Case famiglia per bambini figli di madri detenute: il ritardo italiano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2019 Al momento ci sono solo due strutture. La Commissione parlamentare Infanzia e Adolescenza solleciterà il Governo ad affrontare il problema che riguarda 53 piccoli. La Commissione parlamentare Infanzia e Adolescenza porterà il problema dei bambini dietro le sbarre all’attenzione del Governo. Lo ha anticipato, tramite una lettera pubblicata al quotidianosanità.it Paolo Siani, il parlamentare del Pd e membro della commissione. Spiega che se anche alcuni bambini sono ospitati presso gli istituti a custodia attenuata, ciò “rappresenta pur sempre una limitazione della libertà per i bambini”. Spiega che sono un’esperienza da comprendere ma anche da superare. “Sarebbe necessario - illustra Siani - un altro istituto previsto dalla stessa legge del 2011, quello della case famiglia protette. Quanto meno nei casi di detenute - sottolinea il parlamentare, condannate a reati non gravissimi, servirebbero a tutelare non solo un diritto sacrosanto delle donne, quello alla maternità, ma soprattutto a fare in modo che i bambini non si trovino a scontare pene per colpe che non sono loro”. Proprio nella giornata di ieri, i membri della commissione sono andati a visitare l’Icam di Lauro, in provincia di Avellino. Una struttura che attualmente ospita 14 ragazze (9 italiane e 5 straniere) con i loro quindici bambini. Il parlamentare Siani ci tiene a sottolineare che “oramai è unanimemente riconosciuto che i primi tre anni di vita dei bambini sono fondamentali per il loro sviluppo futuro e per la loro crescita equilibrata”. Il membro della commissione quindi si chiede: “E che inizio di vita stiamo offrendo a questi 53 bambini che vivono in un carcere pur se senza sbarre, con la loro mamma? Potranno mai avere uno sviluppo Neuropsichico normale questi bambini?”. Ma cosa sono le case famiglia e perché non si punta su di loro? Ad oggi, grazie a diversi sforzi dell’amministrazione locale e gli enti disposti a metterci i soldi, esistono solo due case famiglia: una a Roma e l’altra a Milano. Recentemente il Gruppo Crc (il gruppo di lavoro per l’infanzia) ha presentato il terzo rapporto supplementare - relativo all’anno 2016/ 2017 - alle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, alla cui redazione hanno contribuito 144 operatori delle 96 associazioni del network. Nella sezione dedicata ai figli di genitori detenuti, il Gruppo Crc raccomanda al ministero della Giustizia di destinare parte delle risorse previste per gli Icam agli enti locali a cui è in carico la titolarità delle Case Famiglia Protette. Come mai lo Stato non finanzia le case famiglia? C’è il decreto dell’ 8 marzo del 2013 che specifica i requisiti: si legge che le strutture residenziali case famiglia protette previste dalla Legge n. 62 del 21 aprile 2011 sono per soggetti che non ravvisano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, o soggetti nei confronti dei quali, nel caso di concessione di misure alternative previste, non sussista grave e specifico pericolo di fuga o di commissione di ulteriori gravi reati. Constatata l’impossibilità di esecuzione della misura presso l’abitazione privata o altro luogo di dimora debbono rispettare i criteri organizzativi e strutturali previsti dall’articolo 11 della Legge 328/ 2000 e dal Dpcm 21 maggio 2001, n. 308, nonché dalle relative normative regionali in materia tenendo presente le seguenti caratteristiche tipologiche: ospitano non oltre sei nuclei di genitori con relativa prole; i profili degli operatori professionali impiegati e gli spazi interni sono tali da facilitare il conseguimento delle finalità di legge; le stanze per il pernottamento e i servizi igienici dei genitori e dei bambini dovranno tenere conto delle esigenze di riservatezza e differenziazione venutesi a determinare per l’estensione del dettato della legge 62/ 2011 anche a soggetti di sesso maschile; sono in comune i servizi indispensabili per il funzionamento della struttura; sono previsti spazi da destinare al gioco per i bambini, possibilmente anche all’aperto; sono previsti spazi, di dimensioni sufficientemente ampie, per consentire gli incontri personali, quali: i colloqui con gli operatori, i rappresentanti del territorio e del privato sociale, nonché gli incontri e i contatti con i figli e i familiari al fine di favorire il ripristino dei legami affettivi. Il servizio sociale dell’amministrazione penitenziaria interviene nei confronti dei sottoposti alla misura della detenzione domiciliare secondo quanto disposto dall’art. 47 quinques, 3°, 4° e 5° comma dell’Ordinamento penitenziario. Il decreto conclude: “Il ministro della Giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture da utilizzare come case famiglia protette”. L’ultimo punto è quello chiave: per le case famiglia lo Stato non partecipa e viene tutto delegato ai privati. L’Associazione Papa Giovanni XXIII: “Meno carcere, meno recidiva” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2019 Puntare alle misure alternative al carcere. Questo è stato il parere esposto durante la scorsa audizione in commissione della regione dell’Emilia Romagna. Una commissione presieduta da Giuseppe Paruolo, sul progetto Comunità educante con i carcerati (Cec) e sull’attività del Coordinamento teatro carcere Emilia Romagna. Il Cec è un progetto della comunità papa Giovanni XXIII che si basa su una metodologia ispirata all’Apac, l’Associazione per la Protezione e assistenza ai condannati nato in Brasile negli anni 70. Si tratta di un percorso progressivo suddiviso in 3 fasi. Prima fase: il recuperando conosce la proposta nel dettaglio aderisce al progetto educativo. In questa fase l’attività principale è costituita dal lavoro- terapia, da momenti formativi e da momenti di riflessione per approfondire i valori rispettosi dei diritti e della legalità. Si riducono al minimo i contatti con l’esterno per favorire un tempo di riflessione, in cui si rafforza la scelta verso il cambiamento. Seconda fase: il lavoro non è più solo creativo- terapeutico ma diventa professionalizzante, attraverso l’attivazione di piccoli laboratori per imparare un mestiere con la possibilità di svolgere tirocini formativi in cooperative e aziende esterne. Aumenta il tempo dedicato alle visite dei famigliari. In questa fase può cominciare il percorso di avvicinamento alle vittime del reato e si progetta un possibile risarcimento. Terza fase: il recuperando viene inserito a tutti gli effetti nel mondo del lavoro, mantiene i contatti con i famigliari più autonomamente e si riducono i momenti formativi ed educativi. La notte rientra presso i presidi. A discrezione del giudice la parte finale della pena può essere svolta nelle case- famiglia o in altre realtà di accoglienza dell’Associazione. Fondata da don Oreste Benzi, l’associazione gestisce in Emilia Romagna quattro strutture. Ha evidenziato in commissione Giorgio Pieri della papa Giovanni XXIII che con il loro programma “la recidiva si riduce notevolmente, passando dal 75% al 15% circa, e i costi si abbassano considerevolmente, considerato che una persona in carcere costa 200 euro al giorno mentre nelle nostre case il costo è di 35 euro”. Ha aggiunto Pieri: “Chiediamo alla Regione Emilia Romagna il riconoscimento del nostro modello, l’istituzione di un registro delle associazioni che accolgono detenuti, l’accreditamento delle nostre strutture e un contributo economico per portare avanti la nostra attività”. Dopo Pieri è intervenuto Daniele, giovane ex detenuto che ha aderito al progetto Cec e che ha descritto la sua esperienza: “Ho incontrato persone che hanno dato un volto diverso alla mia vita e ho capito che la vita ha un altro valore. Spero che un numero crescente di giovani possano sfruttare questa opportunità”. Il presidente della commissione ha accolto la richiesta dicendo di impegnarsi, così come i consiglieri presenti. Processo penale. Le veline di Bonafede fanno litigare Anm e avvocati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 marzo 2019 l ministro auspica “un ultimo sforzo” per avere il via libera alle sue riforme dei riti. Ma oggi magistrati e penalisti dovranno provare a ricucire in vista del tavolo di domani, dopo che una fuga in avanti dei consiglieri del ministro e delle toghe ha allontanato le posizioni. “Siamo alla settimana decisiva”, “siamo all’ultimo miglio”. Il ministro della giustizia Bonafede ce la mette tutta per spingere la sua riforma dei riti, civile e penale. D’altronde con lo stesso slancio l’aveva annunciata per gennaio, poi per febbraio. Ma il traguardo non è dietro l’angolo. Soprattutto in materia penale, dove la tagliola della cancellazione della prescrizione dopo il primo grado è adesso un po’ più vicina (1 gennaio 2020). Sia magistrati che avvocati la considerano assai dannosa, se non accompagnata da misure in grado di velocizzare sul serio i processi. Magistrati e avvocati, però, dopo aver fatto qualche passo insieme verso la definizione dei punti qualificanti della riforma - individuando di comune accordo tre aree di intervento, i riti alternativi, l’udienza preliminare e la depenalizzazione - sono tornati a dividersi alla vigilia dell’incontro che il ministro vorrebbe definitivo, domani. Con il rischio che se oggi, a quattr’occhi, i presidenti di Anm e Unione della camere penali non riusciranno a recuperare il dialogo, Bonafede possa portare il disegno di legge delega di riforma in Consiglio dei ministri senza l’accordo di una o entrambe le categorie degli operatori della giustizia. Non ha aiutato la bozza in trentuno punti che gli uffici del ministro hanno fatto avere alle parti, sulla quale il Comitato direttivo centrale dell’Anm si è affrettato a esprimere un suo parere - in larga parte favorevole - senza concordarlo con i penalisti. Le motivazioni ufficiali parlano di “doverosa collaborazione con le istituzioni”, quelle ufficiose di una giunta prossima alla scadenza che è interessata a mettere la firma su un accordo. Anche perché la prossima guida dell’Anm - toccherà alla corrente più a destra, Mi - non si annuncia facilmente unitaria e non sarà certo più attenta alle garanzie. Domenica un documento dell’Unione camere penali ha duramente reagito alla mossa dell’Anm, bollandola di “populismo giudiziario” e “burocratico efficientismo”, senza evitare di accusare l’Anm di collateralismo ai 5 Stelle: “L’Anm si inserisce a pieno titolo nell’orizzonte politico-culturale che ispira l’attuale maggioranza e il ministro”. “Noi condividiamo in pieno la battaglia per la ragionevole durata del processo - dice il presidente dell’Ucpi Giandomenico Caiazza - perché è un diritto dell’imputato e non una semplice regola di buona organizzazione. Ma non consentiremo che vengano manomesse le garanzie fondamentali, tra le quali il pieno esercizio del diritto a impugnare le sentenze di condanna”. Nei punti proposti dal ministero e in buona misura approvati dall’Anm - anche perché non di rado ripresi dalle proposte della magistratura - c’è invece l’ampliamento dei casi di inappellabilità, assieme all’allargamento del patteggiamento, l’estensione dei giudizi immediati e la reintroduzione dell’appello incidentale del pubblico ministero, cancellato poco più di un anno fa. Non c’è però la misura più temuta dai penalisti, l’abolizione del divieto di riformare in peggio la sentenza di primo grado quando a proporre appello è l’imputato. Nemmeno la replica che arriva agli avvocati dal vertice dell’Anm è tenera, visto che si ricorda come i penalisti non disdegnino di cercare per conto loro intese con l’altra componente della maggioranza, la Lega, sulla separazione delle carriere. Lega che però, contemporaneamente, sta conducendo in porto l’abolizione del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo, una misura che oltre a smentire qualsiasi credenziale di garantismo fa a pugni con il tentativo di sveltire i processi. La decisione del Comitato direttivo dell’Anm di andare incontro alle richieste del ministro non è comunque piaciuta a tutta la magistratura, il presidente di Md Riccardo De Vito dice infatti che “in futuro si deve tornare a lavorare sulle proposte condivise con avvocatura e accademia, senza rincorrere le accelerazioni asistematiche della politica. Solo così si possono creare le condizioni per coniugare gli obiettivi di efficienza con la pienezza delle garanzie”. Ad avvocati e magistrati “colonne portanti della giustizia italiana” Bonafede chiede “un ultimo sforzo”. La riforma del processo penale sarebbe per i 5 Stelle un buon argomento da campagna elettorale. Anche se una legge delega, con i suoi tempi, non riuscirà certo a sveltire i processi, prima che scatti l’abolizione della prescrizione. Rosso (Ucpi): “L’Anm chiarisca o sulla riforma penale strade divise” di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 marzo 2019 “Se l’Anm ha intenzione di riprendere le fila degli accordi presi, noi siamo disponibili. Altrimenti