Il diritto alla privacy vale anche in carcere di Franco Corleone L’Espresso, 11 marzo 2019 Il Tribunale di Roma ha condannato l’Amministrazione Penitenziaria per avere violato le norme della privacy, in particolare per avere utilizzato i test antidroga a cui erano state sottoposte le detenute del carcere di Sollicciano a fini disciplinari e non sanitari o terapeutici. Si tratta di una vicenda assai istruttiva che ha visto in campo due autorità di garanzia, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana e il Garante nazionale per la protezione dei dati personali contrapposte alla Amministrazione penitenziaria. Si pone ormai chiaramente anche il rapporto tra il diritto alla salute che deve essere garantito dal servizio sanitario pubblico e le necessità della sicurezza delle prigioni che deve essere di reciproca autonomia e non di subalternità duna istituzione a una altra. Di questo tema si discuterà il 12 marzo in una sala del Consiglio regionale a Firenze con la partecipazione dei soggetti interessati. Alla base del confronto vi sarà anche la questione dell’uso delle droghe, della presenza dei cosiddetti tossicodipendenti in carcere, della legge repressiva e punitiva e delle alternative possibili alla concezione dominante. Il mito salvifico dell’astinenza forzata non può andare contro i diritti fondamentali della persona, anche detenuta. Libertà e dignità sono i pilastri della Costituzione e vanno sempre rispettati. “Detenute madri, incentivare le case-famiglia” Il Mattino, 11 marzo 2019 L’appello dei parlamentari. La Commissione bicamerale Infanzia e Adolescenza sarà oggi all’Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute di Lauro, in provincia di Avellino. La struttura ospita 14 ragazze (9 italiane e 5 straniere)con i loro quindici bambini. Si tratta di un istituto a “Custodia attenuata per madri detenute” che somigliano più ad asili che a prigioni ma rappresentano pur sempre una limitazione della libertà per i bambini. “Sono un’esperienza da comprendere ma anche da superare. Sarebbe necessario un altro istituto previsto dalla stessa legge del 2011, quello della case famiglia protette. Quantomeno nei casi di detenute, condannate a reati non gravissimi, servirebbero a tutelare non solo un diritto sacrosanto delle donne, quello alla maternità, ma soprattutto a fare in modo che i bambini non si trovino a scontare pene per colpe che non sono loro. È ormai unanimemente riconosciuto che i primi tre anni di vita dei bambini sono fondamentali per il loro sviluppo futuro e per la loro crescita equilibrata”, spiega il deputato del Pd, Paolo Siani, che farà parte oggi della delegazione che farà visita alla struttura di Lauro. Servono case famiglia per ospitare mamme condannate e i loro figli* (quotidianosanita.it) 14 ragazze (9 italiane e 5 straniere) con i loro 15 bambini (10 italiani e 5 stranieri) di età compresa tra i 12 mesi e i 5 anni, sono ospitate attualmente presso l’Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute di Lauro (Av). Gli Icam in Italia sono 10 e ospitano 49 mamme ( 19 italiane e 30 straniere) e 53 bambini ( 3 italiani e 30 stranieri) anche se assomigliano più ad asili che a prigioni, rappresentano pur sempre una limitazione della libertà per i bambini. Sono un’esperienza da comprendere ma anche da superare. Sarebbe necessario un altro istituto previsto dalla stessa legge del 2011, quello della case famiglia protette. Quanto meno nei casi di detenute, condannate a reati non gravissimi, servirebbero a tutelare non solo un diritto sacrosanto delle donne, quello alla maternità, ma soprattutto a fare in modo che i bambini non si trovino a scontare pene per colpe che non sono loro. È ormai unanimemente riconosciuto che i primi tre anni di vita dei bambini sono fondamentali per il loro sviluppo futuro e per la loro crescita equilibrata. E che inizio di vita stiamo offrendo a questi 53 bambini che vivono in un carcere pur se senza sbarre, con la loro mamma? Potranno mai avere uno sviluppo Neuropsichico normale questi bambini ? Sappiamo ormai con certezza che Le capacità visive e uditive cominciano il loro sviluppo, e quindi iniziano la loro funzione, verso il sesto mese di gestazione, così come, già prima della nascita, si pongono le basi per lo sviluppo del linguaggio e lo sviluppo cognitivo. Tutte e tre le curve di queste funzioni raggiungono il loro apice di crescita (intesa come velocità e non come performance) entro i primi tre anni: e poiché è noto che l’esercizio aumenta la resa, anche in questo caso è dimostrato che le stimolazioni affettive, sensoriali, sociali, influenzano lo sviluppo di queste funzioni più in questo periodo che in altri. Cioè i primi 3 anni di vita sono quelli probabilmente decisivi in cui si mettono le basi per la, crescita futura. Pensavamo anni fa che il cervello avesse una crescita lineare e che la genetica svolgesse un ruolo determinante nello sviluppo dell’intelligenza e invece non è così lo sviluppo del cervello dipende dalla complessa interazione tra geni e ambiente. Nei primi anni, forti stress, come quelli derivanti da povertà estrema, abusi, violenze, abbandono o da grave depressione materna, possono essere estremamente dannosi, “tossici” per il cervello in via di sviluppo. Studi neurofisiologici, condotti su bambini di famiglie con diverso status socioeconomico, mostrano come la deprivazione economica si associ con alterazioni in alcune delle funzioni cerebrali prefrontali di tipo cognitivo e linguistico. Che prospettive di vita stiamo offrendo a questi 53 bambini che pagano colpe non loro? E allora la mia proposta è che nessun bambino stia più in un carcere pur senza sbarre, si provveda subito a istituire case famiglia per accogliere queste mamme condannate con i loro figli e poi si seguano questi bambini da subito, si sostengano con tutor che si prendano cura di loro e della loro famiglia, ci si accerti che vadano regolarmente a scuola e con profitto, e che poi vengano seguiti in un doposcuola, si intervenga subito se si notano difficoltà o malessere, ci si organizzi affinché possano fare sport come tutti i bambini, insomma ci si attrezzi affinché possano recuperare lo svantaggio dei loro primi anni di vita e non cadere negli stessi errori di loro genitori. Sono solo 53, si può fare, purché qualcuno si accorga di loro. La Commissione Infanzia e Adolescenza porterà questo problema all’attenzione del Governo. *Paolo Siani, Pediatra e Parlamentare (Pd), Componente XII Commissione Affari Sociali e Sanità e Commissione bicamerale Infanzia “Per aspera ad astra”. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza di Francesca Monti spettacolomusicasport.com, 11 marzo 2019 Il progetto sperimentale “Per aspera ad astra” parte dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, raggiungendo livelli di eccellenza. L’iniziativa nasce con l’obiettivo di tracciare un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. L’esperienza di Armando Punzo testimonia come sia possibile lavorare in questi contesti nell’interesse del teatro, delle arti e dei “mestieri del teatro”, oltre che per le finalità rieducative e risocializzanti. La divulgazione e la promozione del “teatro in carcere” significa anche permettere di abbattere la separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile, così da creare un clima di consapevolezza rispetto al compito che essi assolvono: operare per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop realizzati all’interno degli Istituti di Pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di Polizia e del personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. Il progetto, promosso e sostenuto da Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio SPA, comprende sei compagnie di teatro carcere e sei Fondazioni di origine bancaria: oltre alla Compagnia della Fortezza (Casa di Reclusione di Volterra) - Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, anche Opera Liquida (Casa di Reclusione di Milano Opera) - Fondazione Cariplo, Teatro dei Venti (Casa Circondariale di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia) - Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Compagnia degli Scarti (Casa Circondariale di La Spezia) - Fondazione Cassa di Risparmio di La Spezia, Baccanica (Casa Circondariale di Palermo) - Fondazione con il Sud, Teatro e Società (Casa Circondariale di Torino) - Compagnia di San Paolo. Opera Liquida, fondata e diretta da Ivana Trettel, è attiva dal 2009 nella Casa di Reclusione Milano Opera dove produce spettacoli originali a partire da temi di scottante attualità. È composta da detenuti ed ex detenuti, che negli anni, uscendo, hanno voluto continuare a fare teatro. L’ultima produzione affrontata, anche grazie a Per aspera ad astra, è stata “Disequilibri circensi”, con un anteprima lo scorso giugno al Castello Sforzesco e il debutto nello Stabile in Opera, il teatro da 400 posti del carcere, in una serata sold out, durante la 7° Edizione del Festival “Prova a sollevarti dal suolo”, per pubblico misto di detenuti e civili, lo scorso ottobre. Lo spettacolo, ambientato in un circo, parla di distanze, di diversità, di migrazioni, non solo di quelle fisiche, ma anche di quelle emotive. Spettacolo vincitore del premio “Enea Ellero per il Teatro Sociale 2018”, sarà in scena il prossimo 5 maggio a Campo Teatrale, a Milano. Diverse le repliche in corso anche della precedente produzione: “Undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama”, contro la violenza sulle donne. Attualmente la compagnia è impegnata sulla nuova produzione “Noi guerra!”. Ancora una volta, secondo la nostra cifra stilistica, lo spettacolo non affronta il tema della guerra solo come fenomeno sociale o storico. Attiviamo la nostra lente di ingrandimento emotiva, anche per scoprirne risvolti più profondamente umani. Per comprendere quali siano i processi che portano una persona a fare la guerra a sé stesso, diventando così il proprio peggior nemico. Nel tentativo di quell’aggancio empatico che permetta una riflessione profonda in chi vorrà ascoltarci. Il laboratorio teatrale si svolge per tutto l’arco dell’anno e comprende il laboratorio drammaturgico, fucina dalla quale componiamo le nostre drammaturgie collettive. Grazie al Progetto Per aspera ad astra, oltre alla formazione degli attori abbiamo potuto realizzare anche un corso di formazione professionale per tecnici audio luci, condotto da Luca De Marinis e Domenico Ferrari e Alessia Gennari per la parte teorica di Storia della tecnica. Questo ha permesso, oltre che di formare i tecnici, di accoglierne un paio stabilmente in compagnia e di avere competenze interne, per la gestione delle attrezzature del teatro, che sono state incrementate, con anche interventi di ristrutturazione del palco. Il terzo laboratorio avviato è stato quello di Costume teatrale. In perfetta sinergia con il Direttore della I Casa di Reclusione Milano Opera, dott. Silvio Di Gregorio, abbiamo allestito una sala dedicata, con macchinari professionali. Il laboratorio di formazione professionale, condotto da Salvatore Vignola, stilista d’alta moda, e Silvia D’Errico, docente di modellistica e sartoria. Il gruppo si è dedicato alla progettazione dei costumi, per la nuova produzione di Opera Liquida “Noi guerra!”. Il lavoro è ancora in corso con straordinari risultati. Riforma del processo penale, dall’Ucpi un drastico no al documento di Anm camerepenali.it, 11 marzo 2019 L’Ucpi, esaminato il documento licenziato dal Comitato Direttivo Centrale di Anm il 9 marzo, esprime il proprio assoluto dissenso dalle valutazioni formulate in ordine alle ipotesi di riforma avanzate dal ministero. O si conferma l’idea di un documento comune, necessariamente alternativo ai 32 punti, o il confronto si ferma qui e partirà nel Paese una lotta durissima per fermare la controriforma del giusto processo. 