Autonomie e legittima difesa, nuovi duelli sono in arrivo di Gaetano Mineo Il Tempo, 10 marzo 2019 Il governo gialloverde è sempre più prigioniero di se stesso. Lega e M5s continuano a sopravvivere grazie a incessanti compromessi politici. Un pericoloso gioco al rialzo che rischia di sfuggire di mano agli stessi giocatori. Il “soprassedere” alla Tav che il premier, Giuseppe Conte, ha appena tirato fuori dal cilindro, n’è l’ennesima testimonianza. Ma congelata l’opera della discordia, i duelli gialloverdi continuano sui terreni delle Autonomie regionali, legittima difesa, droghe, negozi e Venezuela, per citare i dossier più noti. Proprio sulle Autonomie, è toccato sempre allo stesso Conte annunciare che il governo intende coinvolgere “prima dell’intesa definitiva, le commissioni parlamentari competenti in modo da offrire al Parlamento, dopo l’intesa con i governatori, un testo che già conosce”. La mossa di Palazzo Chigi è quasi obbligata dopo gli scontri accesi tra leghisti e pentastellati su questa riforma tanto cara al Carroccio, qual è quella delle Autonomie. Il ministro competente, Erika Stefani, più volte ha ricordato al vice premier, Luigi Di Maio, che “che questo governo si basa su un contratto e che le autonomie sono in quel contratto, il nostro obiettivo è chiudere con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna prima delle Europee”. Di Maio, dal canto suo, ha sempre replicato che “noi sosteniamo l’autonomia ma non lo spacca-Italia” e che quindi, “il percorso non sarà breve”. Come dire, un modo per non decidere. Un fatto è certo, nonostante i rinvii, prima poi la Lega chiederà di arrivare al dunque e il M5s, che ha la sua roccaforte elettorale al Sud, teme fortemente. Altra bandiera del Carroccio è la legittima difesa. Il provvedimento è stato votato anche dal Movimento 5 stelle ma i mal di pancia tra i pentastellati non sono mancati. Emendamenti presentati (poi ritirati) al Senato per modificare la norma, poi il via libera. Ma alla Camera, i leghisti hanno accusato “uno sgambetto” dei colleghi di governo. Fatto che ha rispedito a Palazzo Madama il provvedimento. Lo scontro continua anche sulle droghe. Il M5s ha depositato una proposta di legge per legalizzare la coltivazione e la detenzione della marijuana e punta a farla passare anche con i voti di sinistra, Pd & C. Quanto basta per far saltare in aria la Lega: “Non se ne parla neppure”. E così un altro dossier va in stand by. Come quello del provvedimento dei “negozi chiusi la domenica”. I due soci di maggioranza dell’esecutivo Conte avevano promesso di rivedere la norma, tornando alle vecchie regole che con certe eccezioni imponevano ai negozi la chiusura domenicale, nei giorni di festa e per mezza giornata aggiuntiva ogni settimana. Risultato: le categorie e i piccoli commercianti si sono ribellati, bussando principalmente alle porte del Carroccio, spesso loro partito di riferimento. A oggi, tutto bloccato. Anche sulla politica estera, infine, litigano Lega e M5s. Da un lato c’è il Carroccio che senza mezzi termini ha più volte bocciato il governo Maduro; dall’altro il M5s, che come in tanti altre questioni, non si sa da che parte sta. Trattativa Stato-mafia, la copia fantasma delle telefonate distrutte di Giorgio Napolitano di Attilio Bolzoni La Repubblica, 10 marzo 2019 Nel libro di Attilio Bolzoni “Il Padrino dell’Antimafia” la storia di Antonello Montante e degli intrighi intorno alle conversazioni tra l’ex capo dello Stato e l’ex ministro Nicola Mancino. L’ultimo libro di Attilio Bolzoni ha per titolo “Il Padrino dell’Antimafia” e racconta la storia di Antonello Montante, un siciliano “nel cuore” di un boss di Cosa Nostra che dopo qualche anno diventa misteriosamente un simbolo italiano della Legalità. Sarà in libreria dal 15 marzo per “Zolfo Editore”, nuovo marchio milanese che inaugura così le sue pubblicazioni. Anticipiamo uno stralcio del capitolo dove affiora una macchinazione intorno alle telefonate fra l’ex presidente Napolitano e l’ex ministro Mancino, quelle quattro conversazioni agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia che la Corte Costituzionale aveva ordinato di distruggere. Perché un colonnello dei servizi segreti è sempre in ansia per quelle conversazioni fra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano? Solo perché qualcuno, il ministero della Giustizia, ha deciso di avviare un’indagine per accertare se ci sia una copia proibita delle quattro telefonate intercettate che circola ancora per l’Italia? O forse perché, il colonnello, sa dove sono finite? È l’intrigo nell’intrigo intorno ad Antonello Montante: le telefonate del Presidente. Ufficialmente vengono distrutte il 22 aprile del 2013, nell’antico carcere dell’Ucciardone. Ma c’è il sospetto, il forte sospetto, che una riproduzione delle intercettazioni possa essere scivolata nelle mani di Montante. Forse custodita nelle pen drive frantumate da lui stesso il giorno del suo arresto nell’appartamento di Milano il 14 maggio 2018. O forse nascosta ancora in un luogo sicuro. Ben conservata per un ricatto di Stato. Tutte le carte giudiziarie inseguono indizi che portano a un convincimento da parte dei procuratori di Caltanissetta che indagano sui misteri del vicepresidente di Confindustria: qualcuno ha duplicato quelle telefonate per farne commercio e baratto. Come poi le intercettazioni sarebbero finite in possesso di Montante è ipotizzato - e neanche troppo velatamente - nella trama che i magistrati ricostruiscono investigando sulla rete di protezione alzata intorno allo stesso Montante. Agli atti dell’inchiesta ci sono oltre cento pagine dedicate alla “forte preoccupazione” che prova Giuseppe “Pino” D’Agata, colonnello dell’Arma in forza al servizio segreto civile, quando il ministero della Giustizia chiede “spiegazioni” sulle telefonate del capo dello Stato. Il sospetto di chi indaga prende forma da una testimonianza. È Marco Venturi, uno degli imprenditori che rivela dall’interno le relazioni più scabrose di Montante, a raccontare ai magistrati di una cena avvenuta “nella primavera del 2014”. È avvenuta al ristorante dell’hotel Porta Felice, un albergo di Palermo. Intorno a un tavolo c’è Venturi, ci sono Montante e la sua amica Linda Vancheri. Poi arriva il colonnello dei carabinieri D’Agata, in quel momento capo centro della Dia di Palermo che con quell’incarico ha seguito tutte le fasi dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. (...) La testimonianza di Venturi: “Durante la cena ebbi modo di notare che D’Agata consegnava, in maniera furtiva e cercando di nasconderla alla vista, una pen drive al Montante.” (...) La sua testimonianza viene “riscontrata”. Un’ulteriore conferma arriva anche dalle note contenute nel “diario segreto” ritrovato nel bunker di Montante, nella sua villa. (...) Ma, più ancora delle investigazioni tecniche e più ancora del “diario”, sono le parole dello stesso D’Agata ad alimentare i sospetti che quelle telefonate del Presidente siano passate di mano in mano. L’ufficiale è dentro l’inchiesta Montante e viene ascoltato per mesi. Parla con la moglie, parla con i colleghi della Dia, parla con il suo superiore Arturo Esposito che è il capo del servizio segreto e che dal colonnello non viene mai chiamato per nome ma come “il numero uno della ditta” o semplicemente “Iddu”. In una conversazione captata il 31 gennaio del 2016 D’Agata è molto