ognuno per la sua strada”. È la presa di posizione dell’Unione camere penali italiane, espressa in modo chiaro dal suo segretario, l’avvocato Eriberto Rosso. La polemica tra l’Anm e i penalisti ha infiammato il fine settimana ed è culminata con un duro documento dell’Ucpi. “Se Anm ha intenzione di riprendere le fila degli accordi presi, noi siamo disponibili. Altrimenti ognuno per la sua strada”. Questa la presa di posizione dell’Unione camere penali italiane, espressa in modo chiaro da su segretario, l’avvocato Eriberto Rosso. La polemica tra l’Associazione nazionale magistrati e i penalisti ha infiammato il fine settimana ed è culminata con un duro documento dell’Ucpi. Segretario, ricostruiamo i passaggi della vicenda... Tutto nasce dall’intenzione del ministro Bonafede di mettere mano al processo penale. A questa iniziativa le Camere penali hanno risposto sostenendo che gli eventuali interventi dovevano essere limitati, perché il clima culturale di non condivisione è all’evidenza di tutti. Il ministro, allora, ha istituito un tavolo di consultazione coordinato da lui stesso, dove noi siamo intervenuti insieme ad Anm. Lì la nostra tesi è stata quella di individuare tre aree possibili di intervento, nella logica di un recupero dei tempi morti del processo. Su questo abbiamo trovato coincidenza in Anm. Quali sono le aree? La logica è stata quella di intervenire sui tempi morti del processo e sulla riduzione del numero di processi a giudizio. Dunque, la proposta era di lavorare sul venir meno del ruolo dell’udienza preliminare; sul miglioramento dei riti alternativi, che oggi sono asfittici e funzionanti in un piccolo numero di casi; sulla depenalizzazione. L’avvocatura ha lavorato sui primi due punti, la magistratura sul terzo. Quanto a tutte le altre ipotesi di modifica del processo, invece, c’era accordo con Anm di accantonarle. Invece? Invece l’Ufficio legislativo del ministero ha redatto una bozza di 32 punti di riforma. A questo, Anm ha risposto con un suo documento in cui ribadiva sì la disponibilità al dialogo col ministero sui 3 punti individuati con le Camere penali, ma ha anche recuperato formalmente alcune sue vecchie proposte che da noi avevano ricevuto un giudizio negativo tranciante. Questo ci ha molto stupito e abbiamo reagito con un documento altrettanto duro, in cui abbiamo sottolineato che l’accordo era di confrontarci al tavolo ministeriale solo sulle proposte comuni. Il senso della nostra delibera è di chiedere che Anm si chiarisca. Si chiarisca o chiarisca a voi? Entrambe. Noi abbiamo partecipato al congresso di Magistratura democratica e ascoltato le preoccupazioni espresse sul terreno delle garanzie nel processo, che vanno in direzione opposta a quella del documento di Anm. Chiariscano i magistrati anche a noi la sua posizione: noi siamo d’accordo con l’idea di percorrere insieme ad Anm un pezzo di strada, che va nella direzione di mettere mano a una parte della riforma del processo penale limitatamente ai tre punti individuati. Ci dicano se sono ancora di questo avviso. Altrimenti che succede? Noi non possiamo immaginare che ci sia un doppio percorso. Quindi, se si vuole giocare su più piani, ognuno per la sua strada. Anche noi come i magistrati abbiamo tanti temi di cui discutere, come ad esempio la certezza dei tempi di indagine e la richiesta di proroga con discovery davanti al giudice in tempi certi. Insomma, se Anm amplia la lista dei temi, lo farete anche voi? Anm da una parte dice sì a un percorso comune con noi, dall’altra mette sul piatto anche questioni frutto di vecchie proposte a cui noi siamo da sempre contrari. Noi stigmatizziamo questo atteggiamento che consideriamo profondamente sbagliato e diciamo che, se si apre il vaso delle proposte, le Camere penali faranno ricorso agli strumenti di lotta e di denuncia loro propri. In tutto questo, come sono i rapporti col ministero? Il ministro Bonafede è una persona di assoluto garbo, che ha ritenuto di coordinare personalmente il tavolo di lavoro. Sappiamo anche che il Guardasigilli si muove in un tessuto e in un contesto culturale che non è vicino al nostro. Abbiamo apprezzato, tuttavia, la volontà sua e dell’ufficio legislativo di dialogare sui punti comuni che avevamo individuato insieme alla magistratura associata e la sua presa d’atto dell’opposizione dell’avvocatura a intervenire su alcuni temi che toccavano pesantemente le garanzie. Questo contrasto con Anm rischia di riportare indietro il dialogo? Noi non chiudiamo la porta: se Anm ha la disponibilità e la volontà di chiarire che al tavolo ministeriale andremo con una proposta unitaria, noi ci saremo e sarebbe un esito utile per tutti. Diversamente, le ulteriori proposte da loro avanzate non consentono alcuna posizione comune. Noi siamo contrari a qualsiasi ipotesi di rivisitazione dell’inammissibilità dell’appello stabilita dal giudice a quo, a tutte le previsioni specifiche in materia di inammissibilità e a qualsiasi ipotesi di inappellabilità. Se perseverano nel voler riportare questi temi sul tavolo, salta qualsiasi linea comune tra Camere penali e Anm. Ora che farete? Certamente avremo un’interlocuzione con Anm. Poi ci confronteremo con Cnf e le altre associazioni dell’avvocatura, per valutare insieme cosa fare. Norma “spazza-corrotti”: stretta sul carcere irretroattiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2019 Sulla legge “spazza-corrotti”, la 3 del 2019, in particolare sulla sua stretta per i condannati per reati contro la pubblica amministrazione è caos. Perché le prime pronunce della magistratura puntano a sterilizzarne gli effetti nell’immediato, soprattutto per l’assenza di una disciplina della fase transitoria. E il ministero della Giustizia, mentre si profila un intervento della Cassazione, già corre ai ripari, pensando a correzioni da applicare subito. Nelle aule dei tribunali si sta iniziando a fare i conti con la norma che vede solo il carcere come destinazione per tutti i condannati per reati come corruzione, concussione, peculato. L’esclusione di misure alternative alla detenzione colpisce tutti, dall’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, condannato per corruzione, per il quale sono stati esclusi gli arresti domiciliari che avrebbe potuto chiedere prima del 31 gennaio 2019 (data di entrata in vigore della “spazza-corrotti”) per effetto dei suoi 72 anni, al “semplice” avvocato sanzionato con quattro anni di carcere per peculato. Nei confronti di quest’ultimo il Gip di Como, con decisione dell’8 marzo, in sede di incidente di esecuzione, ha ordinato l’immediata scarcerazione, dopo poche ore, accogliendo la tesi difensiva del professor Vittorio Manes e dell’avvocato Paolo Camporini: la norma della legge 3/19 che esclude la sospensione della detenzione per dare tempo al condannato di chiedere (da libero) l’affidamento in prova ai servizi sociali ha carattere sostanziale e quindi ne va esclusa la retroattività. Non usa mezzi termini il Gip comasco, ritenendo si smentire, bollandola come “una truffa delle etichette” la tradizionale collocazione delle misure sull’esecuzione della pena tra quelle processuali. Si tratta invece di “norme che incidono sostanzialmente sulla natura afflittiva della pena; una modifica legislativa peggiorativa di tali norme, conseguentemente, può determinare gravi pregiudizi per il condannato e aggredire in modo significativo il bene della libertà personale”. Tuttavia, nelle ore successive, la Procura e tornata a chiedere il carcere, contestando l’interpretazione del Gip, preannunciando la decisione di proporre ricorso contro la scarcerazione e a doversi pronunciare sul punto sarà la Corte di cassazione. Linea della Procura che era uscita sconfitta pochi giorni prima anche a Napoli, dove, con decisione del 1° marzo, il tribunale aveva negato l’applicazione retroattiva dell’obbligo di detenzione nei confronti di una donna che, condannata definitivamente per istigazione alla corruzione, si era vista prima ammessa alla sospensione della pena con contestuale richiesta di misure alternative e poi di fronte all’ordine di esecuzione che avrebbe spalancato il carcere, per effetto dell’entrata in vigore, nel frattempo della “spazza-corrotti”. La settima sezione penale del tribunale partenopeo ha invece annullato l’ordine, ritenendo che le successive modifiche alla normativa, intervenute dopo il provvedimento di sospensione, non possono avere effetto. Sarà allora il tribunale di sorveglianza a dovere verificare se la donna potrà essere ammessa alla misura alternativa. E della problematicità del tema si è reso conto anche il Governo, visto che alla Camera, in commissione Giustizia, il sottosegretario Vittorio Ferraresi, di fronte a una risoluzione di Enrico Costa (Forza Italia), si è detto disponibile all’adozione di una norma che disciplini la fase transitoria, aprendo all’esclusione dall’applicazione della riforma di tutte le condanne diventate definitive prima del 31 gennaio. Scelta che, però, già obiettano i critici non cancellerebbe i profili di incostituzionalità, determinati dall’applicazione di una norma dagli effetti sostanziali anche a fatti commessi prima dell’entrata in vigore. La spazza-corrotti andrà a sbattere sulla Costituzione di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 12 marzo 2019 La Carta argine al populismo penale Durante le dichiarazioni di voto finale alla Camera sulla legge spazza-corrotti qualche anima saggia pronosticò che diverse norme di quel provvedimento, palesemente incostituzionali, sarebbero divenute oggetto di pronunce della Consulta e quindi di inevitabili decapitazioni normative. Il ministro Bongiorno parlò addirittura di una bomba atomica sganciata sul processo penale, e mai previsione fu più azzeccata, visti i primi effetti di una legge che ha fatto piazza pulita dei più elementari principi di civiltà giuridica e delle stesse garanzie processuali. Per la prima volta una legge in materia penale ha messo d’accordo tutti i giuristi, che l’hanno definita come una pagina nera per il diritto e per la procedura penale, perché ci sono norme volte al diritto penale della delazione e al diritto penale della vendetta, che contraddicono l’articolo 27 della Costituzione, e norme votate all’allungamento indiscriminato dei processi penali, in violazione dell’articolo 111. Ma la furia giustizialista del ministro Bonafede ha partorito un insieme di norme non solo a forte rischio di incostituzionalità, ma anche di difficile applicazione: i nodi, insomma, stanno arrivando al pettine e la sguaiata esultanza per il primo corrotto eccellente finito in carcere dopo l’approvazione della legge, Roberto Formigoni, potrebbe presto trasformarsi in una Caporetto giacobina. Spesso il diavolo, infatti, si nasconde nei dettagli, e il Parlamento ha omesso di prevedere una indispensabile disposizione transitoria alla norma che dal 31 gennaio scorso vieta le misure alternative al carcere ai condannati in via definitiva peri reati contro la pubblica amministrazione. Esiste un principio giuridico, che nel diritto romano era definito in dubio pro reo, secondo il quale a nessuno può essere applicata una norma peggiorativa per un reato commesso prima della sua entrata in vigore. Oggi si chiama retroattività della legge penale, e la gip di Como nei giorni scorsi vi ha fatto ricorso proprio in un caso di applicazione della spazza-corrotti, ritenendo la norma non applicabile retroattivamente. Dunque c’è un condannato in via definitiva, a Como, che è tornato in libertà e potrà optare per l’affidamento ai servizi sociali, mentre a Milano Formigoni resta in carcere. Due pesi e due misure. La questione è destinata a finire alla Corte Costituzionale, ma il ragionamento della gip di Como va considerato come una sorta di comandamento garantista: le norme dell’ordinamento penitenziario hanno sì natura processuale, ma quando si fa una rivoluzione giacobina come quella di Bonafede, hanno anche natura sostanziale, e quindi non possono essere retroattive se sfavorevoli al reo. Tesi avvalorata da un ulteriore paradosso: anche chi ha patteggiato o optato per il rito abbreviato confidando sulle leggi vigenti al momento del processo, ora si vede rifiutare i servizi sociali. Questi primi intoppi nell’applicazione della spazza-corrotti, che l’ex ministro Flick ha giustamente definito spazza-diritti, dimostrano che il populismo penale sta trovando un limite nella Costituzione. Il diritto penale declinato come uno strumento di lotta generalizzata a fenomeni sociali come mafia e corruzione, peraltro mettendoli surrettiziamente sullo stesso piano, e non all’accertamento delle responsabilità individuali, è un’aberrazione giuridica. In questo clima, l’abolizione della prescrizione è stato eretto a falso totem contro l’impunità. Ma la giustizia del carcere ad ogni costo non è più giustizia, è il trionfo della vendetta penale. Il decreto sicurezza ha azzerato la protezione umanitaria di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 