorie dell’85% per un’infezione ai polmoni. Alle 12 Cavalera è entrato in rianimazione da dove non sarebbe più uscito. In serata, poco dopo le 20.45, l’avvocato della famiglia ha ricevuto la comunicazione che il proprio assistito era morto. Tante le domande che aleggiano su questa tragedia. Come mai le condizioni di salute dell’uomo si sono aggravate così velocemente? Possibile che i problemi di salute si siano manifestati in poche ore? Fedele si trovava detenuto nel carcere di Corigliano-Rossano da ottobre quando era stato trasferito da Borgo “San Nicola” per motivi di sovraffollamento nel penitenziario alle porte di Lecce. Stava bene in salute. Solo un pò in sovrappeso. E il 17 febbraio, nel corso dell’ultimo colloquio con il suo avvocato, Cavalera non aveva manifestato alcun problema particolare. Tra l’altro il fine pena era molto vicino. Recluso nel reparto detenuti comuni doveva scontare un altro anno per detenzione d’arma e lesioni. Per il momento non è stata sporta alcuna denuncia. Ma i familiari di Cavalera non si capacitano per una morte tanto rapida quanto inattesa su cui, a breve, sarà chiamata a pronunciarsi la Magistratura. Viterbo: ex brigatista stroncato in cella da un infarto, condannati due medici tusciaweb.eu, 14 marzo 2019 Vittima Luigi Fallico, trovato morto il 23 maggio 2011. Sei mesi e quattro mesi per omicidio colposo agli imputati, che con la Asl dovranno risarcire i familiari. La vittima è Luigi Fallico, 59 anni, esponente negli anni 80 dell’Unione comunisti combattenti e ritenuto fondatore delle Nuove Brigate Rosse. Conosciuto coi nomi di battaglia “Gatto” e “Gigi il corniciaio”, fu trovato privo di vita dalla penitenziaria il 23 maggio 2011 nel reparto dei detenuti politici. Sarebbe morto 3-4 ore prima, nel sonno. Coricandosi, aveva detto ai compagni di sentirsi la febbre e aveva chiamato l’infermiere. Alla sbarra due professionisti, i dottori in servizio presso il penitenziario di Viterbo che hanno visitato Fallico il 18 e il 19 maggio, alla vigilia della sua morte per infarto. Fallico, corniciaio di Roma e per questo conosciuto anche come “Gigi il corniciaio”, era stato arrestato nel 2009 per terrorismo e banda armata nell’ambito dell’inchiesta sul presunto attentato progettato alla Maddalena, dove si sarebbe dovuto tenere il G8 spostato all’Aquila. Nel carcere di Viterbo si trovava in detenzione preventiva. Quando è stato stroncato da un infarto, da alcuni giorni accusava forti dolori al torace e pressione sanguigna anomala. Assieme alla Asl, i due medici dovranno inoltre risarcire in sede civile le parti civili, tra familiari tra cui due sorelle Carmela e Francesca assistiti dall’avvocato Caterina Calia, cui nel frattempo i due medici, sempre in solido con la Asl di Viterbo, responsabile civile, sono stati condannati in sede penale a versare provvisionali di diecimila euro ciascuno. L’ex Br aveva 59 anni quando è deceduto nel sonno. Fallico, giunto in infermeria il 18 maggio di otto anni fa con 110 di minima e 190 di massima, sarebbe stato rimandato in cella con un diuretico e una tachipirina, fissando al 25 maggio una visita cardiologica, senza nemmeno un elettrocardiogramma. Il giorno dopo, il 19 maggio, ci fu per lui un altro evento potenzialmente stressante, il trasferimento a Roma per il maxiprocesso in corte d’assise. Con altri sette presunti eredi delle vecchie br, era accusato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo e banda armata. Fallico era ritenuto dall’accusa il leader del gruppo. Padova: il giudice della Consulta Luca Antonini incontra i carcerati di Paolo Possamai Il Mattino di Padova, 14 marzo 2019 Ciclo di incontri in carcere per dimostrare che la Corte non conosce muri. Da principio, lo scorso anno, i giudici della Consulta hanno voluto incontrare gli studenti, adesso è il turno dei carcerati. Un “Viaggio in Italia” che non ha precedenti nella storia della Corte costituzionale. Domani il percorso include il carcere di Padova e a rappresentare la Corte è Luca Antonini, 55 anni, trevigiano di residenza e docente al Bo in Diritto costituzionale. Qual è la ratio e il fine di questo ciclo di incontri nelle carceri promosso dalla Corte? “È quella di dimostrare che la Costituzione e la Corte costituzionale non conoscono muri e non si fermano davanti alle porte del carcere. Si tratta come lei ha detto di un ciclo di “incontri”, non di “visite”, per portare i valori che la nostra Costituzione esprime e che le sentenze della Corte hanno attualizzato, definendo un volto costituzionale della pena. Grazie alla rivista Ristretti orizzonti ho potuto conoscere le storie di alcuni detenuti. Mi è ritornato alla mente uno scritto del grande Carnelutti che distingueva il delinquente e il carcerato: il delinquente mi ripugna, in certi casi mi fa orrore, diceva, ma quando quella stessa persona diventa carcerato, quando il diritto ha ristabilito il suo vigore, riappare l’uomo e allora nasce, dall’orrore, la compassione”. L’articolo 27 della costituzione parla espressamente del carcere quale strumento di rieducazione; ma i numerosi richiami ricevuti dall’Italia in tema di gestione delle carceri e di condizioni di vita del detenuto indicano una ben differente realtà. “È un tasto dolente. La Corte costituzionale, anche di recente, ha corretto meccanismi legislativi che si ponevano in contrasto con la finalità rieducativa. Ha affermato che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. A volte però, come dice lei, ci sono condizioni fattuali che mettono in dubbio non solo la dignità del carcerato, ma quella della umanità stessa. La sentenza Torreggiani della Corte Edu pesa sul nostro Paese e lo interroga. Le risposte dovrebbero essere tante, ma tra queste non bisogna sottovalutare quelle esperienze rieducative che permettono di abbassare radicalmente la recidiva. Ho letto un recente rapporto della Corte dei Conti dove si constata che l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle cooperative sociali e imprese non profit, che è stato permesso dalla Legge Smuraglia, abbatte la recidiva dal 70% al 10%”. Entriamo nel concreto di questa prima stagione da giudice della Consulta: quali sono gli aspetti salienti di questa esperienza? “Sono passati otto mesi da quando il Parlamento, con 685 voti su 800 votanti, mi ha eletto, mostrando un gradimento non solo della maggioranza ma anche di gran parte dell’opposizione. In questo tempo mi sono reso subito conto della grande responsabilità affidata: diceva un giudice della Corte suprema americana “non abbiamo l’ultima parola perché siano infallibili, ma siamo infallibili solo perché abbiamo l’ultima parola”. Le nostre sentenze non riguardano persone, ma leggi che si applicano a migliaia di persone. Avere l’ultima parola non è un compito facile: non è raro che la decisione di una questione mi porti via tantissime energie e anche il sonno la notte. Prima era più semplice: avevo avviato uno studio di avvocati che si era molto ben affermato e facevo il professore. Ho chiuso lo studio e sospeso l’insegnamento: ora lavoro più di prima ma per servire la nostra Costituzione, che è così magnifica”. Nel corso di questo primo tratto di strada, la Consulta ha pronunciato varie sentenze che hanno generato forte discussione: tra le altre citiamo quella sulla legge Merlin in tema di prostituzione. “La Corte ha preso la decisione e l’ha comunicata: non sono fondate le questioni sollevate sulla punizione penale dello sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione, che nel caso riguardava il fenomeno delle cosiddette escort. La sentenza con le motivazioni, però, ancora non è stata depositata: è in discussione”. La dilazione di un anno della decisione in merito al cosiddetto caso Cappato che senso ha avuto? “Ha avuto il senso di permettere in prima battuta al Parlamento di intervenire, in ossequio alla sua discrezionalità, fissando nel contempo una nuova udienza al 24 settembre 2019, in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle esigenze di tutela segnalate dalla Corte”. Qual è il suo punto di vista a proposito della richiesta di maggiore autonomia formulata da Veneto, Lombardia e Emilia? “Senza il referendum veneto, legittimato da una sentenza della Corte, credo che il dibattito su un articolo, inattuato, della Costituzione, qual è l’art. 116, non si sarebbe mai aperto. Proprio per l’eventualità che lei riferisce, però, non posso davvero dire nulla al riguardo”. Infine un tema che attiene a un altro suo ruolo: da docente di giurisprudenza all’università di Padova, quali dovrebbero essere a suo avviso i punti qualificanti di una strategia di rilancio di una facoltà tanto importante storicamente quanto in evidente declino? “Il declino è stato impressionate: Carnelutti, prima citato, è stato professore in questa Facoltà. C’è stata l’incapacità di mantenere attuale una tradizione altissima. Questo dovrebbe portare a una radicale messa in discussione. Siccome però chi si deve riformare, difficilmente si riforma, si dovrebbe accettare pienamente quanto sta suggerendo, con molta lungimiranza, il Rettore, Sarino Rizzuto, su percorsi di studio più attuali. Nello stesso tempo si dovrebbero valorizzare i talenti e i giovani, e prendere a modello chi, ad esempio come Mario Bertolissi, incarna una dedizione per gli studenti all’altezza dei grandi maestri che hanno illuminato questa Facoltà”. Roma: a Regina Coeli è allarme sovraffollamento di Natascia Grbic