inquieto, la moglie gli dice che non deve agitarsi “per la vicenda” e lui le comunica che è riuscito a “trovare l’articolo”. L’articolo al quale fa riferimento è una cronaca datata 9 novembre 2015 sul quotidiano Libero intitolato “Ingroia e le telefonate di Napolitano... Vi svelerò il contenuto”, in cui l’ex procuratore annuncia che avrebbe scritto un libro dove sarebbe stato rivelato il testo delle conversazioni tra Mancino e Napolitano. (...) Le preoccupazioni del colonnello continuano anche nei mesi successivi. A febbraio (siamo sempre nel 2016) D’Agata è frastornato, confessa alla moglie che la notte non riesce più a dormire. (...) Arriviamo al mese di giugno, al 10. D’Agata e la moglie sono sulla loro auto che è “microfonata”. Il colonnello racconta alla donna di avere incontrato a Roma - a casa di un certo Claudio Ferlito - il tributarista palermitano Angelo Cuva e di avere parlato con lui della duplicazione delle intercettazioni fra Mancino e Napolitano. L’ufficiale dell’Arma rivela ancora alla moglie che Cuva gli avrebbe detto che lui - D’Agata - probabilmente sarebbe stato ascoltato sull’argomento dai magistrati. È il momento in cui il colonnello va nel panico. (...) Tutti i protagonisti di questo giallo sono a conoscenza delle indagini che li coinvolgono. Montante cambia ancora una volta le schede del cellulare, D’Agata parla con il telefonino del suocero, Cuva comunica attraverso un’utenza intestata a un generale della Finanza, tutti si mettono in moto “per attingere notizie”. (...) Antonello Montante “con grande margine di probabilità” (così annotano i magistrati) ne parla con il generale Arturo Esposito, che a sua volta ne parla con l’ex Presidente del Senato Renato Schifani che - attraverso Cuva - fa giungere informazioni al colonnello D’Agata. Un giro di spioni che sta tremando. Nel frattempo il capo degli 007 Esposito si era dato da fare “per cercare di avere notizie anche per quanto riguardava l’altra vicenda che vedeva coinvolto il D’Agata sulla duplicazione delle intercettazioni Mancino-Napolitano”. Sono sempre le famose telefonate del Colle a destare l’attenzione del capo dei servizi segreti. D’Agata, Schifani, il generale Esposito e Cuva, oggi sono tutti a processo per avere “veicolato” informazioni segrete a favore di Montante. “Se la mia pena non va bene, me la infliggo da solo: mi uccido” di Gianluca Rotondi Corriere di Bologna, 10 marzo 2019 Castaldo, l’uomo della sentenza sulla “tempesta emotiva”, è grave in ospedale. Ha cercato di togliersi la vita nella sua cella dopo le polemiche e il clamore sollevate dal suo caso. Prima Michele Castaldo, assassino reo confesso di Olga Matei, ha lasciato una lettera: “Visto che la pena non va bene a nessuno, me la infliggo da solo. Sono giudice di me stesso”, ha scritto l’uomo la cui condanna è stata dimezzata in appello per le attenuanti legate anche “alla tempesta emotiva” che secondo i giudici ha in parte motivato il delitto. Una lettera l’ha spedita al suo avvocato, l’altra l’ha lasciata nella cella del carcere di Ferrara. Poi ha ingerito il contenuto di una bottiglietta, presumibilmente con dosi accumulate di farmaci che era solito prendere. Una concentrazione che l’ha fatto finire in coma. Sono sempre gravi ma stazionarie le condizioni di Michele Castaldo, l’assassino reo confesso di Olga Matei, la donna moldava di 46 anni che ha strangolato a Rimini il 5 ottobre 2016 a Riccione. Un caso che ha sollevato molte polemiche dopo la sentenza emessa dalla Corte d’Assise di appello che ha quasi dimezzato la pena di Castaldo, da 30 a 16 anni, grazie alla concessione delle attenuanti generiche (ritenute equivalenti alle aggravanti) e allo sconto previsto dal rito abbreviato. Una sentenza che ha fatto insorgere associazioni e centri antiviolenza, ma anche osservatori e addetti ai lavori, per via della “soverchiante tempesta emotiva” citata nel provvedimento per motivare in parte la concessione delle attenuanti e indicativa, per i giudici, dei suoi pregressi disturbi psichici che l’avevano già portato a tentare il suicidio. Un passaggio ripreso dalla perizia psichiatrica a cui Castaldo fu sottoposto in corso di giudizio e da più parti associata, a torto, alla gelosia, movente del femminicidio. Sono state proprio le roventi polemiche di questi giorni a spingere Castaldo a tentare di togliersi la vita. O, almeno, questo è quel che ha lasciato scritto: ““Non mi spiego questo clamore a distanza di anni. Se la mia pena non va bene a nessuno, me la infliggo da solo. Sarò il giudice di me stesso”, ha scritto al suo legale, avvocato Monica Castiglioni. Poche righe scritte dopo la bufera nelle quali comunica al legale che “aspetterò 3-4 giorni, poi spero di trovare il coraggio di fare ciò che sto pensando. Una cosa che stavo rimandando non per paura, ma solo per attuare la condanna che mi sono inflitto da solo”. Nella lettera c’è anche un passaggio sull’omicidio di Olga che ha ucciso a mani nude dopo poche settimane dall’inizio della relazione. Nega, in sostanza, di averlo fatto per gelosia e dà la colpa all’alcol. Sono le parole di un uomo che dopo le polemiche era stato trasferito per precauzione in una sezione protetta del carcere di Ferrara. E che invece lunedì mattina gli agenti della polizia penitenziaria hanno trovato incosciente nella cella dove era recluso da solo, presumibilmente dopo aver assunto le medicine che prendeva per i suoi disturbi e che nel tempo ha messo da parte. Un paradosso, che andrà indagato. Non è chiaro se Castaldo volesse realmente togliersi la vita o solo mettere in scena un gesto dimostrativo, come già accaduto in passato. Di sicuro, dice ora il suo legale, “era molto provato dal clamore mediatico del suo caso, credo sia una persona con grosse problematiche e quel che è accaduto gli ha dato il colpo di grazia”. I legali di parte civile che assistono la sorella, l’ex marito e la figlia di Olga, si dicono dispiaciuti: “Non c’è da rallegrarsi delle disgrazie altrui, come in questo caso. Noi discutiamo solo del fatto che questo signore debba scontare una pena adeguata. Per noi è ciò che conta”, dice l’avvocato Filippo Maria Airaudo. “Mi dispiace umanamente”, gli fa eco l’avvocato Lara Cecchini. Cieco, 72 anni, malato. “Deve andare in cella” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 10 marzo 2019 Condannato per evasione fiscale. Ritenuto dai medici incompatibile con il carcere: no ai domiciliari, ricorso respinto per la legge spazza-corrotti. È quasi cieco, ha 72 anni, soffre di encefalopatia erpetica, di diabete mellito e di un principio di Alzheimer, ma rischia il carcere. La porta di una cella di Poggioreale potrebbe aprirsi già nelle prossime ore per Giorgio Mancinelli, napoletano di San Giovanni a Teduccio. Ed ora sua moglie Sofia, con i tre figli (la più piccola risulta affetta peraltro da una grave disabilità) è disperata. È anche questo uno degli effetti dell’entrata in vigore della legge “spazza-corrotti”. Storia tutta da raccontare, quella che ha portato ad un epilogo dal sapore agro che sa di sconfitta. Persino gli agenti della Polizia di Stato - i quali bussarono già per notificargli l’ordine di traduzione in carcere - intuirono che quell’anziano ormai ridotto quasi a un tronco, incapace di provvedere a se stesso e bisognoso di cure e assistenza costante, mai avrebbe potuto conciliare il suo stato fisico e mentale con il regime penitenziario. Era