marzo 2019 L’accoglimento delle richieste dei migranti minacciati da guerre e carestie è crollato dal 50% al 2%. Da circa il 50% di riconoscimenti di domande per la protezione umanitaria a meno del 2% di accoglimenti: 1,8%, per la precisione. È questo il primo bilancio della stretta imposta dal Ministero dell’interno sui presupposti per il riconoscimento di forme di protezione internazionale diverse dallo status di rifugiato. La “linea dura” voluta dal ministro Matteo Salvini sta dunque raggiungendo in anticipo sulla tabella marcia lo scopo prefissato: stop definitivo entro l’anno ai permessi umanitari. Il cambio di rotta è avvenuto con l’entrata in vigore lo scorso anno del “decreto sicurezza” che ha comportato un aumentato esponenziale dei rigetti delle domande di protezione internazionale da parte delle Commissioni territoriali. L’immediata conseguenza è stata, però, la crescita del numero dei ricorsi contro i provvedimenti di diniego davanti alle sezioni specializzate dei Tribunali. Tale situazione avrà ripercussioni anche sul carico di lavoro della Corte di Cassazione, già in difficoltà per l’aumentato numero di ricorsi a seguito dell’abolizione dell’appello. Le Commissioni territoriali, un tempo vero collo di bottiglia nella procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, sono state in questi mesi notevolmente rafforzate. Il Viminale ha aumentato la loro forza organica inviandovi personale scelto. Il Ministero, oltre ad aver incrementato il numero delle sezioni, ne ha anche aperte di distaccate. Il collo di bottiglia si è quindi spostato nei Tribunali dove il numero dei giudici destinati alle sezioni specializzate in materia di immigrazione e protezione internazionale è attualmente sottodimensionato per fronteggiare questa mole di ricorsi, rispettando i tempi imposti dalla legge per la definizione dei procedimenti. La “linea dura” salviniana non si ferma comunque alle domande. A farne le spese sono coloro che, titolari di un permesso di soggiorno per protezione internazionale ed umanitaria, volevano rinnovarlo. Qui la scure è stata implacabile, con dinieghi pressoché generalizzati. Tutti provvedimenti che vengono successivamente impugnati, andando ad ingrossare i ruoli delle sezione specializzate dei Tribunali, interessate quest’ultime anche dal contenzioso determinato dall’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica. Sul punto l’Associazione Nazionale Magistrati, nell’ultimo Comitato direttivo, ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura ed al Ministero della giustizia provvedimenti immediati. Fra le richieste: applicazioni extra-distrettuali straordinarie alle sezioni specializzate, previa analisi delle sopravvenienze; aumento delle piante organiche dei Tribunali sedi di sezioni specializzate e dei corrispondenti uffici di Procura, da destinare a queste ultime; fornitura di linee guida ed indicazioni specifiche ai presidenti di Tribunale per il rafforzamento delle sezioni specializzate, con l’assegnazione di giudici a tempo pieno e non in coassegnazione con altre sezioni ed anche attraverso la effettiva costituzione dell’ufficio per il processo, prevedendo l’assegnazione di un numero congruo di stagisti e di giudici onorari in affiancamento. La riforma fortemente voluta da Salvini, “provoca - scrivono le toghe - un aumento significativo dei ricorsi non legato all’attualità del fenomeno degli sbarchi sul nostro territorio. Un fenomeno destinato ad essere strutturale e non transitorio”, concludono quindi i magistrati. Forza Italia: “L’accattonaggio deve essere reato” di Antonio Rapisarda Il Tempo, 12 marzo 2019 La proposta di Forza Italia, che giudica troppo morbide le misure del Ddl Sicurezza. Basta dare una semplice occhiata davanti ai luoghi di transito o agli angoli delle principali arterie stradali delle città per confermare ciò che i monitoraggi - come quello dell’associazione On the road - denunciano da tempo: “L’accattonaggio non è più configurabile esclusivamente come una risposta individuale alle condizioni di povertà o di grave marginalità sociale”, oggi è troppo spesso “un possibile mercato per le economie in nero”, sfruttamento incluso. Per contrastare questa pratica, dilagata anche a causa della crisi economica e dell’afflusso di migliaia di extracomunitari irregolari, in questi anni i sindaci di destra, di centro e di sinistra (tra i più attivi e “fantasiosi” nel perseguire il fenomeno il leghista Giancarlo Gentilini a Treviso e il dem Vincenzo De Luca a Salerno) hanno cercato di deliberare in tutti i modi, con risultati non sempre all’altezza della richiesta dei cittadini (dato che le multe difficilmente sono state riscosse). Una risposta al fenomeno è giunta dal decreto Sicurezza - pacchetto fortemente voluto dal ministro dell’Interno Salvini - con l’introduzione del reato di “esercizio molesto dell’accattonaggio” che prevede pene fino a sei mesi (che aumentano a tre anni nel caso si impieghino minori). La risposta del governo, però, è stata giudicata insufficiente da Forza Italia che ha presentato una proposta di legge ad hoc per reintrodurre il reato di accattonaggio. Per Galeazzo Bignami, deputato azzurro e firmatario dell’iniziativa depositata in commissione Giustizia, l’emergenza di un’ulteriore stretta è dettata dalla situazione attuale, confermata dai dossier: “Dietro questo fenomeno non di rado si nascondono episodi di racket organizzato - ha spiegato - che si sono diffusi soprattutto nelle grandi città e che generano un senso di insicurezza e di degrado”. Nonostante gli sforzi del titolare del Viminale - con un giro di vite che ha determinato già diversi arresti in numerose città - per Forza Italia il decreto “poteva essere più incisivo”. Che cosa è mancato? “Il dispositivo adottato - continua il deputato che è anche avvocato - è una evidente una soluzione compromissoria, dettata dalle divergenze politiche tra Lega e M5S che hanno annacquato il provvedimento. Non deve sorprendere quindi che noi vogliamo introdurre misure più rigorose”. Com’era il quadro normativo prima dell’abrogazione? L’articolo 670 del codice penale - depenalizzato da una legge nel 1999 - puniva con l’arresto fino a tre mesi chiunque mendicava in luogo pubblico o aperto al pubblico e con l’arresto da uno a sei mesi chi commetteva il fatto in modo ripugnante o vessatorio, simulando deformità o malattie o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare pietà. Da questo punto di vista se è vero secondo Bignami che “esistono norme sulle modalità della richiesta di elemosina che configurano un vero e proprio reato, quali lo sfruttamento di persone inabili o la richiesta insistente che può integrare il reato di violenza privata”, non esiste però un reato specifico legato alla pratica dell’accattonaggio. La domanda a questo punto è se con una reintroduzione di un reato del genere non si rischi di ingolfare ulteriormente i tribunali. “È evidente che noi dobbiamo anche graduare l’entità del fenomeno - chiarisce il parlamentare - Un conto è il mendicante che chiede l’elemosina, un altro è il racket, contro il quale servirebbero provvedimenti repressivi e non solo deterrenti”. Racket più che comprovato a suo avviso dato che “basta camminare in una grande città per rendersi conto che l’accattonaggio è una pratica illegale organizzata e non un fatto occasionale a cui è costretto chi non ha soldi nemmeno per mangiare”. Nello specifico, insomma, la proposta di legge dell’esponente azzurro è incardinata su una delega al governo per reintrodurre nel “codice penale una serie specifica di reati in materia”: precisamente, accattonaggio molesto, accattonaggio commesso con modalità fraudolente, accattonaggio commesso avvalendosi di minore o persona non imputabile con “conseguente perdita della responsabilità genitoriale nel caso in cui ad aver commesso il fatto sia il genitore o il tutore”, nonché di accattonaggio commesso da chi risiede in modo irregolare nel territorio nazionale. Ugo Ciappina, l’uomo della rapina di via Osoppo: “Vi racconto la mia vita da bandito” di Andrea Galli Corriere della Sera, 12 marzo 2019 Ex partigiano e icona della malavita, ha compiuto 90 anni e per la prima volta accetta di parlare con un giornalista. “Non ho voluto figli, come avrei potuto insegnare la morale a un bimbo? Ho speso tutto, ora vivo di pensione”. “Se per caso ho commesso un errore nella mia vita, è stato quello di non aver mai lavorato da solo. L’avessi fatto, sarei ancora un incensurato. Ma in una rapina, non puoi lavorare da solo: te ne servono almeno altri due, e sono già troppi... Allora, le metto su il caffè? Lo preparo solo per lei, a me basta quello preso a colazione. Ci vuole un’enorme disciplina, specie alla mia età: non posso sgarrare... Ma dov’è? Ascolti... non trovo la moka... se si accontenta, ho il caffè solubile”. Ugo Ciappina, novant’anni compiuti il 9 giugno, indossa pantaloni blu chiusi da una cintura nera, e una canottiera bianca; è a piedi nudi; i capelli sono sempre gli stessi, quelli folti delle fotografie dell’epoca; adesso, sono arruffati e bianchi: prima di rispondere al citofono e invitare a salire (“Le lascio la porta aperta, così capisce dove deve entrare e non fa casino sul ballatoio”), era a letto a leggere. Sul letto ci sono tre differenti paia d’occhiali; vicino al cuscino c’è un trattato sul corpo umano. Ciappina, origini calabresi e milanese di Porta Vittoria, dove vive dalla nascita, è stato ed è tantissime cose. È stato un partigiano dei Gap e un prigioniero dei nazisti, rinchiuso a San Vittore e torturato (“Dolori immani senza aprire bocca”). È stato ed è un’icona della malavita, perché figura fondamentale nella pianificazione e nell’esecuzione anche dell’assalto in via Osoppo, il 27 febbraio 1958, un furgone portavalori, mezzo miliardo di lire di bottino, i “sette uomini d’oro” della banda, i quotidiani impazziti, le indagini serrate, gli italiani col fiato sospeso (tifando per i malviventi e sognando il denaro), la grande caccia, gli arresti, un momento a suo modo unico, irripetibile della storia di Milano e d’Italia, avendo segnato una cesura netta tra la classica rapina e lo spettacolare attacco. E poi è, Ugo Ciappina, un integralista cultore del silenzio: non aveva mai parlato, corteggiato dalle case editrici ma rifiutando, a differenza dei complici, di scrivere libri, e inseguito dai giornalisti, compresi quelli che, offendendolo, gli hanno offerto dei soldi per regalare qualche frase. Li ha cacciati via tutti. Figurarsi, aveva taciuto davanti alle bastonate in faccia dei tedeschi. Adesso, nel piccolo trilocale, Ciappina parla con il Corriere. Le letture sul corpo umano - Un vecchio palazzo. La porta d’ingresso è di legno e affaccia sul bagno e la cucina, che si sviluppano in lungo; a sinistra, la camera da letto e un salotto. Tutte le finestre dell’appartamento sono chiuse. Per disordine, il trilocale somiglia a quello di uno studente universitario. Tazzine, piatti, posate, tovaglioli fuori posto, e ritagli di giornale, flaconi vuoti. “Scelgo un giorno alla settimana e sistemo. Me lo posso permettere, il disordine. Vivo da solo. Mia moglie è morta anni fa. Altre storie d’amore? Non programmo. A volte capitano: fidanzate e amanti. In media, dura un annetto, dopodiché si stanca lei o mi stanco io. Le mie giornate? Esco, cammino. Se capita, parlo con qualcuno appena conosciuto. In realtà non parlo, mi piace ascoltare e osservare”. Quel libro sul corpo umano... “In quest’ultimo periodo, sono appassionato dei segreti del cervello. Non si finisce mai d’imparare”. Per i lunghi minuti della conversazione, Ciappina rimane in piedi, appoggiato al piano della cucina. In cucina, ci sono due fogli appesi al muro: sopra il primo, c’è l’elenco delle nove pastiglie da prendere ogni giorno; sul secondo, c’è una scritta: “Ricordati di spegnere lo scaldabagno”. Fosse un interrogatorio, Ciappina non rivelerebbe nulla. Il respiro controllato, e nessun gesto a tradire un’emozione: non cambia posizione, non si accarezza il naso, non si pettina i capelli, non si china a tirar su un calzino. Il tono di voce è lento, monocorde, e privo di volgarità. Quanti ne ha vissuti, di interrogatori? “Non erano interrogatori, erano massacri. Botte da orbi della polizia”. E i carabinieri? “Ah, peggio ancora. Andavano avanti per giorni. Erano convinti che a furia di pestarti, confessavi anche i reati che non avevi commesso. Una violenza inaudita, per carità figlia di quei tempi, e un’ignoranza totale nell’imbastire il rapporto tra sbirro e malavitoso... Ma tanto, alla fine, c’erano i banditi che cantavano comunque... La prima sberla e subito a confessare. A tradire... Lo sa perché voi giornalisti non mi piacete? Perché romanzate, non scrivete i fatti così come sono... E i fatti sono banali: uomini che non fiatano e uomini che non reggono. Punto. Semplicemente è così: se sei capace di soffrire, andrai ovunque”. In cerca della rivoluzione - Sempre nella camera da letto, impilati sul pavimento, ci sono decine di libri. In maggioranza, polizieschi. “Sì, mi piacciono. Cosa dice, me ne vuole regalare qualcuno? Purché siano americani. Sono gli unici capaci di raccontare le dinamiche di chi commette il reato e di chi indaga. Cosa dice? Certo, McBain va bene. Ripeto, lasci perdere i libri non americani... Vanno sempre a cercare un taglio cinematografico... Io ho iniziato a rapinare con l’obiettivo di fare la rivoluzione... Adoravo i russi che facevano la rivoluzione, e nel mio piccolo provavo a imitarli”. Che ne ha fatto del denaro? “Mah, non pensi che abbia accumulato dei tesori nascosti... Campo della pensione. Poca roba, ma c’è chi sta messo peggio di me. Per mangiare, mangio”. Sul tavolo, ci sono tre confezioni di ravioli acquistate al supermercato. “Non guardi quelle, solitamente cucino. Sono bravo, diciamo che mi difendo. La mia specialità sono le tagliatelle”. Ciappina, sul serio non ha messo da parte niente? “Ho speso in viaggi. Sono stato ovunque. Tutta Europa. Il Sudamerica. Gli Stati Uniti in lungo e in largo”. Con la moglie? “Ma no, quale moglie. Da solo”. Nessun vizio? “Non he ho. Fumavo una quantità di sigarette... Bel piacere, però i danni era superiori al godimento... Non bevo, eccetto un bicchiere di rosso al giorno. Non gioco. Non scommetto. Non devo del grano a nessuno”. Il grano... “In via Osoppo era armato di mitra e gridavo: “Oh gente, fuori il grano...”