1. L’Ucpi e la riforma del processo penale. Convocata dal Ministro della Giustizia per l’interlocuzione sulla ipotesi di “riforma del processo penale”, con documento del 19 novembre 2018, Ucpi chiariva che una organica riforma del codice di procedura penale presupponeva un ampio confronto culturale, tecnico e scientifico tra tutti gli operatori del diritto; sottolineava come il vigente sistema processuale penale sia ormai diverso da quello voluto dal legislatore del 1988 a causa dei continui interventi succedutesi nel tempo che ne hanno, quantomeno in parte, snaturata l’originaria impostazione accusatoria. Ancora, indicava le possibili linee guida per una riforma che deve avere al centro la concreta attuazione dei principi scolpiti nell’art. 111 della Costituzione adottato nel 1999: garanzia di terzietà del Giudice, certezza del tempo delle indagini, contraddittorio per il tramite di oralità e immediatezza nell’attività di acquisizione della prova, effettività del sistema delle impugnazioni, solo per richiamare i punti salienti. A tal fine l’Unione chiedeva l’insediamento di una Commissione Ministeriale quale prima sede di confronto tra tutte le componenti che debbono essere chiamate a formulare una ipotesi di riforma. Ucpi, prendeva anche posizione sulle proposte di riforma avanzate dalla Giunta di Anm e rese pubbliche nel novembre 2018, segnalandone la contrarietà ai principi costituzionali del giusto processo, alle convenzioni internazionali e alla stessa ispirazione del codice accusatorio. Si stigmatizzavano, in particolare, le ipotesi di estensione di recupero probatorio dinanzi a giudice diverso da quello della decisione, l’indiscriminato ricorso a forme virtuali di acquisizione della prova, l’abolizione del divieto di reformatio in peius nel processo di appello, l’estensione della confisca per equivalente. Ucpi doveva prendere atto dell’intendimento del Ministro di limitare la consultazione ad un tavolo, da Egli presieduto, al fine di recepire le eventuali proposte delle diverse componenti invitate, riservando alla sintesi politica la predisposizione di una legge delega. 2. Il confronto con Anm - È in questo quadro che si sviluppa l’invito di Ucpi ad Anm di verificare la possibilità di una proposta condivisa limitata alle tre aree di intervento che, per comune analisi, verificata in iniziative pubbliche e in un incontro tra delegazioni, sono state individuate come prioritarie per incidere sui tempi morti del processo: potenziamento dei riti alternativi, ristrutturazione dell’udienza preliminare, depenalizzazione. A tal fine, Ucpi ha inviato ad Anm una bozza di punti di delega sui quali aprire il confronto. 3. La delibera 9 marzo 2019 del Comitato Direttivo Centrale di Anm. A tale proposta ha fatto seguito il documento di Anm, approvato il 9 marzo 2019, sul quale deve essere espresso un giudizio negativo per i suoi contenuti e per la miopia politica che lo caratterizza. Tale documento si apre con un giudizio positivo sul confronto sviluppato con l’Avvocatura, al fine di individuare soluzioni comuni da proporre al Ministro con il dichiarato obbiettivo della riduzione dei tempi del processo, all’interno delle tre aree concordemente individuate. Le concrete soluzioni ivi indicate, pure non tutte condivisibili, paiono comunque ispirate alla prospettiva di un possibile approdo comune. Fin qui l’apprezzamento di Ucpi. Deve però essere oggetto di severo giudizio la seconda parte del documento, con il quale Anm ha inteso manifestare la sostanziale condivisione delle ipotesi dell’Ufficio legislativo del Ministero, peraltro non valorizzate dal Guardasigilli in sede di consultazione. Tale decisione, rende all’evidenza impossibile la prosecuzione di quel percorso comune che pure era stato intrapreso con convinzione e con pubbliche inequivoche dichiarazioni. Ciò sia per ragioni di merito, sia -e forse prima ancora- per ragioni di metodo. Nel merito, Ucpi ha già chiarito, con propria delibera del 2 marzo 2019, che le ipotesi dell’Ufficio legislativo del Ministero si risolvono in una vera e propria manomissione dei connotati identitari del giusto processo come scolpiti dall’art. 111 della Costituzione. Basti pensare alla autentica aggressione al diritto di impugnazione o, ancora, alla abusiva ed immotivata ipertrofia del ricorso al rito immediato. Si tratta oltretutto di interventi disorganici, privi della benché minima ispirazione sistematica, disordinati nelle premesse quanto chiarissimi nell’obiettivo di riscrivere, con il pretesto della ragionevole durata dei processi, regole e garanzie fondamentali del processo accusatorio. Nel metodo, poi, le ragioni del giudizio negativo sono ancor più radicali. L’interlocuzione tra magistratura e avvocatura ha senso solo se giunge a una proposta comune di intervento, forte appunto del consenso di entrambe, e in grado di individuare soluzioni coerenti con l’obbiettivo di incidere sui tempi morti del processo. Tale iniziativa, non può che porsi in alternativa con ogni altra ipotesi di intervento chiamata ad incidere su altri momenti del processo e fortemente avversata da tutta l’Avvocatura, per la sua evidente contrarietà ai principi costituzionali. Se si ritiene politicamente appagante l’individuato punto di equilibrio, frutto dell’iniziativa comune, indicatore di un nuovo rapporto tra le rappresentanze della Magistratura e dell’Avvocatura, unica non può che essere la proposta. 4. Ucpi e il tavolo ministeriale - Ucpi ribadisce piena disponibilità a lavorare alla definizione di proposte con Anm per le quali vi era stato un impegno comune, alla condizione imprescindibile di sottoscrivere un unico unitario documento che escluda l’adesione alle più inaccettabili ipotesi ministeriali. In assenza di nuove iniziative di Anm, Ucpi parteciperà all’incontro del 13 p.v., convocato dal Ministro, rappresentando autonome proposte di intervento e ribadendo poi, in modo analitico, quel fermo dissenso sulla gran parte delle ipotesi avanzate dall’Ufficio legislativo, peraltro già prospettato nel precedente incontro, e sul quale si è manifestata la condivisione di tutte le componenti istituzionali ed associative forensi presenti al tavolo. Le linee di riforma indicate da Anm, con il documento del 9 marzo 2019, si inseriscono a pieno titolo nell’orizzonte politico-culturale che ispira l’azione dell’attuale maggioranza di governo, e dunque del Ministro, in un connubio tra populismo giudiziario e burocratico efficientismo che trova la netta opposizione dei penalisti italiani. 5. Le prossime iniziative - Se la legge delega dovesse valorizzare le ipotesi dell’Ufficio legislativo del Ministero e le proposte di Anm richiamate nel documento 9 marzo 2019, Ucpi lancerà nel Paese la più ferma, dura ed intransigente opposizione contro l’inaccettabile tentativo di stravolgimento dei più elementari connotati qualificanti del processo penale come immaginato dal legislatore del 1988. Primi interlocutori di questa nuova iniziativa politica saranno oltre all’intera Avvocatura, l’Accademia e le Associazioni della Magistratura che con Ucpi hanno condiviso, anche in recenti congressi, la preoccupazione per l’attacco alle garanzie nel processo e la necessità della loro difesa. Record di baby-criminali: “Reati sempre più violenti. È allarme per i pestaggi” di Matteo Indice La Stampa, 11 marzo 2019 Le denunce sono stabili, ma i ragazzi restano in affidamento per periodi sempre più lunghi. “Simpa-Schiavo”. Sul telefonino lo avevano rubricato così, perché da qualche mese lo stavano - appunto - schiavizzando e si apprestavano allo “show degli show” nella vacanza a Prato Nevoso (Cuneo). Durante la quale un ragazzino di 17 anni, parola della Procura dei minorenni, “è stato deriso, picchiato e umiliato... fatto uscire in piena notte, nudo, in mezzo alla neve, irriso dai sedicenti amici senza che nessuno si preoccupasse di soccorrerlo o mostrasse un minimo di pietà. E alla fine è stato esposto come un trofeo per le foto di rito. Il ragazzo ha tentato in seguito il suicidio”. “Gli ho sparato, ora mangio” I sette studenti che in 100 mila messaggi WhatsApp minacciavano “gli spariamo (era vero, lo avevano torturato con una pistola a pallini, ndr)” e “ce lo fumiamo”, sono finiti a processo un mese fa, avevano all’epoca 16-17 anni e hanno intanto preso il diploma in un liceo linguistico da ottomila euro l’anno. A Napoli, invece, s’è riaperto di fresco il giallo sull’omicidio di Maurizio Lutricuso, freddato a 24 anni fuori da una discoteca di Pozzuoli perché aveva rifiutato la sigaretta a un gruppo di ragazzini: aleggia da tempo l’ombra di un killer quindicenne, soprannominato Tore o’ maligno, che la notte dell’omicidio chiamò un amico intercettato: “L’ho sciattato... sette botte, l’ho sfondato, trasc, bunget... ma che me ne f... ordiniamo due saltimbocca”. In Italia la baby-gang generano più violenza di prima e la plasmano sul contesto sociale da cui affiorano, sia una settimana bianca da bulli-rampolli o una punizione esemplare impugnando kalashnikov. E gli ultimi report del ministero della Giustizia descrivono uno specifico trend in crescita da un decennio abbondante, quello dei ragazzi affidati all’Ufficio di servizio sociale per i minorenni, circuito in cui si entra dopo aver subito almeno una denuncia (21.268 nel 2018, erano 20.466 nel 2017 e 14.744 nel 2007, l’andamento 2019 è in ascesa). Aumentano gli ospiti delle comunità di recupero (1.934 nel 2018, escalation stabile dal 2015 quand’erano 1.688 e presenza media giornaliera che per la prima volta ha superato quota mille) e ci sono più detenuti nei 17 penitenziari per giovanissimi distribuiti da Nord a Sud (1.132 ingressi nel 2018, erano stati 1.057 nel 2017). Inoltre sono cresciuti gli omicidi commessi da under 18 (dal 3% del 2015 al 3,64% certificato dal Viminale nel 2017, ultima annualità disponibile) sebbene il totale dei morti ammazzati cali stabilmente da 10 anni. E la classifica della baby-devianza fa sgranare gli occhi, poiché la guida sulla carta Bologna con una lista di adolescenti da monitorare tripla rispetto a Napoli. I figli dei migranti - Cosa sta succedendo? “I dati - parola di Filomena Albano, magistrato e garante per l’infanzia e l’adolescenza - non certificano il maggior numero di reati minorili, ma la superiore gravità. Da un’indagine nei distretti giudiziari di Torino, Napoli, Milano, Venezia, Roma, Palermo, Reggio Calabria e Perugia risulta una diminuzione uniforme delle denunce. Abbiamo rilevato al contrario un aumento dei raid violenti, frutto di ulteriore complessità sociale e familiare. Richiedono una presa in carico a lungo termine del servizio sociale, con interventi più strutturati e protratti nel tempo”. I minorenni entrano nel database dei soggetti a rischio per comportamenti gravemente criminosi, dovendovi quindi restare per più anni, il saldo con quelli che escono è sfavorevole e il totale lievita. Il bullismo organizzato - “L’unica prevenzione efficace - spiega Maura Manca, psicoterapeuta che ha creato l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza secondo cui il 6-7% degli under 18 vive esperienze di criminalità collettiva - si concretizza intercettando la traiettoria evolutiva di chi, già da bambino, ha manifestato tendenze aggressive e antisociali. Coloro che negano l’incremento delle baby-gang, e sono scettica sulla presunta diminuzione delle denunce, non fanno lavoro sul campo, dove si rilevano tre forme prevalenti”. E cioè “il bullismo organizzato, che impone logiche basiche e però mafiose come l’assoggettamento psicologico, ed è collegato alla disperata ricerca di un’identità in modo trasversale al contesto economico o razziale; le formazioni marcatamente etniche composte da figli d’immigrati nati in Italia, riflesso della mancata integrazione, che insistono sulla microcriminalità per marcare il territorio; le bande che vivono già il crimine come una professione, presenti al Sud, e proliferano per povertà educativa”. I dossier ministeriali visionati da La Stampa e aggiornati al 15 febbraio rischiarano un quadro in perenne oscillazione tra allarmismo e riduzionismo. Rivelando in primis che il sistema italiano s’è comunque affinato, abbandonando i centri di permanenza temporanea in favore d’un monitoraggio meno invasivo attraverso le comunità, sia pubbliche sia private, dove l’utenza è in prevalenza maschile (18.917 - 2.351). È inoltre vero che i minori stranieri scoperti a delinquere, in rapporto al totale della popolazione immigrata, sono di più. Ma in assoluto ogni 4 denunce, 3 sono a carico d’italiani. L’unica discrepanza davvero acuta è nella violenza di genere, che secondo il Viminale gli immigrati compiono al 50% in più. La graduatoria dei reati si aggiorna di continuo e nel 2019 restano in testa quelli contro il patrimonio (19.525), poi spaccio(4.630 episodi attribuiti ad under 18 con nome e cognome) e lesioni volontarie (4.568): cifre superiori alla somma dei minori monitorati, ciascuno può avere in capo più addebiti. Quanta di questa criminalità è con certezza ascrivibile alle baby-gang? Spiega Fabio Armao, docente di relazioni internazionali a Torino e curatore del progetto Gangcity, sul confronto tra l’Italia e il resto d’Europa: “Non c’è un metodo standardizzato tra le forze dell’ordine quando raccolgono segnalazioni e testimonianze. E alcune azioni emergono come compiute singolarmente, sebbene dietro ci fosse un branco. Il reato d’un minorenne è quasi sempre la spia di un co-offending”. Soprattutto “a Bruxelles sono nate reti per condividere database tra più Paesi, accedendo a informazioni scolastiche o fornite dagli enti locali”. Ma “tutto era finalizzato alla prevenzione del