il 21 febbraio. Ma da allora le cose, semmai, sono peggiorate e lo spettro della galera si fa più concreto ogni minuto che passa. Vediamo perché. Sia chiaro: le sentenze vanno rispettate, sempre, come e necessario tenere nella massima considerazione le valutazioni della magistratura. Ciò premesso, ricapitoliamo la vicenda cominciando dalla fine: da quel verdetto di colpevolezza emesso da un giudice che in primo grado (nessuno ha mai appellato quella sentenza, così diventata esecutiva) ha ritenuto il 72enne colpevole di evasione fiscale. Durante l’intero corso del processo Mancinelli ha avuto sicuramente la responsabilità - pesante - di non essersi difeso. A quelle “carte” notificategli dall’ufficiale giudiziario l’uomo non ha mai dato il giusto peso; oggi nemmeno sa ricostruire - a causa di un “decadimento cognitivo di grado severo” - come sia finito sul banco degli imputati. A casa non aveva mai raccontato la verità, che si è trasformata poi nella sua unica, vera colpa: nemmeno sua moglie aveva raccontato di essersi prestato a fare da prestanome per la persona sbagliata: dopo aver perso il posto come impiegato presso la base Nato di Bagnoli, i soldi a casa erano pochi ed ecco il passo fatale, l’imperdonabile errore. Nemmeno l’avvocato di fiducia era riuscito a pagarsi Mancinelli per quel processo; e così gli era stato nominato un avvocato d’ufficio. Qui, però, il punto è un altro. Qui c’è in gioco la vita di un uomo condannato al carcere in condizioni di salute a dir poco precarie. Il magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Napoli - al quale si erano rivolti i difensori di Mancinelli - ha respinto l’istanza con la quale si chiedeva una misura cautelare meno afflittiva, e cioè la trasformazione della detenzione carceraria in arresti domiciliari. Il giudice ha ritenuto non convincenti le diagnosi che indicano il condannato come soggetto incompatibile con il regime carcerario. “Deve evidenziarsi - si legge nell’atto di differimento provvisorio dell’esecuzione di pena firmato il sette marzo scorso - che i Centri terapeutici degli istituti penitenziari dovrebbero essere bene in grado di fronteggiare situazioni sanitarie come quella in esame all’interno del carcere; lì dove non fosse possibile nello specifico, resta onere della Direzione del carcere, a fronte di patologie che non implichino incompatibilità assoluta del condannato col regime detentivo, individuare la migliore collocazione all’interno della struttura stessa o collocare il condannato in strutture sanitarie adeguate alla cura del caso concreto”. Il comandante generale dei Carabinieri e i silenzi sul caso Cucchi di Carlo Bonini La Repubblica, 10 marzo 2019 A Firenze, per ritirare il “Fiorino d’oro” del Comune all’Arma, il comandante generale Giovanni Nistri ha risposto a Repubblica che lo aveva invitato a spiegare come, nel caso Cucchi, possano stare insieme l’esortazione al “chi sa la verità parli” e il silenzio in cui hanno deciso di arroccarsi tre ufficiali dell’Arma indagati per depistaggio. “Non posso entrare nelle strategie difensive di nessuno - ha detto. Ma quando tutto sarà chiarito dall’Autorità giudiziaria, nella quale rinnoviamo piena fiducia insieme al fondato e forte dispiacere per chi continua a piangere per situazioni che devono essere chiarite, allora faremo quello che dobbiamo fare, come abbiamo già dimostrato”. Ha infatti aggiunto, riferendosi ai due carabinieri destituiti nel 2017 per la violenza sessuale su due studentesse americane, che “proprio a Firenze fu possibile prendere provvedimenti draconiani, grazie a una nuova norma che consentiva all’Arma di andare al di là delle sentenze”. Ebbene, Nistri, purtroppo, continua a non vedere quello che anche i ciechi vedono. Nel processo Cucchi è ormai certo (e pacificamente accettato anche dagli imputati), che il pestaggio di Stefano si consumò in una caserma dei carabinieri. Che i picchiatori vestivano l’uniforme dell’Arma. Che un’intera catena di comando manipolò atti cruciali per l’accertamento della verità. L’Autorità giudiziaria, dunque, è chiamata a stabilire la “responsabilità penale” di chi quei fatti li ha commessi. Non la loro esistenza. Perché - e Nistri lo sa - sulla base di valutazioni dell’elemento psicologico del reato (dolo o colpa) e del nesso di causa-effetto, si può anche essere riconosciuti innocenti pur avendo commesso un fatto. Dunque, rinviare ogni “determinazione” autonoma, quale che essa sia, sui carabinieri coinvolti in questa vicenda a valle di una pronuncia definitiva della giustizia penale “perché così prevede la legge per i procedimenti disciplinari”, è mossa da struzzo. Si può infatti sollevare ufficiali dal comando, indagati e condannati o meno, congelarne carriere, prendendo atto e dicendo - dicendo - che il loro contegno ha offeso e continua a offendere il Paese e l’Arma. A prescindere dal codice penale. Altrimenti il Comandante generale potrebbe farlo un notaio. Se poi il problema è davvero disporre di una nuova norma, Nistri alzi allora la voce con la Politica. La metta in mora, spiegando all’amico Luigi Di Maio e al ministro dell’Interno con la felpa, quale è la posta in gioco del caso Cucchi. Perché il silenzio, al contrario del Fiorino, non è d’oro. Milano: Cappellano Beccaria “il sistema punitivo coercitivo non cambia le persone” agensir.it, 10 marzo 2019 Quella delle carceri è “certamente una situazione preoccupante; se dev’essere un luogo rieducativo certe situazioni non si spiegano proprio”. Lo ha affermato oggi pomeriggio don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, in uno dei 12 workshop su dignità umana, sfida europea e questione ambientale ai quali è stata dedicata la sessione pomeridiana della seconda giornata della VII edizione della Scuola di formazione per studenti promossa dal Movimento studenti di Azione Cattolica (Msac) a Montesilvano. Don Burgio ha parlato di “carceri strapiene” e di come “a volte si usa il carcere per risolvere altri problemi sociali, come nel caso di persone che fanno uso di droga”. “In celle sovraffollate - ha ammonito - vuoi che ci sia cura? E se non si cura, la recidiva è elevata”. Accennando alle “tante storie drammatiche” tra i detenuti, il cappellano ha evidenziato che “il carcere è indispensabile in una fase cautelare ma pensare che possa restituire alla società persone trasformate o guarite è un’illusione”. “Si parla di giustizia riparativa, di giustizia riconciliativa ma in Italia - ha ammonito - siamo ancora in regima di giustizia retributiva”. Invece, “il perdono e la riconciliazione cambiano le persone mentre il sistema punitivo coercitivo non cambia le persone”. Don Burgio si è detto favorevole alla giustizia riconciliativa “non per mitigare le pene o per buonismo ma per avere persone restituite alla propria dignità e che non tornano a fare del male ma possono fare del bene. È nel nostro interesse migliorare la situazione delle carceri”. Don Burgio si è anche chiesto: “perché la Messa alla Prova, attualmente prevista solo per i minorenni, non può essere un sistema per educare un maggiorenne?”