Un detenuto su tre, in Italia, è in carcere per droga pagellapolitica.it, 13 marzo 2019 “Già oggi i detenuti in carcere per droga sono il 34 per cento e non sono grandi narcotrafficanti: nella maggior parte dei casi sono piccoli spacciatori o addirittura consumatori. Inoltre il 25 per cento dei detenuti è tossicodipendente”. L’esponente dei Radicali Italiani Antonella Soldo ha commentato il disegno di legge presentato di recente dalla Lega con l’obbiettivo di inasprire le pene per la produzione, il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti. Soldo ha dichiarato che i detenuti per droga sono circa un terzo e che, nella maggior parte dei casi, si tratta di consumatori o spacciatori e non di “grandi narcotrafficanti”. I detenuti per droga nel 2018 - Il Ministero della Giustizia fornisce regolarmente dati sul numero di detenuti presenti nelle carceri italiane: al 31 dicembre 2018 erano in totale 59.655. Il Ministero rende disponibile anche il dato relativo ai soli detenuti per reati connessi alla droga: al 31 dicembre 2018 i detenuti “per stupefacenti” erano 21.080. Detenuti e tossicodipendenza - Abbiamo contattato l’ufficio stampa del ministero della Giustizia per poter accedere ad ulteriori dati, in modo da capire quanto è diffusa la tossicodipendenza tra i detenuti delle carceri italiane. La tabella sottostante, aggiornata al 31 dicembre 2018, mostra come i detenuti tossicodipendenti fossero in totale 16.036, il 27,9 per cento del totale. Davvero si tratta di “pesci piccoli”? La distinzione tra consumatori e spacciatori è difficilmente da verificare, perché la legge prevede la carcerazione per i casi in cui quantità e modalità di presentazione delle sostanze possedute “appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale” (articolo 73 del Testo Unico Stupefacenti, T.U.). Quindi, se a livello teorico i consumatori non dovrebbero finire in carcere, in concreto questo dipende da una valutazione discrezionale del giudice. Per quanto riguarda poi la più ampia distinzione tra “pesci piccoli” e “pesci grossi”, si può dividere tra detenuti in violazione per la sola detenzione ai fini di spaccio (art. 73 del T.U.), spesso ritenuti “pesci piccoli”, e detenuti accusati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 del T.U.) Il Libro bianco sulle droghe 2018 a cura di Fuoriluogo.it presenta i dati più recenti a riguardo. Le cifre fanno riferimento al 2017 e sono state fornite dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Secondo quanto indicato all’interno del dossier (qui scaricabile), dei 19.793 detenuti per stupefacenti presenti in carcere al 31 dicembre 2017, 13.836 (cioè il 70% del totale) lo erano a causa del solo art. 73 T.U., altri 4.981 in associazione con il più grave art. 74 e solo 976 esclusivamente per l’art. 74. Analizziamo il dato - La percentuale di ingressi in carcere in violazione del più grave art. 74 (associazione finalizzata al traffico di droga) è rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi anni, mentre il dossier segnala un aumento di ingressi per solo art. 73 (detenzione ai fini di spaccio). Se, infatti, nel 2015 i 12.284 ingressi ex art. 73 costituivano il 26,8 per cento del totale, nel 2017 ci sono stati 14.139 ingressi ex art. 73, pari al 29,37 per cento del totale. “I “pesci piccoli” continuano ad aumentare”, si legge nel dossier, “mentre i consorzi criminali restano fuori dai radar della repressione penale”. Il Ministero della Giustizia conferma in sostanza questi dati: al 31 dicembre 2018, il 35,3 per cento dei detenuti era in carcere per un reato connesso agli stupefacenti e il 27,9 per cento era tossicodipendente. La distinzione tra piccoli spacciatori e consumatori, che in teoria non dovrebbero andare in carcere, non è verificabile in concreto. La prevalenza dei “pesci piccoli” tra i detenuti risulta invece corretta, dal momento che la maggioranza dei detenuti per droga (70 per cento) è in carcere per il solo spaccio, mentre sono molti meno i detenuti accusati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Franco Corleone: i test antidroga in carcere devono essere anonimi gonews.it, 13 marzo 2019 Il Garante dei detenuti della Toscana: “necessario consenso informato e libero. Accertare uso di sostanze non deve avere fini disciplinari”. Il Difensore civico regionale Sandro Vannini: “Sono molti i cittadini che chiedono nostro intervento su accesso agli atti”. Messaggio del garante per i dati personali Antonello Soro: “Privacy fa parte del bagaglio dei diritti inviolabili dell’uomo anche quando non è in condizioni di libertà” Un evento tragico segna l’occasione di trattare un tema non all’ordine del giorno e sul quale, forse, in pochi hanno posto la necessaria attenzione: il diritto alla privacy all’interno degli istituti di detenzione. Tutto parte da una vicenda accaduta nel carcere fiorentino di Sollicciano qualche anno fa, precisamente nell’ottobre del 2014, quando una detenuta muore per overdose e l’amministrazione penitenziaria decide di sottoporre tutte le altre all’esame di liquidi biologici per accertare l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti. Il test, voluto per eventualmente procedere con sanzioni disciplinari nei confronti di chi fosse risultata positiva - e così accadde, perché ad alcune furono inflitti quindici giorni di isolamento e altre furono trasferite in carceri lontano da Firenze - fu estorto sulla base di consenso e informazioni non idonee e cioè avvertendo le detenute che gli accertamenti sarebbero serviti per le indagini giudiziarie sul decesso e non per fini disciplinari. Questa la ricostruzione riproposta oggi dal garante regionale dei detenuti Franco Corleone. L’intervento del Garante dei detenuti della Toscana prima, e di quello nazionale sulla Privacy dopo, ha portato alla condanna dell’amministrazione penitenziaria per comportamento scorretto, ma ha anche aperto un fronte che oggi, martedì 12 marzo, a Firenze è stato affrontato per “avviare una discussione chiara che porti a scelte pratiche e rispettose dei principi della Costituzione”, ha detto Franco Corleone in apertura del seminario “Carcere, test antidroga e diritti alla Privacy”, che si è tenuto questa mattina al palazzo del Pegaso. “Può apparire banale, ma a questo siamo: i test antidroga in carcere devono essere anonimi e soprattutto devono avere scopi preventivi e non disciplinari”. Quello di Sollicciano è ancora di più “il caso”, perché la questione della droga in carcere è “la vera questione. Coinvolge oltre il 50 per cento dei detenuti e non può essere trascurata”, ha continuato il Garante. “Occorre però partire dal punto che i detenuti hanno gli stessi diritti dei cittadini liberi. Coinvolgere il servizio sanitario e le strutture penitenziarie è urgente”, ha detto ancora Corleone che sul sovraffollamento di Sollicciano, sollecitato dai giornalisti, ha avvertito: “Se qualcuno volesse fare scelte di maggiore penalizzazione, aumenterebbe ancora di più il numero dei detenuti arrivando a quella quota mille che porterebbe all’esplosione della struttura”. Al tavolo di confronto voluto dal Garante con l’adesione della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali e della Società della Ragione, anche il Difensore civico della Toscana, Sandro Vannini: “I detenuti sono anche cittadini quindi il tema della privacy e dei loro diritti fondamentali non può essere trascurato o dimenticato”. L’istituto che svolge tutela non giurisdizionale e che opera gratuitamente su controversie nei rapporti con la pubblica amministrazione è anche “garante del diritto alla salute”. Questo diritto appare “molto più delicato da tutelare per chi è sottoposto a misure cautelari in carcere” e l’intervento in sinergia di istituti riconosciuti che operano su più livelli può essere risolutorio, come ha dimostrato la tragica vicenda di Sollicciano. Inoltre, sulla privacy e in generale sull’accesso ai dati, Vannini ha rilevato un’attenzione particolare da parte dei cittadini: “Riceviamo molte segnalazioni, a dimostrazione della necessità di trattare informazioni socio-assistenziali con la massima attenzione e delicatezza possibili”. Nel corso del convegno Corleone ha letto un messaggio del garante nazionale per la protezione dei dati personali Antonello Soro, secondo il quale la privacy, quale diritto fondamentale, rappresenta il “bagaglio di diritti inviolabili dell’uomo, anche quando questi è sottoposto a custodia cautelare in carcere. La struttura di detenzione non può, in nessun modo, negare questo diritto, può semmai comprimerlo in una misura strettamente indispensabile all’esecuzione della pena”. L’autodeterminazione informativa e l’autodeterminazione terapeutica rappresentano, ha proseguito Soro nel suo messaggio, “due aspetti essenziali della dignità, che è presupposto di legittimazione della pena e della sua finalità rieducativa”. Tutelare questi diritti fondamentali di libertà “diventa ancora più importante in carcere perché il detenuto può espandere la sua personalità individuale proprio attraverso la garanzia di questi diritti”. Il duplice intervento sul caso di Sollicciano da parte del garante regionale dei detenuti e di quello per la protezione dei dati personali, assume un significato ancora più importante, perché ha permesso di realizzare quella che Soro ha definito la “massima espansione dei diritti fondamentali su cui si fonda un ordinamento personalista quale il nostro”. Depressione in carcere: come e perché è importante intervenire di Gaspare Vezio stateofmind.it, 13 marzo 2019 Un nuovo studio mostrerebbe l’efficacia della psicoterapia interpersonale per i detenuti che soffrono di disturbo depressivo maggiore. Negli Stati Uniti, in media, il 23% dei prigionieri rilasciati ogni anno dichiara di aver sofferto di depressione maggiore durante il periodo di reclusione in carcere. Nel panorama statunitense la salvaguardia della salute psichica all’interno delle carceri viene messa in secondo piano, infatti i finanziamenti sono delegati ad ogni stato e sono insufficienti rispetto alla domanda: cosi facendo, a volte, i carcerati, quando ritornano nella società, si ritrovano in uno stato di salute mentale peggiore rispetto a quella precedente. Circa 15 milioni di persone, ogni anno, negli Stati Uniti, sono coinvolte nel sistema penitenziario. Essendo quella carceraria una popolazione molto ampia, dunque, l’insorgere di patologie mentali nei detenuti può esercitare un forte impatto, oltre che sui detenuti stessi, anche sull’intera società e non solo in termini economici. Depressione in carcere: lo studio con la psicoterapia interpersonale - I ricercatori della Michigan State University hanno testato l’efficacia della psicoterapia interpersonale (Ipt) su una popolazione di detenuti con disturbo depressivo maggiore (Mdd), per comprendere se questa terapia fosse accessibile nelle carceri mantenendo un costo contenuto. L’Ipt è un tipo di terapia che può risultare molto efficace poiché affronta eventi di vita difficili come la povertà, le aggressioni, l’abuso e molto altro, che sono molte volte caratteristici della popolazione carceraria. Il percorso terapeutico è basato sul ritornare con la mente a un determinato momento di difficoltà che ha segnato particolarmente l’individuo, cercando di richiamare le stesse emozioni provate, in modo tale da poterle esprimere, analizzarle e comprenderle sotto la guida del terapeuta, migliorando così la comunicazione e la relazione con il problema. Un team di terapeuti specializzati e psicologi che già lavoravano in carcere, è stato addestrato per trattare 181 detenuti con la psicoterapia interpersonale. Gli esperti hanno lavorato con i detenuti due volte a settimana per 10 settimane. Ogni detenuto è stato valutato singolarmente in tre momenti: all’inizio, al termine del trattamento e a tre mesi dalla fine del trattamento, per valutare l’impatto della terapia. Tutto ciò ha permesso di contenere i costi poiché non sono stati assunti nuovi professionisti ma soltanto formati quelli già presenti. Dai risultati emerge che l’Ipt ridurrebbe i sintomi depressivi, la mancanza di speranza e i sintomi connessi al disturbo da stress post traumatico. Questa terapia, grazie alla formazione dei professionisti che già lavoravano nelle carceri, si è rivelata efficace con un budget ristretto. Infatti si è stimato un costo medio di 575 $ per paziente che è nettamente inferiore rispetto a quello dei possibili trattamenti ai quali gli ex-detenuti vengono sottoposti al rientro nella società. Quello appena presentato è il primo studio che riesce a suggerire una soluzione terapeutica efficace e conveniente da applicare su una popolazione carceraria molto ampia, rivelando come il metodo analizzato possa realmente migliorare il benessere e la salute mentale di molte persone, prigioniere, prima di tutto, del proprio passato. Riforma del processo civile senza preclusioni. Ma sul penale è scontro Anm-Ucpi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2019 Si stringono i tempi per l’approvazione. E si attenuano le preoccupazioni dell’avvocatura. Ieri pomeriggio al ministero della Giustizia si è fatto il punto con le rappresentanze degli avvocati e dei magistrati sulla riforma del processo civile, mentre oggi è in agenda il confronto su quella penale. Quanto alla procedura, l’obiettivo è di arrivare alla presentazione in consiglio dei ministri delle deleghe entro la fine della prossima settimana; i decreti legislativi dovrebbero poi essere pronti per l’estate. Il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, sottolinea l’atteggiamento positivo di tutte le parti intervenute e un approccio costruttivo da parte del ministro Alfonso Bonafede. “Se il dialogo continuerà su questi presupposti”, osserva Mascherin, “possiamo avere ragionevoli aspettative di un risultato finale condivisibile e di soddisfazione per tutti gli operatori del diritto. Naturalmente quelli che saranno gli esiti diventeranno oggetto di confronto, da parte del Cnf, con tutte le componenti dell’avvocatura”. Anche per il presidente delle Camere civili Antonio de Notaristefani “i passi avanti sono stati significativi. Da parte del ministro Bonafede è stata dimostrata una buona capacità di ascolto che fa ben sperare per la versione definitiva della legge delega. Bisogna ricordare in ogni caso che interventi sulla procedura difficilmente producono la riduzione dei tempi di durata delle cause”. E de Notaristefani ricorda soprattutto l’anomalia di un processo che dedica una buona parte (secondo i dati della Giustizia circa il 30%) della conflittualità alle regole da applicare più che al merito. Più nel dettaglio, la riforma dovrebbe perdere per strada alcuni degli aspetti più sgraditi ai legali, dal taglio dei tempi della fase istruttoria, al regime più rigido delle preclusioni, all’oralità più spiccata del momento della decisione. Ci saranno regole per affrontare le liti di competenza del giudice unico, la stragrande maggioranza, ma, mettono in evidenza gli