“. A letto prima dei colpi - Ugo Ciappina è uno specialista di armi e casseforti. “Specialista... Ero bravo a modificare le armi. Avevo costruito un silenziatore straordinario, per un mio mitra. Un lavoro di fino al tornio”. E le casseforti? “Bah”. Le casseforti? “Un conto era lavorare prima della fiamma ossidrica, quanto ci volevano ingegno, abilità manuale, tecnica...”. Lei ha ricordato la necessità della disciplina... “Disciplina fisica e mentale, anzi soprattutto quest’ultima: testa sgombra da pensieri”. Com’era la vigilia delle rapine? “A letto presto”. Nient’altro? “No”. Parliamo dei suoi complici? “No”. Ci sono dicerie, aneddoti... “No”. Da chi ha imparato a rapinare? “Nel dopoguerra, giravo con bei personaggi”. Erano criminali... “Erano vecchi che mi hanno insegnato il mestiere. Non ho mai voluto entrare nelle case a rubare. E non ho mai ucciso”. Non è una giustificazione... “Ho vissuto la guerra, ho il massimo rispetto per la vita”. Mai avuto figli? “Non li ho voluti. In totale, diciotto anni di galera... Come avrei potuto insegnare la morale a un bambino? Con quale coerenza? Sarebbe venuto su un balordo, mi avrebbe fatto disperare”. La cercano ancora? “Chi?”. Quelli che vogliono consigli. “Ma chi vuole che mi cerchi... Parliamo del passato, che è finito da un pezzo. Sto invecchiando”. Pensa alla morte? “No, chi se ne frega della morte”. E la delinquenza di adesso? “Bah, sono saltate le regole, sono saltati i codici di comportamento”. Lei ha detto di aver commesso soltanto l’errore di non aver lavorato da solo; ma quali pentimenti ha avuto? “Lo stesso: avrei dovuto rapinare in solitaria. È come con le rivoluzioni, in generale... senza compagni, perdi. È l’unico prezzo da pagare, anche se spesso ti frega”. Campania: “comunità alloggio in alternativa agli Icam per le detenute madri” irpinia24.it, 12 marzo 2019 Il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello: “Al primo posto la vita, le relazioni e la crescita psico-fisica dei bambini” Si è tenuto ieri presso l’Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri) di Lauro (Av) un incontro organizzato dal Garante campano dei Detenuti Samuele Ciambriello tra i senatori e deputati della Commissione Bicamerale per l’Infanzia e l’Adolescenza e le detenute ed i loro bambini presenti nell’Istituto. La delegazione era formata dai senatori Luisa Angrisani e Raffaele Mautone e dai deputati Patrizia Prestipino, Maria Spena e Paolo Siani. “Come garante ho posto all’attenzione della commissione, che è composta da legislatori, la modifica della legge 62 del 2011 affinché si preveda la “comunità alloggio” in alternativa agli Icam, prevedendo il sostegno economico dello Stato o degli enti locali dove sono situati gli Icam, utile per evitare la carcerazione preventiva, ma anche per vivere in maniera alternativa la pena mettendo al primo posto la vita, le relazioni e la crescita psico-fisica dei bambini”. Così si è espresso a margine dell’incontro il garante campano Samuele Ciambriello. Presso l’Icam sono presenti 34 agenti di cui appena 8 donne. Su questo tema sia del personale penitenziario che di figure sociali e sanitarie Ciambriello ha continuato: “Un altro tema fondamentale è la formazione del personale specializzato che opera all’interno delle strutture carcerarie: va professionalizzato ed aggiornato costantemente così come va potenziato quello femminile. Anche sul tema della sanità bisogna incidere e non in maniera occasionale. Vi è bisogno di determinate figure professionali: infermieri, medico e pediatra (con più ore a disposizione), osa, puericultrice. Vi è bisogno, insomma, che lo Stato e le istituzioni si occupino delle questioni sanitarie in queste strutture con continuità. Addirittura qui all’Icam manca un defibrillatore!”. Il Deputato del Pd Paolo Siani ha dichiarato: “La struttura è bella ma dà l’idea di un carcere ed un bambino non dovrebbe stare in un posto del genere, essendo una creatura innocente”. Raffaele Mautone, Senatore dei 5 stelle ha aggiunto: “Bisogna pensare ai bambini ed ai loro bisogni in primis. Gli stessi minori devono rappresentare uno stimolo per le mamme affinché il processo di riabilitazione dal carcere sia effettivo”. A conclusione, Maria Spena, Deputata di Forza Italia ha dichiarato “Abbiamo ascoltato le detenute, mangiato con loro, dialogato, guardato nel volto i loro figli. Dovere della Commissione è quello di mantenere al centro i bambini, dando, parallelamente un futuro migliore a loro ed alle mamme”. Erano presenti all’incontro il Direttore dell’Istituto Paolo Pastena, il garante provinciale di Avellino dei detenuti Carlo Mele ed il cappellano Padre Carlo De Angelis. Dopo il confronto con le detenute i parlamentari si sono fermati a pranzo con le stesse. Il menù ha previsto come antipasto prosciutto, mozzarella e fritturine, come primo spaghetti ai frutti di mare, come secondo salsicce, patate ed insalata, come dolce un tiramisù preparato dalle stesse detenute. Napoli: Poggioreale al collasso, 800 detenuti “di troppo” e 300 agenti in meno di Silvio Russo internapoli.it, 12 marzo 2019 “La realtà penitenziaria di Poggioreale necessità di uno sfollamento detenuti in eccesso per oltre 800 unità ed un incremento organico di poliziotti per oltre 300 unità”. È quanto evidenzia in una nota il sindacato Osapp. “Nei giorni precedenti si sono tenuti vari incontri con gli esponenti del governo, in particolare con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede per giungere ad un accordo risolutivo tra le parti. Nulla da fare per il Giuseppe Salvia di Napoli, l’accordo salta e le criticità che vivono i poliziotti penitenziari permangono. Dal 15 febbraio scorso continuano pertanto a protestare incessantemente”. L’organizzazione sindacale autonoma Osapp, con il segretario provinciale Luigi Castaldo, “fa sapere che finché non si avranno riscontri tangibili alle forti problematiche segnalate, il personale di Polizia Penitenziaria resterà in stato di agitazione ed a lavorare con carichi di stress, viste le gravi carenze”. “Vengono richiesti interventi tempestivi ed urgenti alla realtà penitenziaria di Poggioreale - sottolinea il sindacato - che necessità di uno sfollamento detenuti in eccesso per oltre 800 unità ed un incremento organico di poliziotti per oltre 300 unità. Occorre con queste misure garantire maggior sicurezza per tutti e la salvaguardia della dignità dei poliziotti e dei detenuti. I troppi tagli hanno messo in ginocchio il sistema penitenziario, realtà molto complessa e che gode di poco interesse da parte dell’opinione pubblica”. “Anche se diversi rappresentanti regionali proclamano lo stato di agitazione senza continuare l’astensione dalla mensa - dichiara Castaldo - molti preferiscono astenersi comunque dal consumare il pasto spettante poiché ad oggi non hanno avuto nessun riscontro concreto e tangibile”. “Lo stato di agitazione con l’interruzione dei rapporti sindacali con l’amministrazione regionale non dimostra la frustrazione lavorativa che subiscono i poliziotti i quali in molti continuano la loro forma di protesta concreta e visibile iniziata il 15 Febbraio contro le indicazioni di vari segretari regionali”, conclude Castaldo. Nel frattempo da Roma i segretari generali delle varie sigle sindacali confermano la manifestazione del 27 marzo contro una politica che si era impegnata per migliorare le gravi carenze del corpo di Polizia Penitenziaria. Roma: Semi di Libertà Onlus, quando una birra vale la pena di Paolo Strano La Repubblica, 12 marzo 2019 Semi di Libertà Onlus nasce il 28 Gennaio 2013 con la mission di contrastare le recidive dei detenuti, e dal marzo 2014 gestisce a Roma il micro-birrificio Vale la Pena, progetto ideato per realizzare percorsi formativi e professionali nella filiera della birra artigianale, cofinanziato nella fase di start-up da Miur e Ministero Giustizia (Cassa delle Ammende). L’Associazione ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali: - Vincitore del contest nazionale Coltiva l’Idea Giusta 2015 (Ubi Banca - Make a Change) - Selezionato dal Politecnico di Milano come una delle proposte italiane più innovative e di impatto sociale nell’ambito del contest europeo Transition e presentato a Bruxelles nell’evento conclusivo (2016) - Finalista nazionale in Sodalitas Social Innovation (2015) - Presentato al workshop internazionale “Organizing Supply Chain Processes for Sustainable Innovation in the Agri-Food Industry” organizzato da Politecnico di Milano e University of Southern California (2015) - Inserito stabilmente dalla Luiss di Roma nel Progetto VolontariaMente ed utilizzato come caso studio nel “Business Game Case Analysys” - Roma Best Practices Award “Mamma Roma e i suoi figli migliori” - categoria Roma Accoglie Bene (2018) - Premio Formica D’Oro (Forum del Tezo Settore Lazio) 2018 Ora Vale la Pena diventa una spin-off che si svilupperà autonomamente ed in sinergia con altri progetti di Economia Carceraria, e Semi di Libertà Onlus costruisce una nuova progettualità ed organizzazione, mantenendo la propria mission e la volontà di costruire un percorso a medio/lungo termine finalizzato a collocare il più ampio numero di persone in esecuzione penale o ex detenuti, ma senza esercitare attività commerciali per sostenersi come fatto finora, anche in accordo con la Riforma del III Settore che impone una scelta in questo senso entro il 3 Agosto 2019. La nuova attività della Onlus si basa su un riassetto organizzativo che permetta il dialogo con le istituzioni, e con il tessuto sociale ed economico della città di Roma, soprattutto attraverso la realizzazione di micro progetti che abbiano una ricaduta sociale sul territorio, dalla manutenzione del verde al decoro urbano, ma anche proponendosi come hub di progettualità sociale. Le principali attività quindi saranno: 1. Creazione di una mappa di Roma, dove accogliere segnalazioni di problemi (verde pubblico e privato, decoro urbano, storie di abbandono sociale, sicurezza, etc.), una sorta di libro dei (bi)sogni su cui costruire progetti e soluzioni realizzate da detenuti in art.21 o semiliberi attraverso lavori di pubblica utilità, e finanziabili dal mondo profit (o istituzionale), stimolando condotte di cittadinanza attiva. Tutta la nuova progettualità sarà accolta e sviluppata dal nuovo sito web istituzionale, in fase di pubblicazione; 2. Realizzazione di nuovi percorsi formativi, oltre a quello nella filiera della birra artigianale, non esclusivamente in ambito enogastronomico, per creare un serbatoio di professionalità da inserire in Economia Carceraria o in altre opportunità lavorative; tali corsi potranno essere attivati nella nuova sede, od esternalizzati privilegiando il concetto di rete ed opportunità; 3. Richiamo e sostegno alla costruzione di nuove start-up innovative a vocazione sociale, da sviluppare in ambito di Economia Carceraria, ponendo Semi di libertà come Hub di progettualità sociale. Una sezione Lab dove studenti o neo imprenditori potranno sfruttare rete e know-how dell’associazione per creare o sviluppare il proprio progetto, che promuove inoltre studi sull’impatto sociale del comparto, funzionali alla ricerca di investimenti da parte di banche, enti, venture capital, private equity ed Istituzioni, e partecipi a bandi pubblici e privati; 4. Costruzione di eventi, come il Festival Nazionale dell’Economia Carceraria, che a Giugno 2019 vedrà la seconda edizione dopo il successo dello scorso anno, per sviluppare raccolte fondi, opportunità formative e lavorative, ed attivazione di nuove reti. Il coinvolgimento delle persone in esecuzione penale