. “Più del 75% dei ragazzi che hanno vissuto la Messa alla Prova - ha osservato - non sono tornati a delinquere”. Il cappellano si è anche soffermato sui “pestaggi in carcere di cui nessuno, neppure il detenuto, parla. Sono casi che esistono e che vanno denunciati”. Firenze: i Radicali “a Sollicciano sovraffollamento al 150%” controradio.it, 10 marzo 2019 L’indice di sovraffollamento del carcere fiorentino di Sollicciano è del 151%, a fronte di una capienza regolamentare di 500 persone l’istituto conta 757 detenuti, di cui 657 uomini e 100 donne. È quanto emerso, spiega una nota, da una visita a Sollicciano svolta ieri da una delegazione, coordinata dal partito Radicale, composta dagli attivisti di Progetto Firenze, Grazia Galli, Sandra Gesualdi, Massimo Lensi e Luca Maggiora (segretario della Camera penale di Firenze), e dai consiglieri comunali Donella Verdi e Tommaso Grassi del gruppo “Firenze riparte a sinistra”. La delegazione ha visitato varie sezioni del reparto giudiziario maschile, il centro medico, le sezioni giudiziaria e penale nel reparto femminile, e la sezione Atsm (Articolazione per la tutela della salute mentale), aperta lo scorso 21 febbraio. Per la delegazione, “degli oltre 760 detenuti presenti solo 160 accedono al lavoro e per poche ore al giorno. Nonostante sia stato stabilito un finanziamento fisso per gli anni 2017-19, quest’anno c’è stata una riduzione ulteriore del 10% dei fondi per la mercede”. Nell’istituto, “permangono i problemi all’impianto di riscaldamento, con aree surriscaldate e altre gelide”, mentre “nella sesta sezione una buona parte delle lampade a neon nel corridoio sono rotte e di notte gli agenti possono contare solo sulla luce proveniente dall’esterno”. Inoltre, “è stata operata una disinfestazione approfondita, destinata a non durare per il perdurare del problema piccioni. Lo stato delle docce nelle sezioni maschili permane inaccettabile”. Napoli: detenuti sul lungomare, uomini liberi per un giorno di Maria Pirro Il Mattino, 10 marzo 2019 L’iniziativa promossa dal Garante Ciambriello con i volontari dell’associazione “La mansarda”. Pasquale e Gennaro, reclusi nella sezione psichiatrica di Secondigliano, invocano un’opportunità di riscatto: l’esperto informatico ha scritto al presidente della Repubblica perché gli conceda la grazia; con una lettera, l’ex vigilante ha chiesto invece di incontrare la figlia che non vede da dodici anni. Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti, li ha portati sul lungomare, a mangiare una pizza, al bosco di Capodimonte e poi al teatro Totò. Uomini liberi per un giorno, lo sguardo puntato verso l’orizzonte. “Cadendo, nonostante tutto, si raccoglie qualcosa: l’importante è rialzarsi e ricominciare”, dice il garante, e a pranzo brinda con un bicchiere pieno d’acqua. Pasquale, 44enne originario di Catanzaro, racconta con un pizzico di orgoglio: “Sono l’unico ad avere il pc in carcere, che mi è stato consegnato tre anni dopo l’autorizzazione”. In cella dal 2005 (“Sempre con buona condotta”), da sei anni si esercita con la speranza di trovare un lavoro, in futuro,. E, per la prima volta da quando è dentro, ieri a mezzogiorno parla al telefono con il fratello. Sorride: “È un momento speciale”. Annuisce Gennaro, 41 anni, ricordando il motivo che lo ha costretto a vivere, fino alla chiusura, anche nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: “Con un proiettile ho colpito e ucciso, per sbaglio, una mia bambina. Poi, più volte, ho tentato il suicidio: sono pentito e desidero riabbracciare l’altra figlia che ora è maggiorenne”. Con il maschietto avuto da un’altra relazione, si sente invece regolarmente e ogni volta è una gioia. A tavola, da “Fiore Bianco” di Dario e Diego Viscardi e Roberto Fabiano, Pasquale e Gennaro siedono accanto ad altri tre compagni di viaggio. Tra questi, c’è Sami, 26enne tunisino, un “esordiente” nelle attività promosse dall’associazione “La mansarda”. Perché sono i volontari come Maria Merola e Irene Iervolino a dare voce alla speranza, non le istituzioni che dovrebbero provvedere a recupero e reintegrazione anche all’esterno degli istituti penitenziari. “Ma, chi semina amore, raccoglie felicità”, conclude Ciambriello, e scatta l’applauso. Ferrara: lezione sull’esperienza del carcere per gli studenti del Montalcini estense.com, 10 marzo 2019 Gli allievi hanno discusso con la professoressa Marina Berti, autrice del libro “La pietà dei ricordi per Jon”. Gli studenti del Montalcini parlano della toccante e profonda esperienza del carcere con l’autrice e docente Marina Berti. Sabato mattina le classi quinta e terza dell’Iis Montalcini, sede di Argenta, hanno incontrato l’autrice Marina Berti che ha parlato con i ragazzi del suo libro “La pietà dei ricordi per Jon”, che racconta la storia di uno psicologo che chiede aiuto per questo ragazzo che si trova in carcere, Jon appunto. Lo psicologo del carcere è convintissimo che sia possibile cambiare le sorti dei detenuti. Questa mattinata è voluta essere una condivisione con la professoressa Berti di tutte le storie di vita ed esperienze vissute dall’autrice in prima persona, quando lei stessa era insegnante di lettere nel carcere di massima sicurezza di San Gimignano. “I carcerati non sono dei numeri, sono esseri umani”, questa è la frase con cui l’autrice ha aperto i lavori. L’incontro è continuato con numerose domande poste dagli studenti del Montalcini, che di recente hanno visitato il carcere di Ravenna e hanno avuto la possibilità di parlare con i detenuti in esso rinchiusi. Gli studenti hanno studiato, inoltre, nelle discipline di psicologia e Igiene, le sindromi e le malattie più comuni che insorgono all’interno del carcere e le condizioni igienico sanitarie delle case circondariali. Berti ha raccontato poi del suo personaggio Jon, protagonista inventato, che è la somma di due persone reali: una persona di sedici anni che ha commesso un omicidio e una persona di diciotto anni che ha ucciso per vendicare l’omicidio del fratello. Aldilà della storia, la professoressa Berti ha raccontato e condiviso con i ragazzi le emozioni più profonde vissute in carcere come insegnante e ha parlato inoltre del burnout come rischio di chi lavora in questi contesti. Il dolore psicologico, i silenzi in famiglia, tutti i non detti sono solo delle piccole concause che portano a dolori più grandi e posso condurre fino alla detenzione, quindi è importante riflettere sul fatto che a salvarci molto spesso sono le parole, e la condivisione è l’apertura verso l’altro è il cambiare atteggiamento perché se si fanno le cose mettendoci amore, quell’amore poi ti ritorna. Palermo: i detenuti realizzano il carro del Festino di Santa Rosalia di Giusi Spica La Repubblica, 10 marzo 2019 Sarà costruito all’Ucciardone: il tema è l’inquietudine. Oggi l’annuncio di Orlando in un incontro nel carcere. Il carro trionfale di Santa Rosalia del prossimo Festino sarà realizzato dai detenuti del carcere Ucciardone di Palermo. Lo costruiranno all’interno della ex fortezza borbonica. Ad annunciarlo, stamane, la direttrice del carcere Rita Barbera, il sindaco Leoluca Orlando, il direttore del Festino Vincenzo Montanelli, Lollo Franco alla direzione artistica, il presidente della commissione culture Francesco Bertolino, l’assessore regionale al Territorio Toto Cordaro e la fotografa Letizia Battaglia. “Il carro verrà costruito pezzo per pezzo all’interno del carcere, per poi essere assemblato all’esterno, non è mai successo - spiega Lollo Franco - il cantiere della costruzione sarà allestito nel parcheggio del carcere, visibile ai passanti. Ad aiutarci a realizzare questo progetto è stato Fabrizio Lupo, docente di scenografia dell’Accademia di Belle