fondamentalismo islamico e non s’è rodato un metodo per intervenire sulle bande giovanili”. Napoli e i progetti dimenticati A inizio anno la Direzione investigativa antimafia ha focalizzato sia l’alto numero di baby criminali, con il sorprendente top di Bologna, sia l’ingestibile pericolosità delle gang napoletane. E per decifrarne la specificità occorre ripartire dal recente studio dei professori Maria Luisa Iavarone e Francesco Girardi, che ribaltano parecchi luoghi comuni. La fibrillazione dei gruppetti protagonisti di sparatorie ed estorsioni scaturisce dal basso, una concorrenza per accreditarsi agli occhi dei camorristi tout-court e immergersi nella paranza dei bambini, “cultura di riferimento cui si ambisce”, senza che il reclutamento sia calato dall’alto. Ed è Napoli, insistono, la città dove la devianza minorile “si proclama norma” in simbiosi con il più elevato indice di abbandono scolastico, materializzandosi in un boom di reati predatori. Nei centri del Nord, invece, prevalgono pestaggi e spaccio e bande “trasversali”. Il caso-Campania risveglia i politici. E il deputato leghista Gianluca Cantalamessa ha proposto una legge per abbassare da 14 a 12 anni la soglia d’imputabilità, ricevendo bordate da Cristina Maggia, presidente del tribunale minorile a Brescia e vicepresidente dell’Associazione magistrati per i minorenni e la famiglia: “Funziona il percorso opposto, non repressivo, che restituisce fiducia nel futuro e si basa sulla responsabilizzazione dei ragazzi: il nostro livello di recidiva minorile è tra i più bassi d’Europa”. Il Garante è allineato, non l’Osservatorio: “Va minata la certezza d’impunità che spinge varie gang a servirsi di tredicenni per l’ultimo miglio dello spaccio”. La Lega, guidata da Matteo Salvini che regge il Viminale, pensa a punire i bambini, ma lo stesso ministero dell’Interno lascia impolverare il progetto d’una grande banca dati sul fenomeno della baby-devianza: Bozza a febbraio 2018 nelle “disposizione urgenti per la sicurezza delle città” con ipotesi di finanziamento, “ma - specificano dal dicastero - non sappiamo quale sia lo stato dell’arte”. Nell’ultima settimana i carabinieri di Milano hanno arrestato 20 minorenni divisi in due bande: una spadroneggiava al Parco Sempione e l’altra ad Abbiategrasso. Erano formate perlopiù da ragazzi di cittadinanza italiana ma genitori stranieri ed è un dato particolarmente significativo, in materia d’integrazione. Le minacce dei primi, coltello alla mano: “Fuori i telefoni o vi tagliamo la gola”. Le intercettazioni dei secondi, più strutturati: “Facciamo come i Latin Kings”, per scimmiottare i gruppi trapiantati fra il Milanese (2000 affiliati censiti nel 2016) e Genova (10 anni fa fu emergenza). Con i latinos quelli di Abbiategrasso non c’entravano nulla “eppure il fenomeno - chiude Maura Manca - segue il principio della scissione cellulare. Una gang ne genera altre per imitazione o autodifesa. Sottovalutare è assurdo”. Baby gang. Il caso di Bologna: 2mila ragazzi ai servizi sociali di Matteo Indice La Stampa, 11 marzo 2019 Il vicesindaco: vanno coinvolti i genitori. “Io non ho fatto niente”. Chiara ai primi due educatori ha risposto così, catapultata dal quartiere San Donato nella palazzina della comunità Oikos riservata (anche) ai minorenni del circuito penale. Chiara ci era arrivata un anno e mezzo fa in alternativa alla prigione per essere stata alla testa d’una baby gang, cui sono state attribuite rapine, estorsioni e ricatti a coetanei andati in scena per un anno pieno. Erano in sei, cinque figli d’immigrati, il sesto italiano da varie generazioni. E i loro nomi sono entrati nell’elenco dei 2.239 ragazzi affidati all’Ufficio del servizio sociale per i minorenni a Bologna (entra chi commette un reato) che ne ha in carico il più alto numero d’Italia. Il capoluogo emiliano può essere davvero la capitale delle baby-gang? Di sicuro c’è che fino all’autunno l’emergenza è stata reale, appunto fra San Donato e poi il centro universitario e fuori città a Casalecchio di Reno, nel megastore Meridiana: una trentina tra fermi e arresti nello spazio di pochi mesi, senza dimenticare l’allarme lanciato mercoledì scorso dalla Cgil sul sovraffollamento del carcere minorile del Pratello, che è al contempo un modello nei tentativi di reinserimento con una sessantina di progetti realizzati all’anno. Nel 2017, ultimo dato disponibile, sono stati accolti 117 minori o “giovani adulti” (under 25 anni che hanno compiuto il reato prima di diventare maggiorenni): il 62% ha tra i 16 e i 17 anni, sono in prevalenza stranieri (70%), perlopiù marocchini o tunisini. E però l’Autorità garante per l’adolescenza dà una lettura più sfaccettata del primato bolognese: “Il raffronto per criteri omogenei è difficile. I territori di competenza dei vari distretti hanno estensioni fortemente variabili e Bologna copre tutta l’Emilia Romagna: in Sicilia ci sono ad esempio quattro tribunali per i minorenni, su aree più ristrette. Secondo: la presa in carico da parte del servizio sociale varia nella data d’avvio e nella durata. Talvolta avviene dall’inizio del procedimento, e così è a Bologna dove di conseguenza l’affidamento si protrae di più, in altri territori no”. Giovanni Mengoli, padre dehoniano, è il presidente di Ceis Bologna, l’associazione che gestisce una rete di comunità tra cui appunto Oikos: “I ragazzini che riceviamo, pur essendo stati protagonisti di fatti gravi, minimizzano. E il momento più drammatico è l’impatto con la struttura dopo l’allontanamento dalla famiglia per problemi giudiziari. Da noi imparano i principi base d’una comunità, appunto: farsi da mangiare, riordinare con gli altri. E rimettersi, o cominciare, a studiare”. Chiara non andava a scuola da tempo e le hanno insegnato a fare l’estetista; il suo compagno di banda Marko (tutti i nomi sono di fantasia), che più o meno in contemporanea era entrato in un’altra comunità ovvero la San Martino sui colli a ridosso della città, è diventato un idraulico: “Ora sto meglio - ha ripetuto pure lui a chiosa del proprio percorso - prima non avevo niente da fare”. “Uno degli aspetti su cui insistiamo - spiega Marilena Pillati, che di Bologna è il vicesindaco con delega ai progetti per l’adolescenza - è il lavoro con i genitori dei ragazzi dai 13 ai 17 anni. Lo facciamo soprattutto nelle seconde generazioni d’immigrati: in famiglie dove gli aspetti materiali, in primis la ricerca d’un lavoro dignitoso, sono prioritari. E poco si ragiona sull’alienazione e la ricerca d’identità che possono spingere i ragazzini a entrare nelle mini-bande”. Gianpiero De Cicco invece fa l’avvocato, è nel direttivo di Cammino, la camera penale per la persona, la famiglia e i minorenni, ha lavorato sia a Napoli sia a Bologna e da anni segue le baby gang: “Due mondi differenti, problemi importanti ovunque. Ma per chi non è avvezzo al crimine, il processo penale può essere un colpo irreversibile”. La bruttezza, il nuovo metro delle giudici di Antonio Biasi Gazzetta del Mezzogiorno, 11 marzo 2019 La ragazza 22enne è brutta e, di conseguenza, la violenza sessuale subita da un coetaneo non è credibile. Sembra una disgraziata battutaccia del più bieco dei maschilisti. Invece è una sentenza della Corte d’Appello di Ancona, fortunatamente annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione. Ma nonostante la bocciatura della Suprema Corte la gravità del fatto resta. Fra l’altro, paradossalmente, la sentenza d’assoluzione per stupro non credibile a causa della presunta scarsa avvenenza della vittima è stata pronunciata da tre giudici di sesso femminile e quindi, almeno in questo caso, non si può parlare di tradizionale oscurantismo vetero-maschilista. Certo, commentare le sentenze, è sempre un po’ azzardato, perché non si hanno a disposizione tutti gli elementi in possesso dei giudici. Ma, questa volta, alcuni passaggi della sentenza sembrano lasciare pochi dubbi. La storia risale al 2015. Una ragazza di origine peruviana si presenta in ospedale accompagnata dalla madre affermando di essere stata violentata da un amico, aiutato da un altro ragazzo che faceva da palo. In primo grado, il 6 luglio 2016, i due ragazzi vengono condannati. La Corte d’Appello di Ancona però il 23 novembre 2017 ribalta la decisione e li assolve: “La scaltra peruviana”, così viene definita la ragazza dalle tre toghe, non risulta credibile anche perché fisicamente poco gradevole ed eccessivamente mascolina. Nella sentenza viene scritto che “la ragazza neppure piaceva (al presunto stupratore, ndr) tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Nina Vikingo”, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”. Ora, i giudici sulla base degli atti processuali hanno tutto il diritto di non ritenere credibile la ricostruzione di una denunciata violenza, è nel loro pieno diritto-dovere, però, non facendo parte della giuria di un concorso di bellezza non dovrebbero giammai pronunciare giudizi estetici sull’aspetto della presunta vittima, soprattutto se questo parere, evidentemente negativo, viene utilizzato come “demotivante” nei confronti di uno stupro, e quindi in qualche modo finisce per favorire l’assoluzione in un processo per violenza sessuale. E meno male che la Cassazione ha disposto un nuovo processo d’appello riformando la decisione delle tre giudici marchigiane. Forse è anche superfluo sottolinearlo: la violenza sessuale è un crimine così devastante che non si sente proprio la necessità di assistere a quella “giustizia creativa” che purtroppo periodicamente trapela da alcune sentenze. Il caso in discussione ha ovviamente provocato una selva di reazioni vivacissime. Sin troppo facile, in effetti, in questo caso, “sparare” contro una decisione che pare davvero difficile poter giustificare. Quando i fatti parlano in modo così chiaro le aggettivazioni e le “condanne” risultano quasi superflue. Resta però tanta amarezza. Ma anche la speranza che lo stato di confusione che sembra permeare la fase storica che stiamo vivendo si tenga lontano almeno dalle aule di giustizia. I “social” hanno annebbiato le nostre menti e condizionato le nostre vite, mentre vittime e presunti colpevoli, hanno bisogno di “luce che illumini le genti”. Legittima difesa a impatto ridotto di Guido Camera e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2019 L’aggressione deve essere “attuale” e il ricorso alla forza necessario. Sono i paletti fissati dalla Cassazione in tema di legittima difesain casa e nei luoghi di lavoro e con cui la riforma varata la scorsa settima dalla Camera dovrà fare i conti (il via libera definitivo dovrebbe arrivare a fine marzo, dopo un ultimo passaggio al Senato). Anche perché le nuove regole non cancellano ma si aggiungono a quelle attuali, modificate nel 2006 dal Governo Berlusconi proprio per rafforzare la legittima difesa “domiciliare”. I numeri - In questi anni i casi sono stati molto pochi: secondo i dati del ministero della Giustizia, nel 2017 i procedimenti iscritti in dibattimento sono stati cinque, nel 2016 due e nel 2015 tre. E comprendono anche la legittima difesa non domiciliare. Molti degli episodi che passano per legittima difesa in realtà infatti non lo sono (da ultimo quello dell’imprenditore Peveri, i cui avvocati hanno sostenuto l’innocenza con altre tesi). Fra il 2015 e il 2017 sono invece diminuite sia le denunce per rapine in abitazione(-28%) e negli esercizi commerciali (-26%), sia per i furti (- 23% nelle abitazioni e -16% nei negozi). E, secondo una ricerca sulla sicurezza dell’Università La Sapienza di Roma, dal 2007 al 2017, gli omicidi per eccesso di difesa personale sono stati il 2,4% (3,8 per le cose). I dati sono quindi assai distanti dal ricorrente allarme sociale, cui hanno però contribuito l’efferatezza di alcuni episodi e l’ampia risonanza mediatica. La riforma - La riforma modifica sia le norme sulla legittima difesa (articolo 52 del Codice penale) sia quelle sull’eccesso colposo (articolo 55). Nel primo caso viene aggiunto un nuovo comma che stabilisce che agisce sempre per legittima difesa (e quindi non è punibile) chi respinge un’intrusione violenta (si veda il testo a sinistra). Viene inoltre rafforzata la presunzione di proporzionalità fra difesa e offesa prevista dalla riforma del 2006, inserendo l’avverbio “sempre”. Ma non vengono toccati i paletti cui la presunzione di proporzionalità è legata, ossia la difesa dell’incolumità propria o altrui e la tutela dei beni (sempreché non vi sia desistenza). In tema di eccesso colposo(in linea con la giurisprudenza più recente) viene invece introdotto il grave turbamento come condizione di non punibilità di chi si è difeso. Evitare i processi - Già oggi, i pochi casi a processo si chiudono quasi sempre con l’archiviazione o l’assoluzione. L’obiettivo