avvocati, senza inaccettabili compressioni del diritto di difesa. Nella fase stragiudiziale, confermato poi il ruolo di primo piano dell’avvocatura. Più acceso si profila il faccia a faccia di oggi sulle modifiche al Codice di procedura penale. Anche perché sembra tramontata nelle ultime ore la possibilità di una piattaforma comune tra Anm e Camere penali con tre punti chiave: potenziamento dei riti alternativi, ristrutturazione dell’udienza preliminare, depenalizzazione. La condivisione delle priorità, attaccano le Camere penali, non si concilia con il documento approvato sabato scorso dal comitato direttivo di Anm, con il quale si dà un giudizio positivo di molti dei punti di intervento proposti dal ministero della Giustizia. In particolare, a venire promosse dall’Associazione magistrati sono le misure per modificare il regime delle notifiche, quelle sui limiti alle impugnazioni con l’allargamento dei casi di inammissibilità e anche le l’introduzione di sanzioni pecuniarie per le parti che hanno proposto un appello inammissibile. Interventi che, per le Camere penali, rappresentano piuttosto una flagrante manomissione del giusto processo. Bonafede sulla riforma del processo: “settimana decisiva, momento storico” giustizianews24.it, 13 marzo 2019 “Siamo in una settimana decisiva per la riforma del processo civile e penale”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede affida a un post su Facebook l’annuncio della svolta nella riforma della Giustizia. Tra oggi e domani “nei due tavoli con avvocati e magistrati, tireremo le fila del lavoro portato avanti fino ad ora”, ha sottolineato. Annunciando quindi che “siamo all’ultimo miglio di un percorso che può portare ad un risultato storico per la giustizia del nostro Paese”. Bonafede parla ancora di “lavoro proficuo” e di “un terreno comune di confronto fra tutti gli attori in campo”. Messa così sembra che si è riusciti a trovare una sintesi tra le posizioni di Governo, magistratura e avvocatura. Ma gli ultimi eventi raccontano un’altra storia. Raccontano di una magistratura più vicina alle posizioni del Governo (fermo restando la netta contrarierà alla separazione delle carriere, che non rientra però in questo pacchetto di riforme) e dell’Unione delle Camere penali italiane sempre più lontana. Non solo: raccontano di un tentativo di sintesi che l’Unione delle Camere penali e l’Associazione nazionale magistrati avevano cercato di trovare e che, invece, sabato è miseramente naufragato. Con il risultato che l’Unione resta di fatto isolata rispetto al progetto di riforma e annuncia in una delibera (di sabato scorso) una “lotta dura” nonché la presentazione di proprie proposte in occasione del tavolo del 13 marzo al quale sono stati invitati. Dire “giudice terzo” è sacrilegio? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 marzo 2019 Perché l’Anm si oppone alla separazione delle carriere dei magistrati? Il presidente Minisci dice che la separazione porterebbe alla sottomissione del Pm al potere politico. Non è vero. La separazione sarebbe solo l’attuazione dell’articolo 111 della Costituzione. Perché l’Anm si oppone a un articolo della Costituzione? Il Presidente dell’Anm (l’associazione magistrati) Francesco Minisci ha tuonato l’altro giorno contro la separazione delle carriere, cioè contro il disegno di legge di iniziativa popolare che è arrivato in Parlamento e che propone di distinguere tra la carriera del Pm e quella dei magistrati giudicanti. Il dott. Minisci ha detto che separare le carriere dei magistrati equivale a sottomettere il pubblico ministero, cioè la magistratura inquirente, al potere politico, cancellandone l’indipendenza. Non è così: la proposta di legge della quale si discute prevede esplicitamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che peraltro è prevista dalla Costituzione, e dunque non potrebbe mai essere cancellata con una legge ordinaria. Sotto questo aspetto la Costituzione è perfettamente attuata e rispettata. Quello che oggi è disatteso, della Costituzione, è l’articolo 111, quello che esplicitamente prevede una distinzione tra accusa e giudice. Dice così, al secondo comma (testualmente): “ Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Non ci sono molte possibilità di interpretazione di questo principio. Si può anche pensare che un giudice che sia collega del Pm sia comunque imparziale, grazie alle sue eccezionali capacità professionali e alla sua grande dirittura morale. Benissimo. (Anche se non è molto ragionevole dire all’imputato: “Fidati, l’arbitro è dell’altra squadra ma è un bravo arbitro”). Quello che comunque è impossibile da sostenere è che un giudice che appartenga alla stessa “scuderia” dell’accusatore possa essere considerato “terzo” rispetto all’imputato. Oggi la terzietà del giudice non esiste. È del tutto evidente che l’approvazione di una legge sulla separazione delle carriere sarebbe semplicemente una formalità: e cioè la doverosa attuazione di una norma costituzionale che sin qui è rimasta lettera morta. Approvare una legge sulla separazione vuol dire attuare la Costituzione. Opporsi a questa legge vuol dire opporsi alla Costituzione. Così come è evidente che non ha senso polemizzare con una legge dove è scritto in modo chiarissimo che la magistratura - tutta la magistratura - è e resta indipendente, sostenendo che si tratta di una legge che prevede la sottomissione del Pm al ministro, come avviene in vari altri paesi occidentali. L’indipendenza della magistratura sicuramente non è un dogma dello Stato di diritto, però è prevista dalla Costituzione italiana e sin qui nessuno mai l’ha messa in discussione. Dico di più: se vogliamo con animo scevro da ogni faziosità esaminare la storia della giustizia italiana dell’ultimo quarto di secolo, non troveremo nessuna traccia di un pericolo di sottomissione del Pm alla politica mentre troveremo molte tracce - anzi evidentissime evidenze - del contrario. La politica è stata più e più volte umiliata dalla magistratura, che ha fatto cadere governi, ha stroncato carriere politiche, ha proposto leggi, ha bocciato leggi, ha cacciato leader di partito e ministri, ha ottenuto l’abolizione dell’immunità parlamentare prevista dai padri costituenti, ha chiesto e ottenuto obbedienza e sottomissione e rispetto (rispetto che non ha mai restituito) al potere politico. Il dott. Minisci dice: “Attenzione a non confondere la riforma della giustizia con la riforma della magistratura”. Non è chiarissimo cosa intenda dire. Come si potrebbe immaginare una riforma della giustizia che non sfiori la magistratura e il suo funzionamento, francamente mi risulta incomprensibile. Chi è che comanda nel mondo della giustizia, chi è che ordina, che organizza, che giudica? Non è certo il governo, che si tiene il più lontano possibile dall’amministrazione della giustizia, per un numero infinito di ragioni (ma il motivo principale, come si dice nel gergo sportivo, è la sudditanza psicologica, che riguarda tutti, reazionari e liberali, sinistre e destre, populisti e democratici); non è il Parlamento, che si comporta come il governo, intimorito e mansueto; non sono neanche gli avvocati, che spesso vengono posti in condizioni di inferiorità, sia dalla prevalenza della magistratura, e talvolta anche dalla sua arroganza, sia dal fatto che spesso gli avvocati diventano l’oggetto di attacco, o di vero e proprio linciaggio, da parte di settori abbastanza vasti della stampa e - di conseguenza anche dell’opinione pubblica. Chi comanda, oggi, nel mondo della giustizia è la magistratura ed è difficile pensare a una riforma della giustizia che non riformi anche la magistratura. Il problema non è quello di una riforma che imponga un ridimensionamento. Al contrario: ad esempio la separazione delle carriere promuove un ruolo nuovo e più vasto da parte sia della magistratura inquirente sia di quella giudicante. Una maggiore autonomia che viene esaltata proprio dalla reciprocità dell’autonomia tra accusa e giudici. La separazione delle carriere non deprime ma esalta il valore e il significato dell’autonomia. Lo moltiplica. È sufficiente a garantire la piena attuazione dell’articolo 111? Non credo. Probabilmente è necessario realizzare anche altre riforme che garantiscano il peso e l’autonomia dell’avvocatura. Non può esistere una giustizia giusta se all’autonomia dell’accusa e a quella della magistratura giudicante non si affianca una piena autonomia dell’avvocatura. La autonomia di tutti è la sola garanzia della parità reale tra accusa e difesa. E questa parità, prevista anch’essa dalla Costituzione, oggi non esiste. Da qualche tempo l’avvocatura italiana, e in particolare il Cnf, ha avanzato una proposta che merita di essere valutata e discussa anche dai magistrati: l’introduzione in Costituzione della figura dell’avvocato, con lo stesso valore e alla stessa altezza della figura del magistrato. Qual è il senso di questa proposta? Esattamente quello di garantire la massima autonomia e indipendenza dell’avvocatura. Perché i magistrati italiani non intervengono su questi temi? Perché quando parlano di giustizia accettano tutto tranne che sia messa in discussione la loro collocazione, il loro potere, i loro privilegi? Non è una domanda aggressiva: è una domanda accorata. Sono convinto che una discussione seria sulla riforma della giustizia che coinvolga avvocati, magistrati, giuristi, politici - possa avvenire solo se si rimuove il blocco corporativo che sin qui ha molto limitato le capacità di analisi, di giudizio e di proposta della magistratura. Credo che siamo tutti d’accordo nel condividere l’orrore per quello che è avvenuto in Iran, dove un’avvocata è stata sbattuta in prigione praticamente per tutta la vita, e sarà frustata. Lì, certo, la mancanza di autonomia della magistratura, e la mancanza di diritti dell’avvocatura, sono gli anelli forti di una catena che cancella ogni parvenza di diritto allo Stato iraniano. Se dio vuole siamo lontani anni luce, qui da noi, da quella civiltà giuridica degradata e morente. Forse se partiamo da questa constatazione possiamo iniziare a discutere su basi ragionevoli: l’indipendenza della magistratura dal potere politico - non solo dal potere politico autoritario e fondamentalista, ma da qualunque potere politico, anche il più democratico - è un’ottima garanzia per lo Stato di diritto. Ma chiedere l’unicità della carriera del magistrato e la rinuncia alla terzietà del giudice come assicurazione alla propria indipendenza è una follia. L’indipendenza non è un privilegio, è un dovere e una garanzia. Può essere difesa solo rinunciando ai privilegi e attuando la Costituzione. P. S. Speriamo che l’assurda situazione dell’avvocata iraniana condannata a 38 anni di prigione e 148 frustate non resti una notizia a margine del nostro dibattito pubblico. È un fatto gravissimo, che non può lasciare tranquillo nessun operatore di giustizia, né il mondo politico. Il governo italiano deve intervenire. E sarebbe un segnale molto positivo se almeno in questa battaglia magistratura, avvocatura, politica di governo e di opposizione, trovassero un momento di unità. Non possiamo disinteressarci, considerare l’arresto di quell’avvocata una cosa che riguarda un mondo diverso dal nostro. Riguarda noi, la nostra civiltà, la modernità, la necessità del Diritto. Quelle strane coincidenze che fanno ancora incrociare giustizia e politica di Francesco Damato Il Dubbio, 13 marzo 2019 Con la vicenda del “processo” a Salvini torna a galla la patologia del nostro sistema. Un “male” che risale a prima di Tangentopoli e Mani pulite. Per carità, non parliamo di orologi e orologiai. E neppure di calendari, e di chi si annota tutte le scadenze utili a fare gli auguri, o a rovinare la festa di turno. Anche questa volta le coincidenze sono state casuali, o incidentali. Ma, appunto, anche questa volta i passaggi politici si sono sovrapposti, o sono stati sottoposti, come preferite, a passaggi giudiziari, o para-giudiziari. In quest’ultimo modo possono essere chiamati quelli in cui i politici agiscono e decidono come magistrati per competenze loro conferite dalla Costituzione, e non ancora soppresse da chi forse non vedrebbe l’ora di farlo se disponesse in Parlamento dei numeri necessari allo scopo. Il conflitto latente, a dir poco, sin dalla nascita del governo gialloverde sul progetto della linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci da Lione a Torino è alla fine esploso, con la “minaccia di crisi” contestata dallo “sbigottito” vice presidente grillino del Consiglio al suo omologo leghista Matteo Salvini, nelle stesse ore della diffusione della notizia di indagini su Silvio Berlusconi per presunta corruzione in atti giudiziari. Che cosa c’entrasse Berlusconi nei venti di crisi soffiati per un po’ sul governo gialloverde, sino alla sopraggiunta soluzione dilatoria dei bandi a lungo corso per gli appalti, lo avevano spiegato gli stessi grillini, volenti o nolenti, quando avevano contestato la posizione di Salvini a favore della Tav sfidandolo a “tornare” dal Cavaliere. Che Di Maio in persona aveva rappresentato, secondo i giorni o le ore dei suoi incubi, come il ministro degli Esteri, o dell’Economia, o della Giustizia di un governo di centrodestra, forse già prima e senza elezioni anticipate, presieduto da un Salvini tornato appunto all’ovile. In verità, c’era già un’ampia letteratura retroscenista che dava Salvini contrario o quanto meno refrattario all’idea di rimettersi a livello nazionale con Berlusconi, relegato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso ad alleato locale, o periferico. Ma evidentemente essa non era bastata a rasserenare Di Maio e a risparmiargli nelle riunioni con i compagni di partito inquieti, o addirittura smaniosi di rompere con Salvini, la rivendicazione del ruolo di “argine” attribuitosi rispetto al fantasma di un Cavaliere addirittura guardasigilli, con tutti i problemi, vecchi e nuovi, che costui ha con la giustizia. Secondo Michele Serra, sulla Repubblica, Berlusconi sarebbe un uomo ormai chiaramente “al tramonto”, tanto che sarebbe praticamente caduta nel nulla la notizia sulle sue presunte manovre per strappare al Consiglio di Stato tre anni fa una sentenza a favore di una consistente partecipazione a Mediolanum, contestatagli invece dalla Banca d’Italia perché condannato per frode fiscale. Troppo ingenuo, direi, il buon Serra. Era invece bastato e avanzato che la notizia delle indagini su Berlusconi per la sentenza del Consiglio di Stato comparisse sulle agenzie, sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa dei telegiornali perché le cronache politiche sulla Tav e sull’avvicinamento alla crisi di governo si tingessero ulteriormente di giallo. E si moltiplicassero dietro l’angolo o nel ‘ buco’ della montagna tanto contestato in Val di Susa sospetti, congetture e quant’altro sul minore o maggiore potere contrattuale derivante a Salvini nella partita con Di Maio, e viceversa, dalla nuova o rinnovata vicenda giudiziaria