Arti, con la supervisione di alcuni suoi colleghi e il contributo degli studenti”. “L’edizione dello scorso anno ha registrato oltre 400mila presenze, diventando il festino dei record - ha detto Montanelli - il progetto avrà il contributo della Cassa delle Ammende del ministero della Giustizia”. A ispirare il direttore artistico nel tema di quest’anno è lo “sgabello delle carceri borboniche, come quelli decorati con i colori del gusto popolare e realizzati dai detenuti per dare forza all’artigianato artistico”. Il tema di quest’anno scelto dal primo cittadino è l’inquietudine. “In questa struttura dobbiamo sconfiggere la paura - ha detto il sindaco - noi siamo comunità è questo il senso di questa attività fortemente voluta, a sottolineare che Palermo è l’Ucciardone e l’Ucciardone è Palermo”. L’arcivescovo Corrado Lorefice ha inviato un messaggio di vicinanza: “Vogliamo che i detenuti siano accolti dalla città e si sentano parte integrante”. “Questa è un’occasione si reinserimento di soggetti che hanno segnato con un danno la società e che possono riconoscere il valore rieducativo della pena”, ha detto Rita Barbera. Ricordato con un minuto di silenzio l’attore Pino Caruso, morto giovedì scorso. Quest’anno ci saranno anche una serie di eventi culturali che precederanno le celebrazioni di luglio. A organizzarle è l’Arcidiocesi con il sostegno di altri enti laici. Si inizia il 30 marzo con una visita guidata al santuario di Santa Rosalia a Monte Pellegrino e al Museo del tesoro di Santa Rosalia. Il 7 maggio ci sarà un evento al Porto in occasione dell’anniversario dell’arrivo della nave dall’Africa con il morbo della peste. Il 16 maggio è prevista una giornata di studi dal titolo “Rosalia e le Altre” al museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” che vedrà la partecipazione di diversi studiosi fra cui i professori Marino Niola (università Suor Orsola Benincasa di Napoli) e Natale Spineto (università di Torino). L’8 giugno, in occasione della manifestazione culturale “Una Marina di libri” all’Orto Botanico, è previsto l’evento “I detenuti raccontano Rosalia”. Cagliari: in carcere le magiche vocalità di Elena Ledda con “un sorriso oltre le sbarre” di Alessandro Congia sardegnalive.net, 10 marzo 2019 È stata una giornata interamente dedicata alle detenute e a chi quotidianamente lavora all’interno della Casa Circondariale “Ettore Scalas”. “E te ne vai Maria tra l’altra gente, che si raccoglie intorno al tuo passare, siepe di sguardi che non fanno male, nella stagione di essere madre”. Con gli struggenti versi dell’Ave Maria di Fabrizio De André, interpretati dalla musicista e cantante Elena Ledda, è iniziata nel carcere di Cagliari-Uta, la decima edizione di “Un sorriso oltre le sbarre”, l’iniziativa di solidarietà promossa dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e dalla sezione di Cagliari della Fidapa. L’appuntamento, realizzato grazie alla collaborazione dell’Area Educativa dell’Istituto, ha visto la partecipazione delle 23 detenute, delle agenti penitenziarie, degli operatori e delle volontarie. Ad accogliere la delegazione sono stati Marco Porcu, Direttore della Casa Circondariale “Ettore Scalas”, e il Commissario Coordinatore Andrea Lubello. Presenti anche l’assistente capo Laiza Serra e la coordinatrice della sezione femminile Mariangela Bandino. A caratterizzare l’appuntamento, che nella Giornata Internazionale della Donna, vuole valorizzare la funzione risocializzatrice del carcere e il lavoro svolto quotidianamente dalle Agenti penitenziarie, è stata la voce di Elena Ledda che ha proposto la ninna nanna “Scelti Tui”, filastrocche e ha coinvolto dapprima le detenute sarde con “No poto reposare” e poi le ragazze extracomunitarie che hanno dimostrato qualità vocali di pregio. “Oggi per noi - hanno detto Maria Grazia Caligaris (Sdr) e Paola Melis (Fidapa Cagliari) - è una giornata speciale perché rinnoviamo un appuntamento che ogni anno ci riempie il cuore di emozioni. Vogliamo per questo ringraziare tutta la struttura ma soprattutto chi come voi vive un momento di particolare difficoltà”. “Queste iniziative - ha sottolineato il Direttore della Casa Circondariale Marco Porcu - sono perfettamente in linea con le finalità previste dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario. La pena infatti non è mai fine a se stessa, non è una vendetta, ma è un’occasione utile per riflettere e tornare in società affrontando una nuova vita”. In occasione della iniziativa ciascuna detenuta ha ricevuto un pacco contenente dei prodotti per la cura della persona. Come ogni anno una pianta è stata donata alla sezione femminile. “Un sorriso oltre le sbarre” è stato preceduto il 7 marzo dall’assegnazione del “Premio Solidarietà Donna2019”a Suor Anna Cogoni. Un’occasione speciale vissuta con particolare partecipazione emotiva da ragazzi e donne che hanno portato una testimonianza sul lavoro che quotidianamente Suor Anna svolge nella Comunità “San Vincenzo” che ha fondato 31 anni fa. Il bunker delle libertà di Bernard Guetta* La Repubblica, 10 marzo 2019 Dopo l’ansia, mi rassereno. Le libertà, mi dico, non sono dinosauri. Non sono in via d’estinzione, ma no, perché niente è cambiato dopo il suicidio di Hitler e l’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani. Le democrazie sono in minoranza, come sono sempre state. Nelle dittature si manda la gente in carcere e la si tortura, ma non è una novità e, passata una brutta nottata, mi preparo un espresso doppio. Il ronzio della macchina del caffè è rassicurante, ma non faccio in tempo a berlo tutto che… ecco, mi riprende, non l’ansia del dormiveglia, ma qualcosa di peggio: i fatti, la Ragione, la realtà di questo inizio secolo, perché insomma… Le democrazie non sono inferiori di numero rispetto al passato, ma hanno perduto gran parte del loro peso, mentre quello delle dittature è molto aumentato. C’è la Cina, certo, ma la sua ascesa permette alla Turchia, all’Iran, all’Arabia Saudita, all’Egitto, alle Filippine di Duterte, al Brasile di Bolsonaro, all’Ungheria di Orbán e, ovviamente, alla Russia di Putin di giocarsi o rigiocarsi le rispettive carte a livello regionale o planetario. Con gli Stati falliti diventati buchi neri, il mondo è entrato in un’anarchia che nessun gendarme può o vorrebbe affrontare più. Il secondo motivo per cui temere gli sviluppi di questi fattori liberticidi che sono il caos mondiale e il ritorno alle grandi guerre è che stiamo uscendo, senza nemmeno esserne consapevoli, dalla lunga epoca iniziata nel XVIII secolo. Dai tempi dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese e da quella americana nessuno ha messo più in discussione i valori di libertà, democrazia, rispetto delle minoranze e diritti dell’individuo. Questi valori non erano rispettati a livello universale, sia chiaro, perché perfino le democrazie più grandi se ne facevano beffe allegramente, ma non si poteva criticare la Dichiarazione dei diritti umani, non più di quanto si possano criticare i Dieci comandamenti. Adesso non è più così. Le dittature si fanno pochi scrupoli a definirsi per quel che sono, mentre sempre più intellettuali, correnti politiche e governi respingono e criticano il liberalismo, accusato di essere un semplice strumento di supremazia delle potenze occidentali. Ripudio del secolo dei Lumi, questa reazione ha acquisito diritto di cittadinanza fin nel cuore