in attività di pubblica utilità, nei percorsi di formazione, negli eventi e nella nascita di start-up permetterà alla Onlus di mantenere la propria vocazione di palestra finalizzata al reinserimento, ponendo i detenuti come protagonisti di un “riscatto sociale” che generi una economia circolare, etica e virtuosa, partecipata da realtà profit, comuni cittadini ed Istituzioni. Cassino (Fr): carcere parzialmente inagibile, trasferiti oltre cento detenuti di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 12 marzo 2019 La decisione presa dopo un sopralluogo da parte del Vigili del Fuoco. Interessata al cedimento la vecchia ala del penitenziario. La denuncia dei sindacati. Cento detenuti trasferiti nei penitenziari del centro Italia perché parte della struttura di detenzione a Cassino è inagibile. Ieri sera, d’urgenza, sono stati messi in atto gli spostamenti dopo che, nel pomeriggio, a seguito di un sopralluogo dei Vigili del Fuoco, è stata dichiarata l’inagibilità della parte più vecchia della struttura di via Sferracavalli. Gli ospiti quindi, con decine di bus della Polizia Penitenziaria, sono stati spostati a Rieti, Viterbo, Latina e l’Aquila. La nota dei sindacati - “Apprendiamo che ieri il vecchio padiglione del carcere di Cassino è stato dichiarato inagibile a seguito controllo dei Vigili del Fuoco, pare per alcune crepe nei muri, con conseguente trasferimento dei rispettivi detenuti in altri carceri della Regione. Solo alcuni giorni fa tutte le organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria avevano segnalato “le condizioni di precarietà e inadeguatezza in numerosi settori, passando dalla Portineria centrale che è un baluardo a tutela della sicurezza interna, al Settore colloqui, alla Rotonda, alla Sala polivalente, per finire alla Terza e Quarta Sezione detentiva. Queste ultime sono nel totale degrado, presentano ambienti malsani, insalubri con evidenti segni di muffa e umidità causate dalla vecchiaia e dalla mancanza di manutenzione. Urge pertanto una ristrutturazione completa con adeguamento. La Fns Cisl Lazio in più occasioni ha segnalato alle vari articolazioni del Dap l’inadeguatezza edilizia di alcune strutture penitenziarie e la necessità di più risorse economiche. Senza comunque fare allarmismi. Occorre però mettere in sicurezza i luoghi di lavoro, poiché in dette sedi ci lavora sia il personale di Polizia Penitenziaria e non solo, ma allo stesso tempo salvaguardare, anche, l’incolumità dei ristretti. Per la Fns Cisl Lazio occorre un piano straordinario da parte degli enti preposti perché è impensabile anche ad oggi strutture presentano carenze strutturali”. Salerno: “carcere di Fuorni, un istituto abbandonato a se stesso” di Pina Ferro ottopagine.it, 12 marzo 2019 La denuncia delle organizzazioni sindacali di categoria. Un istituto abbandonato a se stesso. Così, ieri mattina, è stato definito il carcere di Fuorni nel corso dell’incontro organizzato da alcune sigle sindacali. Durante il dibattito sono stati affrontati, ancora una volta, gli atavici problemi che attanagliano la casa circondariale salernitana, dalla grave carenze di organico a quelle strutturali. Una situazione di disagio che crea non poco stress agli agenti che, con grande spirito del dovere, lavorano senza mai abbassare la guardia. All’incontro di ieri mattina erano presenti: i segretari regionali dell’Osapp Vincezo Palmieri e Maurizio Russo, del Cnpp Luigi Borrelli, della Uil De Benedictis, Daniele Giacomaniello e Lorenzo Longobardi, del Sinappe Valentino Gallo e D’Ambrosio e del Usp Ciro Auricchio. Alle carenze di organico e strutturali - hanno sottolineato i rappresentanti sindacali, si aggiunge lo spaventoso taglio dei fondi operato e che certamente aggrava la già disastrosa situazione. Insomma il penitenziario di Fuorni è una struttura abbandonata a se stessa dove vi sono automezzi obsoleti e progettualità pari a zero. L’incontro di ieri è stata anche l’occasione per fare un bilancio del lavoro svolto dal direttori dell’Istituto. Valutazione pari a zero per il direttore che è andato via da alcun settimane. Mentre, nutrono grandi speranze nel successore che pare abbia già dato segnali positivi. Il neo direttore si è insediata da poco. Intanto, la protesta continuerà e fino a sfociare nell’evento nazionale in programma il 27 marzo a Roma. Cosenza: nasce uno sportello legale negli Istituti Penitenziari cosenzapost.it, 12 marzo 2019 Si tratta di una prima esperienza di “legal clinic” per detenuti, promossa dal Corso di laurea di Giurisprudenza dell’Università della Calabria. Imparare il diritto sul campo, praticando in luoghi, finora, inaccessibili agli studenti: anche a Cosenza nasce uno sportello legale negli istituti penitenziari della provincia. Si tratta di una prima esperienza di “legal clinic” per detenuti, promossa dal Corso di laurea di Giurisprudenza dell’Università della Calabria di concerto con l’Amministrazione penitenziaria e che potrà integrarsi con le altre iniziative che l’Ateneo sta mettendo in campo attraverso il Polo universitario penitenziario. In giorni stabiliti, un gruppo di studenti, selezionati con bando pubblico, offriranno informazioni ai detenuti su questioni legali, così applicando la teoria appresa nelle aule universitarie a casi concreti. Le attività della clinica legale rientrano in un più ampio progetto di tirocinio formativo facoltativo, che darà l’opportunità agli studenti di conoscere il funzionamento degli istituti di pena. L’obiettivo è quello di fornire assistenza e supporto legale al popolazione carceraria: dai ristretti potranno essere proposti quesiti giuridici, riguardanti, solo ad esempio, le misure alternative, i benefici premiali e le loro applicazioni. Gli studenti, coordinati dal professore Mario Caterini, docente di Diritto penale nell’Università della Calabria, saranno così chiamati a risolvere le questioni che toccano la “carne viva” di persone spesse volte emarginate. Gli incontri tra studenti e ristretti saranno orientati anche al confronto sui temi della legalità e della condizione di privazione della libertà. “Credo che ogni studente di giurisprudenza dovrebbe visitare un carcere. Ormai da anni lo faccio fare ai miei corsisti negli istituti di Cosenza, Paola, Castrovillari, Rossano e Catanzaro - spiega il prof. Caterini. È necessaria una particolare autorizzazione ministeriale che consente di accedere alle sezioni, non semplicemente negli spazi comuni, ed è un’esperienza forte che pochi possono fare, neanche gli avvocati nei colloqui con i loro assistiti. Molti studenti, dopo queste visite, mutano la visione che avevano del carcere. Il tirocinio volontario si inserisce in questa idea di avvicinare il mondo dei liberi a quello dei ristretti, così svolgendo anche la c.d. terza missione dell’Università, ossia l’apertura verso il contesto sociale mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze. È un’occasione per gli studenti di praticare il diritto già sui banchi dell’Università in una di quelle circostanze più delicate: la condizione di detenuto. Sono fiducioso che gli studenti usciranno arricchiti da questo impegno, sia umanamente, sia culturalmente. È un’attività che non assorbe risorse economiche e spero si possa replicare in futuro trovando altre adesioni”. Crema (Cr): progetto “Ne vale la pena”, ospite in classe il giudice Spanò cremaoggi.it, 12 marzo 2019 Promozione della cultura della giustizia e della legalità tra i ragazzi, questo l’obiettivo del progetto “Ne vale la pena” che si sta svolgendo in queste settimane presso l’Istituto Galilei di Crema. Un’iniziativa, pensata dai docenti Silvia Corini, Luigi Formichella e Valeria Moruzzi, che si sviluppa attraverso diverse direttrici: dalla diretta conoscenza del sistema giudiziario, alla promozione di riflessioni sui comportamenti legali e su quelli considerati reati. Ma anche il superamento degli stereotipi dell’immaginario comune, legati a “chi sta dentro” e “chi sta fuori” dal carcere, la creazione di una rete di collaborazione tra le realtà educative esistenti sul territorio e impegnate nella prevenzione di condotte devianti e nella diffusione di modelli comportamentali legalmente apprezzabili. Visita alla Casa circondariale di Cremona. Tra le iniziative inserite in questo progetto, ricorda la docente referente, Silvia Corini, la visita alla casa circondariale di Cremona, un’esperienza positiva, che ha visto i ragazzi varcare i cancelli di un Istituto di pena per cercare di capire cosa c’è dietro quelle sbarre. Volti di giovani un po’ più grandi di loro, che hanno commesso sicuramente degli sbagli e che per questo stanno scontando ciò che le normative prevedono. Nello spazio riservato alle attività teatrali all’interno del carcere, i ragazzi hanno partecipato ad un incontro con alcuni detenuti, i quali hanno portato loro le esperienze vissute fuori e dentro il carcere, con un messaggio e una raccomandazione: “attenzione alle cattive compagnie”. Violenza di genere. Alcune classi seconde dell’istituto, hanno incontrato nei giorni scorsi il giudice Roberto Spanò, presidente della sezione Penale Corte d’Appello di Brescia. Interessante come nell’edizione dello scorso anno l’incontro con il giudice, che anche questa volta ha parlato di alcuni processi trattati personalmente, oltre a rispondere alle domande dei ragazze. La particolarità di quest’anno è stato il tema che si è deciso di affrontare, approfittando della ricorrenza della Giornata internazionale della donna, sono stati affrontati argomenti relativi alla violenza di genere, violenza sulle donne e in famiglie. La scelta delle classi non è stata casuale, ma ben si inserisce nella programmazione didattica delle discipline giuridiche, in quanto nel corso dell’anno sono state trattate le tematiche relative alla magistratura e al processo, per cui i ragazzi sono giunti all’incontro adeguatamente informati. Prossima iniziative di questo progetto, ad aprile, con la visita alla Comunità Shalom di Palazzolo sull’Oglio. Como: 60 piatti da “Cucinare al fresco”, nuova edizione del ricettario dal carcere ciaocomo.it, 12 marzo 2019 Nato come sperimentazione per scoprire cosa significa cucinare in cella, il libro di ricette Cucinare al fresco torna in libreria, in vendita alla Ubik di Como con una seconda edizione arricchita nei contenuti e rinnovato nella grafica. L’iniziativa è nata per caso, da una fortuita chiacchierata coi detenuti, una conversazione che in poco tempo ha reso partecipi tutti i presenti e tutti quanti hanno deciso di impegnarsi per “fare qualcosa di buono”, sia in cucina che nella vita. Parole, sapori, profumi, ingredienti sono il “sale della vita”, fattori in grado di unire e di sviluppare nuove sensazioni e nuovi bisogni come quello di raccontarsi. Si tratta di una sorta di esperienza, di conoscenza e di esternazione dei sentimenti in chiave enogastronomica. Da un’idea di Arianna Augustoni e Laura D’Incalci nell’ambito del laboratorio “Parole da condividere”, nel ricettario, oltre a raccontare la preparazione di ogni piatto, viene spiegato come ci si deve arrabattare per costruire e mettere in pratica una ricetta, con quali strumenti e con dei tempi molto dilazionati, nell’arco della giornata. I venti detenuti della circondariale di Albate si sono rimessi in gioco e, dopo una primissima dispensa, realizzata proprio per testate l’interesse, ora hanno dato vita a un libro dedicato al palato con una sessantina di ricette e una collezione di disegni realizzati interamente all’interno dell’Istituto. Il volume di 84 pagine, a colori, in vendita a 8 euro, ha abbandonato quell’idea di quaderno degli appunti voluta in una prima fase del progetto che voleva promuovere una forma di conversazione dietro le sbarre. Ora parliamo di una raccolta di idee e di progetti per una cucina innovativa, ma al contempo semplice e creativa, impreziosita da quelle sensazioni che solo loro, i detenuti, possono sapere e raccontare. Ogni ricetta riporta anche una frase che spiega storie e modalità, l’espressione di un detenuto che vuole riscattarsi e vuole raccontare qualcosa di sé. L’iniziativa è stata possibile grazie al supporto del Sacro militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, delegazione della Lombardia. L’intero ricavato dalla vendita sarà utilizzato per la ristampa del ricettario e quindi per una nuova edizione, già in programmazione. “Parlare di cibo significa anche parlare di elaborazione degli elementi sino a farne una vera e propria arte che da sempre affascina l’umanità - spiegano Giuseppe Rizzani, delegato vicario per la Lombardia dell’Ordine Costantiniano e don Arnaldo Morandi, Priore della Lombardia - Il volume, nella sua semplicità, è un invito a raccogliere un messaggio che esprime il bisogno di riscatto, di affetto, di quotidianità di una comunità, quella carceraria, fatta di donne e di uomini che hanno sbagliato, ma che hanno bisogno di sperare in una società che li sappia riconciliare e restituire a una vita dignitosa da costruire e