del Cavaliere. E si facessero spallucce alla convinzione espressa, magari a ragione, dai difensori di Berlusconi sull’esito delle indagini scontato a favore del loro assistito, tornato intanto alla piena agibilità politica tanto temuta dal vice presidente grillino del Consiglio guardando ben oltre la candidatura del presidente di Forza Italia al Parlamento Europeo nelle elezioni di fine maggio. D’altronde, è appena fresco di stampa l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera in cui si immaginano elezioni anticipate, all’esaurimento della ennesima tregua, destinate a produrre “un quadro movimentato dalla ritrovata libertà d’azione dei 5 stelle nuovamente partito di lotta, da una sinistra che ha ritrovato la baldanza e da qualche inchiesta giudiziaria” capace di disturbare il centrodestra a trazione leghista destinato a uscire vincente dalle urne. Così “il nuovo quadro - ha scritto il nient’affatto sprovveduto Mieli a fatica potrebbe presentarsi come più stabile di quello attuale”. Nel culmine delle polemiche sulla “testa dura” rivendicata da Salvini contestando anche i ‘ forti dubbi e perplessità’ espressi pubblicamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla “convenienza” della Tav, o della sua versione maschile, Di Maio non aveva soltanto commesso la gaffe istituzionale di anteporsi al capo del governo - “Io e Conte” per definire minoritaria la posizione dello scomodo e cocciuto ministro dell’Interno. Egli aveva anche ricordato a quest’ultimo - casualmente, per carità, in attesa del voto del 20 marzo nell’aula del Senato sulla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di processarlo per la vicenda della nave “Diciotti”, con l’accusa di sequestro aggravato di oltre 170 immigrati, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora- che “avremo problemi in futuro” insistendo a reclamare la Tav. “Problemi in futuro”, ripeto. Un no al processo a Salvini per l’affare Diciotti è stato già espresso dalla competente giunta del Senato, presieduta dal forzista Maurizio Gasparri, col concorso dei componenti grillini dopo una consultazione digitale dei militanti del movimento delle cinque stelle. Ma non è per niente scontata, nelle nuove condizioni politiche createsi con gli sviluppi delle polemiche sulla Tav, neppure dopo la frenata sulla crisi compiuta ricorrendo all’espediente degli appalti con la clausola della dissolvenza incorporata, un’automatica ripetizione del voto e/ o degli schieramenti della giunta nell’assemblea di Palazzo Madama. Dove è richiesta la maggioranza assoluta, i numeri della coalizione gialloverde, già striminziti alla partenza del governo, si sono ulteriormente ridotti con alcune espulsioni di dissidenti dal gruppo pentastellato e permangono resistenze, sempre fra i grillini, alla linea contro il processo a Salvini espressa a pur larga maggioranza - 59 per cento contro 41- dalle tastiere dei computer collegati con la “piattaforma Rousseau” di Davide Casaleggio. Certo, Salvini potrà contare, sul piano personale come senatore e sul piano politico come leader leghista, anche sui voti dei gruppi che rappresentano in Parlamento i partiti di Berlusconi e di Giorgia Meloni, forse più che sufficienti a colmare i dissensi grillini combinati con l’opposizione targata Pd. Che è pregiudizialmente schierata in tutte le sue anime o correnti con la richiesta della magistratura di turno. Pregiudizialmente, perché persino l’ex segretario del partito Matteo Salvini, il senatore di Scandicci che voleva una volta ripristinare il primato della politica sulla magistratura, ha avuto questo approccio dichiarato pubblicamente con la pratica Salvini: “Mi riservo di leggere bene le carte per votare sì al processo”. O, come imporranno le procedure, no alla proposta della giunta di rifiutare l’autorizzazione ai giudici di Catania. Naturalmente nel caso di un no del Senato al processo a Salvini condizionato dai voti forzisti o, più in generale, di un centrodestra pienamente riesumato, avremmo un rovesciamento della maggioranza di governo, con tutte le conseguenze prevedibili, o magari senza conseguenze, come potrebbe anche accadere in una situazione politica così anomala e imprevedibile quale è diventata da tempo quella italiana. Ma ciò avverrebbe - questo è il punto accennato all’inizio di queste riflessioni- all’incrocio fra iniziative politiche e giudiziarie, o para-giudiziarie, com’è l’intervento del Senato attivato costituzionalmente dall’azione della magistratura. Se questa non è una patologia ormai del sistema, risalente a molti anni fa, persino a prima dello spartiacque comunemente considerato di Tangentopoli, o Mani pulite, ditemi voi come si debba o possa definire. “Uccisi dalla camorra e dallo Stato”: sit-in dei familiari delle vittime innocenti al Viminale di Attilio Nettuno casertanews.it, 13 marzo 2019 I parenti a Roma dal ministro dell’Interno: “Vogliamo essere ascoltati”. I familiari delle vittime innocenti della camorra tornano a Roma. Domani 13 marzo protesta dinanzi al Viminale per chiedere giustizia dopo anni di silenzio da parte dello Stato. Al presidio parteciperanno i familiari di alcune delle vittime innocenti del clan dei Casalesi che si sono visti sbattere le porte in faccia da parte del Ministero dell’Interno che non ha riconosciuto lo status di vittime innocenti della camorra. “Chiederemo solo di essere ascoltati dal ministro Matteo Salvini - fanno sapere i familiari - La nostra sarà una protesta civile e democratica”. I familiari annunciano che un’eventuale “indifferenza” da parte delle istituzioni rappresenterebbe per loro “l’ennesima mortificazione”. Da tempo, infatti, i familiari delle vittime innocenti della camorra hanno ingaggiato una vera e propria battaglia per avere giustizia ed evitare che i loro congiunti vengano uccisi due volte, dalla camorra e dal silenzio istituzionale. Tra i partecipanti al sit-in ci sarà anche Arturo Della Corte, il fratello di Adriano Della Corte ucciso per avere la stessa auto del nipote del boss Antonio Bardellino, vero destinatario del commando killer. Della Corte nei mesi scorsi aveva presidiato lo spazio antistante il Ministero con il suo “ramadan” per la giustizia, restando fuori al Viminale da mattino a sera senza cibo ed acqua. Con lui ci saranno, tra gli altri, la sorella di Genovese Pagliuca, la figlia di Pasquale Pagano ed altri. Ognuno di loro indosserà una maglietta con la foto del parente ucciso e la scritta: “Vittime innocenti della camorra e dello Stato”. “Chiederemo di Salvini - commenta Della Corte tra i promotori dell’iniziativa - Ma a noi interessa essere ascoltati anche da un funzionario. Chiediamo l’intervento da parte dello Stato. Ci sentiamo abbandonati e sfiduciati perché per noi non sono passati 20, 15 o 12 anni: per noi i nostri familiari sono stati uccisi ieri e la ferita è ancora aperta”. Whistleblowing in espansione. Sedici Stati europei hanno norme ad hoc di Fabrizio Vedana Italia Oggi, 13 marzo 2019 Sedici Paesi dell’Unione Europea hanno adottato una normativa sul whistleblowing e di questi ben undici l’hanno fatto con provvedimenti legislativi adottati nel corso degli ultimi diciotto mesi. Il dato è emerso in occasione del convegno su “Prevenzione e repressione della corruzione nel contesto internazionale: Italia e Stati Uniti” tenutosi ieri presso l’Università degli Studi di Milano e che ha visto la presenza, in qualità di relatori, anche del Prof. Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e del dottor Spataro, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Il simposio si è tenuto a distanza di poche ore dalla decisione con la quale il Parlamento e il Consiglio europeo hanno dato il via libera definitivo alla adozione di una legislazione europea con la quale verranno rafforzate ulteriormente le tutele giuridiche a favore dei whistleblowers (si veda altro articolo a pagina 35). Si ricorda che con il termine “whistleblowing” si intende l’istituto giuridico volto, da un lato, a disciplinare le modalità di segnalazione di irregolarità o addirittura illeciti penali (solitamente, all’interno dell’ambito lavorativo) e, dall’altro lato, a tutelare il soggetto segnalante (il cosiddetto “whistleblower” o “segnalatore”) da possibili ritorsioni. L’Italia si è dotata di una disciplina di tutela del whistleblowing sin dal 2012 nel settore pubblico (con la legge 190/2012) e poi nel 2014 nel settore bancario; solo con il decreto legislativo 179/2017 tali tutele sono state poi estese a tutte le aziende private dotate di modelli organizzativi ai sensi della legge 231/01 sulla responsabilità penale d’impresa. Il convegno di ieri è stata l’occasione per fare un parallelismo tra la legislazione italiana e quella americana. Come chiarito dalla professoressa Angela Della Bella dell’Università di Milano, negli Stati Uniti d’America il whistleblowing nasce con il False Claims Act, provvedimento promulgato nel 1863 per ridurre le frodi attuate ai danni del governo dell’Unione dai fornitori di munizioni e di materiale bellico durante la guerra di secessione; tale norma è stata successivamente emendata nel 1986 per autorizzare a pagare il whistleblower con una percentuale sul denaro recuperato o sui risarcimenti ottenuti dal governo nei casi di frode che la testimonianza del whistleblower ha contribuito a smascherare. In anni più recenti, sempre negli stati Uniti, sono stati, invece, emanati il Sarbanes-Oxley Act (“Sox”) e il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act (“Dodd-Frank Act”). Con la Sox viene introdotto l’obbligo per le grandi società di dotarsi di strutture interne di controllo e linee dedicate alla denuncia, anche in forma confidenziale o anonima di irregolarità, negli ambiti relativi alla contabilità e alla revisione; con il Dodd- Frank Act, invece, viene prevista la tutela dei soggetti che denuncino violazioni della normativa relativa agli strumenti finanziari, fornendo “original information”. Cannabis light, è spaccio vendere infiorescenze con Thc oltre 0,2% di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 ore, 13 marzo 2019 Corte di cassazione - Sentenza 12 marzo 2019 n. 10809. È spaccio vendere infiorescenze di “cannabis sativa” - c.d. “cannabis light” (legalizzata dalla legge 242/2016) - con Thc superiore allo 0,2%, anche se entro il limite dello 0,6%. In altri termini, la “soglia di tolleranza” di Thc dallo 0,2% (limite di legge) allo 0,6%, prevista per l’agricoltore, che trova fondamento nella incontrollabilità del “ciclo colturale”, non si applica anche al commercio della pianta che, dunque, può essere sequestrata. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 10809depositata ieri, accogliendo il ricorso del procuratore della Repubblica di Ancona contro il provvedimento del locale Tribunale che aveva negato la conferma del sequestro preventivo di “confezioni di cannabis light” - con Thc 0,5% - in vendita presso il negozio dell’imputato. Secondo il giudice di merito dalla previsione per cui è possibile procedere al sequestro delle piante solo in caso di coltivazione che presenti un Thc superiore allo 0,6%, doveva dedursi che entro tale soglia era lecita anche la commercializzazione. Una ragionamento bocciato dalla Suprema corte. Per il commerciante di prodotti a base di canapa, infatti, a fronte della “concreta efficacia psicotropa della sostanza”, può scattare il reato ex art. 73, Dpr 309/90. Per cui “quando sussista il fumus del reato ossia quando si accerti una percentuale di Thc idonea a produrre un significativo effetto drogante” si può procedere al sequestro. La Corte boccia poi come “immotivata” e “destituita di qualsivoglia fondamento ermeneutico” la circolare del Ministero delle politiche agricole del 22 maggio scorso laddove include anche le infiorescenze tra i prodotti regolamentati dalla legge. “Tale interpretazione - argomenta la Cassazione - appare la più aderente al dato normativo ed alla sua ratio, perché da una parte esonera dalla responsabilità l’agricoltore che abbia rispettato le disposizioni di legge nel caso in cui la percentuale di Thc, presente nelle piante coltivate, sia idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo, non essendo a lui ascrivibile in tal caso la naturale evoluzione del ciclo colturale a fronte di sementi comunque appartenenti alle varietà previste dalla legge e come tali a basso contenuto di Thc”. “Dall’altro, garantisce il rispetto del principio secondo cui i prodotti derivati dalla coltivazione della canapa possono essere liberamente commercializzati - nei settori di cui alla L. 242/2016 - a condizione che la quantità di THC non sia tale da provocare alcun effetto stupefacente o psicotropo, atteso che, diversamente, trova applicazione la disciplina generale prevista dall’art. 73 Dpr n. 309 del 1990”. In sintesi, conclude la decisione, “la legge 242/2016 delinea una disciplina eccezionale rispetto all’operatività dell’art. 73 del Dpr 309/90 solo limitatamente alla attività di coltivazione della canapa come ivi regolamentata ed all’utilizzo dei relativi derivati, nei limiti del parametro massimo di THC pari allo 0,2 % (con tolleranza - “soggettivamente” delimitata - sino allo 0,60%) e secondo il catalogo delle filiere e dei prodotti ivi descritti”. Inoltre, “la coltivazione della canapa che presenti un valore complessivo di Thc superiore a lo 0,6 per cento, rientra nella fattispecie obiettiva contemplata dall’art. 73 Dpr 309/90, tanto da potersene disporre il sequestro, pur sussistendo entro tali margini una causa di non punibilità per il coltivatore che abbia rispettato comunque le prescrizioni di legge”. Permesso di soggiorno anche all’ambulante senzatetto di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2019 La contestazione per “mancata dimostrazione del possesso di un’idonea sistemazione alloggiativa”, inadempienze tributarie e previdenziali e redditi considerati inattendibili non bastano a motivare il diniego al rinnovo del permesso di soggiorno. Con la sentenza numero 26/2019 il Tar di Cagliari ha accolto il ricorso presentato da un cittadino pakistano da anni residente a Sassari al quale la Questura aveva rigettato l’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno. L’uomo, commerciante ambulante dal 2013, nel luglio 2018 presenta istanza di permesso di soggiorno per “soggiornanti di lungo periodo”, proprio in virtù della sua attività lavorativa. La Questura, dopo un preavviso, respinge la richiesta perché “l’interessato non avrebbe adeguatamente dimostrato il possesso di idonea sistemazione alloggiativa”, i redditi del 2015 “sarebbero inattendibili, se non altro perché accompagnati dall’indicazione di costi per l’acquisto delle merci troppo esigui e tali da configurare un ricarico (pari al 1472%) ampiamente superiore a quello medio degli operatori del settore (pari al 378%)”. Secondo le motivazioni del diniego, sarebbero inattendibili anche i redditi del 2016 “perché accompagnati dall’indicazione di costi sostenuti per l’acquisto delle merci poi rivendute