dell’Unione europea e addirittura negli Stati Uniti, il cui presidente - proprio come Erdogan, Putin, Orbán o Xi - osteggia apertamente l’indipendenza del ramo giudiziario e la libertà di stampa. Oggi il mondo sta cambiando perché tutti hanno paura. Gli Stati Uniti hanno paura di essere sorpassati dalla Cina, che ha paura che gli americani vogliano arrestarne lo sviluppo interrompendo le esportazioni. Gli europei hanno paura che le loro tutele sociali siano rimesse in discussione dal libero scambio, dalla delocalizzazione delle industrie e dall’immigrazione. I piccoli Stati dell’Unione europea temono di perdere i loro privilegi competitivi, inducendo così un’armonizzazione fiscale e sociale delle economie dell’Unione. I Paesi arabi hanno paura che la potenza persiana possa rinascere. Tutti temono la violenza attraverso la quale, fatalmente, passerà la definizione dei nuovi rapporti di forza internazionali e tutte queste paure e altre ancora inducono a provare nostalgia per le frontiere e portano al proliferare di nazionalismi che annunciano la guerra come il vento la tempesta. Che fare allora? Continuare a marciare verso il baratro in preda a una sensazione di inesorabilità? Cedere al fatalismo del tutti contro tutti? Abbiamo già assistito a eventi di questo tipo nel corso della Storia, ma a noi europei resta un ideale da difendere, questa unità europea che può essere lo strumento di una stabilizzazione internazionale. Bunker delle libertà, delle tutele sociali e della ridistribuzione della ricchezza, l’Europa unita può contribuire allo sviluppo dell’altro litorale del Mediterraneo, scoprirvi risorse per una crescita diversa e duratura, rendere stabile il continente Europa con un accordo di cooperazione e di sicurezza con la Federazione russa e contrapporre al caos dirompente la volontà di strutturare questo secolo con il dialogo e la negoziazione. Unita, l’Europa può riuscirci, all’unica condizione di ricordarsi che quando si vuole si può. Non è un sogno. È l’alba di un nuovo giorno. *Traduzione di Anna Bissanti Un manifesto contro le parole ostili in politica: presentata l’iniziativa #cambiostile di Silvia Morosi Corriere della Sera, 10 marzo 2019 Usare un linguaggio non violento in rete, nella vita reale e anche in politica. Venerdì 8 marzo Parole O-Stili ha lanciato alla Camera dei Deputati l’appello #cambiostile per un confronto elettorale basato sulla forza delle idee e non sulla violenza degli insulti e l’inganno delle notizie false, proprio in vista delle prossime elezioni europee e comunali. Sono già 220 i politici appartenenti a tutti gli schieramenti che hanno firmato il Manifesto. “C’è però ancora tanta strada da fare”, afferma Rosy Russo, presidente dell’associazione. E la possiamo percorrere “solo con l’appoggio dei rappresentanti delle istituzioni che ogni giorno lavorano per difendere gli interessi di tutti noi. La loro voce, infatti deve essere di esempio soprattutto in questa delicata fase politica che invita gli italiani a una scelta importante”, continua. In questa occasione sono stati anche presentati i dati della ricerca “Flame Wars e comunicazione” curata da Ipsos per Istituto Toniolo e Parole O_Stili. Il 73% degli intervistati afferma che la violenza verbale pubblica ha conseguenze sulla vita reale delle persone prese di mira e nel 72% dei casi la ritiene una forma verbale molto grave di aggressione dell’altro. Il 70%, poi, è d’accordo nel considerare l’hate speech come un riflesso delle tensioni presenti nella nostra società e il 74% la ritiene come una forma molto grave di aggressione. Ad essere più preoccupate sulle conseguenze che hanno nella vita reale le “parole ostili” sono le donne (70% delle donne vs 63% degli uomini), mentre i giovani (fascia 18/34) associano maggiormente l’hate speech virtuale alla vita reale (68% rispetto al 61% del resto della popolazione). Il 62% dei giovani si è imbattuto in messaggi d’odio, ma il 79% sostiene di non averne mai inviati, anche se poi dichiarano che sono i più propensi a farsi prendere la mano dal clima acceso della discussione (43%, rispetto al 33% del totale popolazione italiana). L’84% dei giovani dichiara di ponderare con attenzione la frase prima della pubblicazione per evitare di offendere qualcuno, molti di più rispetto alla popolazione italiana che lo fa nel 73% dei casi. Le “spose bambine”, una piaga nascosta di Stefania Di Mitrio Gazzetta del Mezzogiorno, 10 marzo 2019 Matrimoni precoci, diritti negati, infanzie violate. È quanto accade alle cosiddette spose bambine, una piaga mondiale ma molto diffusa anche nel nostro Paese. Domani lunedì 11 marzo, alle 17,30 presso il Palace hotel a Bari, in un seminario promosso da Zonta International Club si parlerà di questo dramma sommerso e difficilmente calcolabile. I lavori sulla tematica delle spose bambine si sono già svolti nei giorni scorsi a Taranto e a Barletta. Si concluderanno appunto a Bari in un incontro dal titolo “Luci sulle spose bambine” e a cui hanno collaborato tutti e tre i club pugliesi. Parteciperanno Carmela Moretti, presidente di Zona International Club di Bari, Gabriella Fumarola, co-chair Centenario Zonta International, Ludovico Abbaticchio, garante regionale dei diritti dei minori Regione Puglia, Filippo Boscia, presidente nazionale associazione medici cattolici italiani, Vera Guelfi, presidente della Consulta femminile regionale pugliese, Mariapia Locaputo, giudice onorario tribunale per i minorenni di Bari, Assuntela Messina, senatrice, componente della Commissione straordinaria dei diritti umani. Il convegno sarà moderato dalla giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Enrica Simonetti. Zonta Club International, che quest’anno compie cento anni dalla sua fondazione, è riconosciuto in Italia a livello governativo come associazione attiva ed è presente nel Comitato per le Pari Opportunità del Ministero del Lavoro. Il suo obiettivo è migliorare lo stato della donna politicamente, legalmente, professionalmente e in tutti gli altri aspetti della vita, promuovendo azioni che forniscano supporto alle donne attraverso servizi in rappresentanza dei loro diritti. Emancipazione delle donne e promozione della salute sessuale e riproduttiva, sono ad oggi le due principali misure indicate dal Parlamento Ue per contrastare il fenomeno delle spose bambine. Nella risoluzione approvata i deputati hanno anche condannato la reintroduzione da parte dell’Amministrazione Trump della Global Gag Rule, la regola che concede gli aiuti umanitari solo alle organizzazioni che non promuovono l’aborto, per il loro impatto sulla salute di donne e bambini nei paesi in via di sviluppo. In particolare nell’incontro tenutosi a Barletta a Palazzo della Marra sono stati forniti dati estremamente impressionanti su questo fenomeno che per le bambine, costrette a sposare uomini adulti, si rivela un vero e proprio incubo con serie conseguenze a livello fisico e psicologico. Da qui l’impegno civile e della solidarietà del Zonta International Club perché il matrimonio forzato è un abominio. È importante quindi un impegno globale per sviluppare quella consapevolezza sui diritti dei bambini. “Così abbiamo dato un volto ai migranti” dialogo tra Cristina Cattaneo e Elena Stancanelli raccolto da Raffaella De Santis La Repubblica, 10 marzo 2019 Non è vero che la morte è uguale per tutti. Ci sono morti di serie A e morti di serie B, da