da ricostruire senza pregiudizi”. Un particolare ringraziamento va all’ex direttore del carcere, Carla Santandrea che ha sposato l’iniziativa e ha condiviso ogni singola fase del progetto che ha preso il via oltre un anno fa e ora si accinge ad affrontare una nuova sfida cercando di coinvolgere un numero sempre maggiore di Istituti in Lombardia. “Il libro - concludono i detenuti del corso - è una memoria gustosa fatta di profumi e di sentimenti che si provano ai fornelli dietro alle sbarre. Sono una raccolta di idee e di sensazioni, di esperienze e di idee che si vivono quotidianamente. Vogliamo spiegare come cuciniamo in cella con i pochi strumenti che abbiamo, ma, nel frattempo, raccontiamo un’avventura, un’ispirazione, un ricordo. Attraverso un linguaggio semplice portiamo in tavola un sorriso”. Dagli ingredienti del carrello, a quelli della spesa, passando da quanto entra dall’esterno, il ricettario è un percorso di vita e di speranza. La cucina, la preparazione di un piatto è un linguaggio che ha accomunato i detenuti del carcere. Bentornata bontà, l’intelligenza antidoto all’indifferenza di Andreina Corso Il Manifesto, 12 marzo 2019 Le vite dei volontari morti nello schianto dell’aereo nelle lacrime di coccodrillo di giornalisti e politici che hanno usato la penna come una spada nel denigrare le missioni delle persone buone, competenti e coraggiose. Come non sentire la ferita dell’anima quando a morire, tragicamente, sono gli invisibili, i volontari, la gente buona e generosa che si occupa degli altri, dei più poveri e sconfitti nei Paesi martoriati dalla fame e dalle guerre. La morte ha rivelato agli occhi di chi questo mondo non lo vede, non lo vuole conoscere, lo respinge, l’umanità che non si è voluta incontrare, la morte è arrivata e ha sconfitto la volgarità dei luoghi comuni, il disprezzo dei politici nei confronti di volontari coraggiosi spinti solo dal desiderio di aiutare gli altri. E ora le lacrime di coccodrillo di giornalisti che hanno usato la penna come una spada nel denigrare le missioni delle persone buone, competenti e coraggiose come quelle a bordo del Boeing della Ethiopian Airlines precipitato domenica mattina appena dopo essere decollato da Addis Abeba, destinazione Nairobi. C’erano otto italiani tra i 157 passeggeri: i loro nomi sono inclusi nella lista confermata sia dal governo dell’Etiopia che da quello keniano. Lacrime di coccodrillo anche quelle dei politici, indecente ogni eventuale parola pronunciata da coloro che ora farebbero bene a tacere. E con loro la “gente” complice che ha permesso e avallato con indifferenza sequestri di vite umane, che si è arrogata il diritto dispotico di isolare in mare della povera gente in cerca di libertà e di pace. Bentornata parola Bontà. Sembra facesse schifo, anche se è bene ricordare che il poeta andaluso Rafael Alberti ci ha spiegato che la bontà è soprattutto intelligenza. Si riferiva certamente a quel processo del ragionare sulla complessità, avendo a cuore, sempre, la valorizzazione della persona umana. Si sa, sono discorsi da poeti, molti diranno, ma la poesia (unica forma di sopravvivenza, unico possesso duraturo, Ovidio), in una giornata così luttuosa diventa indispensabile per non disperare. Nessuno chiederà più scusa a quelle vite laboriose e affamate di giustizia e verità. Hanno messo a disposizione dei loro simili più sfortunati e ignorati la loro bella e gioiosa intelligenza, il loro tempo, frutto di una “buona” e innocente speranza nel desiderio di restituire a ogni uomo, donna, alle loro famiglie un presente sopportabile e un futuro possibile. Nessuno si senta offeso nel pronunciare la parola Bontà. “Tutte le bugie sulle Ong”. Il testamento del cooperante morto di Angela Azzaro Il Dubbio, 12 marzo 2019 Ho conosciuto Paolo Dieci poco prima che prendesse quel maledetto volo, prima che la sua vita finisse nella sua Africa a cui aveva dedicato tanta passione. Eravamo entrambi relatori a un incontro contro la criminalizzazione delle Ong. È raro trovare una persona così gentile e così preparata. Oggi tutti lo raccontano con queste parole. Una grande perdita per le Ong e per l’Italia. Nel suo ultimo discorso, un testamento su cooperazione e accoglienza. Si è scusato con me, davvero dispiaciuto, perché non poteva restare fino alla fine: “Devo andare, se no perdo l’aereo. Ma sentiamoci presto, anche per il tuo giornale”. Dopo meno di 24 ore ho saputo che quello sarebbe stato il suo ultimo volo, a bordo del Boeing caduto ad Addis Abeba. Mi ha stretto la mano ed è scappato dopo un intervento che oggi suona come un testamento, il testamento di un uomo gentile. Ho conosciuto Paolo Dieci sabato scorso, entrambi relatori a un dibattito sulle Ong organizzato dal comitato di azione civile Vero 8 di Roma. Lui doveva spiegare cosa siano, smontare tutte le menzogne dette e ridette da giornali, tv e procure. Doveva e lo ha fatto raccontando la verità, una verità che in tanti hanno provato a mettere in discussione e che dalle sue parole risultava chiara, senza ombre. Ci siamo seduti e ancora prima di trovarci d’accordo contro la criminalizzazione delle Organizzazioni non governative, ci siamo ritrovati complici nel divorare le caramelle che i nostri ospiti, uno dei comitati nati alla Leopolda renziana, ci avevano messo a disposizione. Paolo Dieci era presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della Rete Link 2007, un’associazione di coordinamento di varie Organizzazioni non governative. In Etiopia era di casa, ci aveva vissuto e ci andava spesso. “Aiutiamoli a casa loro è un’espressione che non mi piace, ma noi lo facciamo davvero”, ha detto spiegando quale fosse il suo lavoro, un lavoro che amava e che faceva da tanti anni. Quando ha preso la parola, si è capito subito che non sarebbe stato un intervento qualsiasi. “Proverò - è stato il suo esordio - a mette in discussione cinque false convinzioni sulle Ong”. Cinque falsi miti, cinque luoghi comuni che ancora oggi avvelenano il dibattito pubblico. “Sono in questo settore da molti anni, ne ho 58, e ho assistito all’evolversi del dibattito. Come Organizzazioni non governative abbiamo una prima difficoltà costituita dal fatto di definirci per ciò che non siamo. Per questo abbiamo salutato con soddisfazione la nuova legge del governo Renzi che ci chiama Ocs: Organizzazioni della società civile. Mai, prima di ora, il dibattito era stato così condizionato dalla non conoscenza. Criticateci pure, ma basandovi sui fatti”. Il primo falso mito: “Si dice che le Ong fanno quello che vogliono. Non è vero: non fanno quello che vogliono. Rispettiamo le leggi nazionali e facciamo riferimento ad un’agenda internazionale, nessun progetto può essere approvato fuori dagli obiettivi stabiliti. I nostri progetti sono costruiti in collaborazione con le istituzioni e i governi dei Paesi in cui vengono realizzati. Non solo è necessaria la loro approvazione, ma vengono costruiti insieme”. Il secondo falso mito: “Nessuno controlla le Ong. Altra menzogna. Siamo tenuti a presentare un bilancio che dettaglia tutte le spese fatte e che nelle note integrative specifica come e perché sono stati spesi i soldi. Se non tutti i finanziamenti ottenuti vengono usati, si accantonano per altri progetti. In quanto Ong non produciamo utili, che per essere precisi - e non si tratta di un sofismo - si chiamano avanzi di gestione. Nessuno si arricchisce”. Il terzo falso mito: “Le Ong fanno politica. Se per politica si intende sostenere un partito piuttosto che un altro, non facciamo politica. Se invece si intende il fatto di rispettare gli accordi internazionali, allora sì facciamo politica. Io voto centrosinistra, non lo nascondo. Ma questo non ha niente a che fare con il mio impegno per il Cisp. Nessuno è tenuto a pensarla come me. Siamo invece tutti tenuti a rispettare un codice valoriale ed etico. È stato un errore non sottoscrivere il Global compact, anche perché ora è più difficile quel controllo dei flussi che a parole si dice di voler fare. In Libia non sono rispettati i diritti umani, chi lo dice offende la sofferenza di quelle povere persone”. Il quarto falso mito. “Si pensa che le Ong succhino i soldi dei contribuenti. Ma nel 2018 solo l’1,8 per cento dei finanziamenti della mia associazione arrivano dal governo italiano, tutto il resto arriva dalle istituzioni internazionali. Sono soldi che noi portiamo nel nostro Paese offrendo un’opportunità di lavoro anche a tantissimi giovani”. Il quinto falso mito: “Le Ong favoriscono l’immigrazione. Non è vero. Noi facciamo di tutto per aiutare a sviluppare progetti. Non amo l’espressione “aiutiamoli a casa loro”, ma è quello che facciamo. Ma li aiutiamo anche una volta che arrivano in Italia, come sta accadendo a Castelnuovo di Porto dopo la chiusura del Cara. Una cosa bella che è accaduta in questi mesi è stata che tutte le Ong si sono strette attorno a quelle che fanno salvataggio in mare. Abbiamo rivendicato la loro azione, diventata necessaria dopo aver smantellato l’operazione Mare nostrum. La lotta agli scafisti non si fa facendo morire le persone in mare”. Paolo, i migranti, li aiutava a rifarsi una vita, ad avere una casa, un futuro. Anche in Africa. “Non voglio dire che tutto ciò che riguarda le Ong sia perfetto, anche noi abbiamo i nostri limiti e molte cose possono essere migliorate, ma niente a che vedere con la rappresentazione di questi mesi, una criminalizzazione che si è risolta in un nulla di fatto”. Era il momento perfetto per passare la palla a me, le inchieste archiviate, l’ossessione di giornali e tv per le accuse e l’indifferenza quando quelle accuse sono finite nel nulla, il rapporto tra procure, politica e giornali. Lui sorrideva e annuiva. I suoi colleghi in queste ore lo ricordano come una persona unica, uno che si ispirava a Mandela, che amava il suo lavoro e che era sempre disponibile. Nel vederlo andare via sabato mattina, ho pensato che era troppo gentile, troppo preparato e interessante per essere vero. Avevo deciso di intervistarlo per il nostro giornale. Uno così devono sentirlo tutti, devono poterlo conoscere tutti. Preciso ma non arrogante, con ideali saldi, ma non ideologico. Quel giorno poteva restare con la sua famiglia prima di prendere quel maledetto aereo. Poteva godersi ancora un po’ di riposo, e invece è venuto a raccontarci l’impegno delle Ong. Non ad un grande convegno, ma ad una piccola e preziosa iniziativa di chi come lui non si arrende alla barbarie. Ma per qualcuno Paolo rappresentava l’élite. Migranti. La denuncia degli avvocati: “le questure non ci fanno entrare” di Vladimiro Polchi La Repubblica, 12 marzo 2019 L’ordine dei legali di Napoli e Lecce: “Ci negano di assistere i cittadini stranieri agli sportelli dell’ufficio immigrazione”. “Una discriminazione per i nostri clienti e mancanza di rispetto per la nostra categoria”. Porte chiuse agli avvocati. Le questure sbarrano la strada ai legali diretti all’ufficio immigrazione. Se sei un cittadino straniero e devi rinnovare il permesso di soggiorno, da oggi sbrigatela da solo: nessun professionista potrà più assisterti con le tue difficoltà linguistiche e i mille impacci della burocrazia. Un comportamento senza precedenti. Almeno a stare alle denunce degli avvocati: “Tali condotte pongono gli immigrati in posizione di inferiorità e risultano irrispettose verso la categoria forense”. Per l’Arci, “i funzionari più che applicare la legge, paiono interpretare la nuova aria che tira al Viminale: rendere, laddove possibile, più difficile la vita ai migranti”. Un passo indietro. Fino a oggi un immigrato poteva pagare un avvocato per farsi assistere davanti allo sportello immigrazione, per ogni pratica: dalla richiesta del permesso di soggiorno, al nulla osta al ricongiungimento familiare. Ora discrezionalmente alcune questure starebbero ostacolando l’accesso dei legali. “I funzionari e il personale addetto all’Ufficio immigrazione - scrive Antonio Tafuri, presidente dell’ordine degli avvocati di Napoli - è solito negare l’ingresso agli avvocati che intendono assistere gli immigrati nel disbrigo delle relative pratiche. Tale prassi che non ci risulta sia fondata su disposizioni normative - prosegue la nota spedita il 5 marzo al questore - pone gli immigrati in posizione di inferiorità e di difficoltà sia per la frequente scarsa conoscenza della normativa, sia per le comprensibili deficienze linguistiche e di espressione del pensiero e della volontà. Tali condotte risultano irrispettose verso la categoria forense e contrarie alla inviolabile e costituzionale funzione dell’avvocato di difendere e assistere anche tecnicamente la persona che reclama i propri diritti”. Insomma i legali chiedono chiarimenti. “Finora gli avvocati facevano da tramite per i migranti in questura - spiega a Repubblica il presidente Tafuri - ora accade che non gli venga più consentito l’ingresso, senza che ci risulti un espresso divieto. Insomma adesso è a discrezione dei funzionari, invece ci vuole una regola e per noi la