non comprovati dall’esibizione di fatture, scontrini o altra documentazione”. Quindi il ricorso del commerciante al Tribunale amministrativo regionale che lo accoglie “avendo l’interessato fondatamente contestato tutti i profili motivazionali posti a base del provvedimento impugnato”. Sulla questione relativa all’alloggio il Tar rileva che il commerciante “aveva sempre tempestivamente comunicato all’Ufficio i propri cambi di residenza”. Quanto alle contestazioni sui redditi, i giudici amministrativi scrivono che, nel caso degli importi relativi al 2015, “la sola incongruenza tra il ricarico (cioè il rapporto tra i ricavi e i costi) risultante dalle dichiarazioni dei redditi presentate dall’interessato e il ricarico medio di categoria emergente dagli studi di settore non costituisce elemento sufficiente a dimostrare l’inattendibilità del reddito dichiarato”. Non solo: “Sulla base di quanto emerge dalla vigente normativa tributaria, gli studi di settore assumono valore di presunzione relativa di evasione fiscale e, come tali, possono essere posti a base di avvisi di accertamento tributario; ciò, tuttavia, non consente di attribuire medesima valenza presuntiva agli studi di settore, per così dire, “in senso inverso”, cioè per ricollegare allo scostamento da essi la presunzione di un minor reddito rispetto a quello dichiarato dall’extracomunitario ai fini del soggiorno in Italia”. In merito alla contestazione sul fatto che l’uomo non avesse fatture o scontrini che comprovassero i costi di acquisto delle merci (per l’anno 2016) i giudici scrivono che “alla mancata documentazione dei costi si contrappongono altri elementi di segno contrario, in particolare il fatto che il ricorrente soggiorna da tempo in Italia sulla base di un titolo di soggiorno per lavoro autonomo già regolarmente rinnovato senza che la stessa Questura avesse mai sollevato alcun rilievo circa la mancata documentazione dei costi delle merci”. Per il Tar “tale prassi pregressa, prolungatasi a lungo nel tempo, ben può aver indotto l’interessato a ritenere non necessario conservare la documentazione a comprova dei costi sostenuti e questo potrebbe spiegare il fatto che lo stesso straniero non è oggi in grado di porre tale documentazione a fondamento della propria richiesta di rinnovo del titolo di soggiorno”. Prassi che però il commerciante non potrà invocare in futuro “a sostegno di future (eventuali) richieste di rinnovo del titolo di soggiorno, essendo egli ormai perfettamente edotto della necessità di conservare la documentazione comprovante i costi di acquisto delle merci”. C’è poi un ultimo aspetto: quello legato agli obblighi tributari e previdenziali. I giudici chiariscono che “non è giuridicamente possibile far discendere dal mancato adempimento degli obblighi tributari e previdenziali l’illecita provenienza del reddito dichiarato ai fini del soggiorno e, dunque, l’irrilevanza dello stesso ai fini del soggiorno in Italia: l’evasione fiscale e previdenziale nulla ha a che vedere con il “fattore produttivo” del reddito che “a monte” lo qualifica come lecito o illecito e sul quale la tassazione si inserisce ex post quale “obbligo legale successivo” (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, 25 luglio 2016, n. 3326; 25 luglio 2016, n. 3326); ciò tanto più è vero nel caso in esame, nel quale, come emerge dalle memorie endoprocedimentali e dallo stesso ricorso, l’interessato pare ora aver avviato l’iter necessario alla “regolarizzazione” della propria posizione fiscale e previdenziale”. Ricorso accolto, atto impugnato annullato e spese compensate. Emilia-Romagna: nelle carceri regionali aumentano detenuti e sovraffollamento zic.it, 13 marzo 2019 Circa il 20% in più dietro le sbarre nel triennio 2015-2017, aumentati anche i minori. Su 3.569 detenuti in regione, ad oggi solo 66 possono usufruire della semilibertà. Garante cittadino dei detenuti: alla Dozza si intervenga per tempo in vista del caldo estivo. Sono stati resi pubblici due settimane fa in Regione i dati del Rapporto dell’esecutivo regionale sulla situazione penitenziaria emiliano-romagnola per il triennio 2015-2017. Dal resoconto emerge che nel corso dei tre anni il numero di detenuti nelle carceri della regione è aumentato del 19,8% (nel 2015 i detenuti erano 2.911, due anni dopo 3.488). L’indice di sovraffollamento è invece cresciuto da 103,9 a 124,1: una crescita che sembra andare di pari passo con l’aumento della popolazione carceraria, e che però evidenzierebbe come mediamente, in ogni istituto dell’Emilia-Romagna, ci sia un quarto di carcere in più nello spazio di un solo penitenziario. Aumenta anche il numero di ingressi di minori negli istituti nel triennio: dagli 89 del 2015 ai 117 del 2017. Nelle carceri il numero di cittadini stranieri è passato da 1.347 a 1.770 (+31,4%), quello di cittadini italiani da 1.564 a 1.718 (+9,8%), mentre le donne sono il 4,6% del totale. Al 31 gennaio 2019 sono invece 3.569 i detenuti nelle carceri in regione, di cui 152 donne (il 4,2%), 1.844 stranieri (il 51,66%), e solo 66 persone sono in semilibertà (meno del 2%). Per quanto riguarda le condizioni di vita nel penitenziario cittadino della Dozza, è sempre di due settimane fa l’intervento - nel corso di una seduta di commissione a Palazzo D’Accursio - del Garante comunale dei detenuti Ianniello, per richiamare l’attenzione sui disagi dovuti al caldo estivo nel carcere: “Nel giro di 15-20 giorni si chiederanno per tempo interventi”, poiché “le criticità di carattere stagionale sono un tema all’ordine del giorno, visto che si ripresentano periodicamente e sono, ovviamente, prevedibili. Si tratta di una questione che, assieme agli altri Garanti, compreso quello regionale, abbiamo deciso di sottoporre” al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche “per chiedere che si prendano per tempo degli accorgimenti”. Bolzano: carcere, un vulnus da sanare di Ferruccio Cumer Corriere dell’Alto Adige, 13 marzo 2019 Ecco alcune righe tratte da “Dei delitti e delle pene”(1763) di Cesare Beccaria, opera notissima in tutto il mondo civile, e il fulminante parere di uno dei padri della democrazia moderna, Alexis de Tocqueville. Diceva il primo: “La carcere è […] la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa. [...] Il processo medesimo dev’essere finito nel più breve tempo possibile. [...] In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare ai minori mali possibili”. Dunque, il saggio suocero di Alessandro Manzoni chiede giustizia pronta e carcerazione umana, che assoggetti il carcerato “ai minori mali possibili”. Tocqueville, magistrato di professione, maestro del pensiero liberaldemocratico e autore del saggio “Del sistema penitenziario negli Stati Uniti e della sua applicazione in Francia” (1833) dichiarava semplicemente: “Se vuoi conoscere la democrazia di una nazione... visitane le carceri!”. La nostra Provincia vanta innumerevoli primati in campo sociale, economico, assistenziale, educativo, di cui i nostri maggiori responsabili sono orgogliosi. Esiste, però, ancora una realtà vergognosa: un carcere fra i peggiori in Italia. Possibile che in Alto Adige quello che grandissimi pensatori - non i soli Beccaria e Tocqueville - considerano l’indicatore più importante dello stato di salute di una democrazia, e cioè un carcere dignitoso, sia così in ritardo? Forse l’argomento è poco redditizio sul piano elettorale? O forse chi ci governa pensa che i detenuti si debbano rassegnare a “marcire” - come dicono alcuni - in galera, uscendone senza alcun segno di rieducazione e anzi talvolta peggiorati rispetto a quando vi sono stati rinchiusi? Contrattempi vari hanno rallentato la realizzazione del nuovo carcere, ma poi l’estate scorsa l’Ufficio appalti della Provincia ne ha annunciato l’esecuzione nel 2019: giorni fa ha accennato a una partenza in autunno. Finalmente ci siamo? Torniamo a Tocqueville: per valutare la democrazia - e quindi la civiltà - di chi ci governa, controlliamo anche che infine il nuovo carcere sorga, e sorga bene. Taranto: nel carcere più affollato sono tante le istanze rigettate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2019 Il penitenziario pugliese ospita 632 detenuti a fronte di una capienza di 306 posti. Una delegazione del Partito Radicale lo ha visitato. Rita Bernardini: “ottimo il rapporto con la direzione, mentre è difficile quello con la magistratura di sorveglianza”. Lunedì scorso una delegazione del Partito Radicale composta dalla coordinatrice della presidenza Rita Bernardini, la militante Anna Briganti, l’avvocato di strada Loris Soriano e Alberico Nobile dell’Associazione Deep Green, ha fatto visita all’istituto penitenziario di Taranto. Il carcere più sovraffollato d’Italia con 632 detenuti a fronte di una capienza di 306 posti regolamentari. “Nonostante il sovraffollamento, la vita all’interno del carcere è migliorata grazie al buon rapporto che i detenuti hanno con la direzione del carcere”, spiega Rita Bernardini ai microfoni di Radio Radicale. “Ma i rapporti con la magistratura di sorveglianza - sottolinea l’esponente radicale sono pessimi, perché il giudice, chiamato ad occuparsi di una pena che sia costituzionale, in realtà agisce senza nemmeno conoscere i singoli detenuti”. Secondo le testimonianze dei detenuti raccolte dalla delegazione radicale, la magistratura di sorveglianza rigetterebbe o addirittura non risponderebbe alle istanze. “A differenza del passato - ricorda sempre Rita Bernardini - quando da parlamentare visitai proprio questo carcere e conobbi, assieme a Marco Pannella, il magistrato di sorveglianza Massimo Brandimarte”. Quest’ultimo, infatti, si differenziò per la sua attenzione alle problematiche della detenzione, tanto che poi si iscrisse anche al Partito Radicale sostenendo le battaglie per la separazione delle carriere e gli scioperi della fame di Rita Bernardini per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. È stato un presidente del tribunale di sorveglianza che i detenuti hanno stimato. “Oggi invece - continua l’esponente radicale, in questo carcere il permesso premio viene concesso raramente e così anche le misure alternative”. Denuncia poi la carenza degli educatori, “solo due su una pianta organica che ne prevedono otto” sottolinea Rita Bernardini. Molto apprezzata è la direttrice del carcere che con le poche risorse disponibili cerca di ottimizzarle per i trattamenti penitenziari. La militante pugliese del partito radicale Anna Briganti racconta a Radio Radicale che si porta a casa una forza ed energia positiva trasmessa dalle donne detenute che le hanno riempite di braccialetti e borse. “Lo hanno fatto per farsi pubblicità - spiega Briganti, perché fanno parte di un progetto di sartoria che le impegnano con il ricamo, cucito, maglieria”. Un progetto che le tiene impegnate, ma anche per il fatto che venga percepito come “una speranza per il dopo”, aggiunge sempre la militante radicale. Ai microfoni di Radio Radicale è intervenuto anche l’avvocato di strada Loris Soriano che è la prima volta che entra in un carcere: “Mi corre il pensiero a tutte quelle persone che, annunciando che sarei entrato in carcere, mi hanno detto che il carcere è come un albergo, non ci va più nessuno e via discorrendo”. Frasi fatte che, osserva l’avvocato “purtroppo ora si sentono anche ai livelli altissimi della politica”. Soriano dice ha potuto constatare che invece in “carcere si soffre, e si soffre anche molto”, per questo invita queste persone a fare una visita almeno una volta “così si rendono conto che la restrizione della libertà di per sé è già una condizione già molto afflittiva, con l’aggiunta però delle condizioni disumane e degradanti”. A conclusione dell’intervista di Radio Radicale, Rita Bernardini ricorda che ancora non è stata fissata la data di appuntamento con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per fare chiarezza sul sovraffollamento visto che recentemente “il capo del Dap - spiega l’esponente radicale - ha dichiarato che gli istituti penitenziari avrebbero la capacità di accogliere molti più detenuti dei 60 mila che ci sono”. Catanzaro: avvocati contro il governo “ossessione securitaria” Corriere della Calabria, 13 marzo 2019 Il documento della Camera penale: “Diritto penale sempre più strumento per la raccolta dei consensi elettorali”. Le politiche del governo in materia di giustizia sono “all’insegna di un evidente sovradosaggio del diritto penale, sempre meno extrema ratio e sempre più strumento fondamentale per la raccolta dei consensi elettorali”. È in sintesi quanto riportato in un documento, a firma della Camera penale “Alfredo Cantáfora” di Catanzaro, sulla base di una riflessione dell’avvocato Orlando Sapia, Responsabile Osservatorio Carcere della stessa Camera penale. “Il sovraffollamento nelle carceri italiane - si legge nel documento - è in costante crescita. Il 31 gennaio 2019 si è raggiunta la cifra di 60.125 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 50.500 (a cui bisogna togliere almeno altri 4600 posti non utilizzabili), con ciò segnando un tasso di sovraffollamento del 118,94%. La realtà del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Cedu nel 2013, rende sempre più degradanti le condizioni di vita dei detenuti, in aperta violazione dell’art. 27 della Costituzione laddove prescrive che “le pene non possono consistere a trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”. “La situazione in Calabria - si evidenzia nel documento della Camera penale del capoluogo - è purtroppo in perfetta sintonia con la tendenza nazionale. Difatti, la maggior parte degli istituti penitenziari calabresi soffre la triste realtà del sovraffollamento. Se la situazione più grave è sicuramente rappresentata dalla casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, in cui il tasso di sovraffollamento è arrivato al 137,62%, anche nella casa circondariale “Caridi” di Catanzaro, negli ultimi anni, si è registrata una notevole crescita della popolazione detenuta tanto da arrivare, nel corso del 2019, a toccare le 700 presenze”. “Ciò nonostante - afferma l’avvocato Sapia - l’attuale compagine governativa si è contraddistinta per avere incentrato la propria azione legislativa sul tema della sicurezza. Il decreto Salvini, successivamente convertito in legge, e la riforma in materia di prescrizione, che entrerà in vigore a partire dal 1 gennaio 2020, sono atti legislativi che proseguono in un percorso caratterizzato da un evidente sovradosaggio del diritto penale, sempre meno extrema ratio e sempre più strumento fondamentale per la raccolta dei consensi elettorali”. “Analizzando i dati statistici del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - prosegue Sapia - si scopre che la maggior parte dei detenuti sono stati condannati per reati contro il patrimonio o in violazione del testo unico sugli stupefacenti. Violazioni molto spesso di non grande grande allarme sociale e sicuramente connesse sotto il profilo causale a condizioni di