roma.fanpage.it, 14 marzo 2019 Antigone: “Quasi mille detenuti, il carcere è per 620”. Il carcere romano di Regina Coeli è attrezzato per ospitare 624 persone, ma attualmente al suo interno ve ne sono quasi mille. Un problema, questo, che fa sì che sia difficile organizzare attività educative e professionali per i detenuti e quindi soddisfare il requisito della funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. Tutti conoscono il carcere romano di Regina Coeli, situato nel centro città, in pieno rione Trastevere. Le sue celle sono visibili dal Gianicolo, uno dei colli di Roma, e se si urla abbastanza forte da lì è possibile farsi sentire dalle persone recluse. Che, in questo momento, hanno raggiunto un numero molto elevato. Lo rivela l’associazione Antigone, una Ong che da anni si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale: nella sua ultima visita, i rappresentanti di Antigone hanno rilevato che in una struttura che può contenere fino a 624 persone, ce ne sono 960. Un sovraffollamento che crea molti problemi non solo a livello di vivibilità nella struttura, ma anche a livello di attività educative e professionali da mettere in campo. Che, a causa della carenza degli spazi, sono molto difficili da attivare. “Regina Coeli è un istituto vecchio, un convento del 1600 che alla nascita dello Stato unitario è diventato un carcere - spiega Claudio Paterniti Martello, di Antigone - E presenta le problematiche strutturali tipiche degli istituti dei secoli scorsi. Si tratta di un posto dove le celle di quasi tutte le sezioni sono aperte otto ore al giorno, quindi l’amministrazione carceraria tiene conto delle esigenze dei detenuti. Il problema è che l’istituto è molto affollato, anche perché rispetto al passato sono aumentati gli ingressi”. Regina Coeli è una casa circondariale pura, che contiene soprattutto detenuti in attesa di giudizio: solo una piccola parte ha ricevuto una condanna che, in ogni caso, è spesso molto breve. “Questo comporta che molte attività che richiedono un tempo lungo di programmazione sono difficilmente fattibili - continua Martello - I tempi di attivazione sono lunghi e dove non ci sono dei numeri stabili di presenti non è semplice attuarle”. Nel carcere di Regina Coeli operano molti volontari, tra cui quelli dell’associazione Antigone. C’è quindi, all’interno della struttura carceraria, una forte presenza della società civile: una cosa positiva, data soprattutto dalla sua posizione molto centrale a Roma. “Dal 1600 sono stati fatti ovviamente vari interventi di ristrutturazione, ma bisogna farne altri perché è molto tempo che non si interviene. Con i numeri così alti, però, si può fare poco. Gestire 350 persone in più è difficile perché gli spazi sono pensati per 624 e questo vuol dire che per gestirle si toglie spazio ai luoghi in cui si dovrebbero svolgere attività educative e professionali”. Il sovraffollamento non è dato solo dall’aumento degli ingressi in carcere, ma anche dal fatto che si esce di meno. Il 60% della popolazione carceraria a Regina Coeli è di origine straniera e per queste persone è più difficile accedere alle misure alternative per lo sconto della pena. “Le persone straniere sono quelle con maggiore vulnerabilità - dice Martello - Perché hanno minori collegamenti con il territorio. Il carcere è un luogo in cui si è separati dalla società e i legami giocano quindi un ruolo molto importante. E purtroppo loro fanno meno colloqui e anche meno telefonate. Ogni numero, infatti, deve essere verificato e spesso è difficile controllare chi chiamano. Con il risultato che a volte non possono fare la telefonata”. Qual è la soluzione a tutto questo, come far sì che le persone detenute possano avere una vita dignitosa anche all’interno del carcere? “Bisognerebbe innanzitutto che ci fossero meno persone, perché in questo caso sarebbe possibile fare più facilmente interventi di tipo strutturale. In questo modo si potrebbero portare avanti corsi educativi e professionali per tenere impegnati i detenuti. Un’altra cosa importante, è che a Regina Coeli non c’è un campetto all’esterno, non ci sono aree verdi: certo, l’istituto nasce così come struttura, ma ricavare tutti questi spazi è una cosa possibile quando si hanno meno detenuti”. L’articolo 27 della Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Cosa difficile, però, quando un carcere è così pieno che non permette di svolgere quelle attività che dovrebbero tendere proprio a questa funzione. “Ci vorrebbe una certa cultura che non sia carcero - centrica. Le legislazione e la Costituzione non lo sono, la cultura invece sì. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, ma spesso non è così. Per far sì che quei due/tre mesi di carcere non abbiano una funzione desocializzante e non facciano aumentare la spirale criminogena, è importante prevedere tutta una serie di attività. Che in parte sono svolte, ma in un parte troppo piccola”. Trani (Bat): l’On. Damiani denuncia il sovraffollamento e l’emergenza igienico-sanitaria traniviva.it, 14 marzo 2019 Depositata un’interrogazione al ministro Bonafede per sollecitare l’utilizzo del nuovo padiglione. Il senatore Dario Damiani (Fi - Commissione Bilancio) interviene sull’attuale situazione nel carcere di Trani. “Un padiglione nuovo con una capienza di 200 posti, ultimato e collaudato ma rimasto finora inutilizzato, mentre nel resto della struttura carceraria il sovraffollamento determina una situazione di emergenza igienico-sanitaria. È quanto accade nella Casa Circondariale di Trani, più volte oggetto di denuncia sia da parte dei sindacati che dei detenuti”, ha dichiarato. In merito, il senatore di Forza Italia Dario Damiani ha depositato nella giornata del 13 marzo una interrogazione al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per conoscere quali determinazioni il Governo intenda assumere per ovviare alla situazione di grave disagio del carcere tranese e garantirne la vivibilità. “Non vi sono ostacoli tecnico-logistici all’utilizzo del nuovo padiglione, ma solo ritardi burocratici dovuti a questioni sorte fra il Ministero e la ditta esecutrice dei lavori - evidenzia il sen. Damiani - Perciò fa specie che non si riesca ancora a superare questa situazione, fonte di stress per i detenuti, il cui diritto al decoro e alla dignità viene leso, ma anche per gli addetti di Polizia penitenziaria, costretti ad operare in condizioni di emergenza. Da qualche giorno, per esempio, i detenuti devono addirittura essere scortati da una sezione all’altra per poter usufruire dei servizi igienici, con notevole aggravio delle mansioni ordinarie per gli addetti alla sicurezza. L’auspicio è che il ministro si occupi con priorità del caso Trani, per il quale la stampa locale in queste ore non ha esitato a utilizzare l’espressione “celle lager”. Napoli: il Garante cittadino dei detenuti approda in Consiglio comunale di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2019 Venerdì 15 marzo il Consiglio Comunale di Napoli discuterà sull’istituzione del Garante Cittadino dei detenuti. Una battaglia che ha visto impegnati i Radicali per il Mezzogiorno Europeo (su input dell’avvocato Raffaele Minieri, già membro della direzione nazionale di Radicali Italiani) fin dalla fine del 2017 e l’inizio del 2018, con una raccolta firme all’esterno del carcere di Poggioreale. Dopo che lo scorso agosto è stata approvata una delibera di giunta in materia, venerdì potrebbe essere il giorno della fumata bianca in Consiglio Comunale, sebbene la questione sia già stata più volte rinviata. Venerdì 15 marzo i Radicali, così come già fatto lo scorso 13 febbraio, saranno nuovamente all’esterno del palazzo del Consiglio Comunale in via Verdi (dalle ore 9) in attesa del tanto agognato “sì” all’istituzione del Garante Cittadino dei detenuti. Sarah Meraviglia, segretario dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, ha presentato la nuova manifestazione in programma per venerdì: “In occasione della seduta del Consiglio Comunale di Napoli di venerdì 15 marzo, in cui si discuterà dell’istituzione della figura del Garante Cittadino dei Detenuti, l’associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo (Radicali Italiani) ha organizzato un nuovo presidio presso la sede del Consiglio Comunale in via Verdi. Sit in che segue quello dello scorso 13 febbraio, giornata in cui il Consiglio concluse la seduta senza giungere alla discussione sul Garante. L’auspicio è che venerdì il Consiglio Comunale giunga finalmente all’approvazione della delibera di Giunta proposta dall’assessore Roberta Gaeta ormai quasi un anno fa, il 9 agosto del 2018”. Spazio quindi alle ragioni per le quali la figura del Garante Cittadino è ritenuta necessaria dai Radicali per il Mezzogiorno Europeo, alla luce di dati oggettivi: “La figura del Garante Cittadino risulta necessaria e urgente alla luce degli ultimi dati sul sovraffollamento: la città di Napoli con quattro istituti penitenziari ospita quasi 4000 detenuti, 2200 dei quali nel solo carcere di Poggioreale, il quale tuttavia prevede una capienza massima pari a 1565 detenuti e in cui ancora esistono sezioni (come il padiglione Milano) terribilmente fatiscenti con stanze ammuffite che ospitano fino a dieci detenuti costretti a condividere spazi angusti nonché un unico bagno. A Poggioreale ci sono stati cinque suicidi nel solo 2018 e risale allo scorso mese la morte di un detenuto di 34 anni, Claudio