regola è che si deve continuare a poter assistere i clienti all’ufficio immigrazione”. Stesso problema a Lecce. Qui il 20 dicembre scorso, 13 avvocati hanno scritto al proprio ordine denunciando “difficoltà di accesso” alla divisione immigrazione della questura. E non solo: “Alcuni nostri assistiti - scrivono - hanno anche appreso che è sconsigliabile l’assistenza di un legale dal momento che il personale dell’Ufficio immigrazione “si arrabbia” e la pratica non va avanti”. Ci è voluto l’intervento del presidente dell’ordine degli avvocati di Lecce, con due note ufficiali del 16 gennaio e del 15 febbraio scorso, a indurre la questura a riaprire le porte ai legali. “Non c’è alcuna regola che possa impedire a un avvocato di assistere il suo cliente di fronte alla pubblica amministrazione - commenta Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci - i funzionari delle questure più che applicare la legge, sembrano ora interessati a interpretare il pensiero del Viminale, aggravando gli ostacoli burocratici che i migranti devono superare. Si tratta dell’ennesima discriminazione”. Armamenti. Sale alle stelle il prezzo della “protezione” Usa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 12 marzo 2019 La Casa Bianca sta per presentare il piano “Cost Plus 50” che stabilisce il seguente criterio: i paesi alleati che ospitano forze Usa sul proprio territorio ne dovranno coprire interamente il costo e pagare agli Usa un ulteriore 50% in cambio del “privilegio” di ospitarle ed essere così da loro “protetti”. A pretendere il pizzo in cambio di “protezione” non è solo la mafia. “I paesi ricchi che stiamo proteggendo - ha avvertito minacciosamente Trump in un discorso al Pentagono - sono tutti avvisati: dovranno pagare la nostra protezione”. Il presidente Trump - rivela Bloomberg - sta per presentare il piano “Cost Plus 50” che stabilisce il seguente criterio: i paesi alleati che ospitano forze Usa sul proprio territorio ne dovranno coprire interamente il costo e pagare agli Usa un ulteriore 50% in cambio del “privilegio” di ospitarle ed essere così da loro “protetti”. Il piano prevede che i paesi ospitanti paghino anche gli stipendi dei militari Usa e i costi di gestione degli aerei e delle navi da guerra che gli Stati uniti tengono in questi paesi. L’Italia dovrebbe quindi pagare non solo gli stipendi di circa 12.000 militari Usa qui di stanza, ma anche i costi di gestione dei caccia F-16 e degli altri aerei schierati dagli Usa ad Aviano e Sigonella e i costi della Sesta Flotta basata a Gaeta. Secondo lo stesso criterio dovremmo pagare anche la gestione di Camp Darby, il più grande arsenale Usa fuori dalla madrepatria, e la manutenzione delle bombe nucleari Usa dislocate ad Aviano e Ghedi. Non si sa quanto gli Stati uniti intendono chiedere all’Italia e agli altri paesi europei che ospitano loro forze militari, poiché non si sa neppure quanto questi paesi paghino attualmente. I dati sono coperti da segreto militare. Secondo uno studio della Rand Corporation, i paesi europei della Nato si addossano in media il 34% dei costi delle forze e basi Usa presenti sui loro territori. Non si sa però quale sia l’importo annuo che essi pagano agli Usa: l’unica stima - 2,5 miliardi di dollari - risale a 17 anni fa. È dunque segreta anche la cifra pagata dall’Italia. Se ne conoscono solo alcune voci: ad esempio decine di milioni di euro per adeguare gli aeroporti di Aviano e Ghedi ai caccia statunitensi F-35 e alle nuove bombe nucleari B61-12 che gli Usa cominceranno a schierare in Italia nel 2020, e circa 100 milioni per lavori alla stazione aeronavale statunitense di Sigonella, a carico anche dell’Italia. A Sigonella viene finanziata esclusivamente dagli Usa solo la Nas I, l’area amministrativa e ricreativa, mentre la Nas II, quella dei reparti operativi e quindi la più costosa, è finanziata dalla Nato, ossia anche dall’Italia. È comunque certo - prevede un ricercatore della Rand Corp. - che con il piano “Cost Plus 50” i costi per gli alleati “schizzeranno alle stelle”. Si parla di un aumento del 600%. Essi si aggiungeranno alla spesa militare, che in Italia ammonta a circa 70 milioni di euro al giorno, destinati a salire a circa 100 secondo gli impegni assunti dai governi italiani in sede Nato. Si tratta di denaro pubblico, che esce dalle nostre tasche, sottratto a investimenti produttivi e spese sociali. È possibile però che l’Italia possa pagare meno per le forze e basi Usa dislocate sul suo territorio. Il piano “Cost Plus 50” prevede infatti uno “sconto per buon comportamento” a favore degli “alleati che si allineano strettamente con gli Stati uniti, facendo ciò che essi chiedono”. È sicuro che l’Italia godrà di un forte sconto poiché, di governo in governo, si è sempre mantenuta nella scia degli Stati uniti. Ultimamente, inviando truppe e aerei da guerra nell’Est Europa con la motivazione di fronteggiare la “minaccia russa” e favorendo il piano statunitense di affossare il Trattato Inf per schierare in Europa, Italia compresa, postazioni di missili nucleari puntati sulla Russia. Essendo queste bersaglio di una possibile ritorsione, avremo bisogno come “protezione” di altre forze e basi Usa. Le dovremo pagare noi, ma sempre con lo sconto. Siria. Save the Children: 4 milioni di bambini non hanno conosciuto altro che guerra La Repubblica, 12 marzo 2019 Il rapporto dell’organizzazione che si occupa di infanzia alla vigilia della terza Conferenza Internazionale per il Supporto della Siria che si tiene a Bruxelles. Dopo 8 anni di conflitto devastante in Siria 4 milioni di bambini conoscono solo la guerra. Lo dice un rapporto realizzato da Save the Children nei governatorati di Idlib, Aleppo, al-Raqqa e al-Hassakeh, tra i più colpiti dalla guerra in Siria e rilasciato alla vigilia della terza Conferenza Internazionale per il Supporto della Siria e della Regione che si tiene Bruxelles. Il report “Un domani migliore: la voce dei bambini siriani” dell’Organizzazione che da 100 anni lotta per salvare i bambini e garantire loro un futuro, raccoglie le testimonianze di centinaia di piccoli che, pur profondamente segnati dalle conseguenze di violenze e distruzione, dicono di avere fiducia nel futuro e nella possibilità di ricostruire il loro paese, ma chiedono al mondo pace, stabilità e istruzione. Il conflitto siriano entra nel nono anno il 15 marzo 2019 e una intera generazione non ha conosciuto altro. Più della metà dei bambini siriani è bisognoso di assistenza umanitaria, un terzo è senza scuola e almeno 2,5 milioni sono sfollati all’interno del Paese Il 30 per cento dei bimbi intervistati dice di non sentirsi al sicuro e per più della metà di loro le violenze del conflitto, la separazione dalle famiglie o la perdita dei propri familiari, la distruzione delle abitazioni e delle infrastrutture, insieme alla mancanza di scuole e assistenza sanitaria sono la realtà con cui fanno i conti ogni giorno. La povertà e la disoccupazione causate dal conflitto hanno minato la stabilità delle famiglie e forzato ragazzi che dovrebbero andare a scuola a svolgere lavori pericolosi o a sposarsi precocemente: anzi, il 65% delle bambine e ragazze afferma che i matrimoni precoci sono un problema molto serio nella propria comunità. Ancora, malnutrizione, malattia e disabilità sono aumentati a dismisura durante il conflitto e i bambini ascoltati nell’indagine sono tristi, ansiosi e molti di loro manifestato i segni di un forte stress emotivo. Crescere senza istruzione rappresenta una paura messa ripetutamente in evidenza da tutti i bambini, come racconta Lina, 13 anni, che è sfuggita all’assedio nel Ghouta orientale e oggi vive a Idlib: “La guerra ha portato via tutto a noi bambini e ci ha lasciato senza nulla, senza istruzione e senza futuro. I miei genitori sono stati uccisi quattro anni fa quando la nostra casa è stata colpita da una bomba, e ho sperato di morire anch’io, ma Dio aveva altri piani. Voglio che la guerra finisca per poter tornare dove vivevo e ricostruire il mio Paese. Non chiedo altro che poter tornare a scuola. Spero che il modo si accorga di noi e ci aiuti.” I desideri dei bambini siriani, però sono quelli di tutti gli altri bambini del mondo: il 70% degli intervistati desidera passare tempo con gli amici, l’86% vorrebbe andare bene a scuola, il 98% sogna di stare con i propri cari, mentre la quasi totalità (98%) vorrebbe vivere in un contesto di pace e privo di ogni forma di violenza. “Tanti bambini in Siria non hanno avuto altro che la guerra, e hanno gli occhi pieni di dolore e violenza. Quelli di cui abbiamo raccolto le testimonianze si sentono soli e insicuri, molti hanno perso la loro famiglia. Chi ha commesso queste gravi violazioni contro i bambini siriani durante il conflitto ne deve rispondere di fronte alla comunità internazionale. Chiediamo ai leader che si incontreranno a Bruxelles di ascoltare la voce dei bambini siriani. Anche se hanno attraversato otto anni di guerra e violenze, sono ancora fiduciosi di poter costruire un futuro migliore per il loro Paese. Chiedono pace, stabilità e istruzione, e la comunità internazionale deve trovare il modo di rispondere alla loro richiesta” ha dichiarato Filippo Ungaro, portavoce di Save the Children Italia. Dai risultati della ricerca emerge infatti che i bambini e ragazzi coinvolti nell’indagine di Save the Children hanno chiare aspettative nei confronti degli adulti di riferimento nel loro paese e vorrebbero che si adoperassero per la fine del conflitto (60%), garantissero loro un’educazione (13,4%) o servizi sanitari (7,5%) e infine si impegnassero per la ricostruzione del Paese. Altrettanto decise sono le richieste che vengono fatte alla comunità internazionale che secondo il 56% degli intervistati dovrebbe trovare soluzioni per la fine della guerra e per proteggere i bambini, alleviare la loro povertà e sofferenza (13,4%), investire sulla ricostruzione del Paese (13%), aiutare i rifugiati siriani a tornare a casa (7%) Save the Children, che ha lanciato quest’anno in occasione del centenario della sua fondazione la campagna “Stop alla guerra sui bambini”, chiede ai delegati che parteciperanno domani alla 3° Conferenza dei Paesi Donatori a Bruxelles di impegnarsi pubblicamente per sostenere una ripresa rapida della vita dei bambini in Siria, con investimenti specifici e continuativi sui settori che riguardano i minori. Le parti in conflitto e la comunità internazionale devono anche creare le condizioni necessarie per la pace e la protezione dei bambini, garantendo a tutti l’accesso ai servizi fondamentali di cui necessitano. Insieme ai suoi partner locali, Save the Children è presente in 4 governatorati nel nord della Siria - Aleppo, Hama, al-Hassakeh e Idlib û e ha raggiunto con i suoi interventi più di 750.000 persone, tra cui oltre 500.000 bambini. L’Organizzazione è impegnata nella ricostruzione delle scuole e nell’educazione, nell’assistenza sanitaria di base e nella distribuzione ai bambini e alle loro famiglie sfollate di beni di prima necessità come cibo, vestiti, set per cucinare, kit per l’inverno e per l’igiene. Carcere per 38 anni e 148 frustate. L’Iran silenzia l’avvocata dei diritti di Viviana Mazza Corriere della Sera, 12 marzo 2019 Durissima condanna del regime contro Nasrin Sotoudeh, accusata di danneggiare la sicurezza nazionale. Le ong: potere in difficoltà, cosa farà l’Europa? Trentatré anni di prigione e 148 frustate, solo per aver svolto il suo lavoro di avvocata. È il verdetto emesso contro Nasrin Sotoudeh, che dallo scorso 13 giugno è rinchiusa nel famigerato carcere di Evin con una condanna a cinque anni (il totale ora è di 38). A denunciarlo su Facebook è stato Reza Khandan, il marito della più famosa avvocata iraniana per i diritti umani, una dei pochi rimasti nella Repubblica islamica. Tra le accuse: propaganda contro il sistema, incontri ai danni della sicurezza nazionale, partecipazione al movimento contro la pena di morte, incitamento alle donne a togliersi il velo e ad azioni immorali. Nasrin Sotoudeh, 55 anni, è una leader, che ha scelto di restare in Iran e che sa parlare al popolo. Nel suo studio spoglio c’è una statua della Giustizia con la spada nella mano destra e la bilancia nella sinistra. Attaccati al muro dietro la sua scrivania, tanti piccoli bigliettini: lettere di solidarietà che da tutto il mondo furono spedite ai suoi bambini, Mehrave e Nima, quando fu arrestata già nel 2011 (scontò tre anni). All’Europa che le ha assegnato nel 2012 il premio Sakharov, Sotoudeh chiedeva nell’ultima intervista concessa al Corriere, nel gennaio 2018, di intervenire per aiutare i manifestanti arrestati nel suo Paese. Avevano protestato contro il carovita e la corruzione: “Se la Ue resterà in silenzio - disse - i ragazzi spariranno nelle carceri”. Aveva espresso preoccupazione anche per i suoi colleghi avvocati condannati a lunghe pene detentive. Ma non si è fatta intimidire. In passato Nasrin ha difeso minorenni nel braccio della morte, attivisti studenteschi, curdi, di religione bahai e nel 2018 è scesa in campo a sostegno delle cosiddette “ragazze di via Rivoluzione” che si sono tolte il velo sventolandolo come una bandiera. “Il sistema giudiziario approva sentenze di durezza sorprendente contro queste donne - disse - ma non penso che potrà fermare così le proteste contro l’hijab obbligatorio: continueranno. L’unico modo in cui affrontarle è prestare attenzione”. Ora la nuova condanna è scioccante - afferma Amnesty International - persino per un Paese come l’Iran, abituato a reprimere il dissenso. L’organizzazione Iran Human Rights - che negli ultimi due anni ha notato un aumento preoccupante degli arresti di difensori dei diritti umani - la interpreta come il segnale più chiaro che il regime intende mettere a tacere completamente la società civile. Nella stessa direzione va la recente nomina a capo della magistratura di Ebrahim Raisi, che nel 1988 sarebbe stato uno dei membri della cosiddetta “Commissione della Morte”, responsabile di aver fatto giustiziare migliaia di prigionieri politici. “Il regime è in difficoltà: dal 2017 ci sono state proteste quasi quotidiane di gruppi diversi, lavoratori, insegnanti, le ragazze contro il velo... Per sopravvivere tenta la repressione più dura”, dice Mahmood Amiry-Moghaddam di Iran Human Rights. E poi, come fece Nasrin, anche lui chiede: “Cosa farà l’Europa?”