sempre. Cristina Cattaneo è un medico legale forense, per professione lavora con i cadaveri, mettendo la medicina al servizio della giustizia e degli ultimi. Ha cinquantacinque anni e la sua sfida oggi è ridare un nome e una dignità ai resti dei migranti. Ha scritto un libro bellissimo, s’intitola Naufraghi senza volto. Un libro paradossalmente pieno di speranza, perché la vita si nasconde dove meno ce lo aspettiamo. In primo piano ci sono gli oggetti ritrovati addosso alle vittime, quelli che in termini tecnici si chiamano “effetti personali”: una borsa e un foulard viola vezzosamente annodato al manico, una scatoletta rosa con un paio di orecchini d’argento, un sacchettino di terra. Perfino una pagella, cucita all’interno della camicia di un bambino affogato. “Non sono semplici oggetti”, dice Cattaneo. “Dietro ciascuno si nasconde una vita. I morti ci parlano attraverso le cose che gli sono appartenute, raccontano una storia che può aiutarci ad avvicinarli”. Una maglietta della Juventus o del Real Madrid, un disegno, un orologio, gli auricolari del telefonino, una tessera della biblioteca, fanno affiorare vite molto simili alle nostre. Sono frammenti di esistenze che ci assomigliano. Cristina Cattaneo ancora oggi sta lavorando con lo staff del Laboratorio di antropologia e odontologia forense della Statale di Milano per identificare i corpi dei migranti del più grande naufragio del Mediterraneo: quello di un barcone egiziano che il 18 aprile 2015 si inabissò molto velocemente a quaranta miglia dalle coste libiche. Qui dialoga con Elena Stancanelli, scrittrice attivista, che ha scelto di non girare la testa dall’altra parte. La sua esperienza a bordo della Mare Jonio sarà il cuore narrativo del suo nuovo libro, “Venne alla spiaggia un assassino”, in uscita per La nave di Teseo alla fine di aprile. Oggi il peschereccio del naufragio del 2015 è a Melilli e si va deteriorando: aspetta di trovare una collocazione che ne scongiuri la demolizione. Che significato ha quel Barcone? Cristina Cattaneo: “Tra cinquant’anni, quando nessuno si ricorderà che ai nostri giorni ancora esistevano navi negriere, quel peschereccio sarà lì a testimoniare cosa succedeva nell’Europa di oggi. L’Europa illuminata che parla tanto di diritti umani e però permette che succedano queste cose. Quel peschereccio, che aveva imbarcato un migliaio di persone potendone contenere al massimo una quarantina, è un oggetto simbolo, più eloquente di molte storie. Per questo va salvato dalla demolizione. Al momento stiamo ancora lavorando all’identificazione dei corpi. Ne abbiamo recuperati 528, insieme a quasi ventimila resti scheletrici. Naturalmente questi sono più difficili da riassemblare, ma di un centinaio possediamo i documenti, che ci hanno permesso di risalire ai paesi di provenienza. Solo quando avremo fatto il test del Dna sull’ultimo cranio avremo la certezza di quante persone abbiamo recuperato”. Elena Stancanelli: “Non sono un’esperta di immigrazione, ma credo sia arrivato il momento di reagire. La cosa impressionante in questo racconto sono i numeri. Stiamo parlando di oltre cinquecento corpi, che sono forse più del numero delle persone che ho conosciuto nella mia vita...”. Da anni si parla di restaurare il Barcone, a che punto siamo? Cattaneo: “Si pensava di accoglierlo a Milano, dove l’università Statale sta allestendo un museo della scienza legato alla tutela dei diritti umani. Ora purtroppo tutto è fermo, non è ancora stato restaurato, non si hanno i finanziamenti. Bisogna capire che cosa si può fare ed evitare che venga demolito. Una strategia potrebbe essere quella di dichiararlo patrimonio Unesco. Potrebbe diventare come Binario 21, il museo della Shoah a Milano, che mostra i vagoni del treno sui quali venivano caricati gli ebrei diretti ai campi di sterminio”. Stancanelli: “Tanto più oggi che i barconi hanno smesso di partire e i trasbordi si fanno su barche piccole. Parlando con il personale delle Ong ho scoperto che quando recuperano i gommoni non li affondano ma ci scrivono sopra la data. Serve a segnalare che è avvenuto un salvataggio, che sono state tratte in salvo delle persone”. Come si arriva a dare un nome a un cadavere? Cattaneo: “Di ciascuno compiliamo una specie di identikit. Prima di tutto bisogna rintracciare i parenti. Questo è possibile grazie al coordinamento di un ufficio di governo, l’Ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse, che ha fatto un accordo con la Croce rossa internazionale, la quale ha uffici nei vari paesi di provenienza di queste persone, tra cui Senegal, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio. Successivamente si chiede ai parenti di portare elementi identificativi dei loro cari scomparsi. Questi oggetti si aggiungono a quelli ritrovati insieme ai resti delle vittime. In genere i familiari hanno bisogno di sapere di più, chiedono chi ha toccato il loro caro l’ultima volta, vogliono ricostruirne gli ultimi momenti di vita”. Nel libro gli oggetti dei morti non sono dettagli secondari ma elementi quasi narrativi. Cattaneo: “Non hanno solo un valore tecnico. Credo che i morti raccontino una storia, che a volte siano più eloquenti dei vivi. Il loro è un linguaggio semplice, fatto di quello che hanno nelle tasche, delle cicatrici che hanno sul corpo. I loro oggetti sono i nostri oggetti, ci dicono che la vittima è come noi. In una delle ultime autopsie abbiamo trovato nelle tasche di un ragazzino tesserine della biblioteca e della donazione del sangue. Ne emerge la vita di uno studente, di una persona altruista, potrebbe essere uno dei nostri ragazzi”. Stancanelli: “In fondo anche noi scrittori ci muoviamo in un mondo di morti. La letteratura è popolata di fantasmi. Pensiamo a Patrick Modiano, è come un anatomopatologo, lavora sulle identità, parte da un taccuino e cerca di ricostruire la vita di una persona. È questo che fanno gli scrittori, disegnano itinerari e mappe di oggetti, luoghi, persone e poi li uniscono in un percorso plausibile”. Tra le cose recuperate c’è un sacchettino pieno di terra, a che serviva? Cattaneo: “Un naufrago si era imbarcato portando con sé un po’ di terra come ricordo del paese che stava lasciando. Forse era anche un modo per augurarsi di tornarci. Anch’io da piccola lo facevo. Quando ripartivo dal Monferrato, dove andavo in vacanza, per tornare in Canada, dove vivevo con la mia famiglia, portavo con me un rametto o un fiore. Ho sempre apprezzato il mio lavoro da un punto di vista tecnico, ma ora capisco l’importanza della narrazione. Se non rovistassimo nei corpi e nelle tasche di queste persone, non saremmo in grado di raccontarle”. Stancanelli: “Quando si parla di morti in mare vengono subito in mente immagini simbolo. Quella del piccolo Alan sulla spiaggia di Bodrum o quella di Josepha scattata dai volontari di Open Arms. È vero, quelle immagini sono di assoluta chiarezza, ma il naufragio è per sua natura nascosto. Il bello del lavoro di Cristina è che riporta a galla quello che accade sotto e che nelle foto non appare. Il bambino ritrovato morto con la pagella cucita addosso riguarda tutti noi. Quel bambino somiglia a tutti i bambini con la pagella. Siamo noi”. Vi siete mai chieste nel vostro lavoro “ma chi me lo fa fare”? Cattaneo: “Qualcun’altro me l’ha detto. A volte mi sono sentita dire: non puoi identificarli, è troppo difficile. C’è anche chi mi ha fatto notare che