Volpe, che accusava malori e febbre alta da giorni. Episodio che rappresenta l’ennesima tragica conferma delle disfunzioni relative ai servizi sanitari all’interno degli istituti di pena cittadini, con particolare riferimento alle drammatiche condizioni di Poggioreale. È soprattutto su temi come questo che il Garante Cittadino potrebbe offrire il suo contributo di vigilanza e proposta, coadiuvando il già esistente Garante Regionale (nelle cui competenze rientrano tutti i 15 istituti penitenziari campani per un totale di 7500 detenuti) rilevando istanze e bisogni dei detenuti a tutela dei loro diritti e delle loro libertà”. Anche l’avvocato Raffaele Minieri, del comitato nazionale di Radicali Italiani e promotore dell’iniziativa radicale sul tema, ha evidenziato quanto sia necessario e urgente un Garante Cittadino dei detenuti a Napoli: “L’urgenza dell’istituzione del Garante Cittadino, speriamo spinga il Consiglio a non rinviare ulteriormente la discussione e l’approvazione della proposta. Tale urgenza è anche testimoniata dall’astensione dalle udienze proclamata dalla Camera Penale di Napoli anche sul tema del sovraffollamento carcerario”. Cassino (Fr): il carcere cade a pezzi, trasferiti cento detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2019 Parte delle mura della vecchia ala hanno ceduto e la struttura è stata dichiarata inagibile. Attimi di terrore al carcere di Cassino. Lunedì pomeriggio è ceduta una parte delle mura della vecchia ala del penitenziario. D’urgenza, di sera, sono stati quindi messi in atto gli spostamenti dopo che i Vigili del Fuoco hanno dichiarato l’inagibilità della parte più vecchia della struttura di via Sferracavalli. Un centinaio di detenuti, quindi, con decine di bus della Polizia Penitenziaria, sono stati spostati a Rieti, Viterbo, Latina e l’Aquila. Sono subito intervenuti i sindacati, in particolar modo la Fns Cisl Lazio: “Apprendiamo che ieri il vecchio padiglione del carcere di Cassino è stato dichiarato inagibile a seguito controllo dei Vigili del Fuoco, pare per alcune crepe nei muri, con conseguente trasferimento dei rispettivi detenuti in altri carceri della Regione”. Il sindacato ha sottolineato che alcune sezioni del carcere “sono nel totale degrado, presentano ambienti malsani, insalubri con evidenti segni di muffa e umidità causate dalla vecchiaia e dalla mancanza di manutenzione”. Sempre la Fns Cisl Lazio in più occasioni ha segnalato alle varie articolazioni del Dap l’inadeguatezza edilizia di alcune strutture penitenziarie e la necessità di più risorse economiche. Ancora una volta emerge il problema delle strutture vecchie e decadenti, specialmente in un Paese come il nostro che è sempre interessato agli eventi sismici. La zona del cassinate, ad esempio, stando alle rilevazioni di Enea e Protezione Civile, risulta che ha una sismicità più alta dell’intero Lazio. Appare evidente che le azioni volte alla prevenzione, soprattutto per gli edifici pubblici, sono quelle maggiormente da auspicare. Ma quante strutture carcerarie sono costruite con adeguati criteri antisismici? Non esiste una mappatura ufficiale delle carceri costruite in maniera antisismica e, com’è facile immaginare, le strutture carcerarie sono spesso datate, obsolete e non costruite secondo le più recenti indicazioni antisismiche. I penitenziari, in caso di terremoto, sono una trappola per i detenuti. La notte le celle sono chiuse a chiave e l’ansia di chi vive là dentro è maggiore. In Italia non esiste una normativa precisa di cosa fare nelle carceri nel caso di terremoto. Le decisioni per cercare di portare in salvo le persone detenute sono lasciate alla discrezione della direzione del carcere. Ci possono essere circolari urgenti da parte del Dap che diano indicazioni diverse, ma si sa che le scosse di un terremoto non lasciano il tempo di espletare l’iter burocratico. Così tra la popolazione detenuta si è coniato il detto: “faremo la fine di topi in gabbia”. Quando ci fu il grande evento sismico del 2012 che colpì duramente l’Emilia Romagna, fu coinvolto anche il carcere di Ferrara dove la polizia penitenziaria si era data da fare per evacuare 500 detenuti. Si presentarono dei danni, tanto che l’allora deputata radicale Rita Bernardini presentò una interrogazione parlamentare chiedendo spiegazioni al riguardo. All’epoca c’era la ministra della giustizia Paola Severino che fece emanare una circolare che obbligava di tenere aperte le celle 24 ore su 24. Quella circolare fu applicata solo nei primi giorni. Dopodiché di nuovo tutte chiuse come sempre. Magari fino alla prossima scossa. Frosinone: “Conscious”, oggi un workshop contro la violenza di genere ciociaria24.net, 14 marzo 2019 “Conscious” è un progetto europeo, cofinanziato dal Rights, Equality and Citizenship Programme of the European Union (2014 - 2020) approvato dalla Commissione Europea. È tra i pochi progetti ammessi a finanziamento, è condotto dal Dipartimento Salute Mentale e Patologie da Dipendenza della Asl di Frosinone diretto dal dott. Fernando Ferrauti, in partenariato con il Garante dei Detenuti del Lazio, con l’European Network for the Work with Perpetrators of Domestic Violence e con il Centro Nazionale Studi e Ricerche sul diritto della Famiglia e dei Minori. Ha l’obiettivo di contrastare la violenza di genere intervenendo sulla riduzione del rischio di recidiva per gli autori di violenza. È sostenuto, oltre che dalla Casa Circondariale di Cassino, dal Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise (P.R.A.P.) del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Frosinone (Uepe), dall’Ordine degli Avvocati di Frosinone, ma è aperto alla partecipazione di ogni attore pubblico e privato impegnato sul tema. Ora i soggetti istituzionali coinvolti stanno portando avanti le diverse fasi realizzative del Progetto che, partito il 20 Ottobre scorso, andrà avanti per 20 mesi. Sono oltre 50 gli operatori pubblici e del no profit coinvolti per costruire un modello intersistemico dedicato al trattamento degli Autori di violenza, i perpetrators, e realizzare una rete di cooperazione finalizzata alla riduzione della recidiva. È un progetto importante, davvero ambizioso e articolato, del quale la Asl di Frosinone non può che essere onorata del ruolo di capofila, sia per la scelta della Commissione Europea che per il prestigio dei partner e dei soggetti istituzionali che collaborano e partecipano: Garante dei Detenuti del Lazio, European Network for the Work with Perpetretors of Domestic Violence, Centro Nazionale Studi e Ricerche sul diritto della Famiglia e dei Minori, Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise (P.R.A.P.) del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Casa Circondariale di Cassino, il Tribunale di Sorveglianza di Roma, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Frosinone (Uepe), Ordine degli Avvocati di Frosinone. Oggi, dunque, è previsto uno dei momenti più importanti di realizzazione del Progetto, un Workshop a Frosinone, nella sede Asl, con sessioni e tavole rotonde nelle quali saranno dibattute e presentate le azioni progettuali e si confronteranno Esperti, Giuristi, Psichiatri, Psicologi, Avvocati, Operatori della sanità e del sociale. “Un parterre di elevato spessore e prestigio - spiega il Direttore del Dipartimento Salute Mentale e delle Dipendenze (Dsmpd) Fernando Ferrauti - che procederà alla illustrazione e definizione di percorsi condivisi e trattamenti, nonché a protocolli per una più efficiente ed efficace gestione dei servizi per i cittadini. Sono certo che anche in questa occasione l’attenzione e la presenza degli operatori dell’informazione non verrà meno”. Bollate (Mi): il carcere tempio del giardinaggio di Ettore Livini La Repubblica, 14 marzo 2019 Gemmano gli alberi, fioriscono le forsizie, passa il giorno di inizio della primavera a Milano - e per gli agricoltori urbani meneghini si riaprono le porte di uno dei tempi del giardinaggio cittadino: il carcere. Fiori, piante e animali non conoscono le barriere create dall’uomo. Sotto la Madonnina sono arrivati i papaveri che crescono in pochi centimetri quadrati di terra nelle corsie preferenziali dei tram, i grilli che d’estate - quando tutti sono in ferie - cantano nei prati, le lepri nel boschetto della droga di Rogoredo. Logico quindi che nemmeno le mura e le sbarre di una galera potessero essere sufficienti per frenare l’esuberanza della natura. E così è nato il vivaio della casa circondariale di Bollate. Diventato oggi - a 11 anni dalla fondazione - non solo un punto di riferimento per i progetti di reinserimento di detenuti e un negozio di piante che funziona alla grande ma anche una palestra un po’ sui generis dove molti aspiranti coltivatori meneghini hanno mosso i primi passi con cesoie e zappa. L’oasi verde nel carcere (aperta sempre sul sito online cascinabollate.org) riapre i battenti il prossimo 20 marzo con il tradizionale catalogo di offerte: quella più classica è la vendita diretta delle piante curate dai carcerati. L’apertura al pubblico - sottoposta come ovvio a tutte le procedure necessarie per l’ingresso in una casa di reclusione - è prevista due giorni alla settimana, il mercoledì e il venerdì dalle 15 alle 18. Tre ore in cui si può vagabondare tra i corridoi di decine di fiori, piante ed essenze e fare acquisti direttamente in loco. A fianco dell’attività commerciale riprenderanno poi i tradizionali corsi che da anni