povertà ed emarginazione sociale. In tale contesto, la recente riforma in materia di prescrizione, appena inizierà a produrre i propri effetti, comporterà un ulteriore aumento del contenzioso penale e del sovraffollamento carcerario”. “Le ragioni giuridiche a sostegno della disciplina vigente in materia di prescrizione sono ampiamente conosciute: il principio della ragionevole durata del processo; il principio del venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva nei confronti dell’autore di un determinato reato, come conseguenza del trascorrere del tempo. Tuttavia esiste un’ulteriore ragione - conclude Sapia - a difesa dell’istituto attualmente in vigore: in un contesto sociale, fatto di povertà crescente, e penitenziario, fatto di sovraffollamento carcerario, la prescrizione produce gli effetti di quei provvedimenti clemenziali, ovverosia amnistia e indulto, che per lungo tempo hanno consentito la gestione del sistema penale e penitenziario italiano e che oggi, purtroppo, la Politica, per non alienarsi il consenso elettorale, non ha alcuna intenzione di realizzare. In questo contesto di ossessione securitaria, quindi, spetta all’avvocatura opporsi alle svolte giustizialiste e ribadire la necessità di realizzare quelle riforme non carcero-centriche, esistenti da anni come progetti di legge o deleghe legislative mai esercitate, e non ancora divenute realtà a causa di un sistema politico che sempre più utilizza “il governo della paura”. Terni: due detenuti evadono dall’ospedale, sparatoria per fermarli Il Messaggero, 13 marzo 2019 Terrore all’ospedale di Terni, per la fuga di due detenuti italiani che hanno aggredito un’infermiera, due agenti di polizia penitenziaria e una ragazza, presa a morsi per portarle via l’auto con cui uno dei due è riuscito a fuggire. Il primo è stato fermato subito dagli agenti, che hanno sparato per fermarli, mentre tentava di salire sulla vettura. Mentre l’altro è riuscito ad allontanarsi, malgrado fosse stato raggiunto da un colpo di pistola a una gamba. Ma la polizia lo ha intercettato e bloccato lungo il raccordo Terni-Orte, poco prima del casello autostradale, dopo 20 chilometri di inseguimento. Un folle tentativo di fuga messo in atto ieri sera, intorno alle 22,40, mentre stava terminando la partita tra Juve ed Atletico Madrid. I detenuti, di 34 e 36 anni, hanno approfittato di un attimo di distrazione degli agenti di polizia penitenziaria, si sono alzati dal letto mentre era presente nella stanza un’infermiera che li stava dando le medicine che hanno spintonato violentemente. Sono stati rincorsi subito dagli agenti che hanno provato a fermarli sparando alcuni colpi all’ingresso dell’ospedale e ferendo uno dei fuggitivi. Ma i due sono riusciti ad uscire dall’ospedale e raggiungere il piazzale esterno dove hanno bloccato una ragazza che stava uscendo dal nosocomio alla guida di una Peugeot 206 bianca. L’hanno trascinata fuori dall’abitacolo, mordendola ad un braccio perché lei tentava di resistere. Le grida della donna hanno richiamato l’attenzione degli agenti e uno dei due detenuti è stato bloccato prima che riuscisse a salire sulla vettura, mentre l’altro si è dato alla fuga malgrado fosse ferito alla gamba. Ma è stato bloccato da due auto della polizia nei pressi del casello autostradale di Orte. L’italiano fermato mentre tentata di salire sulla Peugeot bianca era stato portato al pronto soccorso del Santa Maria perché aveva ingoiato in carcere un paio di lamette, un bracciale e forse un micro-cellulare. Si era sentito male in cella durante la notte di martedì. Poi, dalla Tac sono emersi diversi corpi estranei e quindi era stato ricoverato per tenerlo sotto osservazione nel reperto dedicato ai detenuti al primo piano del complesso ospedaliero. Mentre, il secondo è detenuto nel carcere di Spoleto in regime di alta sicurezza e portato all’ospedale Santa Maria a causa di un problema alla retina per una colluttazione nella casa circondariale. Sul tentativo di fuga è stato aperta un’indagine coordinata dal magistrato Camilla Coraggio. Alba (Cn): carcere, l’On. Dadone (M5S) interroga il ministro “a breve l’avvio dei lavori” targatocn.it, 13 marzo 2019 La parlamentare pentastellata interroga il ministro sull’attesa ristrutturazione della casa circondariale, riaperta solo parzialmente dopo l’infezione da legionella del gennaio 2016. “Progetto approvato dal Dipartimento lo scorso 20 febbraio. Ora la gara”. “Finalmente sbloccata la situazione della casa circondariale di Alba”. A sostenerlo la deputata monregalese Fabiana Dadone, esponente del Movimento Cinque Stelle, che stamattina, martedì 12 marzo, ha interpellato il collega di partito e ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sullo stato delle procedure aperte per riaprire completamente la struttura chiusa nel gennaio 2016 a causa di un’epidemia di legionella e riaperta nel giugno 2017 limitatamente a una sola sezione, per un totale di 35 posti detentivi rispetto agli originali 145. “Ad oggi, secondo un rapporto diffuso dai garanti comunale e regionale dei detenuti, la struttura carceraria risulta attualmente la più sovraffollata del Piemonte con una presenza di 42 detenuti su una capienza massima di 35, causando notevoli disagi e problematiche”, spiega Dadone in una nota inviata alla nostra redazione, ricordando anche come la prevista ristrutturazione è “in stallo dal 2017, quando l’allora Governo aveva annunciato un cronoprogramma che prevedeva l’ingresso di tutti i detenuti entro la metà del 2019 con oltre a 4 milioni di euro di investimento. I lavori non erano però mai partiti”. La parlamentare pentastellata dà quindi conto della risposta ottenuta oggi dal Guardasigilli: “Nella giornata di oggi il ministero della Giustizia, interrogato dalla sottoscritta alla Camera dei Deputati, ha annunciato l’approvazione lo scorso 20 febbraio del progetto da parte del Provveditorato. Il ministro Bonafede nella piena consapevolezza della stringente rilevanza dell’intervento, si era da subito impegnato con gli amministratori locali ad accelerare l’iter ed ha mantenuto la promessa. Il progetto, che prevede l’integrale rifacimento dell’impianto idrico della struttura e di tutto il settore relativo ai servizi igienico-sanitari, verrà ora sviluppato in quello esecutivo ed in tempi brevi si potrà dar via alla gara per l’affidamento dei lavori. Si tratta di un importante sviluppo che la casa circondariale di Alba e per Alba stessa che aspettavano da ormai troppo tempo”. “Non posso che dirmi soddisfatta del lavoro svolto dal ministro Bonafede e dal sottosegretario Ferraresi, che ringrazio a nome di tutti i cittadini della provincia di Cuneo”, conclude la parlamentare. Cairo Montenotte (Sv): i detenuti di Rebibbia con Aics per ricordare Paolo Borsellino aics.it, 13 marzo 2019 La Compagnia “Stabile Assai” di Rebibbia porta in scena “Il Corno di Olifante” a Cairo Montenotte. I prossimi venerdì 15 e sabato 16 marzo a Cairo Montenotte - nel Savonese -, sarà una due giorni dedicata al ricordo del Magistrato Paolo Borsellino e alle problematiche degli adolescenti: il dipartimento Politiche sociali di Aics porta infatti la Compagnia Stabile Assai di Rebibbia in scena con lo spettacolo teatrale “Il Corno di Olifante” e presenterà il volume “Le nuove frontiere della condizione minorile - Un suicidio generazionale”. Si comincia venerdì 15 marzo alle ore 21, presso il Teatro Comunale “Chebello” di Cairo Montenotte, con lo spettacolo della Compagnia Stabile Assai della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma, dedicato al Magistrato Paolo Borsellino, realizzato e messo inscena dagli attori detenuti. Lo spettacolo è stato organizzato dall’Amministrazione Comunale, dall’Associazione Italiana Cultura Sport - Circolo Anima, dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con il contributo della Fondazione “Agostino De Mari”. L’ingresso è libero. Sabato 16 marzo alle 10, nei locali della Scuola di Formazione e Aggiornamento “A. Schivo” della Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte, sarà invece presentato il libro: “Le nuove frontiere della condizione minorile - Un suicidio generazionale”, scritto dalla pedagogista Tamara Boccia e dall’operatore penitenziario Antonio Turco - anche coordinatore nazionale Aics delle Politiche sociali - che offre una visione molto articolata delle problematiche e dei drammi individuali e collettivi vissuti dalle nuove generazioni adolescenziali. Alla presentazione, organizzata dall’Amministrazione Comunale, dall’Associazione Italiana Cultura Sport - Circolo Anima, dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con il contributo della Fondazione “Agostino De Mari”, interverranno: Paolo Lambertini, Sindaco di Cairo, gli autori Tamara Boccia e Antonio Turco, Giuseppe Zito, Generale della Polizia Penitenziaria e Ilaria Caprioglio, Sindaco di Savona. Roma: Emanuele Belloni, canzoni dal carcere “svelo le curve della vita” di Andrea Pedrinelli Avvenire, 13 marzo 2019 Tra i detenuti di Rebibbia, il cantautore racconta la toccante esperienza terapeutica e artistica: “Grazie alla musica ho visto riaffiorare l’anima delle persone e rifiorire la speranza”. La violenza sulle donne, gli scafisti, la mafia, il terrorismo: capita spesso, che dischi di musica cosiddetta leggera trattino temi come questi, magari pure bene. Capita però di rado che ne trattino partendo solo da esperienze di vita vissuta: raccolte là dove si scontano gli errori che hanno portato alle tragedie suddette, in un carcere. È dunque un’opera unica nel suo genere, oltre che valida per qualità ed essenzialità di scrittura, l’album Tutto sbagliato con cui il cantautore-chitarrista Emanuele Belloni, che debuttò nella musica d’autore quarantenne nel 2013, dà seguito alla propria opera prima E sei arrivata tu. In Tutto sbagliato, edito da Squilibri coi testi delle canzoni tradotti anche in tedesco perché lassù Belloni è seguito, e scritti di detenuti ed ex-detenuti a rimarcare la sincerità del progetto, l’artista (coadiuvato dall’organettista Riccardo Tesi) interpreta le memorie vive raccolte come volontario nel braccio G11 del carcere romano di Rebibbia. E nell’album sfilano così il dramma dell’incarcerazione nell’assorta Davanti a me, il silenzio degli attimi precedenti la bomba alla stazione di Bologna nella toccante 10 e 25, il dolore squassante delle migrazioni in una Dimmi che lavoro fai tanto vera da far male. Ma il vertice di Tutto sbagliato è forse Solo cose più buone, canzone rap scritta e cantata con un detenuto, che dona all’ascolto una forte quanto delicata sintesi delle anime evocate dall’intero cd: le anime sospese di un luogo dove la quotidianità a tutti ben nota si fa utopia, e l’uomo deve cercare un senso nuovo al proprio vivere, con sé stesso e con gli altri. Come arriva il cantautore Emanuele Belloni a Rebibbia? Che cosa fa lì, che cosa voleva capire? Rebibbia è stato riannodare il filo di un percorso. Vent’anni fa a Milano con la Caritas avevo assistito dei ragazzi del carcere minorile Beccaria, poi ho cambiato città, e Rebibbia con l’associazione “Chi come noi” è stata per me occasione di tornare ad avere incontri osmotici fra chi sta dentro e chi fuori. In una sala di musica abbiamo confrontato punti di vista umani molto distanti: noi persone libere non possiamo capire come i carcerati si sentano eroi romantici, non nel senso che vedono il bene nell’errore, ma perché scelgono di accettarne le conseguenze per provare a ripararle. E ripararsi. Qual è stata l’esperienza più forte, choccante, commovente, inedita che ha vissuto in carcere? Il giorno che organizzammo con Legambiente un concerto in un’area comune: sono situazioni cui sono ammesse anche le famiglie, e un ragazzo che suonava il basso non vedeva i suoi. Sbagliava di continuo, era in ansia. Quando ha scorto la figlia ha lanciato via lo strumento e riabbracciato i famigliari. In quella bambina ho rivisto la mia, di figlia, e sono stato costretto a pensare a come sono fortunato: di lì è nato il pezzo finale del disco, Dolce, dolce, dolce, in cui un rapporto padre-figlia indica una via d’uscita dell’anima da qualunque carcere. Ma che obiettivo aveva, scrivendo e interpretando un intero album su storie vere di carcerati? Anzitutto non puntare il dito mai, non giudicare. E oltre al racconto dei fatti che hanno portato alle condanne, far conoscere come ogni colpevole viva la pena dietro le sbarre. Chi in modo ipnotico, chi da gradasso, chi impaurito, sempre dentro un percorso lungo: con tante voci cui volevo dare sfogo. Spero che chi ascolterà usi tanta pietas e scelga un abbraccio ideale con queste persone: quello che voglio sottolineare è che anche in carcere non deve mai essere dimenticato l’uomo, anche lì ci dev’essere il segno che la vita contiene amore. Alcune storie che canto parlano di assassini efferati, certo: ma l’uomo c’è sempre, pur se a un livello disastrato. Far musica in carcere aiuta, e come? Sono andato a Rebibbia ogni venerdì per un anno e i ragazzi aspettavano gli incontri, alla fine, dunque vuol dire che ne ricavavano molto. Per me sentire quanto creavano implicava vedere rifiorire speranza in loro. Certo chi decideva di suonare o scrivere nel progetto era più indifeso, doveva tirare fuori sé in un contesto difficile. Ma se ci riusciva cresceva. È un progetto che continua, il suo, a parte il cd? Continuo ad operare con l’associazione. Purtroppo a Roma il gruppo si è sciolto, alcuni trasferiti altri scarcerati, ma con Mauro Armuzzi, che ha scritto e rappato Solo cose più buone, vorremmo continuare. L’hanno trasferito a Pescara, spero di andare lì. Il cd sarà anche in tour, e pure all’estero: come? In Germania, parlando il tedesco, spiegherò queste storie che canterò sempre in italiano: è un pubblico attento, penso possa essere un’esperienza utile a me quanto a loro. In Italia miro a suonare in altre carceri, in trio, se possibile unendo alla musica dei momenti di riflessione: su cosa si possa fare da fuori per chi è dentro, su quali prospettive pure di scoperta e racconto di sé vadano date ai detenuti. Ma alla fine per lei far musica cos’è? L’impressione è che per i detenuti sia stata terapia, grazie a lei… Per me è la stessa cosa. La musica aiuta ad affrontare le curve della vita: ma solo spogliandosi di ogni orpello, dentro un percorso catartico in cui occorre avere l’umiltà di gettare via i narcisismi per capire cosa può diventare, se vuoi, la tua parola. Se ci riesci, la cosa ti arricchisce e ti dà benzina: per andare avanti, e per fare altra musica. Il buonismo non fa male di Luigi Manconi Il Foglio, 13 marzo 2019 Contro la truffa ideologica che pretende di distinguere i buoni-buoni dai buoni-cattivi. A sentire i commenti sulla “strage della bontà” o “dei buoni”, dalla trista sottocultura nazionale emerge un’insidiosa truffa ideologica. Quella, cioè, che pretende di distinguere i buoni-buoni dai buoni-cattivi e il buonismo nobile e generoso da quello ingenuo e sprovveduto e, infine, da quello sordido e