di fondo delle nuove norme è però ridurre al minimo i margini di discrezionalità dei giudici e limitare ancor di più i processi perché altrimenti - sostengono i fautori della riforma - si trasforma la vittima in aggressore, sottoponendola a lunghi e dispendiosi iter. Ma si otterrà l’effetto voluto? Dopo la riforma del 2006 la Cassazione ha ribadito più volte che la presunzione di proporzionalità non ha fatto venir meno gli altri limiti che derivano dal primo comma dell’articolo 52, quello che definisce la legittima difesa in generale e non solo quella domiciliare: pericolo attuale, offesa ingiusta e reazione inevitabile. Soprattutto la Cassazione ha sottolineato che attualità vuol dire assenza di desistenza. In altre parole: non si può colpire chi sta fuggendo. Tant’è che i casi di condanna hanno spesso riguardato proprio episodi in cui si è sparato al ladro in fuga. È difficile quindi che il magistrato non sia chiamato a valutare in concreto il concetto di respingimento di un’intrusione violenta previsto dalla riforma. Fra l’altro anche la nuova norma che introduce l’elemento psicologico del “grave turbamento” parla di una “situazione di pericolo in atto”, che dovrà necessariamente essere ricostruita a posteriori con accertamenti e perizie. Inammissibile il “concorso colposo” nel delitto doloso di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2019 È inammissibile il “concorso colposo” nel delitto doloso, in primo luogo perché, spiega la Cassazione con la sentenza 7032/2019, in assenza di una esplicita previsione legale, il rinvenimento di una disciplina “implicita” deve risultare incontrovertibile allorquando ne deriverebbe una espansione in malam partem del penalmente rilevante; in secondo luogo, perché l’articolo 42, comma 2, del Cp, stabilendo che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”, richiede l’espressa previsione per la responsabilità colposa, che mancherebbe per il concorso colposo nel delitto doloso. Infine, perché l’articolo 113 del Cp, secondo cui “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”, deve intendersi nel senso della limitazione del concorso colposo alla sola ipotesi di delitto colposo. La vicenda - Nella specie, un soggetto, armatosi di pistola, si era recato in un ufficio pubblico dove, prima di suicidarsi con la stessa arma, aveva esploso colpi di pistola nei confronti di alcune persone uccidendole; erano dipendenti di quell’ufficio, che riteneva responsabili dell’adozione di provvedimenti per sé sfavorevoli. Nell’ambito del procedimento aperto a carico del medico di base che, senza adeguata considerazione delle condizioni del suo paziente, aveva redatto il certificato medico che aveva consentito il rilascio del porto d’armi e, quindi, il successivo acquisto dell’arma, la Corte ha annullato la sentenza di condanna a carico del professionista, cui era stato addebitata la cooperazione colposa nei fatti omicidiari, ritenendo concettualmente inammissibile il concorso colposo in un reato doloso; la Corte, peraltro, ha rinviato al giudice di merito, onde verificare la sussistenza eventuale dei presupposti per ravvisare, a carico del medico, rispetto ai fatti contestatigli, il concorso di cause indipendenti nel reato ex articoli 41e 589 del Cp). I precedenti e la decisione 7032/2019 - La Cassazione prende espressamente le distanze da altro orientamento da ultimo consolidativo, a favore del concorso colposo nel delitto doloso. In particolare, sezione IV, 12 novembre 2008, Calabrò e altro, che si era espressa nel senso, appunto, dell’ammissibilità del “concorso colposo” nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare, è necessario che il soggetto sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che la regola cautelare dal medesimo inosservata sia diretta a evitare anche il rischio dell’atto doloso del terzo, risultando dunque quest’ultimo prevedibile per l’agente. L’affermazione era stata resa in una fattispecie analoga a quella oggetto del procedimento qui deciso dalla Cassazione: la Corte, infatti, aveva confermato la condanna per i reati di omicidio colposo plurimo e di lesioni colpose plurime di due medici che, separatamente, ma in una situazione in cui poteva ravvisarsi la loro cooperazione colposa, avevano redatto certificati medici strumentali all’effettivo conseguimento del porto d’armi da parte di una persona, affetta da gravi patologie mentali, la quale, conseguentemente, ottenuta la disponibilità di un’arma da fuoco, aveva ucciso alcune persone, altre ne aveva ferite e poi si era suicidato. Nello stesso senso, si era espressa anche Sezione IV, 14 luglio 2011, Baglivo e altri, in una fattispecie nella quale la Corte aveva confermato la condanna per il reato di omicidio colposo plurimo a carico di un funzionario di polizia che, secondo la contestazione, aveva omesso di attivarsi doverosamente per il ritiro dell’arma in dotazione a un operatore di polizia dipendente, sebbene fossero emersi alla sua attenzione comportamenti tali da far ritenere oggettivamente pericolosa la detenzione dell’arma, risultando che tale soggetto aveva posto in essere atti di violenza nei confronti della moglie ed esplicitato propositi omicidiari e suicidiari: per l’effetto, in ragione di tale comportamento omissivo, proprio con l’arma di ordinanza, il poliziotto, prima di suicidarsi, aveva cagionato la morte della moglie e del cognato. In precedenza, sempre in termini, in linea con l’orientamento disatteso dalla sentenza in esame, cfr. anche Sezione IV, 14 novembre 2007, Pozzi, in una fattispecie avente a oggetto il caso di un medico psichiatra, il quale, sospendendo in maniera imprudente il trattamento farmacologico cui era sottoposto il paziente ricoverato in una comunità, ne aveva determinato lo scompenso psichico, ritenuto la causa della crisi nel corso della quale lo stesso paziente, poi giudicato non imputabile, aveva aggredito e ucciso uno degli operatori che lo accudivano. Bullismo, i genitori di chi assiste sono corresponsabili per i danni di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2019 Parlare di scherzi negli episodi di bullismo aggrava la posizione del minorenne autore dei fatti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza dello scorso 11 giugno, n. 26595che ha dato il via a una giurisprudenza sempre più severa sulle aggressioni subite dai ragazzi durante l’orario scolastico. A risponderne in sede penale sono direttamente i minorenni che hanno compiuto 14 anni, se imputabili. A pagare i danni sono invece quasi sempre i genitori sia dell’autore dei fatti che dei ragazzi che hanno assistito a un episodio di bullismo, senza dissociarsi. Per evitare i risarcimenti, secondo i giudici, devono dimostrare di non aver potuto fare nulla per impedire l’evento, una prova, vista l’ampiezza dei doveri educativi, pressoché impossibile. Secondo i giudici, è il comportamento stesso del ragazzo a dimostrare le mancanze educative dei genitori. Diventa quindi inutile cercare di provare il contrario. Episodi gravi e continuati - La giurisprudenza è concorde nel ritenere che per parlare di bullismo gli episodi debbano essere reiterati, continuativi e in grado di determinare una situazione di dominio psicologico, ossia di prevaricazione e di conseguente sottomissione della vittima. Eppure non tutto è bullismo, come spiega il Tribunale di Civitavecchia con la sentenza del 16 novembre 2018 n. 977. In questo caso, secondo i giudici, nonostante la minore avesse sofferto per i comportamenti inopportuni e, a volte, aggressivi di un compagno definito da lei stessa come problematico, era stata la madre a ingenerare nella figlia una totale sfiducia nei confronti degli insegnanti che l’aveva portata a isolarsi e a non impegnarsi a scuola. Tant’è che nella relativa causa di separazione la figlia è stata collocata prevalentemente presso il padre chiamato a garantire la serenità della minorenne. Le responsabilità di genitori - A finire nei fascicoli dei tribunali sono sempre più spesso le feste dei minorenni organizzate a casa dei genitori. Anche nei casi in cui non si tratti di bullismo, i genitori non si salvano - nemmeno se i figli hanno più di 14 anni - se gli hanno permesso di usare giochi pericolosi. Così rispondono i genitori nel caso dello scoppio di un petardo durante la festa di Capodanno, se causa la lesione di un occhio al compagno di classe del figlio, oppure dello sparo di un’arma ad aria compressa visto che mettere a disposizione degli invitati giochi pericolosi senza le dovute precauzioni non è consentito. Il principio giuridico è semplice: l’articolo 2048 del codice civile stabilisce una presunzione di responsabilità in capo ai genitori, che può essere superata soltanto dando la prova di non aver potuto impedire l’evento. Nei processi per episodi di bullismo, per evitare le responsabilità i genitori devono quindi dimostrare di aver fatto tutto il possibile perché i fatti non si verificassero. Ma si tratta di una prova quasi impossibile anche perché la precoce emancipazione dei figli non esclude né attenua la responsabilità. Al contrario, secondo i giudici, il cambiamento dei costumi sociali ha innalzato i doveri educativi e i genitori devono essere in grado di prevenire i rischi dei tempi moderni, cyberbullismo compreso. E rispondono dei danni anche i genitori dei figli che assistono a un episodio di bullismo senza dissociarsi. La partecipazione emotiva a un reato per i giudici denota infatti una forte carenza educativa, con buona pace dei genitori ai quali non è data la possibilità di fornire la prova liberatoria. Fa eccezione il caso in cui il minore ha partecipato o assistito all’episodio di bullismo perché egli stesso succube e vittima della prepotenza dei capi del gruppo. Il peso dell’età - Ma le responsabilità cambiano anche in base all’età dei ragazzi. Lo ha chiarito il Tribunale di Roma con la sentenza del 9 febbraio 2018 n.3050 che ha parametrato la responsabilità dei docenti anche in base all’età degli studenti. La questione riguardava la caduta un’alunna che sbattendo contro un compagno aveva urtato contro il banco e si era rotta un dente, in un momento di assenza degli insegnanti a causa di un’assemblea sindacale. Il Tribunale oltre ad aver escluso il bullismo, ha precisato che maggiore è l’età dei ragazzi, minore è l’obbligo di vigilanza degli insegnanti. Per i giudici quindi, durante un’assemblea sindacale, è possibile lasciare soli per un’ora ragazzi di 14 anni, presumendo che sappiano gestirsi in autonomia e non commettano atti pericolosi per sé o per gli altri. Il giudice onorario può istruire procedimenti riguardanti il diritto d’asilo di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 11 marzo 2019 La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 3356/2019, ritiene legittimo che sia un giudice onorario a istruire il procedimento avverso il provvedimento emesso da parte di una Commissione territoriale per la protezione internazionale. L’ordinanza inizia l’esame della fattispecie richiamando la giurisprudenza uniforme del supremo collegio, sul tema dei requisiti di validità dei provvedimenti emessi dai giudici onorari nelle materie riservate ai giudici ordinari. In tali casi, i provvedimenti dei giudici onorari erano sempre stati ritenuti validi sulla base della considerazione che le circolari del Consiglio superiore della magistratura non assumessero carattere vincolante, posto che la previsione di una nullità processuale potesse essere consentita alla sola legge ordinaria. Gli ermellini svolgono alcune considerazioni circa la natura dei giudici onorari, rilevando in particolare come tali organi facciano parte dell’ordine giudiziario e come agli stessi la normativa riservi precisi compiti e specifiche funzioni. In particolare, le delibere del Consiglio superiore della magistratura delineano un ben preciso rapporto tra i giudici onorari e quelli ordinari, lasciando ai primi una funzione di affiancamento dei secondi i quali restano i cardini del procedimento. Nel caso di specie, tale modello di rapporto era stato rispettato. Il giudice onorario, del quale era stata contestata l’attività, aveva semplicemente effettuato un incombente istruttorio consistente nell’audizione dello straniero in apposita udienza mentre la decisione era stata presa da un collegio costituito da soli giudici ordinari. La legittimità delle intercettazioni ambientali disposte in luoghi di privata dimora Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2019 Prova penale - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni ambientali - Limiti di ammissibilità - Luoghi di privata dimora - Fondato motivo di ritenere che vi svolga l’attività criminosa. Ai fini della verifica della legittimità delle intercettazioni disposte in luoghi di privata dimora, ai sensi dell’art. 266, comma 2, c.p.p., che prevede che l’intercettazione sia consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, non si richiede che ex post l’attività criminosa risulti essere effettivamente sussistente, bastando che dell’attività in questione possa, con un giudizio ex ante, ragionevolmente ritenersi la sussistenza all’atto del provvedimento autorizzativo delle intercettazioni. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 1° marzo 2019 n. 9116. Prova penale - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Intercettazioni ambientali - Luogo di privata dimora - Limiti. In tema di intercettazioni ambientali, ai fini della verifica del presupposto dello svolgimento di attività criminosa in atto, deve precisarsi che la nozione di privata dimora non evoca solo i luoghi ove si svolge la vita domestica, e cioè la casa di abitazione, ma comprende anche ogni altro luogo in cui il soggetto che ne dispone abbia la titolarità dello ius excludendi alios a tutela della riservatezza inerente alla vita privata. Ne consegue che anche l’ufficio privato è luogo di privata dimora poiché chi ne dispone svolge in esso la sua attività lavorativa, che implica un aspetto dello svolgimento della vita individuale in cui è compreso l’intrattenimento diretto o mediante mezzi di comunicazione con le persone che il titolare ammette a entrare nella sua sfera privata. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 25 luglio 2017 n. 36874. Intercettazioni - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Intercettazioni ambientali - Esecuzione delle operazioni mediante un agente intrusore collocato all’interno di apparecchio elettronico portatile - Disciplina. In materia di intercettazione telematica, solo limitatamente ai procedimenti per reati di “criminalità organizzata” è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un “captatore informatico” in dispositivi elettronici portatili (ad esempio, personal computer, tablet, smart-phone, ecc.) anche nei luoghi di privata dimora ex articolo 614 del Cp, pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa. Con la precisazione che per reati di “criminalità organizzata” devono intendersi, comunque, non solo quelli elencati nell’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del Cpp, ma anche quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere ex articolo 416 del Cp, correlata alle attività più diverse, con esclusione del mero concorso di persone. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 1° luglio 2016 n. 26889. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - In genere - Utilizzazione del cd. “captatore informatico” - Limitazione ai procedimenti di criminalità organizzata. L’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 del D.L. n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione e indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto. (In motivazione la Corte ha sottolineato che, in considerazione della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione del fatto reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione in modo rigoroso). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 1° luglio 2016 n. 26889. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Attivazione tramite virus informatico della telecamera di apparecchio telefonico smartphone - Videoregistrazioni - Legittimità - Condizioni. Le videoriprese effettuate “da remoto”, mediante l’attivazione attraverso il c.d. virus informatico della telecamera di un apparecchio telefonico smartphone, possono ritenersi legittime quali prove atipiche ai sensi dell’art. 189 cod. proc. pen., salvo che siano effettuate all’interno di luoghi di privata dimora, e ferma la necessità di autorizzazione motivata dall’A.G. per le riprese che, pur non comportando una intrusione domiciliare, violino la riservatezza personale. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 26 giugno 2015 n. 27100. Spoleto (Pg): detenuto tenta il suicidio, viene salvato, ma rimane in coma perugiatoday.it, 11 marzo 2019 Adesso la famiglia vuole vederci chiaro: “era malato, ma non l’avrebbe mai fatto”. L’uomo era detenuto per evasione dalla Comunità Ceis di Spoleto Don Guerino Rota dove si trovava per le sue problematiche di salute e di dipendenza dalle sostanze alcoliche e stupefacenti dopo che era diventata definitiva la pena per una rapina commesso a Bastia Umbra nel 2016. L’uomo è affetto da schizofrenia grave paranoidea cronica sin da giovanissimo ed era stato in cura presso il Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria regionale del Molise e del Centro di Salute Mentale di Bastia Umbra. Un quadro clinico complicato dall’uso e abuso di sostanze alcooliche e stupefacenti, con l’indicazione di essere seguito in strutture di doppia diagnosi. Quando la compagna andava a trovarlo in carcere lo trovava qualche volta tranquillo, qualche volta meno, e speranzoso di poter uscire presto in affidamento in prova ai servizi sociali grazie alla sua presa in carico da parte del Centro di Sanità Mentale di Caserta. Le condizioni dell’uomo, quindi, risultavano stabili, soprattutto quando prendeva i farmaci. Anche se alla compagna diceva che non erano gli stessi di quando si trovava in comunità. Il 21 luglio del 2018, all’improvviso, la compagna e il difensore dell’uomo, l’avvocato Roberto Rossi, venivano contattati dal carcere con la notizia che l’uomo era ricoverato all’ospedale di Spoleto, per essere poi trasferito a Terni per le gravi condizioni in cui versava, dopo un tentativo di impiccagione. Gesto che era apparso subito strano in quanto l’uomo non aveva mai dimostrato intenti autolesionistici. Ed è per questo che i familiari avevano chiesto alla Procura di Spoleto di verificare con che cosa avesse tentato il suicidio, se c’erano testimoni e se la somministrazione di farmaci fosse stata regolare, oltre a verificare la compatibilità della permanenza in carcere dell’uomo con riferimento alla sua patologia. Dopo alcuni mesi il pubblico ministero ha notificato la richiesta di archiviazione ritenendo che “l’ attività di indagine richiesta dalla querelante, necessaria a fare chiarezza sulla vicenda, risulta essere stata integralmente svolta” e che “nella presente vicenda non sono ravvisabili condotte penalmente rilevanti, e che non devono essere svolte ulteriori attività di indagine”. La compagna e l’avvocato si oppongono sottolineando la stranezza del gesto per un uomo, per quanto malato, prossimo a lasciare i carcere. Adesso sarà il giudice per le indagini preliminari. Terni: detenuto morto per febbre, eseguita l’autopsia umbriaon.it, 11 marzo 2019 Ad occuparsi dell’esame, su incarico del pm, i dottori Grassi e Starnini. Allo stato risultano 42 professionisti indagati per omicidio colposo. È stata eseguita sabato pomeriggio ad Orvieto l’autopsia sulla salma del detenuto 74enne di origini siciliane - ristretto presso il carcere della Rupe per reati di stampo mafioso - deceduto domenica scorsa nel nosocomio orvietano. L’esame autoptico, alla presenza dei consulenti dei professionisti indagati, è stato eseguito dai medici legali Vincenzo Grassi e Giulio Starnini, incaricati dal pm titolare del fascicolo, Tullio Cicoria. In seguito alla morte del detenuto, affetto da problemi di salute e da una febbre che i sanitari che lo avevano avuto in cura - fra gli ospedali di Orvieto e Terni e del carcere orvietano - non erano riusciti a debellare, la procura di Terni ha iscritto nel registro degli indagati di ben 42 medici: un atto dovuto per procedere agli accertamenti. Un numero comunque imponente, quello dei professionisti che ora attendono di comprendere le determinazioni dell’autorità giudiziaria nel contesto dell’indagine appena avviata. Firenze: a Sollicciano sovraffollamento e igiene assente stamptoscana.it, 11 marzo 2019 Sono gli appartenenti al gruppo Progetto Firenze, che l’8 marzo si sono recati a Sollicciano formando una delegazione coordinata con il Partito Radicale, a fare il punto sull’altra Firenze, quella che vive a pochi chilometri, eppure invisibile. La delegazione era composta dagli attivisti di Progetto Firenze, Grazia Galli, Sandra Gesualdi, Massimo Lensi e Luca Maggiora (Segretario della Camera Penale di Firenze), e dai consiglieri comunali Donella Verdi e Tommaso Grassi del gruppo “Firenze riparte a Sinistra”. Le sezioni visitate dalla delegazione sono state le 2, 3, 6, 5, 8 del reparto giudiziario maschile, il centro medico, le sezioni giudiziaria e penale nel reparto femminile, oltre alla sezione ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale). Alla data della visita, la delegazione ha riscontrato la presenza di 757 persone in esecuzione di pena, di cui 657 uomini e 100 donne. La capienza regolamentare, senza contare le eventuali celle fuori servizio, è di 500 persone. L’indice di sovraffollamento è del 151 per cento. Circa il trasferimento del reparto femminile al vicino istituto Gozzini (Solliccianino), le voci che si sono rincorse negli ultimi mesi di un possibile trasferimento delle sezioni dei reparti femminili pur apparendo fondate, dicono dalla delegazione, “non è dato di sapere quando ciò avverrà”. La delegazione ha tuttavia potuto constatare che “questo progetto è considerato con favore da buona parte delle detenute attualmente recluse a Sollicciano”. Sempre a proposito delle problematiche femminili, la delegazione ha potuto constatare che nel nido interno al carcere, c’è la presenza di una detenuta madre con un bambino. Per quanto riguarda la nuova sezione per la tutela della salute mentale (Atsm), aperta il 21 febbraio scorso “al suo interno le celle sono quasi tutte singole. Al momento della visita della delegazione erano ristrette nel reparto 7 persone. Una di queste aveva una grossa ferita alla fronte, che, da quanto riferito dallo stesso e dagli agenti, si sarebbe procurato da solo sbattendo violentemente la testa contro le sbarre del blindo. Gli agenti riferiscono che episodi del genere sarebbero frequenti. Anche per il personale la situazione è disagevole: c’è una sola stanza destinata agli operatori psichiatrici, mentre l’agente di custodia ha una mezza scrivania appoggiata in corridoio”. All’interno della nuova sezione Atsm la delegazione ha potuto verificare la presenza di tre internati (persone ritenute incapaci di intendere e di volere, ma sottoposte a misure di sicurezza per pericolosità sociale) in attesa del trasferimento in Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), in violazione della legge che prevede per le persone internate il divieto di esecuzione della misura di sicurezza in carcere. Ed ecco la situazione “passeggi”: dei 13 passeggi presenti nelle sezioni maschili solo 6 sono agibili, 5 al penale e 1 al giudiziario; gli altri 7 sono chiusi. Sopra i passeggi sono state poste delle reti di protezione, che sono in gran parte piene di oggetti e rifiuti lanciati dagli stessi detenuti. Area trattamentale: dei 7 operatori previsti in organico, solo 3 sono attualmente in servizio. Altri 3 sono infortunati e uno si sta avviando alla pensione. Per quanto riguarda il lavoro, specificano dalla delegazione, “degli oltre 760 detenuti presenti solo 160 accedono al lavoro e per poche ore al giorno. Nonostante sia stato stabilito un finanziamento fisso per gli anni 2017-2019, quest’anno c’è stata una riduzione ulteriore del 10% dei fondi per la mercede. Anche in conseguenza di ciò la nuova cucina, che potrebbe finalmente entrare in funzione nel secondo semestre 2019, non sarà invece operativa perché non ci sono soldi per pagare i circa 10 lavoranti necessari”. Fra i progetti per il futuro, la delegazione segnala quello “di costruire un nuovo edificio vicino al campo sportivo del giudiziario, che sarebbe destinato a ospitare al piano terra un laboratorio manifatturiero, e al piano superiore un centro di formazione. Per quanto riguarda i problemi strutturali, sono sotto accusa in particolare quelli dell’impiantistica: “permangono i problemi all’impianto di riscaldamento, con aree surriscaldate e altre gelide. Nella sesta sezione una buona parte delle lampade a neon nel corridoio sono rotte e di notte gli agenti possono contare solo sulla luce proveniente dall’esterno”. I problemi igienici, fondamentali in un luogo sovraffollato come il carcere, sono destinati a essere non debellabili facilmente se permangono le condizioni presenti. “È stata operata una disinfestazione approfondita - sottolinea la delegazione - destinata a non durare per il perdurare del problema piccioni. Lo stato delle docce nelle sezioni maschili permane inaccettabile. Delle 4 presenti in ogni sezione ne funzionano al massimo 2, gli scarichi sono continuamente otturati e l’ambiente è malsano per il