sono diventati l’occasione per portare “dentro” un po’ del mondo “di fuori” (e viceversa). Anche in questo caso date e orari si trovano direttamente sul sito della fondazione: il titolo più storico è quello di “giardinieri per un giorno”, in pratica una visita guidata al vivaio a tema, dedicata una volta alle semine, un’altra alle concimazioni e ad altri temi, a seconda della stagione. I corsi collettivi, invece, seguono da quest’anno nuove regole d’ingaggio: sono riservati a gruppi di minimo 8 persone (auto organizzate) che prenotano una giornata di studio (2-3 ore prezzo 60 euro a persona) su potature, talee, riconoscimento piante e semina. Prenotabili a info@cascinabollate.org. Foggia: “Ci avete fatti sentire liberi”, detenuti incantati dagli allievi del Conservatorio ilrestodelgargano.it, 14 marzo 2019 Giovani allievi del Conservatorio “U. Giordano” di Foggia suonano nel teatro della Casa Circondariale. Così la musica può essere terapeutica e può aiutare ad elaborare il disagio causato dal sentirsi reclusi. “Grazie, oggi con la vostra musica ci avete fatto sentire liberi”. Nelle parole di uno dei ristretti del Carcere di Foggia, il senso del concerto organizzato dal Conservatorio “U. Giordano” e dal Csv Foggia nel teatro della Casa Circondariale. I musicisti Stefano Russo (sax soprano), Melanie Armillotta (sax contralto), Gabriele Cosimo Gramazio (sax tenore) e Girolamo Ferri (sax baritono), allievi del maestro Leonardo Sbaffi, hanno allietato i detenuti e gli operatori dell’Istituto Penitenziario con musiche di Bach, Astor Piazzolla e Nicola Piovani e la risposta, dalla platea, è stata più che calorosa. “Il nostro Conservatorio è attento a iniziative di impegno sociale - sottolinea il Presidente, Saverio Russo - Con il carcere di Foggia abbiamo già collaborato in passato e siamo felici di poter dare il nostro contributo, grazie all’impegno e al talento dei nostri allievi, con la guida fondamentale dei loro insegnanti”. La musica può essere terapeutica e può aiutare ad elaborare il disagio causato dal sentirsi reclusi. L’esibizione del 12 marzo ha dimostrato come riesca ad alleviare la percezione del dolore e a favorire reazioni e relazioni emotive. “La musica per questi ragazzi - ha spiegato il maestro Sbaffi - più che uno studio, e in futuro un lavoro, è una necessità. Ma è un bisogno che costa sacrifici, sempre. Per questo i musicisti sono un esempio di rigore e il loro impegno ha senso quando chi li ascolta avverte delle emozioni, registra sensazioni positive”. L’arte, in qualunque forma, è capace di cancellare le differenze e le divisioni, può diventare strumento di inclusione. “Attraverso questo appuntamento e quello del dicembre scorso - ha detto il Direttore del Conservatorio, Francesco Montaruli - abbiamo voluto contribuire al ponte ideale e culturale che collega la comunità carceraria alla società esterna, offrendo non soltanto momenti di svago, ma anche una visione di speranza e cambiamento”. “Ringraziamo il Presidente del Conservatorio “U. Giordano”, il direttore e i musicisti, guidati dal maestro Sbaffi per le iniziative musicali organizzate in questi ultimi mesi - sottolineano dal Csv Foggia - Grazie alla Direzione della Casa Circondariale, alla dottoressa Valentini dell’Area Trattamentale, al Commissario e a tutti gli agenti penitenziari, senza i quali non potremmo realizzare i progetti di volontariato. E grazie ai detenuti che hanno fatto sentire il loro calore, in un freddo pomeriggio di marzo”. L’Onu: “Un quarto dei morti al mondo per inquinamento” di Luca Martinelli Il Manifesto, 14 marzo 2019 “Siamo ad un bivio per il Pianeta”. Il grido d’allarme delle Nazioni unite è contenuto nel sesto Global Environmental Outlook presentato all’assemblea. “Dobbiamo concentrarci su un cambiamento radicale di tre sistemi: cibo, produzione di energia e gestione delle risorse e dei rifiuti”, si legge nel rapporto. Il documento è frutto del lavoro di 250 scienziati ed esperti di oltre 70 Paesi, e contiene la valutazione più completa e rigorosa sullo stato dell’ambiente negli ultimi cinque anni. Il Pianeta è sempre più malsano, e il degrado ambientale è responsabile di un quarto di tutti le morti a livello globale. L’allarme lo rinnovano le Nazioni Unite, che in occasione dell’UN Environment Assembly in corso fino al 15 marzo a Nairobi, in Kenya, hanno presentato il sesto Global Environmental Outlook. Se davvero vogliamo poter garantire una vita dignitosa a 10 miliardi di persone (tanti saranno gli abitanti della Terra tra poco più di 30 anni), “probabilmente la maggior sfida di sempre per l’umanità” (spiega l’Onu), proviamo ad immaginarci fermi davanti all’incrocio decisivo per l’umanità, come hanno capito i giovani che domani (15 marzo) scenderanno in piazza in tutto il mondo. “Dobbiamo concentrarci su un cambiamento radicale di tre sistemi: cibo, produzione di energia e gestione delle risorse e dei rifiuti”, suggerisce il rapporto delle Nazioni Unite. “La scienza è chiara. La salute e la prosperità dell’umanità sono direttamente legate allo stato del nostro ambiente. Siamo ad un bivio. O continuiamo sulla strada attuale, che porterà a un futuro terribile per l’umanità, o ci concentriamo su un percorso di sviluppo più sostenibile. Questa è la scelta che devono fare i nostri leader politici, ora”, ha commentato il rapporto Joyce Msuya, direttore esecutivo facente funzione di Un Environment, l’agenzia ambientale dell’Onu. Questo sesto Global Environmental Outlook è il frutto del lavoro di 250 scienziati ed esperti provenienti da oltre 70 Paesi, e contiene la valutazione più completa e rigorosa sullo stato dell’ambiente negli ultimi cinque anni: le Nazioni Unite sanno che le trasformazioni necessarie per modificare lo stato attuale non saranno semplici, ma l’alternativa non esiste. La domanda cui rispondere, così, è solo una: “Qual è la prospettiva per l’umanità?”, quali i passi da compiere per invertire la rotta. Tra i suggerimenti principali quelli che riguardano lo spreco alimentare, dato che il 33% di tutto il cibo prodotto nel mondo viene sprecato, un problema che accomuna Nord del mondo (dove sono i rivenditori al dettaglio e siamo noi consumatori, i responsabili) e Sud (dove lo “spreco” avviene spesso all’interno dei processi di trasformazione, per carenze negli impianti o nelle infrastrutture). Il secondo problema centrale su cui l’umanità deve agire è legato alla generazione di energia elettrica, perché se è vero che assistiamo a una crescita di quella prodotta da fonti rinnovabili, i due terzi dell’elettricità è ancora figlia delle fonti fossili. E anche se dal 1990 il volume totale di elettricità generata a livello locale è raddoppiata, un miliardo di persone non può ancora con sicurezza tenere accesa una lampadina nella propria casa. “Dobbiamo decarbonizzare completamente l’offerta di energia”, suggerisce il Global Environmental Outlook, andando quindi a toccare l’ultima leva del cambiamento, cioè l’abuso delle risorse naturali: nel 2017, secondo le stime, l’umanità ne avrebbe usate ben 90 miliardi di tonnellate, oltre il 50% delle quali sono diventate rifiuti o sono state disperse. Appena il 10% finiscono in un circuito virtuoso ci economia circolare. Agricoltura, energia e utilizzo delle risorse portano dritti verso il tema dei cambiamenti climatici. Secondo il rapporto Onu, le azioni di mitigazione del clima per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi - cioè per contenere l’aumento medio globale della temperatura entro i due gradi, o meglio entro 1,5 gradi centigradi - costerebbero circa 22 miliardi di dollari, ma garantirebbero benefici per la salute - quelli che derivano da una riduzione dell’inquinamento atmosferico - per un ammontare di 54miliardi di dollari. Oggi (14 marzo) a Nairobi è in programma il summit internazionale One Planet Summit, con l’obiettivo di raccogliere i finanziamenti necessari per i progetti di lotta ai cambiamenti climatici. Il vertice, organizzato dall’Onu, vedrà la partecipazione di oltre 4.700 fra capi di Stato, ministri, dirigenti d’azienda, alti funzionari delle Nazioni Unite e rappresentanti della società civile. Il summit, che sarà inaugurato dal capo dello Stato keniota Uhuru Kenyatta e dal presidente francese Emmanuel Macron, vedrà gli interventi anche dei presidenti della Repubblica democratica del Congo e del Madagascar, Andy Rajoelina, del presidente ad interim della Banca mondiale, del vicesegretario generale delle Nazioni Unite e del presidente della Banca africana di sviluppo (Afdb). L’Italia sarà rappresentata dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Il tema scelto per l’appuntamento del 2019 è “Soluzioni innovative per le sfide ambientali, il consumo e la produzione sostenibili”. Secondo l’Onu, il tempo è quasi scaduto: “Ce la possiamo fare, ma solo dando priorità alla salute del Pianeta”. Migranti. Richiedenti asilo, tornano i permessi umanitari di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 marzo 2019 A quasi un mese dalla sentenza della Cassazione che ha stabilito la non retroattività del “decreto sicurezza” ritorna la protezione umanitaria. Secondo i dati del Viminale, a febbraio le commissioni territoriali per l’asilo hanno riconosciuto questo tipo di permesso a 1.821 persone. Si tratta del 28% delle domande esaminate. Dopo il 5 ottobre scorso, data di entrata in vigore del decreto poi convertito in legge, le percentuali erano diminuite