criminale. La categoria di “buonismo” è tra le più indecenti del discorso pubblico, e Dio perdoni lo scellerato che l’ha coniata. In genere, infatti, sono state definite con quel termine le misure e le politiche razionali e intelligenti sulle questioni dell’immigrazione, dell’esecuzione penale, delle dipendenze da sostanze e della marginalità sociale. Già qui la menzogna si rivela attraverso un esempio semplice semplice. Prevedere che, prima di attuare lo sgombero di un palazzo occupato o di un campo rom o di un centro di accoglienza degradato, si trovi una diversa soluzione abitativa, è manifestazione di zuccheroso sentimentalismo o di sagace prudenza? Ma quello che è accaduto in questi giorni è ancora un’altra cosa. Questo il messaggio subliminale inviato: i morti nel Boeing sono i volontari perbene, meritevoli di stima e cordoglio fino al punto di essere considerati “eroi nazionali”. E lo sono davvero, e posso testimoniarlo avendone conosciuti centinaia nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Ma dove sta la differenza tra i volontari morti nel disastro in Etiopia e quelli che soccorrono i naufraghi nel Mediterraneo? Gli operatori del Cisp e del World Food Programme in che cosa sono diversi dagli equipaggi di Open Arms e Sea Watch? Distinti i campi di intervento e le metodologie, pressoché uguali le motivazioni e le finalità. E allora? Si può sospettare che la diversità, che renderebbe i primi modelli di bontà e i secondi alleati dei “mercanti di carne umana”, sia da ricondurre a una categoria spaziale. I cooperanti del Cisp e del World Food Programme operano da lontano, fuori dal nostro sguardo, dalla nostra vita sociale e quasi senza alcuna influenza diretta su di essa. Al punto che, quando un volontario o un operatore metta imprudentemente a rischio, secondo i criteri dello stile di vita occidentale, la propria vita e la propria libertà, scatta la stigmatizzazione (magari mentre l’interessato si trova ancora nelle mani dei suoi rapitori): e si mettono sotto accusa “l’idealismo” e “l’irresponsabilità”. Così che, accanto ai buoni-buoni (tanto più se morti), si profila la categoria dei buoni-scemi (che “costano un sacco di quattrini allo stato”, per pagarne le ricerche o il riscatto). Qui sta un’ulteriore manipolazione. Ciò che disturba davvero in coloro che operano “da vicino” (magari a 50 miglia dalle coste italiane) è il fatto che interferiscano direttamente, e talvolta in maniera dirompente, nei nostri “affari interni”. Di chi salva un africano dalla morte per fame in Eritrea o dalla guerra civile in Sud Sudan possiamo ignorare tutto, sottraendoci a qualsiasi forma di responsabilità. Di chi soccorre un naufrago nelle acque del Mediterraneo, invece, finiamo col sapere tutto e siamo costretti a misurarne le implicazioni politiche, economiche e morali sulla nostra vita collettiva. Si dirà: è perché le ong del Mediterraneo fanno politica e contestano le decisioni dei governi nazionali. Ma basta rovesciare il punto di vista e si scoprirà agevolmente che chi salva qualcuno dalle acque assolve al diritto-dovere al soccorso. Spetta alla politica scegliere come agire nei confronti di quello che è un principio assoluto. Infine, va considerato un altro effetto di questa cattivista retorica della bontà: l’esaltazione dell’attività di volontari, operatori e cooperanti rischia, attraverso il processo della loro idealizzazione, di mistificarne l’autentica fisionomia. Essi non sono eroi, né idealisti nel senso evanescente e molliccio del termine: sono, piuttosto, persone serie e competenti, dotate di professionalità e di capacità tecnico-operative. La loro attività a tutela dei più vulnerabili si nutre di una lettura del mondo e delle sue ingiustizie che porta a valutare criticamente le politiche degli stati e degli organismi internazionali. Essi, dunque, esprimono in qualche modo una visione che non si può non definire politica. Non sono “profeti disarmati” (categoria, peraltro, nobilissima) né ingenui sognatori, bensì conoscitori di quella misura indispensabile di economia, sociologia e demografia che risulta necessaria per la loro attività. E non è nemmeno giusto considerarli, perché totalmente volontari o sottopagati, come filantropi disinteressati fino all’ascetismo e alla santità. Chi conosce la povertà più nera raramente è pauperista. D’altra parte, solo una concezione economicistica della vita impedisce di cogliere quanto pesino la gratificazione morale e il piacere del risultato nelle scelte di queste persone. Insomma, l’immagine dolciastra del volontario che oggi viene diffusa, corrisponde a una ulteriore falsificazione: il processo di angelizzazione strappa il volontario dalla materialità delle condizioni economico-sociali e geopolitiche nelle quali opera, e dalla fatica, dalla sofferenza e dal sangue, consegnandolo a una retorica innocua. Che lascia le cose esattamente come stanno. Insomma, come disse qualche anno fa Emma Bonino: “In mezzo a tanta efferatezza non mi sembra, poi, che un po’ di buonismo sia così scandaloso”. Migranti. “Buonisti un Cas”, la protesta parte dal Friuli Venezia Giulia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2019 Il 16 marzo manifestazioni davanti alle prefetture contro il decreto sicurezza. “Buonisti un CAS, è la parola d’ordine che unisce i lavoratori dei centri di accoglienza del territorio del Friuli Venezia Giulia che si mobiliteranno sabato prossimo davanti alle prefetture di Trieste, Gorizia, Udine e Pordenone, per affermare la loro opposizione al Decreto Salvini e rivendicare un vero modello di accoglienza. “L’intento - scrivono in una nota - è quello di mobilitarci in prima istanza a livello regionale in concerto con tutte le persone e realtà che condividono le nostre rivendicazioni nel territorio del Fvg. Lanciamo un appello affinché, anche nelle altre realtà territoriali del Fvg, si sperimentino altre e contemporanee forme di mobilitazione davanti alle rispettive Prefetture. Lanciamo allo stesso tempo un appello, oltre la data del 16 marzo, perché tramite adesioni da parte delle realtà interessate si possa giungere ad una mobilitazione a livello nazionale”. La denuncia è chiara. I lavoratori spiegano che con il Decreto Sicurezza e il taglio del 40% delle risorse nei bandi delle prefetture viene colpito duramente il diritto all’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati/ e, nonché la libertà d’azione delle persone che sono già inserite nel sistema stesso. A detta di chi è in mobilitazione, le politiche del ministero dell’Interno smantellerebbero in buona parte il sistema d’accoglienza, a fronte di una legislazione che riversa sul diritto d’asilo la quota maggiore degli attuali flussi migratori extra- europei, senza distinguere tra veri progetti e semplici speculazioni economiche sulla pelle dei e delle richiedenti asilo. L’accoglienza verrebbe ridotta a un mero sistema di contenimento, distruggendo l’approccio inclusivo che molti progetti hanno portato avanti in questi anni. Il governo contribuirebbe così a reprimere quanti - operatori/ operatrici e ospiti - tramite l’accoglienza hanno cercato di costruire spazi di agibilità e dialogo sociale per tutti e tutte. È vero che esistono realtà di speculazione con i Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, ma esistono anche esempi virtuosi. Così come, appunto, il Cas di Trieste che ha adottato gli standard qualitativi e amministrativi dello Sprar. L’accoglienza diffusa, infatti, mette al centro di tutto la relazione tra persone e territorio, favorisce percorsi di inclusione e promuove soluzioni abitative già integrate nel territorio, che evitano le grandi concentrazioni, rispettano la dignità dei richiedenti asilo e ne favoriscono l’indipendenza; accesso ai servizi sociali, amministrativi, sanitari, formativi e d’istruzione già integrati in quelli ordinari; anziché creare canali separati per gli stranieri e la dignità contrattuale e professionale di lavoratori e lavoratrici dell’accoglienza Per tutto questo e molto altro ancora, la mobilitazione rivendica il modello inclusivo dell’accoglienza diffusa e la dignità dei suoi lavoratori e lavoratrici con una giornata di manifestazione su scala locale, regionale e nazionale, sotto le prefetture. Ma perché con il decreto sicurezza e il taglio del 40% delle risorse nei bandi delle prefetture verrebbe colpito duramente il diritto all’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati? Secondo la piattaforma “Buonisti un Cas”, lo schema di Capitolato per la gestione di Centri d’Accoglienza non porrebbe al centro di questo lavoro la persona come portatrice di diritti, desideri e bisogni, ma come problema sociale da contenere. Ridurrebbe ed eliminerebbe strumenti importanti per gli ospiti in accoglienza, come i corsi d’italiano, di formazione professionale e le attività d’integrazione nel tessuto sociale, poiché non prevede voci di spesa per queste attività fondamentali. Taglierebbe inoltre le risorse per le necessità abitative e favorirebbe la creazione di grandi centri, indirizzando gli enti gestori verso strutture fuori dai centri abitati, le quali ostacolano l’autonomia e annullano l’individualità degli ospiti in quanto persone portatrici di diritti e bisogni. Droghe. Lo stigma del drogato uccide ancora di Claudio Cippitelli* Il Manifesto, 13 marzo 2019 Un 17enne, sgridato dai genitori per il possesso di un bilancino e un trita-erba, si suicida gettandosi dal quarto piano nel quartiere di Colle Fiorito di Guidonia, alle porte di Roma. La gran parte delle testate, online e stampate, aprono le cronache utilizzando termini da giornalino di Gian Burrasca: sgridare, ramanzina. Colle Fiorito di Guidonia, Città metropolitana di Roma Capitale, 7 marzo: un 17enne, sgridato dai genitori per il possesso di un bilancino e un trita-erba, si suicida gettandosi dal quarto piano. La gran parte delle testate, online e stampate, aprono le cronache utilizzando termini da giornalino di Gian Burrasca: sgridare, ramanzina. La Repubblica: “Sgridato per il fumo si uccide a 17 anni. Morire per una ramanzina. Morire d’adolescenza, giù dalla finestra dopo una sgridata inevitabile”. Davanti a tale tragedia, vale ripetere quanto scriveva Christian Raimo in merito ad un episodio analogo, avvenuto in provincia di Genova due anni fa: “Non c’è mai nulla di intelligente da dire su una tragedia famigliare come quella di Lavagna”, occorre allargare lo sguardo “a tutto ciò che sta fuori dalla famiglia (…) la società, la politica”. E quella di Guidonia non è solo una tragedia familiare, ma anche una tragedia sociale e politica. Qualche giorno prima, il 4 marzo, un blitz dei Carabinieri nelle case popolari a due passi dall’abitazione del giovane suicida, aveva portato in carcere 15 persone per spaccio e identificato 105 assuntori segnalati al Prefetto. Il sito romatoday.it titola: “Colle Fiorito come Scampia, smantellata banda di pusher, 15 arresti”. Evidentemente il vissuto del 17enne non era determinato solo da una ramanzina, ma anche dall’abitare in un quartiere definito come Scampia. Ecco la descrizione del luogo dal sito montecelio.net: Colle Fiorito che, come spesso accade per altre cittadine, diventa agli occhi delle istituzioni, e degli abitanti, un vero e proprio Paese Dormitorio, senza storia e passato e quindi senza alcuna speranza di miglioramento presente e futuro. Uno sguardo a Google Maps disvela questo eden a una trentina di km da Roma: Il Mc Donald’s c’è. Dove giocare d’azzardo pure, e poi poco altro. Una giovane amica che lo abita, descrive Colle Fiorito come un quartiere che ai ragazzi appare triste, sentimento condiviso dalla maggioranza dei giovani della sconfinata periferia romana a cavallo del Grande Raccordo Anulare. E allora, forse, abbiamo una chiave per comprendere come la “riduzione della domanda di droghe” non può esaurirsi nelle solite, esauste politiche repressive, oggi rilanciate ventilando pene tanto sproporzionate quanto del tutto inutili; se l’obiettivo è l’integrità fisica e psichica dei giovani, la politica di cui abbiamo urgenza non è la sicurezza urbana, ma le politiche urbane. Una recente ricerca (Parsec/SerD Roma 2) ha raggiunto 2.671 studenti della Asl Roma 2 (territorio in gran parte periferico) e un campione di controllo selezionato tra gli iscritti nei licei del centro di Roma: i risultati evidenziano come il consumo di cannabis coinvolga in uguale misura ragazzi del centro e ragazzi periferici. Ma ci sono differenze significative: il 21% degli studenti delle scuole della Asl Roma 2 dichiara di avere amici che consumano cannabis “tutti i giorni o più volte al giorno”, a fronte del 13,1% di quelli delle scuole del Centro; alla domanda “Tra i tuoi amici quanti consumano cannabis subito prima della scuola?” il 4.5% dei giovani periferici risponde “quasi tutti”, contro lo 0,7% dei liceali del centro. A quartieri tristi, corrispondono consumi eccessivi, problematici. Chi può diversificare l’accesso al piacere, per collocazione economica e culturale, inserisce il consumo di cannabis in una gamma di opzioni possibili: chi abita a Colle Fiorito, può giungere alla convinzione che per ricercare uno stato di benessere in quel panorama c’è solo uno spino, una birra, una slot, insomma quello che offre il mercato. *Sociologo, Coop.Soc. Parsec Iran. L’avvocata dei diritti umani che fa tremare il regime degli ayatollah di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 marzo 2019 La pericolosa minaccia per gli ayatollah è una donna minuta di 55 anni dal sorriso raggiante. Talmente pericolosa che il regime l’ha condannata alla pena surreale di trentotto anni di prigione. E a 148 frustate, da infliggere sulla pubblica piazza. La Corte di Teheran che ha emesso la sentenza contro Nasrin Sotoudeh evoca motivazioni roboanti: “complotto contro lo Stato”, “attentato alla sicurezza nazionale”, “ingiurie verso la Guida suprema”, “istigazione alla prostituzione”, “violazione della legge che obbliga a indossare l’hijab”. E si aggrappa all’articolo 134 del codice penale iraniano, un’aberrazione giuridica che consente al giudice di aumentare la pena in modo discrezionale se i capi di imputazione sono più di tre. Basta scorporare le accuse e il gioco è fatto. Si può capire però cosa spaventi a morte gli aytollah: Nasrin Sotoudeh, la più importante avvocata dei diritti umani dell’Iran, è nota in tutto il mondo da quando nel 2012 ha vinto il premio Sakarov assegnato dal Parlamento europeo, le sue battaglie sono un prisma che riflette le contraddizioni e la brutalità di un sistema arcaico, ma è anche una forza tranquilla, che agisce con le armi del diritto e della non violenza, una donna appassionata della politica e della libertà. Nata in una famiglia benestante della classe media, da giovane voleva iscriversi alla facoltà di filosofia: “Avevo anche fatto il concorso, 53esima su 30mila studenti, poi alla fine un amico mi ha consigliato di laurearmi in legge, non so se ho fatto bene ma questa è la mia vita”, raccontava lo scorso anno