ristagno di umidità e la formazione di muffa”. Formazione, varie le criticità: attualmente, i corsi professionali sono solo per gli uomini. “Ampliarne il numero risulta difficile perché i bandi impongono un numero minimo di partecipanti piuttosto alto e restringono la partecipazione a quanti abbiano pene detentive di almeno 5 anni - spiegano dalla delegazione - per la stessa ragione non ci sono corsi di formazione al femminile, dove, oltretutto, eventuali progetti sono fermi in vista del progetto di trasferire tutte le donne al Gozzini. La possibilità per le donne di accedere ai corsi scolastici e di formazione fatti nella sezione maschile é stata sospesa in seguito ad alcuni casi “imbarazzanti”, tra cui quello di una detenuta rimasta incinta dopo un rapporto intercorso durante una sessione di esami. La biblioteca della sezione femminile è aperta per poche ore. Mancano libri adatti. C’è un progetto di istituire un accesso al prestito con la biblioteca dell’Isolotto”. La sfera delle relazioni affettive è in crisi: permangono i problemi di comunicazione con i familiari, è la denuncia della delegazione, in particolare per i detenuti stranieri. “La posta interna è stata sospesa e la comunicazione tra il femminile e il maschile può avvenire solo con il panneggio (sventolare i panni dalle finestre tra una sezione e l’altra)”. Bologna: “sovraffollamento nel carcere minorile”, la denuncia della Cgil teleromagna.it, 11 marzo 2019 La Funzione pubblica Cgil di Bologna torna non solo a denunciare il problema del sovraffollamento nell’Istituto penale minorile cittadino, del costante aumento del numero di ospiti - ormai 27, a fronte di una capienza prevista di 24 - e dell’inerzia nel far fronte alle reiterate richieste di allontanamento avanzate da alcuni di loro. Ma nel farlo la sigla sindacale rincara la dose, sottolineando come la situazione potrebbe essere risolta, o quantomeno mitigata, con lo spostamento dei detenuti in esubero nel secondo piano della struttura di via del Pratello, impossibile però a causa della carenza di organico Il secondo piano permetterebbe di raddoppiare i posti al momento disponibili, ma ormai la situazione emergenziale in cui si opera sta diventando la regola. “Non basta l’assegnazione dell’ennesimo Comandante provvisorio per garantire la funzionalità di un servizio così delicato”, spiega Fp Cgil. Che individua anche un altro elemento capace di aggravare le conseguenze che il sovraffollamento determina nella gestione dei minori. Napoli: se addirittura i vigili stanno alla larga dai “fortini” illegali di Antonio Mattone Il Mattino, 11 marzo 2019 Controllo del territorio. È la modalità con cui i clan malavitosi esercitano il loro potere criminale su di un quartiere. Ed è attraverso il controllo del territorio che gli eredi della paranza dei bambini di Emanuele Sibillo avevano il predominio nel Centro storico di Napoli. Almeno fino a sabato mattina, quando alcuni elementi di spicco del sodalizio sono stati assicurati alla giustizia dalle forze dell’ordine. Gli atti intimidatori contro le pizzerie di Gino Sorbillo e Salvatore Di Matteo molto probabilmente sono solo la punta dell’iceberg. Le attività commerciali della zona dei Decumani sono state da sempre sotto l’imposizione del racket. Ancor di più da quando, con l’incremento del flusso dei turisti, sono presumibilmente aumentati gli importi delle tangenti pretese. “Ci hanno spremuto come dei limoni”, ha detto in una frase captata durante una intercettazione uno dei soci della pizzeria Di Matteo. Chi non paga o tentenna viene convinto con modi drastici: una bomba o una raffica di proiettili all’ingresso del locale, come è accaduto per i due noti pizzaioli. Oppure si entra nel negozio, si abbassano le saracinesche e dopo aver fatto uscire i clienti vengono picchiati i titolari. Questo è il modo più convincente per farsi pagare. Come avvenne nel luglio 2015 ad alcuni artigiani di via Costantinopoli che vennero aggrediti e malmenati all’interno del loro negozio con pesanti mazze di ferro. Gli eredi della paranza dei bambini si sentivano invincibili e onnipotenti. Ordinavano pizze e panzarotti senza pagare il conto, affermando così con arroganza e violenza chi comandava. Nelle stradine adiacenti a Spaccanapoli sono state notate recentemente schiere di moto di grossa cilindrata che circolavano prepotenti con i motori a pieni giri. Scorribande rumorose ed inquietanti per rimarcare il predominio nel centro cittadino. Una egemonia che diventa palese con l’occupazione abusiva di case. Anche il business della droga è saldamente nelle mani dei clan. Un mercato che recentemente sta tornando in auge. I vicoli attorno a via Tribunali sono il terminale di smercio dove si possono procurare le dosi nel caos della movida dei turisti. Il controllo del territorio si esercita con grande efficacia ancor di più con la presenza dei parcheggiatori abusivi, un’occupazione quasi militare di strade e piazze nel cuore della città. Talvolta sono schierati come soldati, uno dopo l’altro senza lasciare un marciapiede per il libero parcheggio. Ci sono delle piazze che sono totalmente in mano agli abusivi senza che nessuno dei 1.700 vigili urbani in servizio in città osi avventurarsi all’interno di questi “fortini” dell’illegalità. Ma davvero non si può fare nulla per impedire questa supremazia arrogante e vessatoria? Si parla di un giro di affari che si aggira attorno ai 100 milioni di euro annui, che entrano nelle casse dei capoclan e che in parte vengono distribuiti tra i loro affiliati, rappresentando un vero e proprio welfare alternativo che sostiene numerose famiglie. Senza dimenticare che gli ingenti guadagni illeciti possono essere reinvestiti per acquisire quote o intere attività commerciali che vanno in difficoltà proprio per le richieste esose degli estorsori. Sappiamo che la paranza dei bambini è formata da numerosi giovani e immaginiamo che i recenti arresti non fermeranno le attività illecite del gruppo. Sia perché non tutti i protagonisti sono stati assicurati alla giustizia, ma anche perché c’è sempre un esercito di riserva pronto a subentrare. Chi ha conosciuto Emanuele Sibillo da piccolo lo ricorda come un ragazzo educato e rispettoso, a tratti piacevolmente ironico. Resta aperta la domanda di quali siano i percorsi tortuosi che portano un adolescente di un quartiere del centro cittadino al vertice di una efferata organizzazione criminale. Ed urge trovare risposte perché altri giovani non intraprendano la stessa strada. L’opera meritoria delle forze dell’ordine non basta per debellare la criminalità giovanile. Questo fenomeno va affrontato alla radice. C’è bisogno di contrapporre alle milizie camorriste un esercito di assistenti sociali, di educatori, di “navigator sociali” potremo dire con un termine oggi di moda. Una “batteria di fuoco” che intercetti quelle famiglie disagiate che vivono un grande malessere sociale. Purtroppo non mi sembra siano in molti a volersi impegnare in questa battaglia decisiva per il futuro di Napoli. Cosenza: “Legal clinic”, apprendere il diritto con gli sportelli giuridici in carcere Corriere della Calabria, 11 marzo 2019 La facoltà di Giurisprudenza dell’Unical mette in campo la Prima esperienza di sportello legale negli istituti penitenziali della provincia di Cosenza Apprendere il diritto sul campo, praticando in luoghi, finora, inaccessibili agli studenti: anche a Cosenza nasce uno sportello legale negli istituti penitenziari della provincia. Si tratta di una prima esperienza di “legal clinic” per detenuti, promossa dal Corso di laurea di Giurisprudenza dell’Università della Calabria di concerto con l’Amministrazione penitenziaria e che potrà integrarsi con le altre iniziative che l’Ateneo sta mettendo in campo attraverso il Polo universitario penitenziario. In giorni stabiliti, un gruppo di studenti, selezionati con bando pubblico, offriranno informazioni ai detenuti su questioni legali, così applicando la teoria appresa nelle aule universitarie a casi concreti. Le attività della clinica legale rientrano in un più ampio progetto di tirocinio formativo facoltativo, che darà l’opportunità agli studenti di conoscere il funzionamento degli istituti di pena. L’obiettivo è quello di fornire assistenza e supporto legale al popolazione carceraria: dai ristretti potranno essere proposti quesiti giuridici, riguardanti, solo ad esempio, le misure alternative, i benefici premiali e le loro applicazioni. Gli studenti, coordinati dal professore Mario Caterini, docente di Diritto penale nell’Università della Calabria, saranno così chiamati a risolvere le questioni che toccano la “carne viva” di persone spesse volte emarginate. Gli incontri tra studenti e ristretti saranno orientati anche al confronto sui temi della legalità e della condizione di privazione della libertà. “Credo che ogni studente di giurisprudenza dovrebbe visitare un carcere. Ormai da anni lo faccio fare ai miei corsisti negli istituti di Cosenza, Paola, Castrovillari, Rossano e Catanzaro - spiega il professor Caterini - È necessaria una particolare autorizzazione ministeriale che consente di accedere alle sezioni, non semplicemente negli spazi comuni, ed è un’esperienza “forte” che pochi possono fare, neanche gli avvocati nei colloqui con i loro assistiti. Molti studenti, dopo queste visite, mutano la visione che avevano del carcere. Il tirocinio volontario si inserisce in questa idea di avvicinare il mondo dei liberi a quello dei ristretti, così svolgendo anche la cosiddetta terza missione dell’Università, ossia l’apertura verso il contesto sociale mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze. È un’occasione per gli studenti di “praticare” il diritto già sui banchi dell’Università in una di quelle circostanze più delicate: la condizione di detenuto. Sono fiducioso che gli studenti usciranno arricchiti da questo impegno, sia umanamente, sia culturalmente. È un’attività che non assorbe risorse economiche e spero si possa replicare in futuro trovando altre adesioni”. Violenza sulle donne, ignoriamo gli insulti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 11 marzo 2019 Le donne violentate, le vittime dello stupratore di colore o quelle dello stupratore bianco, spariscono, diventate oggetto passivo della rissa permanente tra bande che aspettano l’occasione propizia per scambiarsi mazzate. Da un po’ di tempo a questa parte, quando le cronache riferiscono dell’ennesimo stupro patito da una donna, va immancabilmente in scena in Italia il derby squallido giocato di chi non aspetta altro che l’identikit etnico-razziale dello stupratore, o del branco degli stupratori, per imbastire la solita, miserabile polemicuccia politica sul corpo delle vere vittime, mute, sconvolte, umiliate. Questa gara grottesca segue sempre l’identico canovaccio, un canovaccio che non prevede la benché minima attenzione solidale e partecipe per la sorte amara della donna stuprata ma va dritto allo scopo della speculazione politica, ostentata da ambedue i fronti con eguale, un po’ vomitevole, cinismo. Se lo stupratore è nero di pelle, immigrato possibilmente clandestino ma anche regolare può sempre venire utile, allora si scatena la canea degli italianissimi, anzi del “prima gli italianissimi”: ecco gli invasori che violentano le nostre donne (bianche), ecco la prova che l’accoglienza è un suicidio, ecco a cosa ci porta il buonismo, e via abbaiando. Se invece lo stupratore, o il branco degli stupratori come è accaduto la settimana scorsa sulla Circumvesuviana, è italiano e bianco, si alza il coro stonato degli sfaccendati di Twitter di segno contrario: ecco la prova che gli italiani sono peggio dei migranti, ecco un duro colpo per i razzisti che odiano i neri, ecco il boomerang per i nemici dell’accoglienza e via sbraitando. E le donne violentate, le vittime dello stupratore di colore o quelle dello stupratore bianco? Spariscono, diventate oggetto passivo della rissa permanente tra bande che aspettano l’occasione propizia per scambiarsi mazzate. Bande non formate solo da anonimi odiatori, dal popolo dei violenti del pestaggio social, ma anche da accreditati ed accreditate esponenti della politica, da opinion makers invasati, da persone che hanno un ruolo pubblico e che non esitano a rendere pubblica la parte peggiore di sé, fanatica, ferocemente aggressiva. E soprattutto disposte a passare sopra come carri armati sulla sensibilità delle donne crudelmente ferite pur di far parte della sassaiola permanente in cui si è ridotta in Italia la battaglia politica. Inutile l’appello a tacere: è più forte di loro, gli energumeni non possono fare a meno di picchiare. Ma l’appello a non dar loro retta, questo si può. Non stateli più a sentire. Il mercato delle prigioni private negli Stati Uniti