progressivamente: 12% in quel mese (1.105 casi), 5% a novembre (356 casi), 3% a dicembre (236 casi), fino al 2% del gennaio di quest’anno (150 casi). Parallelamente i dinieghi complessivi delle richieste di protezione erano passati dal 72% di settembre 2018 all’88% del primo mese del 2019. A febbraio sono scesi al 62%. Intanto ieri è saltato un altro pezzo importante del “decreto Salvini”. “Il Tar della Basilicata ha accolto i ricorsi proposti dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione della sezione Basilicata e da LasciateCIEntrare - scrivono le due associazioni in un comunicato congiunto - contro i provvedimenti di cessazione delle misure di accoglienza emessi dalla prefettura di Matera nel dicembre 2018 nei confronti di due titolari di protezione umanitaria, individuati fra i cosiddetti vulnerabili”. Il tribunale amministrativo regionale ha dunque sancito la non retroattività del provvedimento anche rispetto alla revoca delle misure di accoglienza per le persone in possesso del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Un principio che vale non solo in presenza di situazioni di vulnerabilità, come per i due giovani ricorrenti di Burkina Faso e Nigeria, ma a favore di tutti i titolari di protezione umanitaria. Il Ministro dell’Interno, comunque, ha preferito concentrarsi su un’altra questione: l’ennesima diminuzione degli sbarchi. “Dal primo giugno, giorno in cui si è insediato il nuovo governo, al 31 dicembre 2018 sono sbarcati in Italia 9.900 immigrati a fronte dei 59.141 arrivati nell’anno precedente - ha detto Salvini - la riduzione è stata dell’83%. Un trend che è ancora migliorato nel 2019, con 335 sbarchi a fronte dei 5.938. La riduzione è del 95%”. Secondo il ministro a meno partenze corrisponderebbero meno morti e nel 2018 sarebbe “diminuito il numero di persone decedute e disperse” nel tentativo di raggiungere l’Europa. Questa tesi è stata più volte contestata da tutte le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo. Le Ong sostengono che le politiche italiane di chiusura dei porti e attacco alle missioni di monitoraggio e soccorso nelle acque internazionali hanno avuto l’effetto principale di far calare il silenzio su ciò che accade in mezzo al mare. Per non parlare degli effetti che gli accordi con Tripoli hanno prodotto sulle vite di migliaia di persone intrappolate nell’inferno dei lager libici. “Probabilmente sono aumentati i morti in mare, ma questo non lo sappiamo, probabilmente sono aumentati i giorni o i mesi di detenzione nei centri libici - ha dichiarato il procuratore aggiunto di Palermo Marzia Sabella - fatto sta che a noi risulta ancora un mercato fiorente che si fa addirittura più palese e che conta su una certa impunità”. Sabella ha poi aggiunto che negli ultimi due anni, di pari passo con la diminuzione degli arrivi di migranti dalle coste libiche, sono aumentati gli “sbarchi fantasma” da quelle tunisine. Migranti. “Abrogare la protezione umanitaria non ne cancella il diritto” di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 marzo 2019 “L’irretroattività del decreto sicurezza ci fa respirare - dice la giudice Silvia Albano - ma dobbiamo capire il da farsi”. Per questo, martedì scorso si è svolto a Roma, nell’aula Occorsio del tribunale di piazzale Clodio, un incontro organizzato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e da Magistratura democratica (Md). Dal lato dei giudici, come da quello generalmente occupato da pubblico ministero, legali della difesa e imputati, si sono seduti magistrati, avvocati e docenti di diritto. Sopra le teste il cartello: “La legge è uguale per tutti”. Al centro del dibattimento un unico imputato: l’annullamento della protezione per motivi umanitari stabilito dal “decreto Salvini”, poi trasformato in legge. “Questa misura ha sollevato profili di discutibilità e preoccupazione - afferma l’avvocato Salvatore Fachile (Asgi) - ma bisogna capire come interpretarla. Poche righe non cambiano un quadro normativo complesso che viene da una lunga tradizione democratica”. Il ragionamento si snoda tra l’articolo 10 della Costituzione sul diritto d’asilo e riferimenti ai trattati internazionali che regolano la materia. Dietro i tecnicismi rimane un concetto semplice: il permesso di soggiorno per motivi umanitari era lo strumento di un diritto alla protezione che radicato nelle fonti primarie. Meglio, la protezione umanitaria dava piena attuazione al dettato costituzionale garantendo la possibilità di coprire situazioni che non rientrano nella definizione di rifugiato o titolare di protezione sussidiaria. “Non si può abrogare completamente una normativa che dà attuazione a un diritto fondamentale”, spiega la giudice Albano. Continuare a tutelarlo, dunque, rimane una necessità. Ma attraverso quali strade? Una possibilità sembra quella dell’attuazione diretta dell’articolo 10 della Carta costituzionale sul “diritto dello straniero all’asilo nel territorio della Repubblica” nei casi in cui gli sia impedito “nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche”. Altra possibilità, caldeggiata dal professore di istituzioni di diritto pubblico Marco Benvenuti, sarebbe quella di intendere in senso estensivo i concetti di persecuzione e danno grave previsti dalla sussidiaria e quelli di calamità e protezione speciali che il decreto Salvini introduce in senso residuale al posto dell’umanitaria. In quest’ultimo caso, però, resterebbero tutte le limitazioni connesse a questo tipo di permessi di soggiorno, soprattutto rispetto alla durata (tra 6 mesi e 1 anno) e all’impossibilità di conversione in permessi di lavoro. Alla lunga la situazione delineata dal provvedimento potrebbe causare una paradossale eterogenesi dei fini se a fronte dell’impossibilità di riconoscere la protezione umanitaria venissero concessi in misura maggiore asilo politico e sussidiaria. Nei paesi in cui non esiste il permesso umanitario le percentuali di ottenimento delle altre due protezioni sono più alte che in Italia. Migranti. La sanità lombarda apre ai clandestini: “diritto al pediatra per le famiglie” di Simona Ravizza Corriere della Sera, 14 marzo 2019 La norma approvata a sorpresa dalla giunta regionale a guida leghista dopo sei anni di veleni. La svolta in silenzio: “Nessun imbarazzo, un adempimento della legge nazionale”. Il Pd: passo avanti, ma non basta. La Regione Lombardia del leghista Attilio Fontana riconosce ai minori immigrati irregolari il diritto ad avere il pediatra come tutti gli altri bambini. Una decisione della Giunta che risale allo scorso 17 dicembre e dovuta, in nome di una corretta applicazione delle norme nazionali per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera. Eppure il provvedimento era atteso da oltre sei anni ed è passato sotto silenzio. Forse perché impopolare? Del resto la Lega non s’è mai fatta lo scrupolo di definire il fenomeno dei minori irregolari “un’invasione del nostro tessuto sociale” ed il centrodestra nel suo complesso le è sempre andato dietro. È il 20 dicembre 2012 quando un accordo tra Stato e Regioni indica come obbligatoria l’iscrizione al servizio sanitario regionale per i bambini stranieri presenti sul territorio a prescindere dal possesso del permesso di soggiorno. Pochi mesi dopo, il 2 luglio 2013, l’allora leader del centrosinistra Umberto Ambrosoli presenta in Consiglio regionale una mozione proprio per estendere le cure pediatriche ai figli degli irregolari. Iniziativa bocciata, a suon di slogan come: “I clandestini altrimenti potrebbero confidare nel fatto che basterà mettere piede su una nostra costa per avere il pediatra di base a disposizione, servizio che noi italiani paghiamo con le tasse”; “La questione viene utilizzata per portare avanti la battaglia ideologica che punta alla cancellazione della legge Bossi-Fini che regola i flussi”; e ancora: “I bambini degli irregolari possono già contare su un’ampia offerta di prestazioni offerte dal nostro sistema sanitario (il Pronto soccorso, ndr)”. Per l’Associazione sugli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) con la bocciatura della mozione viene privato del diritto alla cura chi è più vulnerabile e non viene tutelata la salute pubblica. Negli anni successivi alla battaglia in Consiglio regionale succede di tutto, ma senza che nella Lombardia a guida Lega ci sia mai politicamente il coraggio di iscrivere i bambini irregolari al servizio sanitario regionale in via definitiva. Con una delibera del 20 dicembre 2013 - e sotto la minaccia di un’azione civile al Tribunale per discriminazione promossa dall’Asgi - la Giunta di Roberto Maroni stabilisce per tre anni l’iscrizione al servizio sanitario regionale in via sperimentale, con la possibilità di accedere al pediatra a cui Regione Lombardia rimborsa 25 euro. La misura viene prorogata di anno di anno per il 2017 e per il 2018. La scelta dello scorso dicembre: “La sperimentazione si ritiene conclusa - recita la delibera - e l’iscrizione al servizio sanitario regionale viene assunta in via definitiva a partire dal 1° gennaio 2019”. Le modalità previste sono: iscrizione dei minori stranieri irregolari al servizio sanitario regionale (ma senza assegnazione di un pediatra specifico, ciò vuol dire che ogni famiglia può rivolgersi di volta in volta a chi crede); la visita viene rimborsata al pediatra dal servizio sanitario nazionale con 25 euro; tra i 14 e i 18 anni i minori possono rivolgersi a