. Umiliazioni, torture, lavori forzati. Come si vive in un carcere cinese di Leone Grotti Tempi, 12 marzo 2019 Robert Rother, cittadino tedesco, ha passato sette anni e sette mesi nella prigione di Dongguan per reati finanziari. Uscito il 19 dicembre 2018 ha raccontato la sua terribile esperienza a Der Spiegel. Umiliazioni, lavori forzati, torture. È quello che devono subire ogni giorno nelle prigioni cinesi i detenuti ed è quello che ha vissuto per sette anni e sette mesi Robert Rother. Il cittadino tedesco, che ha cominciato a giocare in Borsa a soli 13 anni e che si è trasferito a Shenzhen nel 2004 per fare affari in Cina, è stato recluso nel 2011 per reati finanziari e condannato a otto anni di carcere da trascorrere nella prigione di Dongguan. Uscito dal carcere il 19 dicembre 2018, la prima cosa che ha fatto appena ritornato ad Amburgo è stata telefonare a Der Spiegel: “Sono Robert Rother e aspetto di fare questa telefonata da sette anni”. Rother sostiene di essere innocente, di non avere mai derubato gli investitori che gli affidavano i loro capitali e di non avere provocato volontariamente perdite finanziarie per 21,3 milioni di dollari. La storia processuale però è la parte meno interessante delle vicende narrate dal broker. Il 20 maggio 2011, mentre si trovava nel suo bar preferito di Shenzhen, Lili Marleen, è stato portato via da due poliziotti e interrogato solo dopo 19 ore, durante le quali gli è stato impedito di dormire. Rinchiuso in una cella del centro di detenzione di Shenzhen numero 3, per mesi la polizia ha cercato di estorcergli una confessione, spiegandogli che altrimenti avrebbe potuto ricevere la pena di morte e millantando false testimonianze contro di lui mai raccolte. Dopo la condanna, è stato portato nella prigione di Dongguan, dove il suo nome è stato tradotto in cinese (Luozi Luobote) ed è diventato il prigioniero numero 27614. Ogni volta che aveva bisogno di parlare a una guardia doveva stringere il pugno, alzare il braccio destro e dire: “Onorevole guardia, sono il prigioniero Luozi Luobote”. Poi doveva inginocchiarsi ed esporre la sua richiesta. Il primo mese lo ha passato in una cella destinata a 18 prigionieri, nella quale però dormivano in 40. Il bagno era semplicemente un buco nel pavimento, dal quale saliva giorno e notte il tanfo degli escrementi, che saturava l’aria afosa dell’estate. Per sua fortuna, soffriva di pressione alta e così gli hanno dato un letto da condividere con una sola persona. Le giornate di Rother passavano sempre uguali: sveglia alle 5,30 e una ciotola di riso e verdure per colazione. Poi, alle 6,50, i detenuti dovevano marciare in fila fino alla fabbrica che si trovava nell’edificio numero 6, all’interno del perimetro della prigione, per lavorare. Chi non seguiva il ritmo o camminava troppo lentamente veniva picchiato dalle guardie. Anche Rother ha preso la sua dose di calci, ma è accaduto raramente perché “gli europei vengono sempre trattati meglio degli altri. Nessuno in Cina vuole un morto europeo”. La giornata lavorativa cominciava alle 7 e terminava alle 18 con una breve pausa alle 12 per il pranzo. Alcuni detenuti assemblavano parti di macchine giapponesi, altri lavoravano ai lucchetti delle valigie Samsonite (anche se l’azienda ha negato di sfruttare il lavoro forzato nelle carceri cinesi). Rother si occupava di trasformatori: doveva avvolgere un cavo di rame di 2 metri a un anello di ferro. Dopo 61 giri, passava al pezzo successivo e avanti così per nove ore. Al termine della giornata, riceveva con gli altri detenuti una sessione di rieducazione sui valori del comunismo. Poi, dopo un’ora e mezza di tempo libero, le luci in cella si spegnevano. Per ogni trasformatore Rother riceveva un punto. Come lavoratore di sesta categoria, doveva raggiungere 240 punti al giorno. Dopo tre mesi, essendo passato alla quinta categoria, doveva ottenere 288 punti. Ai lavoratori di primo livello era richiesto uno standard di 480 punti. Chi riusciva a rispettare i parametri riceveva alla fine del mese 20 yuan (2,60 euro) per comprare piccoli oggetti o generi alimentari. Le guardie punivano chi non raggiungeva i target vietando di guardare la televisione nel tempo libero o privandoli della telefonata mensile ai propri familiari. “Gli obiettivi vengono innalzati sempre di più finché diventa impossibile raggiungerli: ci spremevano come limoni”, racconta Rother. “Tra di noi ci chiamavamo “automi”, spesso dovevamo lavorare anche la domenica”. Chi cercava di ribellarsi o barava sui punti veniva punito e torturato. La tortura più comune era la “sedia di ferro”, che veniva posizionata all’ingresso della fabbrica. Il prigioniero veniva legato mani e piedi alla sedia in posizioni tali da perdere la sensibilità agli arti, che si gonfiavano a dismisura. La punizione poteva durare giorni o anche settimane. Soprattutto chi violava le regole del carcere provando a suicidarsi veniva rinchiuso nella sezione 14 della prigione. Qui le guardie spruzzavano prima in aria dello spray al peperoncino, poi colpivano il detenuto con scariche elettriche al petto, alle gambe e al collo, lasciando che la sostanza urticante si posasse sulle ferite. Quando i detenuti venivano riportati nella loro cella, dovevano portare al collo un cartello con scritto: “Mi vergogno di ciò che ho fatto”. “Ricordo ancora le grida dei detenuti e il rumore delle scariche elettriche, che non dimenticherò mai”, dichiara Rother. La Cina ha firmato la Convenzione Onu contro la tortura ma non l’ha mai fatta rispettare. Secondo il detenuto tedesco, le telecamere venivano sempre spente quando le guardie dovevano pestare o torturare i carcerati. A 36 anni Rother è tornato a casa e vorrebbe riprendere il prima possibile il suo lavoro di una volta, anche se il suo sogno di fare soldi e di comprarsi una Ferrari entro i 25 anni (obiettivo che ha raggiunto a 26 anni poco prima di essere arrestato) è in parte svanito. Il prezzo che ha dovuto pagare per raggiungere quel sogno, infatti, è stato molto alto. “Devi mangiare la merda per sapere che sapore ha”, è la sua ultima dichiarazione allo Spiegel. Afghanistan. La beffa del mullah Omar: si nascondeva a 3 km da una base Usa di Giordano stabile La Stampa, 12 marzo 2019 La storia del capo taleban da un occhio solo raccontata in un libro. Il mullah Omar, dopo aver imposto un regno del terrore dal 1996 al 2001 in Afghanistan, si è nascosto per anni a tre chilometri da una base americana dove stazionavano oltre mille soldati, compresi reparti delle forze speciali che gli davano la caccia in tutto il Paese e nel vicino Pakistan. La beffa del capo talebano da un occhio solo, che sarebbe morto di malattia nel 2013, è raccontata in un libro scritto dalla giornalista olandese Bette Dam con la collaborazione dell’americana Jessica Donati, “Searching for an Enemy”, a caccia di un nemico. Nella provincia di Zabul - Secondo la loro ricostruzione il mullah Omar non è mai fuggito in Pakistan ma ha vissuto nascosto a Zabul, a pochi chilometri da una base americana con migliaia di soldati. Finora l’ipotesi più accreditata era che il capo dei Taleban si fosse rifugiato nella zona di Quetta, in Pakistan, per poi morire per una insufficienza renale in ospedale a Karachi. Dam ha lavorato su pista completamente diversa per cinque anni, con ampie ricerche sul campo. Il racconto della guardia del corpo - La sua fonte principale è Jabbar Omari, la guardia del corpo del capo dei Taleban. In base alle testimonianze e ai dati raccolti, il mullah Omar, subito dopo l’intervento americano in Afghanistan seguito all’attacco dalle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, ha lasciato Kabul e si è nascosto in un piccolo compound a Qalat, capoluogo della provincia di Zabul. Nel 2004, a soli tre chilometri di distanza, gli americani hanno cominciato a costruire la base avanzata Lagman. Nascosto dietro una catasta di legna - Il capo dei Taleban non ha mai rivelato la sua identità alla famiglia che lo ospitava nel compound. Le pattuglie americane per due volte sono state sul punto di scoprirlo. Una volta il mullah Omar e la guardia del corpo Omari erano nel cortile, “si sono nascosti dietro una catasta di legna” ma i soldati sono passati “senza entrare a dare un’occhiata”. Il capo dei Taleban, per prudenza, “evitava le visite dei famigliari” e teneva un diario “in un linguaggio immaginario”. Ascoltava le notizie sulla Bbc in lingua pashto, la più diffusa in Afghanistan assieme al dari, e dalla radio ha appreso la morte di Osama bin Laden, il 2 maggio del 2001. Vita da eremita - Evitava comunque di commentare le notizie dal mondo e conduceva “una vita da eremita” fino alla morte nell’aprile del 2013. Un evento che i Taleban hanno tenuto nascosto per oltre un anno, fino alla scelta del suo successore. Nella sua ricostruzione la Dam conferma la morte per malattia nel 2013 ma il fatto che il Omar abbia per anni beffato le truppe americane a poca distanza è un colpo all’Intelligence americana. Ma è anche un punto a favore del Pakistan, che ha sempre negato di ospitare i terroristi e soprattutto che la leadership talebana, la cosiddetta “Shura di Quetta”, abbia il suo quartier generale nella provincia pachistana del Balochistan. Nicaragua. L’opposizione chiede di liberare i detenuti politici, per la ripresa del dialogo L’Osservatore Romano, 12 marzo 2019 L’Alleanza civica e democratica, la formazione che riunisce le opposizioni in Nicaragua, ha annunciato che non riprenderà il dialogo con il governo finché non verranno liberati i prigionieri politici fino a ora detenuti nelle carceri del paese. La coalizione che riunisce associazioni produttive, civili e studentesche, oltre a chiedere la liberazione dei prigionieri politici, ha dichiarato che è sua intenzione ottenere la “fine della repressione e dei sequestri”. L’Alleanza non ha specificato se la richiesta riguarda tutti o solo una parte delle 770 persone che si stima siano ancora detenute a seguito delle proteste cominciate lo scorso aprile. Dall’ultima tornata di negoziati, lo scorso febbraio, il governo ha già messo in libertà condizionata 112 persone. Ma l’opposizione ha spiegato che è necessaria anche la fine delle molestie che sono costrette a subire quotidianamente le famiglie degli arrestati e il trattamento crudele e disumano di questi ultimi. Al momento il governo di Ortega non ha risposto alla richiesta, giunta il giorno dopo che lo stesso esecutivo aveva annunciato la sua agenda per i negoziati, che mirano a risolvere una impasse politica in corso da circa un anno. In una dichiarazione rilasciata dal ministero degli esteri sono stati fissati diversi punti, che includono l’impegno del governo a “rafforzare la democrazia e il rispetto dell’ordine costituzionale del Nicaragua”, confermando tuttavia che le elezioni generali non si potranno tenere prima del 2021. Gli oppositori, nel corso delle proteste che si sono susseguite nel corso dell’ultimo anno, avevano chiesto che Daniel Ortega lasciasse il potere e consentisse a nuove e trasparenti elezioni da tenere al più presto. Il governo è invece intervenuto per sedare le dimostrazioni di piazza, nell’ambito delle quali 325 persone, secondo i dati ufficiali della commissione interamericana per i diritti umani, sono morte. Delle 770 persone considerate prigionieri politici, il governo ha detto sabato scorso che è disponibile a prendere in considerazione la liberazione di quanti sono ancora in attesa di giudizio e anche di quelli già condannati, aggiungendo che, per questi ultimi, ciò significa la revisione dei loro casi, una circostanza che “non implica automaticamente l’impunità”.