ilpost.it, 11 marzo 2019 Il modello delle aziende che gestiscono o possiedono carceri esiste da trent’anni ed è in continua espansione, anche oggi. L’intransigenza dell’amministrazione di Donald Trump sui migranti irregolari e l’antica politica statunitense delle incarcerazioni di massa sono un’occasione economicamente molto vantaggiosa per le aziende che gestiscono o possiedono carceri private negli Stati Uniti. Il Wall Street Journal, partendo dalle difficoltà e dal sovraffollamento delle strutture di detenzione federali - e dunque gestite dal governo - ha raccontato come negli ultimi tempi sia cresciuto un modello, nato trent’anni fa, basato sempre di più sull’appalto delle carceri a operatori e investitori privati e specializzati. L’inizio della privatizzazione - La fortuna delle imprese private nelle prigioni degli Stati Uniti iniziò negli anni Ottanta quando, nel contesto della cosiddetta “guerra alla droga”, l’allora presidente Ronald Reagan firmò l’Anti-Drug Abuse Act instaurando pene molto severe per crimini non violenti ma legati alla droga, e causando un aumento improvviso della popolazione carceraria degli Stati Uniti (in particolare di quella di origine afro-americana). La tendenza subì un’ulteriore accelerazione negli anni Novanta, quando sotto la presidenza democratica di Bill Clinton venne firmato il Violent Crime Control and Law Enforcement Act, che interveniva in modo nuovamente restrittivo su reati non violenti e detenzioni legate alla droga. Da lì in poi il fenomeno dell’incarcerazione di massa raggiunse dimensioni tali che se nel 1980 le persone detenute erano circa 660 mila, oggi sono più due milioni (nel 2013 un quarto della popolazione carceraria mondiale era negli Stati Uniti). Le persone detenute sono in gran parte afroamericane: ci sono città dove un adulto nero su due è o è stato in carcere. Le risposte al problema del sovraffollamento causato dalle politiche attuate e del conseguente aumento dei costi di gestione portarono da subito a far crescere la privatizzazione carceraria, sia nella gestione di strutture prima amministrate dagli stati, sia nella costruzione e nella gestione di nuove strutture, sia nella fornitura di servizi all’interno delle prigioni, per esempio quelli medico-sanitari. La prima azienda a ottenere un contratto per la gestione di un carcere fu la CoreCivic, nel 1983. L’anno dopo toccò a GEO Group, una società della Florida, che oggi lavora anche nel Regno Unito, in Australia e in Sudafrica. CoreCivic e Geo Group - CoreCivic, ex Corrections Corporation of America (CCA), e Geo Group sono le due principali società che oggi controllano il mercato delle carceri private. Entrambe sono quotate in borsa e sono affiancate da altri circa 3 mila operatori privati più piccoli: non si occupano solo della gestione diretta delle prigioni ma anche dei fornitori, delle imprese in cui i detenuti lavorano, gestiscono programmi di riabilitazione, di monitoraggio elettronico e sono proprietarie di edifici in cui hanno sede degli uffici governativi. A differenza della maggior parte delle altre imprese, il cui andamento è strettamente legato alla crescita economica del paese, spiega il Wall Street Journal, i gruppi carcerari del settore privato possono guadagnare anche durante un rallentamento economico. Ma dipendono, molto più che altri settori, dai cambiamenti legislativi o esecutivi. Nel 2016, per esempio, la viceprocuratrice generale dell’amministrazione Obama, Sally Yates, presentò un memorandum al Dipartimento di Giustizia in cui chiedeva ai funzionari responsabili di non rinnovare i contratti con i gestori delle carceri private, proprio per cercare di limitare questo modello (che, come vedremo, pone molti problemi). I prezzi delle azioni delle compagnie carcerarie private crollarono di oltre il 35 per cento. Poi è arrivato Trump, che già in campagna elettorale aveva parlato del malfunzionamento del sistema carcerario del paese e dei meriti del settore privato. Subito dopo le elezioni presidenziali il nuovo ministro della Giustizia, Jeff Sessions, aveva annullato le linee guida del suo predecessore sulla riduzione del modello privato. Negli ultimi due anni CoreCivic e Geo Group - che per le elezioni del 2016 hanno speso più di 5 milioni di dollari in attività di lobbying e finanziamento delle campagne elettorali - hanno firmato nuovi contratti di appalto con il governo e hanno chiuso il 2017 con un fatturato complessivo da 4 miliardi di dollari. Il giorno dopo la vittoria di Trump le azioni della CoreCivic sono aumentate di valore del 43 per cento; quelle di GEO Group del 21 per cento. Secondo una ricerca pubblicata nell’aprile del 2018 dall’associazione no profit Urban Justice Center, più della metà degli 80 miliardi di dollari spesi dal governo statunitense ogni anno per il sistema carcerario è utilizzata per pagare le società private. Secondo un altro studio, dal 1999 al 2015 il numero delle persone detenute nelle carceri private degli Stati Uniti è passato da circa 69 mila a più di 126 mila. Quando lo scorso dicembre, tra le altre cose, il nuovo presidente degli Stati Uniti ha firmato il First Step Act, un’attesa riforma del sistema carcerario per ridurre l’uso di pene detentive per reati non violenti, CoreCivic e GEO Group lo hanno sostenuto per ridurre la recidiva e hanno nel frattempo cercato di diversificare le loro attività, investendo centinaia di milioni di dollari per costruire una rete di centri di riabilitazione e aiutare le persone ad acquisire competenze per il “rientro in società”. Il mercato della detenzione dei migranti - Nell’anno fiscale 2018 che si è concluso lo scorso 30 settembre, nei centri di detenzione dell’ICE (lo United States Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione) sono state registrate 396.448 persone, con un aumento del 22,5 per cento rispetto all’anno precedente. Tra ottobre e gennaio le persone intercettate lungo il confine sud-occidentale sono salite a 201.497, in aumento di un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno procedente. Questi numeri, associati alle politiche di Trump, si traducono in nuove occasioni d’affari per i gestori di carceri del settore privato e per società come CoreCivic e Geo Group, che negli ultimi due anni hanno firmato nuovi contratti di appalto proprio con l’ICE. A settembre GEO Group ha completato una struttura da 1.000 posti letto a Montgomery, in Texas, che secondo le stime della stessa Geo genererà 44 milioni di dollari l’anno. Ha poi ottenuto il rinnovo di un contratto per un centro di detenzione a Big Springs, sempre in Texas, dove in dieci anni la Geo prevede di incassare 664 milioni di dollari. ICE fornisce a GEO Group un quinto delle proprio entrate, dice il Wall Street Journal. Anche CoreCivic, lo scorso anno, ha firmato nuovi contratti con agenzie governative per nuove strutture in Mississippi e Arizona. E attualmente sta espandendo anche un centro di detenzione in California. Il giro di affari con l’ICE rappresenta un quarto delle entrate di CoreCivic. Gli ultimi dati disponibili sulla distribuzione delle persone migranti detenute tra strutture private e pubbliche sono del novembre 2017. E la percentuale dei migranti in custodia presso strutture private è pari al 72 per cento. Ma nella gestione dei migranti e dei richiedenti asilo sono coinvolte anche molte altre società private. Lo U.S. Customs and Border Protection, la maggiore agenzia di forze dell’ordine che si occupa della sicurezza delle frontiere e che dipende dal Dipartimento della sicurezza interna statunitense, opera direttamente sui confini, ma ha accordi con diversi appaltatori per svolgere altri compiti come il trasporto e la sorveglianza delle persone in custodia o il controllo del traffico aereo. I problemi - Per contenere i costi, nelle cosiddette “prigioni a scopo di lucro” la tendenza è tagliare i costi piuttosto che investire sulla qualità dei servizi. Questo risulta grave soprattutto quando si tratta di servizi che hanno a che fare con la salute dei detenuti. Diversi articoli e indagini giornalistiche hanno descritto, nel tempo, l’assunzione di personale non qualificato nelle prigioni private, il cibo scadente, i programmi di riabilitazione praticamente inesistenti, il trattamento dei detenuti a volte brutale. Ci sono state diverse inchieste anche sulle imprese legate alle società di gestione privata delle carceri che si avvalgono del lavoro dei detenuti a basso costo: “Non devono preoccuparsi degli scioperi o di pagare i sussidi di disoccupazione, dei periodi di vacanza o degli straordinari. Tutti i loro lavoratori sono a tempo pieno, non arrivano mai in ritardo e non sono assenti a causa di problemi familiari; inoltre, se non gradiscono lo stipendio di 25 centesimi l’ora e si rifiutano di lavorare, vengono rinchiusi nelle celle di isolamento”. In un editoriale del 2017, il New York Times aveva paragonato il mercato delle prigioni a un parassita che si nutre dell’incarcerazione di massa. Repressione: il registro del regime iraniano di Jean-Pierre Perrin* Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2019 Repubblica Islamica. Trent’anni di arresti e omicidi nell’area di Teheran. Nel documento riservato del ministero della Giustizia 1,7 milioni di procedimenti contro dissidenti politici, religiosi e giornalisti. Un registro confidenziale della giustizia iraniana, reso noto da “informatori” locali, ha rivelato il numero totale degli arresti effettuati in trent’anni nell’area di Teheran, rappresentando una testimonianza della repressione importante portata avanti soprattutto contro gli oppositori politici del regime. La Repubblica islamica d’Iran ha conosciuto quattro ondate di repressione. La prima all’inizio degli anni 80, dopo il trionfo della Rivoluzione e in particolare dopo la caduta del governo islamico-liberale di Abolhassan Bani Sadr, da cui è scaturita una vasta campagna d’epurazione. La seconda nel 1988, quando 4 mila prigionieri, essenzialmente mujaheddin de popolo (una formazione armata islamico- leninista) e militanti di sinistra, furono giustiziati a luglio, agosto e settembre nelle prigioni, provocando un scisma all’interno del regime: l’ayatollah Hossein-Ali Montazeri, erede designato di Khomeini, denunciò questa politica, ma il gesto gli fece perdere il titolo di “promessa dell’imam”, come si diceva nella più bella lingua persiana. La terza fu negli anni 2009-2010, durante e dopo la “rivoluzione verde”, la grande sollevazione popolare che seguì la rielezione, segnata dalle frodi di massa, di Mahmud Ahmadinejad. L’ultima ondata di repressioni si è verificata al momento dei moti dell’inverno 2017-2018 che coinvolsero più di un centinaio di città: quattro manifestanti uccisi e circa 7 mila arresti, secondo il bilancio di Amnesty International. Tra le ombre e il silenzio dell’occidente A di là di questi episodi spettacolari, la repressione in Iran resta poco visibile. E questo per una moltitudine di ragioni: la volontà del regime di occultarla, l’assenza flagrante di organizzazioni iraniane d’opposizione che siano un minimo credibili, una diaspora iraniana ampiamente egocentrica, il silenzio dei paesi occidentali per non infastidire i dirigenti del regime iraniano favorevoli all’apertura, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani prima e Mohammad Khatami poi. Eppure, anche durante i mandati di questi due presidenti pragmatici o riformatori, la repressione, anche extragiudiziaria, era presente. Almeno quattro intellettuali furono assassinati sotto Khatami. Secondo il giornalista riformatore Akbar Ganji, Rafsanjani, di cui oggi in Iran si celebra più che volentieri la memoria per la sua volontà moderatrice, fu persino “l’eminenza grigia” di una serie di esecuzioni di intellettuali e oppositori, rivelazioni che costarono al giornalista un lungo periodo di detenzione. Poiché la repressione quotidiana in Iran è poco visibile, essa resta poco documentata. Il registro segreto delle detenzioni Oggi lo è un po’ di più grazie agli informatori iraniani che sono riusciti a ottenere un registro segreto del ministero della Giustizia iraniano, in cui sono indicati in dettaglio tutti gli arresti, le detenzioni e le esecuzioni per la sola area di Teheran tra il 1979 e il 2009. In questo registro, che Reporter senza Frontiere (Rsf) ha potuto consultare, sono registrate circa 1,7 milioni di procedure. Per ogni persona è indicata la matricola e si precisano il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso, la nazionalità, l’eventuale data dell’arresto e le autorità giudiziarie responsabili della procedura. Spesso sono indicati anche i capi d’accusa, la camera del tribunale, la data del giudizio e la condanna. Invece non è indicato lo statuto dell’imputato, né la sua