un medico di famiglia sempre a spese pubbliche (15 euro a visita). Il leghista Emanuele Monti alla guida della Commissione Sanità, rivendica il provvedimento: “Nessun imbarazzo - dice. È un adempimento a una legge nazionale. Nulla cambia rispetto al passato perché dal 2014 stavamo applicando la norma in modo sperimentale. Ora abbiamo stabilizzato l’intervento”. Riflette Paola Bocci, consigliera regionale Pd: “Un passo è stato fatto, ma non è sufficiente. Serve più equità e, senza distinzioni per colore della pelle o status, la Regione dovrebbe assicurare anche ai figli degli irregolari l’assegnazione di un pediatra specifico per poter essere seguiti dallo stesso medico nel corso degli anni. Non stiamo parlando di uno specialista qualsiasi, ma è il più importante riferimento dei genitori per la salute e la crescita complessiva del bambino, ha con la famiglia un rapporto di fiducia fondato sulla continuità. È anche un anello chiave per l’inserimento e l’integrazione nella comunità e un presidio di controllo”. Intanto la svolta c’è. Stati Uniti. La California sospende la pena di morte: “Non è da Paese civile” La Stampa, 14 marzo 2019 Ha il più affollato braccio della morte degli Usa. Il governatore annuncia la moratoria: “Le condanne capitali hanno discriminato imputati con infermità mentale, neri e latini”. L’ultima esecuzione risale al 2006, ma in attesa ci sono 740 detenuti. Quello della California è il “braccio della morte” più affollato di tutto il continente americano. La pena capitale, reintrodotta nel 1976, sarà sospesa oggi. Il governatore della California, Gavin Newsom, decreterà una moratoria sulle esecuzioni di condanne a morte. Lo Stato della West Coast è attualmente uno fra quelli con meno esecuzioni in tutti gli Stati Uniti, con un totale di 13. La moratoria comporterà la chiusura della cella delle esecuzioni nella prigione di San Quintino. Newsom, democratico, oggi farà l’annuncio in un dichiarazione in cui sosterrà che la pena di morte sia stata un “fallimento”. “Ha discriminato gli imputati con infermità mentale, gli afroamericani e i latini e tutti quelli che non si possono permettere di pagare una difesa costosa”, dirà il governatore secondo quanto fatto filtrare ai media. “Non credo che una società civile possa pretendere di essere un leader a livello mondiale finché il suo governo continua a condannare a morte la sua gente”, ha aggiunto. Con questa decisione, la California si unirà alla Pennsylvania, all’Oregon e al Colorado, che hanno già deciso la moratoria sulle esecuzioni. Bosnia. Siamo i figli degli stupri etnici. E non vogliamo più nasconderci di Linda Caglioni L’Espresso, 14 marzo 2019 Hanno tra i 23 e i 27 anni, non conoscono i padri criminali di guerra. Per la prima volta parlano e raccontano la loro vita. Di vergogna e rifiuto. Il giorno in cui sono andato a bussare alla porta di mio padre e l’ho visto per la prima volta è stato come avere davanti il mio riflesso. Non serviva alcun test del Dna per capire che ero davvero suo figlio. Abbiamo la stessa corporatura, lo stesso colore degli occhi, dei capelli. Solo che io, al contrario di lui, non sono un criminale di guerra”. Alen Muhi c ha 25 anni, vive a Goražde, città della Bosnia a una manciata di chilometri dal confine serbo. Prima di conoscere personalmente il padre sul ciglio di una porta, se lo è immaginato attraverso la lettura delle dichiarazioni in tribunale, dove è stato condannato per i reati commessi durante il conflitto degli anni Novanta. Tra le atrocità di cui si è macchiato, anche lo stupro che ha generato la vita di Alen. “Ai giudici mio padre diceva di essere pentito, prometteva che si sarebbe preso cura di me. Ma quando ci siamo incontrati mi ha chiesto di non farmi più vedere, perché aveva già una famiglia. La mia madre biologica invece vive negli Stati Uniti: ci siamo incontrati una volta, ma adesso non siamo più in contatto”. Abbandonato dopo la nascita, Alen è uno dei bambini nati dalle violenze sessuali avvenute tra il 1992 e il 1995. Un capitolo doloroso e mai del tutto affrontato, che negli ultimi mesi sta tornando alla ribalta attraverso la voce di coloro che, come Alen, si considerano Zaboravljena Djeca Rata, letteralmente figli dimenticati della guerra. Questo è anche il nome dell’associazione che riunisce i ragazzi frutto degli stupri e delle relazioni che emersero tra le maglie del conflitto. Ne fanno parte uomini e donne tra i 23 e i 27 anni, abitanti di una Bosnia che fatica a fare i conti con la loro esistenza. “Ho saputo di essere frutto di stupro nel 2002. Andavo alle elementari, stavo giocando a calcio quando cominciai ad azzuffarmi con un altro bambino, che a un certo punto mi gridò: “Tu sei un bastardo dei cetnici”. Quando rientrai a casa chiesi ai miei genitori adottivi cosa significasse quella frase. Mi dissero tutta la verità. Il ragazzetto che mi aveva insultato non aveva colpe. Ripeteva soltanto quel che aveva sentito raccontare dai suoi familiari. Ma è l’esempio di come il senso di vergogna e di rifiuto perseguiti i ragazzi come noi”. La donna che ha lasciato Alen nell’ospedale di Goražde subito dopo il parto e non ha più voluto sapere nulla di lui, non è che una delle donne (tra le 20 e le 50 mila, le statistiche sono incerte) stuprate durante un conflitto che ha visto serbi, croati e musulmani bosniaci scontrarsi in un intreccio di rivendicazioni identitarie e interessi politici. In quegli anni, lo stupro veniva usato come arma di annientamento. Nella logica dei militari, l’aggressione sessuale, condotta in campi di concentramento femminili, era sia un modo per umiliare il maschio nemico sia un’efficace strategia di pulizia etnica. I nati da quegli stupri, però, sono solo una delle categorie rappresentate dall’associazione Zaboravljena Djeca Rata, che offre sostegno anche a ragazzi i cui padri erano, per esempio, soldati nei reparti internazionali, volontari, turisti di guerra, uomini di passaggio poi spariti nel nulla. In alcuni casi si trattò di relazioni d’amore dove non ci fu alcun elemento di costrizione o violenza. In altri furono effetto della disperazione, che portò tante donne bosniache a prostituirsi pur di ottenere un pacco di pasta o qualche soldo da spendere al mercato nero. “Eravamo riusciti a metterci in contatto con alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite. Avevano promesso che ci avrebbero finanziati. Ma quando hanno scoperto che offrivamo appoggio anche a chi è nato dai rapporti con militari internazionali hanno ritirato il loro sostegno”, spiega Alen. “Facciamo fatica a ottenere aiuti dall’estero e neanche il nostro Paese ci ha mai concesso sconti, agevolazioni. Perfino riuscire a registrarmi con il cognome dei miei genitori adottivi e annullare quello della mia madre naturale è stata una battaglia. Finché il nazionalismo governerà la Bosnia Erzegovina, dovremo continuare a chiederci: a quale categoria apparteniamo noi? Perché non ci riconoscono?”. I membri dell’associazione sono per adesso una quindicina, anche se i sommersi degli anni Novanta sono in realtà molto di più: tra i 2 mila e i 4 mila secondo le ultime stime, anche se avere un dato certo risulta impossibile. Nell’atmosfera di omertà che domina l’argomento, però, perfino decidere di uscire allo scoperto e far parte del gruppo rappresenta una rivoluzione. Tanti si vergognano e preferiscono non parlare dello stigma che si portano sulle spalle, temendo di peggiorare la situazione. Anche all’interno dei Zaboravljena Djeca Rata la maggior parte dei ragazzi continua a mantenere l’anonimato. Oltre ad Alen, l’unica ad aver scelto di esporsi pubblicamente è Ajna Jusic. Cresciuta con la madre naturale, è lei alla testa dell’associazione. Ha venticinque anni e vive da sola a Sarajevo, dove studia psicologia. Qualche tempo fa è stata contattata da Amra Delic, una dottoressa che raccoglie da anni i dati sui bambini nati dalle violenze durante il conflitto. Da allora si batte per i diritti dei cosiddetti figli della vergogna. La sua espressione di sfida è diventata l’immagine simbolo di una lotta che mira a scardinare silenzi e tabù disseminati lungo il più recente passato bosniaco. La contatto attraverso la loro pagina Facebook e riesco a fissare l’intervista a Sarajevo, dopo qualche settimana di corrispondenza andata avanti a singhiozzo. Ci troviamo al Caffè Tito, poco lontano dal viale dei tigli. Al momento dell’incontro, Ajna non si preoccupa di mostrare la sua diffidenza. “Per me è una scocciatura dover parlare con i giornalisti e raccontare la mia vita. Ma so che devo farlo, perché la visibilità mediatica ci aiuta a portare in superficie il nostro dramma e a dare uno scossone alle autorità bosniache. Nessuno, dalla fine della guerra, ha mai affrontato pubblicamente l’esistenza di noi, nati dagli stupri. Non esistono registri o elenchi ufficiali. Ma tenerci nell’ombra non fa che rendere più dolorosa la discriminazione che subiamo ogni giorno”. Avere l’attenzione di televisioni e giornali è anche un modo di chiamare all’appello altri dimenticati della guerra, ragazzi dispersi in tutta la Bosnia e ancora oggi obbligati ad accontentarsi di un’identità dimezzata. “Il mio certificato di nascita è compilato solo per metà, perché non ho le informazioni del mio padre biologico. Nel nostro Paese, la prassi vuole che sui documenti si scrivano nell’ordine nome, nome del padre, cognome. Non è possibile usare quello della madre. Così, quando