in un’intervista rilasciata al quotidiano francese Libération. Dopo la laurea inizia a lavorare per una rivista, Dericheh, scrive articoli, reportage, testimonianze, incontra molte donne che le parlano delle difficoltà nel vivere in una società bigotta e ipocrita, in particolare nei confronti dei più giovani letteralmente imprigionati nella ragnatela di divieti e proibizioni imposta dal clero. Il direttore rifiuta gli articoli e lei sbatte la porta: “Quella censura mi ha fatto male ma mi ha convinta ha battermi con ancora più determinazione per la libertà delle donne”. Così Nasrin decide di diventare un’avvocata. Dopo aver perfezionato gli studi in diritto internazionale, nel 1995 supera con successo l’esame all’ordine, ma ci vorranno nove anni per ottenere il diritto a esercitare la professione. In quel periodo incontra Reza Khandan, che diventerà suo marito e compagno di vita: “Reza è un uomo moderno e gentile, è sempre stato al mio fianco in tutte le mie battaglie”. Anche in questi drammatici giorni Khandan sta facendo di tutto per coinvolgere l’opinione pubblica internazionale a occuparsi del caso di sua moglie, con il rischio molto elevato di finire anche lui dietro le sbarre. Nasrin difende da anni i veri o presunti oppositori politici del regime sciita, le donne accusate di violare i rigidi dettami della sharia, cittadini che manifestano pacificamente il proprio dissenso, giornalisti rei di aver criticato il governo, giovani sorpresi a bere una birra per strada, ragazze vestite in modo “scostumato”, coppie che si scambiano effusioni proibite nel posto sbagliato. Il primo arresto è nel 2010 per l’assistenza legale a Zahra Bahrami, una cittadina di origine olandese accusata di “propaganda e cospirazione contro lo Stato”. Condannata a 11 anni viene messa in isolamento nel carcere di Evin, la famigerata prigione un tempo gestita dalla Savak (la polizia segreta dello Scià) che dopo la Rivoluzione del 79 ha mutato soltanto il colore politico e ideologico dei suoi carcerieri, ma non i metodi disumani di detenzione. Le visite dei familiari le sono vietate per mesi, lei protesta con due scioperi della fame che la sfibrano nel corpo ma non nell’animo. Viene liberata nel 2013 con l’arrivo del presidente riformista Rohani che, desideroso di mostrare un’immagine diversa dell’Iran alla comunità internazionale le concede la grazia. Una mossa utile anche a negoziare con l’allora presidente Obama l’accordo sul programma nucleare di Teheran. Nel 2017 assiste le decine di ragazze che si sono tolte il velo in piazza sfidando il regime; Nasrim denuncia ancora il sistema che impedisce alle imputate di scegliere il proprio avvocato e finisce di nuovo nel mirino dei giudici. Viene arrestata di nuovo lo scorso giugno e da allora non è più uscita dalla sua cella di tre metri per tre nell’inferno di Evin. Il resto è cronaca. Iran. Amnesty: violenza senza precedenti contro le donne che tolgono il velo di Giordano Stabile La Stampa, 13 marzo 2019 Le iraniane che protestano contro le imposizioni dei religiosi e si tolgono il velo in pubblico devono fronteggiare un “livello di violenza senza precedenti”. Botte, arresti, minacce di morte. La nuova ondata di repressione è denunciata in un rapporto di Amnesty International, che ha rilanciato il lavoro delle attiviste de “La mia videocamera, la mia arma”. Il giro di vite arriva in concomitanza della nomina da parte della guida suprema Ali Khamenei dell’oltranzista Ebrahim Raisi a capo del potere giudiziario. Una svolta “a destra”, che sembra essersi concretizzata subito con la condanna abnorme subita dall’avvocatessa dei diritti umani Nasrin Sotoudeh: 33 anni di carcere e 148 frustate. Fra i capi di accusa c’era anche quello di essersi tolta il velo in pubblico e questo dimostra come il tema sia diventato centrale nel tentativo dell’ala radicale del regime di rinsaldare la presa sul Paese. Amnesty International ha raccolto centinaia di filmati delle attiviste. Mostrano i poliziotti “che le insultano e le minacciano, ordinano di rimettersi il velo, distribuiscono fazzoletti per togliere il trucco”. Ma non basta. Gli agenti “le schiaffeggiano, le picchiano coi manganelli, le ammanettano”. Un filmato mostra una discussione fra una donna e un uomo in borghese, che alla fine “la insulta e le spruzza in volto spray al peperoncino”. Mariti che reagiscono In un video c’è un uomo in borghese accanto a un furgone della polizia, mentre punta con un’arma un uomo e una donna intervenuti per impedire un arresto. Ma ci sono anche casi di mariti o compagni delle donne in strada senza velo che reagiscono alle angherie e minacciano a loro volta gli agenti e i basiji, i volontari filo-governativi, segno di una insofferenza crescente nei confronti delle imposizioni religiose. Il velo obbligatorio è però un simbolo troppo importante della Repubblica islamica. Il rispetto della “decenza” e del “pudore” sono considerati imprescindibili. Una coppia di fidanzati, domenica scorsa, è finita agli arresti per essersi abbracciata in pubblico alla festa di fidanzamento e dopo che il video “scandaloso” era finito in Rete. Ma proprio Internet è anche il motore delle proteste, per esempio attraverso la pagina Facebook “La mia libertà clandestina”, la diffusione dei video di denuncia, o l’organizzazione dei “mercoledì bianchi”, quando le donne indossano una sciarpa in segno di protesta. In base alla sharia le donne debbono coprirsi i capelli in pubblico dopo aver compiuto nove anni e se non rispettano l’imposizione sono punite con un multa o l’incarcerazione fino a due mesi. L’obbligo del velo, come sottolinea Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International, viene ormai utilizzato “per giustificare aggressioni in strada contro le donne e le ragazze”. Iran, Singapore e Arabia Saudita: i Paesi in cui sono previste le pene corporali giudiziarie Corriere della Sera, 13 marzo 2019 Il caso dell’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh è l’ultimo di una lunga serie in varie zone del mondo. Trentatré anni di prigione e 148 frustate: è il verdetto emesso in Iran contro l’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh. La donna è stata accusata di aver fatto propaganda contro il sistema, di aver organizzato incontri ai danni della sicurezza nazionale, di aver partecipato al movimento contro la pena di morte e di aver incitato le donne a togliersi il velo e a compiere azioni immorali. La legge iraniana prevede l’uso di frustate, amputazioni e accecamenti per una serie di reati: dal vandalismo alla diffamazione passando per le relazioni omosessuali. Come ricorda Amnesty International, nel gennaio 2018 è stata amputata una mano a un uomo mediante ghigliottina per un furto di bestiame e altri beni e nel luglio dello stesso anno un 25enne è stato frustato 80 volte sulla schiena per aver consumato alcolici a una festa dieci anni prima. Singapore - L’utilizzo di pene corporali contro i 18-50enni a Singapore è molto discusso dal 1994, quando il18enne americano Michael Fay è stato bastonato (caning il termine tecnico, che indica i colpi sferzati sulle natiche con delle canne) per atti vandalici. Uno degli ultimi casi di cronaca coinvolge un 21enne, condannato a sei settimane di prigione e quattro colpi per aver tentato di entrare illegalmente a Singapore. Afghanistan - Risale al 2015, la denuncia e richiesta di Amnesty International al governo afghano di individuare e punire i responsabili delle 100 frustate inflitte in pubblico e trasmesse in televisione, il 30 agosto dello stesso anno nella città di Cheghcheran, a un uomo e a una donna colpevoli di adulterio. L’Afghanistan è fra i Paesi islamici a prevedere queste pratiche. Arabia Saudita - In Arabia Saudita le pene corporali sono previste per il consumo di alcool, crimini morali (intrattenersi con qualcuno con cui non si ha un legame di parentela), adulterio, omosessualità od offesa all’Islam. Risale a cinque anni fa, la condanna a 10 anni di carcere, 1000 frustate e a una multa di un milione di rial al blogger saudita Raif Badawi. Arrestato il 17 giugno 2012 per aver messo online un forum di dibattito chiamato “Liberi liberali sauditi”, dopo aver rischiato persino la pena di morte per “apostasia”, il 7 maggio 2014 è stato riconosciuto colpevole di “offesa all’Islam”. Dal momento dell’arresto sono passati sei anni e mezzo e Badawi è ancora in carcere. Risale invece al 2013 la segnalazione di Amnesty International di una condanna alla paralisi a un uomo nel caso in cui si fosse rifiutato di pagare un milione di riyal sauditi (circa 270.000 dollari) di risarcimento. Indonesia - Risale a inizio marzo la fustigazione in piazza di sei coppie, arrestate per relazioni inappropriate (extraconiugali o omosessuali), ad Aceah, in Indonesia. La lista completa dei Paesi in cui sono previste punizioni corporali giudiziarie comprende almeno una trentina di Paesi, tra i quali alcune ex colonie britanniche e un certo numero di Paesi con sistema legale islamico. Libia. Haftar lancia l’ultima offensiva: c’è Tripoli nel mirino di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 13 marzo 2019 Il generale si muove verso la Tripolitania, mentre nella capitale la tensione è alta: Serraj denuncia un attentato a vuoto contro di lui mentre i rappresentanti dei paesi Ue si riunivano intorno al suo capezzale politico. Il generale cirenaico Haftar è a un passo dalla conquista di Tripoli e quindi dell’ultimo lembo di Libia. Le sue forze armate, dopo aver spadroneggiato il mese scorso nel Fezzan intorno ai più grandi campi petroliferi - incluso quelli dell’Eni - si sono ritirate da lì per lanciarsi in una avanzata in Tripolitania. Per il momento si sono attestate nell’area di Abu Hadi, vicino Sirte, città fino al 2016 roccaforte dell’Isis e prima di allora luogo della sconfitta definitiva e della morte del colonnello Gheddafi. I sopraffattori di Gheddafi erano misuratini, della città-Stato di Misurata, in seguito architrave della milizia governativa Bunian al Marsus (Edificio dalle fondamenta solide) che ha riconquistato Sirte dopo un anno di assedio e quasi 800 morti. Bunian al Marsus è stata riconfermata in queste ore dal consiglio locale dei saggi unica milizia legittimata a Sirte, ma non sembra interessata ad allontanare Haftar. Piuttosto in attesa degli eventi. Nel frattempo a Tripoli c’è grande agitazione. Ieri il portavoce del governo smentiva un attentato, a vuoto, contro il premier Serraj al suo arrivo all’aeroporto di Mitiga di ritorno dal Qatar dove ha incontrato Haftar il 27 febbraio insieme all’inviato Onu Salamè. E sempre ieri gli ambasciatori europei presenti nella capitale si sono dati appuntamento al capezzale politico di Serraj. I rappresentanti di Austria, Belgio, Repubblica ceca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna, Svezia, Regno unito, Ungheria e Unione europea si sono autoconvocati per “uno scambio di opinioni sulla situazione politica e di sicurezza nel Paese” e per “sostenere il processo politico volto a porre fine al periodo di transizione”, riporta il Libya Herald. Al termine dell’incontro la delegazione Ue ha rilasciato una dichiarazione in cui si sottolineano i punti condivisi: dal sostegno alla missione Unsmil e all’inviato speciale Salamé, fino alla soddisfazione per la ripresa della produzione dei pozzi di Sharara nel Fezzan sotto la guida della compagnia libica Noc, passando per il ribadito impegno a sostenere elezioni “nazionali giuste e sicure il prima possibile”. In caso di regime change, insomma, questi sono i paletti. Brasile. Due ex poliziotti arrestati per l’omicidio di Marielle Franco di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 13 marzo 2019 L’attivista, consigliera comunale di Rio, era nota per le sue battaglie in difesa dei diritti civili. I magistrati: “Omicidio premeditato, Franco giustiziata sommariamente a causa delle sue azioni politiche”. Due ex agenti della Polizia Militare. Gente decisa, famosa per i metodi spicci e per il grilletto facile. Un passato nell’esercito, nei gruppi speciali anti-sequestri, molti encomi, mai indagati, poi al servizio delle milizie paramilitari di Rio come sicari. Si chiamano Ronnie Lessa, 48 anni, agente in pensione e Elcio Vieira de Queiroz, ex poliziotto cacciato dal corpo, 46. Sono gli assassini di Marielle Franco e Anderson Gomes, la consigliera comunale e attivista per i diritti umani e il suo autista, entrambi fulminati in un agguato nel centro della capitale carioca il 14 marzo del 2018. Sono stati presi stamani alle 4 nelle loro case. Ronnie Lessa viveva nello stesso condominio del presidente Jair Bolsonaro, a Barra de Tijuca, nella zona sud di Rio. Ma è solo una coincidenza. A due giorni dalla ricorrenza del mortale attentato che scosse in profondità l’intero Brasile, la Divisione Omicidi della Polizia (Dh) e il Gruppo di azione speciale per la lotta alla criminalità organizzata (Gaeco/Mprj) imprimono una svolta decisiva ad una inchiesta che sembrava arenata su una landa deserta. Un paio di arresti contestati cinque mesi fa, la certezza che i proiettili usati facevano parte di un lotto di cartucce destinato alla Polizia Militare ma rubato, continui cambi di rotta nelle indagini, scontri tra i diversi corpi di polizia impegnati. L’amara sensazione che il duplice omicidio scoperchiasse complicità e connessioni tra potere politico, milizie e polizia per essere indagato a fondo e risolto. Il lavoro degli inquirenti, coordinati da due coraggiosi magistrati, ha invece restituito parte di giustizia ad una donna che è diventata il simbolo dei diritti degli ultimi e che ha pagato con la vita il suo impegno per denunciare gli abusi della polizia militare nelle favela. Secondo i Pm Simone Sibilio e Leticia Emile, Lessa avrebbe materialmente sparato a Marielle e Anderson mentre Elcio era alla guida della macchina usata dal commando. A bordo c’era anche un terzo sicario che non è stato ancor individuato. Ma è questione di ore. “È indiscutibile”, scrive il giudice Gustavo Kalil nel provvedimento restrittivo, “che Marielle Francisco da Silva sia stata giustiziata sommariamente a causa delle sue azioni politiche in difesa delle cause che sosteneva. La barbarie praticata nella notte del 14 marzo 2018 fu un duro colpo per lo Stato di diritto democratico”. L’agguato è stato preparato con cura almeno tre mesi prima. Aveva anche un nome in codice: Operaçao Buraco do Lume, lo stesso usato da Marielle per il suo ufficio dove sorgeva l’Osservatorio sulla violenza da lei creato e il progetto sulle donne Lume Feminista. È stato grazie ad un lavoro lungo e complesso di ricerca dei dati sulla rete cellulare se si è arrivati ai due sicari. Lessa si era munito di un telefono usa e getta, un cosiddetto “cespuglio” acquistato fornendo il codice fiscale (Cpf) di un terzo. Rintracciarlo era impossibile. Bisognava immortalare il cellulare dell’ex poliziotto sulla scena del crimine. Per farlo la squadra informatica ha fatto una triangolazione e tramite l’Erbs, l’antenna