funzione. Non si sa dunque se si tratta di un reato comune o di un delitto di opinione, come nel caso, per esempio, di un giornalista: cosa che permette al regime di affermare che non esistono detenuti politici o dissidenti religiosi in Iran. Le esecuzioni della minoranza “eretica” Se è dunque noto che i bahá’í, seguaci di una credenza religiosa molto minoritaria nata in Iran nel XIX secolo e considerata eretica, sono nel mirino del regime, il registro rivela per la prima volta la portata della persecuzione da loro subita. Almeno 5.760 bahá’í sono stati arrestati, imprigionati e in alcuni casi giustiziati, sempre nella regione di Teheran nello stesso periodo. “Per quarant’anni, il regime ha negato i fatti, affermando che se i bahá’í si trovavano in prigione non era a causa della loro religione ma delle loro attività ‘antinazionali’ o per ‘propaganda’. Ma nel registro si vede chiaramente che sono stati arrestati per il solo fatto che sono bahá’í. Poi il tribunale inventa delle accuse per nascondere la verità e così, nelle riunioni internazionali, la Repubblica islamica può annunciare che nessuno in Iran è in prigione per ragioni religiose”, insiste Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003 e premio Sakharov nel 2012, che ha lei stessa difeso, in quanto avvocato, sette fedeli di questa confessione ed è presidente del Comitato per l’osservazione e l’utilizzazione dei dati sulla giustizia iraniani, creato di recente su iniziativa di Rsf. Membro di questo comitato, Monireh Baradam, ex prigioniera politica negli anni 80 e autrice di diversi volumi sulla giustizia iraniana, ha trovato il suo nome nel registro. “Invece il regime aveva sempre negato la mia testimonianza. È un documento molto importante - ha spiegato -. Vi figurano molte persone che sono state imprigionate ma i cui nomi finora non comparivano da nessuna parte”. Iraj Mesdaghi, anche lui ex prigioniero politico, è dello stesso parere: “È un registro completo. Vi ho trovato decine di nomi di persone che conoscevo personalmente”. Migliaia di manifestanti finiti in prigione Sui fatti del 2009, il documento indica che 6.048 persone sono state arrestate per aver partecipato alle manifestazioni, un numero che era stato impossibile stabilire finora perché il regime ha sempre negato di aver fermato dei manifestanti. Sono presenti anche informazioni sui 61.940 prigionieri politici che contava la regione di Teheran tra il 1979 e il 2009, in particolare la loro età: di questi, 520 avevano tra i 15 e i 18 anni al momento dell’arresto. Sul libro nero quattro giornalisti assassinati Riguardo ai giornalisti iraniani, sono stati registrati almeno 860 nomi di giornalisti arrestati, imprigionati o in alcuni casi giustiziati (figurano quattro nomi tra i decessi), sempre per la sola area di Teheran e lo stesso periodo. Di questi, 57 sono stati arrestati con accuse particolarmente gravi: “spionaggio”, “collaborazione con lo straniero”, “azione contro la sicurezza interna”, “insulti contro la guida suprema” o “insulti contro il sacro e l’islam”. Sulle 218 donne giornaliste arrestate, si può constatare che alcune di loro sono state vittime di un vero e proprio accanimento giudiziario. Come nel caso di Jila Banu Yaghoob, militante per i diritti delle donne molto nota e responsabile del sito Kanoon Zanan Iran (Centro delle donne iraniane). Questo accanimento è andato avanti anche dopo il 2009. Nel 2010, la militante è stata di nuovo condannata a un anno di prigione e 30 anni di interdizione all’attività professionale da un tribunale di Teheran con l’accusa di “propaganda” contro il sistema e “insulti al presidente”. Picchiata e uccisa perché fotografava i detenuti Nel registro figura anche il nome di Zahra Kazemi, una giornalista iraniana-canadese, arrestata il 23 giugno 2003 mentre fotografava dei detenuti davanti alla prigione di Evin, picchiata durante il fermo e morta per le ferite riportate, il 10 luglio. Reso pubblico alcuni giorni dopo, il rapporto d’inchiesta non precisava le cause del decesso. Il registro non fornisce nessun’altra informazione su di lei, ma si scopre che la data del suo arresto è stata modificata di una settimana e che, stranamente, il nome riappare sei mesi dopo la sua morte nello stesso registro con un’altra matricola e l’accusa di “azione contro la sicurezza nazionale”. Con questo registro, Shirin Ebadi e Reporter senza Frontiere hanno presentato un ricorso all’attuale alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet. Ma il documento, per quanto riveli la portata della repressione in Iran, rischia di presentare ancora troppe lacune per servire come base per l’apertura di una procedura speciale. *Traduzione di Luana De Micco Russia. “Internet resti libera”, in 15mila contro Putin di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 11 marzo 2019 Quella che una volta si chiamava intelligenzija ha manifestato ieri a Mosca e in alcune altre città contro la nuova legge che mira a creare una Internet russa per proteggere il Paese da eventuali cyber-attacchi esteri. Ma che in realtà, secondo i quindicimila scesi in piazza nella capitale e gli altri oppositori di Vladimir Putin, tenderebbe a mettere totalmente sotto il controllo delle autorità il web nazionale. Una specie di Grande muraglia cinese. O, secondo alcuni, addirittura una cortina di ferro informatica. Come da molto tempo accade, sono una minoranza i russi che si oppongono alla politica del Cremlino, almeno sui temi delle libertà individuali e dei diritti civili. Diverso il discorso quando si passa a questioni legate al benessere dei cittadini, come i tagli alle pensioni o il carovita. L’innalzamento dell’età per andare in pensione ha fatto calare (dall’86 al 64%) la popolarità di Putin. Ma i leader dell’opposizione politica non riescono a cavalcare le proteste spontanee e a governarle a fini politici. Così per “Internet libera” sono pochi quelli che hanno deciso di uscire di casa per far sentire la loro voce. Anche se il problema finirà per toccare direttamente milioni di persone che potrebbero vedere limitato il loro accesso a server e siti stranieri. Il provvedimento è ancora in discussione alla Duma, la Camera bassa, che dovrà votarlo altre due volte. Poi andrà al Consiglio della federazione e quindi dovrà essere firmato dal presidente. Ma non è solo da questi giorni che gli oppositori della norma sono in agitazione. Lo Stato ha infatti iniziato da tempo a stringere le maglie di Internet, imponendo a tutte le società che operano nel settore di tenere i loro server in Russia e di consentire ai servizi segreti l’accesso a tutti i dati. Ecco ora la nuova legge che potrebbe portare anche alla creazione di un sistema autonomo di domini (al posto dei vari .com, .org o .ru gestiti all’estero) nelle mani delle autorità statali. Naturalmente qualsiasi contenuto ritenuto “non ammissibile” potrebbe essere bloccato. Diventerà così difficilissimo, se non impossibile, collegarsi dalla Russia ad alcuni social media, come il famigerato Telegram che il governo ha tentato invano, fino ad ora, di neutralizzare. Turchia. Il rapporto Ue boccia Erdogan: “Ignorati diritti fondamentali” di Marta Ottaviani La Stampa, 11 marzo 2019 Strasburgo si prepara a bacchettare Ankara. Questa settimana, già oggi o domani, l’Europarlamento voterà una mozione per sospendere i negoziati di adesione con la Turchia. Gli eurodeputati voteranno la bozza del rapporto annuale, preparato da Kati Piri, membro della commissione Affari Esteri e che segue da vicino i progressi, in questo caso i regressi, della Mezzaluna. La mozione è già stata approvata con una maggioranza schiacciante dalla Commissione ed è certo che supererà senza problemi anche il test dell’Assemblea plenaria. Come tutte le votazioni di questo tipo, non ha valore vincolante per la Commissione europea. Ma lancia un messaggio politico molto chiaro, che per giunta arriva a poco più di due mesi dal voto per il rinnovo del Parlamento europeo di maggio. Sono anni che nei rapporti annuali sul Paese, la Turchia viene bocciata, soprattutto per quanto riguarda la situazione dei diritti umani. Ma, stavolta, il documento è ancora più severo. Gli osservatori europei ritengono che i diritti fondamentali e il rispetto della legge nel Paese siano sempre più ignorati. Nonostante la fine dello Stato di emergenza, implementato dopo il fallito golpe del luglio 2016 e terminato dopo ben due anni, alcuni organi continuano a operare indisturbati nella limitazione della libertà altrui, incuranti delle norme. Il report per la prima volta si sofferma anche sull’utilizzo della Diyanet, l’Autorità per gli Affari Religiosi, e dei servizi segreti per fare pressione ai sospetti appartenenti al network di Fethullah Gülen, sospettato di essere l’ideatore del fallito golpe, che vivono sul territorio europeo. Nel mirino anche le operazioni dell’intelligence turca per arrestare sospetti gulenisti in Paesi terzi. Due giornalisti tedeschi rimpatriati Ci sono poi le questioni aperte alle quali Ankara ha abituato la Ue ormai da anni. Il rispetto delle minoranze, gli arresti per presunte attività terroristiche che continuano ad andare avanti a quasi tre anni dal fallito golpe, gli oltre 300mila passaporti ritirati e che impediscono a nuclei familiari interi di espatriare. Il quadro potrebbe essere ancora più fosco. Un’inchiesta del quotidiano di opposizione Cumhuriyet ha rivelato che le persone coinvolte nelle indagini post golpe sono oltre 500 mila, spesso senza prove sufficienti. Le persone in carcere sono circa 50 mila, molte di queste ancora in attesa di processo. Ieri hanno lasciato la Turchia i due giornalisti tedeschi a cui non è stato rinnovato l’accredito. L’ambasciata turca a Berlino aveva chiesto alle testate per cui lavoravano i due reporter di cambiare il corrispondente. Dopo il loro rifiuto, è scattato il ritiro della tessera stampa. Venezuela in ginocchio per il blackout. Rubio: “Ottanta bimbi morti in un ospedale” La Repubblica, 11 marzo 2019 Il Paese è in piena emergenza. Il governo chiude scuole e uffici. Il leader dell’opposizione Guaidò chiede lo stato di emergenza. Il senatore Usa parla di una strage a Maracaibo. Ottanta bimbi morti in nel reparto neonatale di un ospedale paralizzato dal blackout in Venezuela. È la notizia shock twittata dal senatore repubblicano Marco Rubio, mentre da Caracas il governo Maduro annuncia la decisione di chiudere scuole e uffici e il leader dell’opposizione Juan Guaidò quella di chiedere lo stato emergenza in un paese ormai a pezzi. Ottanta bimbi morti in nel reparto neonatale di un ospedale paralizzato dal blackout in Venezuela. È la notizia shock twittata dal senatore repubblicano Marco Rubio, mentre da Caracas il governo Maduro annuncia la decisione di chiudere scuole e uffici e il leader dell’opposizione Juan Guaidò quella di chiedere lo stato emergenza in un paese ormai a pezzi. A quasi 72 ore dall’inizio del più grande blackout della storia, il Venezuela è in ginocchio, completamente bloccato, senza mezzi di trasporto e provviste. Ma le notizie più drammatiche arrivano proprio dagli ospedali, che non possono utilizzare i macchinari salvavita. “Secondo alcune informazioni almeno 80 sono i morti nel reparto neonatale dell’ospedale universitario di Maracaibo, Zulia, da quando è iniziato il blackout giovedì”, twitta Rubio, postando la notizia della tv venezuelana VPItv. E aggiunge: “se ingenti aiuti non saranno consegnati presto, il timore è che ci sarà una catastrofe senza precedenti”. Timore condiviso da Guaidò che ha deciso di chiedere al Parlamento di dichiarare lo Stato di emergenza nazionale e ha fornito una serie di dati in grado di delineare plasticamente la drammatica situazione nel paese: il blackout continua a lasciare al buio completo 16 stati del Venezuela, mentre altri sei hanno solo parzialmente l’energia elettrica. La totale assenza di elettricità è costato finora al settore privato, in un paese già economicamente in ginocchio, 400 milioni di dollari. Una situazione insostenibile che non sembra però preoccupare Nicolas Maduro e i suoi, che continuano a postare tweet rassicuranti, pur correndo ai ripari. “Il governo bolivariano ha deciso di sospendere le lezioni e le attività lavorative lunedì 11 marzo - ha scritto il ministro della Comunicazione Jorge Rodriguez - per sconfiggere, con la forza della verità e della vita il brutale attacco terroristico contro il popolo. Insieme vinceremo”. E poco dopo ha twittato Maduro, postando un video che lo riprende tranquillo e sicuro di sé mentre dà indicazioni ai governatori e li invita a mantenere la calma. “Continuiamo a lavorare per recuperare il sistema elettrico nazionale”, scrive, assicurando che “la macabra strategia di portarci ad uno scontro fallirà. Vinceremo!”.