negli uffici gli impiegati vedono i campi rimasti vuoti, io sono costretta a dare spiegazioni, a ripetere che mia mamma è stata stuprata e che sono frutto di una violenza”. In realtà, il campo da compilare con il nome del padre si trova anche sui documenti richiesti per aprire il proprio conto in banca o su una semplice multa per eccesso di velocità. Si tratta di un escamotage per non inciampare in casi di omonimia, spiegano alcuni. Il riferimento all’uomo di casa per confermare la propria identità, invece, ha piuttosto a che fare con gli ingranaggi di una società profondamente patriarcale. E che, a oltre venticinque anni dal conflitto bosniaco, tenta di sommergere i cittadini che non hanno mai conosciuto il volto paterno. “Ho scoperto di essere figlia di stupro appena adolescente. Un pomeriggio ho trovato alcuni documenti dell’ospedale, dove era descritto tutto quello che mia mamma aveva subito, le ferite che aveva riportato”, racconta Ajna Jusic, presidentessa dell’associazione. “Ho cercato di affossare quella scoperta dentro di me. Finché sono esplosa. E insieme a lei ho iniziato un percorso psicologico. Non avrebbe mai voluto dirmelo, ma da allora si è sentita sollevata, perché abbiamo cominciato a portare quel peso insieme. Per la prima volta mia madre ha avuto la sensazione di poterne parlare con qualcuno”. Con gli accordi di Dayton del 1995 viene sancita la fine delle ostilità e si pianifica la divisione della Bosnia Erzegovina su base etnica: nasce così la Repubblica serba, separata dalla Federazione croato-musulmana. La firma dei trattati metterà termine a un massacro durato oltre tre anni. Ma finisce per cristallizzare un equilibrio precario, minacciato tutt’oggi da un clima di risentimento tra le parti e di responsabilità mai confessate. Un panorama controverso, dove essere figlio di stupro, figlio del nemico, rappresenta un peccato originale che striscia nelle vene. E da cui si genera una disparità di trattamento, che filtra dal banco informazioni delle segreterie scolastiche ma non risparmia nemmeno il cortile domestico. “Quando ho cominciato l’università avrei voluto ottenere una borsa di studio come chi è rimasto senza uno dei due genitori durante la guerra. Ma per riceverla gli impiegati vogliono vedere il certificato di morte del padre, che io ovviamente non ho. È solo un esempio. La discriminazione parte dello Stato, ma è vissuta anche all’interno della stessa famiglia. Chi di noi ha la madre che si è sposata e ha avuto altri figli viene spesso maltrattato dal resto dei parenti, messo da parte”. Ajna racconta le sue ragioni quasi con distacco, senza incertezze e senza rivelare dettagli drammatici. Perché teme che portare alla ribalta i dimenticati della guerra possa consegnarli a un’altra forma di discriminazione: la compassione nei loro confronti. Lei e i suoi compagni, invece, ci tengono a ribadire che non vogliono suscitare pietà negli altri, perché sarebbe un altro modo di percepirsi come diversi. “Vogliamo ricordare alla società bosniaca che noi esistiamo e che siamo uguali ai nostri coetanei. Ma per avere le stesse garanzie è necessaria una legge che ci identifichi come categoria protetta. Prima, però, serve che le autorità dichiarino vittime di guerra le madri violentate. In tantissime aspettano questo riconoscimento, che garantirebbe loro aiuto psicologico ed economico”. Sul profilo Facebook di Ajna ci sono scatti che la ritraggono in momenti di vita quotidiana trascorsi con la madre. Viaggi insieme, feste di compleanno, tenerezze tra le mura di casa. Nelle fotografie appaiono come due donne qualunque. Nella realtà, sono una mamma e una figlia che sono state in grado di trasformare la radice del loro trauma in una lezione d’amore da diffondere, per spronare altre donne violentate a confidarsi con i propri ragazzi. Ma quando chiedo ad Ajna di farmela conoscere ricevo in risposta un secco no, che suona come il suo tentativo di volerla proteggere da ogni possibile scossa esterna. “Sono grata a mia madre perché mi ha insegnato che non valgo meno degli altri solo perché sono nata da una violenza, anche se il governo cerca di convincerci del contrario. Intanto, troppe persone continuano a insultare le nostre mamme, dicono che se la sono cercata. Quando senti queste parole devi continuamente ricordare a te stessa che tua madre non ha nessuna colpa”. I Zaboravljena Djeca Rata non sono l’unica realtà a voler scomodare la polvere nascosta sotto il tappeto. Diverse sono le associazioni impegnate a chiedere alle autorità bosniache di affrontare gli strascichi che impediscono al Paese di ripartire. L’attivista Bakira Hase c i c spiega che, tra i nodi irrisolti, c’è anche quello dei criminali ancora impunti: “Molti delinquenti sono scappati in Serbia, dove sono protetti dalla doppia cittadinanza. Un altro ostacolo alla riappacificazione è la mancanza di protezione per chi sceglie di testimoniare. Io stessa, quando torno a Višegrad e cammino per strada o salgo sull’autobus, sento alle mie spalle minacce e insulti”. Bakira è stata più volte stuprata nell’aprile del 1992, a conflitto appena esploso. La stessa sorte è toccata a una delle sue figlie e tra i loro carnefici c’era anche un vicino di casa. Oggi Bakira ha 65 anni e non smette di investire energie nell’associazione “Donne vittime di guerra”, da lei fondata nel 2003 per dare un senso alla rabbia che quei giorni le hanno lasciato in eredità. “Non smetterò di perseguitare i delinquenti che hanno distrutto migliaia di donne. Ci hanno lasciato dentro una cicatrice che non guarirà mai. A tanti anni di distanza, penso ancora che sarebbe stato meglio perdere un braccio o una gamba in guerra, piuttosto che avere memoria di quanto ho subito. Ma quegli stupri hanno distrutto anche migliaia di famiglie. Dopo le aggressioni ci sono state mogli abbandonate dai mariti. Perché il compagno, alla donna violentata, ha sempre posto una domanda che qui in Bosnia è considerata normale: “Come ti sei permessa di farti stuprare?”“. Arabia Saudita. A processo le attiviste per i diritti delle donne. “Non lasciatele sole” di Francesca Caferri La Repubblica, 14 marzo 2019 “Mia sorella sapeva di essere nel mirino ma non si è fermata. Credeva nei suoi valori. Per le sue idee oggi paga un prezzo altissimo: da dieci mesi è in carcere, è stata torturata, molestata sessualmente. Ha provato a parlarne con uno psicologo ma solo a ricordare quello che aveva subìto è svenuta. La seconda volta è stata riportata dal medico a forza: con una benda sugli occhi e legata a una sedia a rotelle”. Walid al Hatloul è il fratello minore di Loujain, una delle attiviste saudite che ieri per la prima volta dal giorno dell’arresto, a maggio, sono comparse davanti a un giudice a Riad. All’udienza a porte chiuse - ingresso vietato anche a diplomatici europei e giornalisti - oltre ad al Hatloul, 29 anni, sono comparse anche Eman al Nafian, 34 anni, insegnante, madre di tre bambini, e Aziza Yousef, 60 anni, professoressa in pensione: i volti più in vista del movimento femminista saudita. Insieme a loro un’altra dozzina di donne, tutte arrestate nella retata contro le attiviste che per anni si sono battute per la fine del divieto di guida ordinata dal governo proprio alla vigilia della fine del divieto stesso. I familiari e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno denunciato che le prigioniere sono state torturate, frustate con cavi elettrici, sottoposte a waterboarding e sottoposte a molestie sessuali. Walid conferma: “L’estate scorsa Loujain poteva chiamare a casa una volta a settimana. Diceva che stava bene ma quando i miei genitori sono andati a visitarla ha raccontato che l’avevano picchiata, le avevano date scosse elettriche e che avevano cercato di strapparle i vestiti di dosso, urlandole che era una puttana”. Racconti simili anche dai familiari di altre detenute. Ieri Al Hatloul ha potuto finalmente conoscere i capi di accusa che le sono rivolti: ma non sono stati resi pubblici. E a nessuna delle attiviste è stato consentito finora avvalersi di un avvocato. Una sola notizia che potrebbe essere positiva: inizialmente prevista presso la corte che si occupa di reati legati al terrorismo, la causa è stata discussa presso un normale tribunale. Un segno che fa sperare che le tante pressioni internazionali su questo caso stiano funzionando. “Sento molto parlare di riforme - conclude Walid al Hatloul - ma non posso chiedermi che tipo di riforme può portare avanti un Paese che ha rinchiuso in carcere le donne che più di ogni altro si sono battute per le riforme. Questa è una cosa che non bisognerebbe mai dimenticare quando si parla di Arabia Saudita”. Brasile. Marielle Franco, dopo un anno arrestati due ex poliziotti: e i mandanti? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 marzo 2019 È passato un anno da quando, la notte del 14 marzo 2018, Marielle Franco e il suo autista Anderson Gomez furono uccisi a colpi d’arma da fuoco nel quartiere Estácio di Rio de Janeiro: un omicidio mirato, pianificato, eseguito con professionalità del quale, da ieri, sono sospettati due ex poliziotti. Secondo fonti di stampa l’arma del delitto era una mitragliatrice HK-MP5, un modello il cui uso in Brasile è limitato alla polizia e all’esercito e a determinate unità investigative. Alcune armi di questo tipo erano state registrate tra quelle in possesso della polizia civile di Rio de Janeiro nel 2011 per poi sparire, mentre le munizioni usate il 14 marzo 2018 avrebbero fatto parte di un lotto in dotazione alla polizia militare finito a sua volta nel nulla pochi anni prima. I testimoni hanno affermato che tanto l’automobile su cui viaggiava Marielle quanto quella dei killer erano in movimento quando vennero esplosi i colpi. La precisione di questi ultimi, che colpirono diverse volte Marielle al capo, lascia intendere che chi sparò aveva ricevuto un addestramento particolare. Le camere di sorveglianza installate nella zona erano state disattivate uno o due giorni prima. Immagini riprese da altre camere mostrano due vetture con targhe false, rivelerà la stampa - seguire Marielle la notte del suo omicidio. Nota per il suo impegno nella difesa dei diritti umani dei giovani neri, delle donne, degli abitanti delle favelas e delle persone Lgbti, Marielle - una donna bisessuale nata in una favela - era stata eletta consigliera municipale di Rio de Janeiro nel 2016. In precedenza, dal 2006 al 2016, aveva fatto parte della Commissione per i diritti umani dello stato di Rio de Janeiro. In quel ruolo aveva spesso denunciato le esecuzioni extragiudiziali e altre violazioni dei diritti umani compiute da agenti della polizia e dei servizi di sicurezza statali. Da ultimo, era stata nominata relatrice della Commissione di monitoraggio sull’intervento federale nelle operazioni di pubblica sicurezza dello stato di Rio de Janeiro. Questo spiega perché Marielle si fosse fatta una lunga lista di nemici: la polizia statale, quella federale, le milizie, i cartelli della droga, i parlamentari lesbofobi, i centri di potere bigotti e conservatori… praticamente tutti i gruppi contrari ai diritti e al rafforzamento della consapevolezza delle persone più vulnerabili del Brasile. Tra loro vanno cercati i mandanti. Sono passati dunque 12 mesi da quando Monica ha perso la sua compagna e il popolo dei senza voce, dei senza diritti, dei senza futuro ha perso la sua migliore rappresentante e difensora. La campagna mondiale per chiedere giustizia continua. Questa mattina alle 11 studenti e studentesse del Liceo Aristofane e del Liceo Orazio di Roma, incontreranno insieme ad Amnesty International l’ambasciatore del Brasile in Italia per consegnare 1600 messaggi e oltre 50.000 firme. Alle 17,30 presso la Casa internazionale delle donne si terrà un’iniziativa per Marielle promossa da varie associazioni della società civile. Su Marielle è stato appena pubblicato uno straordinario libro, “Marielle, presente!” di Agnese Gazzera, primo titolo di Capovolte, una coraggiosa piccola casa editrice indipendente. Marielle sarà ricordata anche nel corso dell’evento finale di “Libri come”, domenica 17 marzo alle 21. Congo. Grazia presidenziale per 700 detenuti politici Ansa, 14 marzo 2019 Il nuovo presidente del Congo, Felix Tshisekedi, ha graziato circa 700 prigionieri politici incarcerati sotto il suo predecessore. Tshisekedi ha firmato ieri il relativo decreto, rispettando la promessa fatta a inizio mese di farlo durante i suoi primi 100 giorni in carica. Tra le persone che verranno rilasciate c’è Firmin Yangambi, condannato nel 2009 a 20 anni di carcere con l’accusa di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Verrà liberato anche Franck Diongo, personaggio dell’opposizione condannato a cinque anni durante la precedente amministrazione. Il presidente ha detto inoltre che lavorerà attivamente per garantire le condizioni per un rapido ritorno di coloro che si trovano fuori dal Paese per motivi politici. Durante il suo primo viaggio internazionale nella vicina Repubblica del Congo a febbraio ha esortato decine di migliaia di esiliati politici a tornare a casa, dicendo che tutti sarebbero necessari per far avanzare il Congo. Mozambico. A Maputo gli ex detenuti preparano ostie per tutti di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 14 marzo 2019 Nella Casa della misericordia, che riabilita persone uscite dal carcere, è nato un laboratorio che produce il pane eucaristico. L’iniziativa, chiamata “Il senso del pane in Mozambico”, in realtà è figlia di un progetto nato nel carcere milanese di Opera. A Maputo l’aria è rovente e l’umidità toglie il fiato. La brezza dell’oceano non basta a lavare il sudore e purificare i peccati: in carcere si boccheggia, letteralmente. Lo sa bene padre Antonio Perretta, che ha scelto di diventare missionario quando aveva 7 anni. È più di un quarto di secolo, ormai, che accarezza le povertà del mondo come sacerdote della Comunità missionaria di Villaregia (www.cmv.it). E nella capitale del Mozambico - quasi due milioni di abitanti, “dove i cattolici sono il 28 per cento della popolazione e molti di loro non sanno fare neanche il segno della croce” - la situazione è spesso difficile. “La Chiesa, in questo Paese, è ancora giovane: ha “appena” 500 anni. Ma i problemi”, dichiara il missionario, “sono numerosi e, spesso, concreti: ad esempio, la difficoltà nella ricerca delle ostie, in parte dovuta al fatto che le comunità che compongono le parrocchie sono sparse su territori molto vasti, si addentrano per chilometri in sentieri sabbiosi. E poi, le ostie sul mercato spesso sono di qualità scadente. Questo rende problematica la distribuzione dell’Eucaristia nelle parrocchie. Per non parlare, poi, delle carceri”. Dove le persone detenute sono numerosissime (quasi tutti giovani e per delitti di piccola entità), “l’alimentazione è inadeguata, l’igiene precaria, i servizi sanitari poco efficienti e mancano quasi completamente programmi di reinserimento e di accompagnamento psico-spirituale”. Una speranza viene dal progetto “Laboratorio della libertà”, creato nell’ambito della pastorale penitenziaria arcidiocesana, che interessa circa 3.500 detenuti in quattro istituti del Paese: prevede percorsi di crescita spirituale e umana attraverso molteplici attività come la preghiera e la catechesi, la formazione biblica, la Scuola di vita, i laboratori professionali... “L’obiettivo”, evidenzia padre Antonio, “è aiutare chi ha sbagliato a orientarsi verso il bene e il rispetto per l’altro, favorendo il reinserimento nella società, senza ricadere nel crimine”. Proprio per offrire alle persone detenute una possibilità di riscatto e, allo stesso tempo, per rifornire le parrocchie di ostie, è nato il progetto “Il senso del Pane… in Mozambico”, gemmato dall’omonimo italiano: un laboratorio nel carcere di massima sicurezza di Opera, allestito da Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, dove tre persone detenute, che scontano una pena per omicidio, preparano e donano alle realtà che ne fanno richiesta le particole per l’Eucaristia. Attraverso delle lezioni video, girate nel penitenziario alle porte di Milano, Cristiano, Mattia ed Enzo hanno fornito in Mozambico una vera e propria guida per realizzare ostie. “L’aspetto più importante”, rileva Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della fondazione, “è che i detenuti sono diventati formatori e l’Eucaristia è stata posta al centro di un progetto di evangelizzazione e spiritualità concreta: il riscatto umano e sociale non può prescindere dalla trasformazione del cuore e dalla consapevolezza che tutti, in una rinnovata dignità, siamo figli di Dio, possiamo meritare fiducia e possiamo farci prossimi degli altri, come buoni Samaritani sulle vie delle coscienze e sulle strade del mondo”. Così, lo scorso dicembre, è nato un laboratorio anche in Mozambico, con detenuti ed ex detenuti ospiti nella Casa della Misericordia: “L’esperienza del carcere di Opera”, afferma Mosca Mondadori, “ha gemmato al suo interno questa realtà in uno dei Paesi più difficili dell’Africa, segno evidente del potere salvifico e di condivisione dell’Eucaristia”. “È il Vangelo”, richiama padre Antonio, “che ci invita a visitare i “detenuti” per incontrare in loro la persona stessa di Cristo per renderli pienamente figli di Dio”. Lo sa bene Fernando, il primo giovane entrato nella Casa della Misericordia: “Sto imparando a fabbricare le ostie”, racconta, “ed è un’esperienza molto interessante e ricca spiritualmente, che mi riempie di allegria. Sono battezzato da poco meno di un anno e per me è bello realizzare il pane dell’Eucaristia”. Quando, in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti decise di realizzare il laboratorio nel carcere di Opera, l’obiettivo era quello di offrire una testimonianza di misericordia sul valore dell’Eucaristia nella Chiesa. “Papa Francesco ha ricevuto i detenuti, benedetto il progetto e consacrato le nostre ostie”, afferma Arnoldo Mosca Mondadori, “e per noi è stata una gioia immensa metterci a servizio della Chiesa. In questi mesi, “Il senso del pane” ha visto l’adesione di decine di diocesi italiane e straniere, congregazioni religiose, circa 300 tra parrocchie, monasteri, realtà cristiane cattoliche non soltanto in Italia. Con il Mozambico, si aggiunge un ulteriore tassello di questa missione”. Che, nei prossimi mesi, arriverà nello Sri Lanka. “In accordo con il vescovo locale”, chiosa Mosca Mondadori, “creeremo un laboratorio anche in quel Paese. Le offerte ricavate dalla produzione delle ostie serviranno a sostenere economicamente le ragazze e le bambine che correrebbero il rischio di doversi prostituire o scegliere matrimoni di convenienza”. Così che, come ha insegnato il Giubileo, la Misericordia si trasformi in carità. È possibile richiedere gratuitamente le ostie scrivendo a: ilsensodelpane@gmail.com.