che raccoglie i segnali delle celle, hanno individuato tutti i telefoni che erano attivi lungo il percorso fatto da Marielle da quando ha lasciato il Comune fino al luogo dell’agguato. Erano molti. Ma lavorando sui tempi di percorrenza e confrontandoli con le immagini della telecamera di sorveglianza che aveva inquadrato l’auto degli assassini, gli investigatori hanno individuato quello giusto. Corrispondeva a quello in uso a Lessa. Nel momento degli spari il segnale arrivava dalla macchina del commando. Dai dati del cloud, rimasti impressi, sono riusciti ad aprire la memoria dell’assassino e a scoprire che era già stato poche ore prima sotto la casa di una donna dove Marielle Franco aveva tenuto una riunione. Per dare nuovo impulso alle indagini, l’inchiesta era stata divisa in due tronconi: la prima sui killer, la seconda sui componenti il commando e i mandanti. Gli arresti di stamani sono il frutto del lavoro sulla prima. A molto servite le dichiarazioni di testimoni, le soffiate raccolte in giro, alcune ammissioni di detenuti coinvolti nell’operazione. Ma l’agguato subito da Lessa un mese dopo il duplice omicidio in una trappola con un ex collega dei vigili del fuoco, a Barra de Tijuca, aveva allertato i sospetti degli inquirenti. I due avevano reagito agli spari dell’aggressore mettendolo in fuga a colpi di pistola. Sembrava un’azione per liquidare un killer scomodo. Lessa si era beccato una fucilata ma dopo essere stato curato in ospedale si era dimesso senza lasciare alcuna denuncia. Il suo era un nome noto alla polizia. Nel 2009 aveva subito un altro attentato a Bento Ribeiro, quartiere difficile di Rio. Gli avevano piazzato una bomba nella Toyota blindata che stava guidando. L’ordigno era esploso, lui se l’era cavata ma aveva perso una gamba che adesso era stata sostituita con una protesi. Le sue condizioni fisiche lo portarono in pensione. Ma era ancora giovane, conosciuto e famoso nell’abilità dell’uso delle armi lunghe, fucili automatici soprattutto. La polizia lo sopportava come ex collega ma gli ha sempre chiuso le porte. Si è aperta la strada più redditizia delle milizie. Lessa aveva tutte le caratteristiche per guidarne una come responsabile militare. Si è fatto valere, ha portato a termine numerosi incarichi. Non deludeva mai. Ci è riuscito anche con Marielle Franco. Ha centrato i suoi obiettivi e ha incassato il compenso da chi gli aveva assegnato l’appalto mortale. Quello rimasto nell’ombra. Yemen. Il terrore seminato dalle milizie a guida saudita La Repubblica, 13 marzo 2019 Minorenni anche di 8 anni stuprate nella città di Ta’iz. La denuncia documentata con numerose interviste di Amnesty International. I referti medici descrivono situazioni agghiaccianti su bambini e bambine. L’impunità è ancora diffusa, nonostante leggi severissime. Proviene da Amnesty International la denuncia secondo la quale minorenni, anche di soli otto anni, sono state stuprate nella città yemenita e che i presunti autori, tra cui membri delle milizie sostenute dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, restano ancora impuniti. L’organizzazione per i diritti umani ha indagato sulle testimonianze delle famiglie di quattro minorenni (maschi e femmine) stuprati negli ultimi otto mesi. In due casi, le famiglie hanno accusato miliziani legati al partito Islah, appoggiato dalla coalizione a guida saudita. Lasciate sole durante e dopo l’incubo. “Queste strazianti testimonianze confermano quando il conflitto incorso abbia reso i minorenni di Ta’iz vulnerabili allo sfruttamento sessuale, in una città dominata dall’insicurezza e dalla fragilità delle istituzioni. Queste vittime e le loro famiglie sono state lasciate sole e prive di protezione durante e dopo questo incubo”, ha detto Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. “Le autorità yemenite dovranno indagare a fondo per lanciare il segnale che questi crimini non saranno tollerati e per proteggere le famiglie dei minorenni da rappresaglie. Le persone sospette, compresi combattenti e leader che godono della fiducia delle comunità locali, dovranno essere sottoposte a giudizio. Lo stupro e le aggressioni sessuali nel contesto di un conflitto armato costituiscono crimini di guerra. Chi ha posizioni di comando e non ferma queste azioni vili può a sua volta essere considerato responsabile di crimini di guerra”, ha commentato Morayef. Referti medici agghiaccianti. Amnesty International si è occupata di quattro casi di violenza sessuale: tre di stupro e uno di tentato stupro. Due referti medici esaminati dall’organizzazione fanno riferimento a lesioni nella zona anale su due delle vittime, a conferma delle loro testimonianze. A far pensare due volte le famiglie prima di presentare denuncia sono stati sia il clima d’impunità e di rappresaglia quanto soprattutto il fatto che le persone sospette sarebbero politicamente fedeli alle istituzioni locali, controllate dal partito Islah. Due civili sono attualmente in attesa del processo per altrettanti casi, mentre i miliziani sospettati coinvolti nei restanti due casi non sono stati neanche arrestati. Nessuna risposta dalle autorità. Amnesty International ha scritto al procuratore generale dello Yemen chiedendo commenti e chiarimenti ma non ha ricevuto risposta. Negli ultimi mesi, le istituzioni e il sistema giudiziario hanno ripreso in parte a funzionare nel sud dello Yemen occupandosi di un modesto numero di casi. Le famiglie hanno dovuto affrontare ulteriori ostacoli. Tutti e quattro i casi sono stati segnalati al dipartimento per le indagini penali di Ta’iz. Ma quando questo ufficio ha chiesto a uno degli ospedali principali della città di visitare le tre vittime di stupro e di produrre certificati medici, in un caso l’ospedale ha opposto inizialmente rifiuto per poi chiedere in cambio del certificato un versamento di denaro che la famiglia non è stata in grado di reperire. Amnesty International è venuta a conoscenza di almeno altri due casi di stupro di cui le famiglie hanno troppo timore di parlare. Due delle quattro famiglie che hanno denunciato le violenze sono state costrette ad allontanarsi per evitare la vendetta delle milizie. Questa è la testimonianza del 16enne vittima di stupro. “Lui (un miliziano) ha iniziato a colpirmi col calcio del fucile e con calci e pugni mi ha spinto contro il muro. Allora ha detto che voleva stuprarmi. Io ho iniziato a piangere e a pregarlo di considerarmi come suo figlio. Si è infuriato ancora di più e ha ripreso a picchiarmi. Poi mi ha preso per il collo, mi ha spinto a terra e mi ha stuprato”. Queste invece sono le parole della madre. “Quando la sera è tornato a casa, è andato direttamente al gabinetto. Quando ne è uscito, gli ho chiesto cosa fosse successo ma non ha risposto. Si è messo a piangere e io ho iniziato a piangere a mia volta. Siamo rimasti seduti vicini per tre giorni, non riuscivamo a bere né a mangiare né a dormire. Dal punto di vista psicologico era terrorizzato, aveva un aspetto era giallo e spossato. Stava seduto lì guardando nel vuoto…” La madre ha sporto denuncia al dipartimento per le indagini penali che ha emesso un decreto, esaminato da Amnesty International, per ordinare una visita medica e un referto. Il medico, che lavora in un ospedale controllato da Islah, si è rifiutato: “Il dottore mi ha detto che mio figlio non aveva nulla che non andasse e che non avrebbe scritto il referto”, ha raccontato. Poi la direzione dell’ospedale ha chiesto soldi per produrre il certificato ma la madre non è stata in grado di pagare. Un’altra testimonianza di un ragazzo riuscito a fuggire. Il ragazzo riuscito a fuggire, nel luglio 2018, da un tentativo di stupro da parte di un miliziano ha 12 anni. Un suo parente ha raccontato che il miliziano ha chiesto al ragazzo di consegnare un pacco all’abitazione di un vicino, per poi seguirlo e aggredirlo: “Il miliziano lo ha spinto sul letto minacciandolo col fucile e avvertendolo che se avesse gridato o pianto il fucile era carico. L’uomo ha iniziato a spogliarsi. Il ragazzo, anche se era terrorizzato, è riuscito a prendere il fucile e a sparagli, poi è fuggito…” L’aggressore è morto. I familiari del ragazzo hanno riferito quanto accaduto alle autorità locali. Lasciati senza protezione, sono stati aggrediti 48 ore dopo nella loro abitazione da miliziani colleghi dell’aggressore. Una persona è morta e tre sono state ferite in modo grave. Per due settimane le autorità locali hanno tenuto in carcere il ragazzo, suo padre e due fratelli a scopo di protezione da ulteriori vendette. Minorenni vulnerabili. Il terzo caso riguarda un bambino di otto anni stuprato due volte tra giugno e ottobre 2018 dal figlio di un imam legato al partito Islah e da un suo amico. La madre ha raccontato quanto da allora sia cambiato il comportamento del figlio, che molto spesso scoppia in lacrime. Prima era uno dei più bravi a scuola, mentre ora non riesce a tenere una penna in mano né a scrivere. Ha disturbi del sonno e ha crisi di urla e di pianto incontrollabili. “Mio figlio mi ha detto che il figlio dell’imam lo ha chiuso nel gabinetto della moschea, gli ha tappato la mano con la bocca e ha iniziato a spogliarlo. Dopo aver finito, ha chiamato l’amico che ha fatto la stessa cosa a mio figlio”, ha riferito la madre. Secondo i referti medici esaminati da Amnesty International, da allora il bambino presenta difficoltà motorie, mancanza di concentrazione e una commozione cerebrale conseguenza delle ripetute percosse. Nelle guerre la violenza sessuale è sottostimata. Come in altre situazioni di conflitto, la dimensione della violenza sessuale in Yemen resta sottostimata. Non esistono dati pubblici recenti su quella contro i minorenni. Secondo il Fondo delle Nazioni Unite sulla popolazione, 60.000 donne sono a rischio di subire violenza sessuale, compreso lo stupro. Sempre secondo le Nazioni Unite, la violenza sessuale contro i ragazzi e gli uomini adulti è comune ma assai poco denunciata. Da qualche mese le istituzioni e il sistema giudiziario dello Yemen, che non funzionavano da anni, sono stati riattivati nel Sud del Paese iniziando a gestire un piccolo numero di casi. Secondo la famiglia del 12enne scampato allo stupro, gli autori dell’attacco per vendetta non sono stati arrestati e la famiglia è stata costretta a lasciare Ta’iz, chiudendo la piccola attività commerciale. Allo stesso modo, nessuno è stato arrestato per lo stupro del ragazzo di 16 anni e il miliziano sospettato rimane a piede libero. In relazione agli altri due casi, altrettanti civili sono detenuti in attesa del processo. La legge yemenita prevede la pena capitale. La legge yemenita prevede la pena di morte per gli autori di violenze sessuali. Amnesty International tuttavia si oppone alla pena capitale in ogni circostanza e senza eccezioni. La Convenzione sui diritti dell’infanzia, ratificata dallo Yemen nel 1991, obbliga gli stati parti a prendere tutte le misure appropriate per proteggere i minorenni da ogni forma di violenza fisica o psicologica, compresa la violenza sessuale. Dal 2015 Ta’iz è stata al centro di intermittenti quanto pesanti scontri tra le forze huthi e un amalgama di forze anti-huthi fedeli alla coalizione a guida saudita e al governo yemenita. Gli scontri si sono intensificati durante il 2018. Quattro anni di conflitti hanno portato alla proliferazione di milizie pro-coalizione saudita e filogovernative, le principali delle quali sono affiliate al partito Islah o a gruppi salafiti. Pur stando teoricamente dalla stessa parte, queste milizie hanno agende in conflitto e si scontrano frequentemente tra loro. Le milizie legate al partito Islah. In due dei quattro casi - uno di stupro e l’altro di tentato stupro - le famiglie hanno accusato miliziani legati al partito Islah, la Congregazione Yemenita per la Riforma, conosciuta come Al-Islah, un partito yemenita, nato nel 1990 dai componenti yemeniti dei Fratelli Musulmani, una “costola” del jihadismo nata nel 1928, da un gruppo di persone a Ismaliya, nei pressi del Canale di Suez, in un momento storico in cui in l’Egitto c’era ancora una monarchia sotto il dominio britannico, con pubbliche istituzioni immature e subalterne e in un contesto generale di ignoranza e povertà diffusissime. Al suo vertice c’era un religioso dalla retorica potente e coinvolgente, si chiamava Hassan al Banna. I punti cardine delle sue prediche erano la decadenza dei costumi nell’Egitto di allora, con l’appello al ritorno all’autenticità, alla purezza dell’Islam antico. Al Banna dispensava promesse di modernizzare e di libertà dal giogo britannico. Congo. L’Onu: oltre 500 morti nelle stragi a dicembre Avvenire, 13 marzo 2019 Le uccisioni di almeno 535 tra uomini, donne e ii bambini negli scontri tra due comunità lo scorso dicembre nella Repubblica democratica del Congo potrebbero costituire crimini contro l’umanità. A metterlo nero su bianco nelle conclusioni della sua missione è un team delle Nazioni Unite che ha indagato sugli attacchi avvenuti in quattro villaggi nel territorio dello Yumbi, nell’ovest del Paese, tra il 16 e il 18 dicembre scorsi. In quella zona violenti scontri avevano opposto membri delle comunità Banunu e Batende. L’inchiesta ha rivelato che gli attacchi, scatenati da una disputa per la sepoltura di un capo Banunu in una zona che i Batente considerano propria, sono stati caratterizzati da particolare violenza e rapidità, in modo da non lasciare scampo alle vittime. Gli assalti erano guidati da abitanti dei villaggi della comunità Batende armati di fucili, machete, archi, frecce e benzina contro villaggi della comunità Banunu. Le vittime sono state attaccate nelle strade, nelle case e mentre cercavano di fuggire. Il rapporto Onu descrive l’orrore dei crimini: una bambina di due anni sarebbe stata gettata in una fossa biologica, una donna violentata brutalmente dopo la decapitazione della figlia di tre anni e l’uccisione del marito. Atti indicibili che potrebbero appunto configurare l’ipotesi di crimini contro l’umanità. Alcune informazioni preliminari ricevute dall’Ufficio congiunto dell’Onu per i diritti umani nella Repubblica democratica del Congo riferivano di almeno 890 persone uccise, in gran parte della comunità Banunu. L’inchiesta dell’Onu ha confermato che almeno 535 persone sono state uccise e 111 ferite nelle località di Yumbi, Bongende e Nkolo. Molti corpi sono probabilmente stati gettati nel fiume Congo. Inoltre, un migliaio di edifici, principalmente case, chiese, scuole e centri sanitari sono stati distrutti o saccheggiati e l’Onu stima che circa 19mila persone siano state evacuate. Il rapporto sottolinea anche l’assenza di un’azione da parte delle autorità e mette in guardia contro una possibile ripresa delle violenze. “È essenziale garantire che gli autori di tali atroci crimini siano puniti”, ha commentato l’Alto Commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, che ha anche incoraggiato il governo ad avviare un processo di riconciliazione e verità tra le comunità coinvolte.