questi morti hanno una sensibilità diversa, una cultura della morte diversa, che nell’Africa subsahariana non è così importante risalire all’identità… Ma io ho fatto un giuramento, ho giurato di curare le persone indipendentemente dalla loro razza o religione. Curare i morti significa anche curare i vivi che stanno dietro le vittime, è un obbligo etico e deontologico della mia professione. I migranti vengono considerati persone di serie B. Con la morte subiscono l’ultimo sopruso. Scappano, hanno alle spalle vite di sofferenza, e infine muoiono in fondo al mare senza vedersi restituito il diritto ad avere un’identità. Dal 2005 sono trentamila i cadaveri recuperati, la metà non identificati”. Stancanelli: “Il mio impegno è iniziato la scorsa estate. Sono tra coloro che hanno risposto all’appello lanciato da Sandro Veronesi rivolto a Roberto Saviano e ad altri scrittori: mettiamoci i corpi, andiamo a testimoniare. Era questa l’idea. Per quanto mi riguarda, avevo già alle spalle un lavoro iniziato con Alessandro Leogrande, un progetto che dopo la sua morte nel 2017 abbiamo voluto chiamare La frontiera, dal titolo di un suo libro. Con Alessandro volevamo creare una specie di banca dati linguistica da cui ripartire per smontare espressioni tipo “taxi del mare” o “aiutiamoli a casa loro” e costruire un alfabeto in grado di filtrare nel linguaggio comune. Siamo andati da esperti diversi, abbiamo consultato botanici, filosofi, etologi chiedendo loro che cosa significasse nelle rispettive discipline la parola “migrazione”. L’anno scorso abbiamo portato il progetto al Salone del libro di Torino. La decisione di imbarcarmi sulla nave Mare Jonio appartiene a questo tipo di esperienze. Il diario di quei giorni l’ho in parte raccontato su Repubblica e ora rivive ampliato nel mio nuovo libro”. Cattaneo: “In fondo entrambe abbiamo messo a punto due banche dati, una biologica e l’altra linguistica, da opporre a chi vive di slogan”. Non abituarsi mai al dolore degli altri è l’antidoto al cinismo? Stancanelli: “Sembrerà strano dirlo, ma la mia esperienza sulla Mare Jonio è stata bellissima: lì, in mezzo a quelle persone, ho avuto la sensazione che qualcuno sta facendo semplicemente la cosa giusta. Fare la guerra a chi affoga in mare va al di là della razionalità”. Cattaneo: “Due settimane fa ho incontrato un uomo siriano che nel disastro dell’11 ottobre 2013 di fronte alle coste di Lampedusa ha perso quattro figli e la moglie. Lui si è salvato perché si era imbarcato dopo. Aveva un senso di colpa micidiale. Mi è rimasto impresso quello che mi ha detto: se riuscite a identificare i corpi dei miei figli o di mia moglie, mi aiutate a trovare i fondi per riportarli a casa? Ai familiari la morte non basta”. Migranti. Sea Watch, faro dei magistrati sui documenti segreti tra Viminale e Capitanerie La Repubblica, 10 marzo 2019 Dopo gli esposti delle associazioni si muovono le procure sul carteggio per tenere lontano dai porti italiani i 47 migranti a bordo, tra i quali 15 minori. Sull’odissea della Sea Watch potrebbe essere la Procura di Roma a svelare il giallo dei documenti top secret tra Viminale e Capitanerie di porto per negare lo sbarco ai 47 migranti a bordo in un porto italiano. Lo rivela Avvenire. La nave della Ong tedesca il 19 gennaio scorso raccoglie a bordo i naufraghi al largo della Libia e fa rotta prima verso Malta e poi verso la Sicilia per ripararsi da una tempesta. Invano il comandante della nave chiede un porto sicuro dove sbarcare i migranti, tra i quali 15 minorenni. Riceve solo no, prima da Malta e poi dall’Italia. La nave si avvicina a Lampedusa, poi fa rotta verso Siracusa e solo il 31 gennaio la situazione si sblocca con l’autorizzazione a sbarcare i profughi nel porto di Catania. Giorni di polemiche e di provvedimenti classificati top secret tra il Viminale e le capitanerie di porto. Sul braccio di ferro e il trattamento dei 47 migranti, in particolare dei 15 minori, diverse associazioni hanno presentato esposti. Uno è stato firmato dall’associazione “Lasciateci entrare” e un fascicolo è stato aperto dalla procura di Roma. Mentre, secondo Avvenire, la richiesta dell’avvocata Alessandra Ballerini per conto dell’Adif, associazione diritti e frontiere, inviata ai ministeri dell’Interno e dei Trasporti per rendere pubblica, in base alle norme sulla trasparenza, la corrispondenza fra Viminale e Capitanerie è stata negata in quanto “la tipologia di atti richiesti non è soggetta a pubblicazione obbligatoria”. Sempre secondo Avvenire, anche il Comune di Siracusa, con il sindaco Francesco Italia e l’assessora Alessandra Furnari, vuole vederci chiaro perché “ciò che ha caratterizzato la vicenda è stata proprio l’assenza di risposte formali”. Migranti. Le ambizioni di Guglielmo Picchi: fare carriera con la guerra alle Ong di Vittorio Malagutti e Andrea Palladino L’Espresso, 10 marzo 2019 Ex Forza Italia, salviniano di ferro, attivista anti-migranti: il sottosegretario agli Esteri ha capito che il futuro passa per la svolta a destra. Un camaleonte. Occhi di ghiaccio ai tavoli delle trattative, sorriso toscano con amici e alleati. Atlantista con il giro di Trump, ma pronto a spendersi per il multilateralismo davanti alle luci del Cremlino. Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Esteri con le delicate deleghe alla Nato, all’Osce e alle autorizzazioni alle vendite delle armi, non ha dimenticato i fondamentali di quello che era il suo mestiere prima di arrivare alla politica. Funzionario della Barclays Capital, la banca d’affari della City, il cuore di quella élite che oggi i sovranisti salviniani giurano di voler abbattere, sa bene che, in affari come in politica, serve avere buon fiuto. Capire dove tira il vento. Il momento chiave della sua carriera è arrivato due anni e mezzo fa: “La svolta decisiva è stata qui, aprile 2016 a Filadelfia”, scrive a commento di una foto che lo vede ritratto con Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti in un fast food della città Usa. Da pochi mesi aveva lasciato Forza Italia per abbracciare la nuova lega salviniana. Quella foto è il ricordo della sua mission impossible dell’aprile 2016, far incontrare Trump e Salvini. Una stretta di mano tra il futuro presidente Usa e il leader della Lega, la Photo opportunity usata poi dalla comunicazione leghista per accreditare Matteo Salvini sulla scena internazionale. Picchi non ha mai nascosto le sue ambizioni: “Al prossimo G7 ci saremo noi, con Salvini premier e chissà io Ministro degli esteri”, scriveva su Instagram il 31 maggio 2016. Quando lascia Silvio Berlusconi per abbracciare il credo leghista aveva già capito che il futuro passava per la svolta a destra, per il sovranismo. Anzi, per la versione dura e pura dell’identitarismo. I primi mesi del 2017 Guglielmo Picchi li dedica a preparare un think-tank identitario, furiosamente anti migranti. Il nemico? Le Ong, ça va sans dire. Il ticket giusto che lo porterà dritto alla Farnesina. Il 3 marzo 2017 fonda a Londra, nella sua elegante residenza vicino Westminster, la “Machiavelli center for political and strategic studies”. Nome inglese, attività tutta italiana. Molto discreta, nessuna menzione nelle sue dichiarazioni annuali di interessi presentate alla Camera dei deputati. Dopo un anno crea una omonima associazione culturale in Italia. Bilanci? Indirizzo? Nulla è pubblicato sul sito. Eppure l’attività è frenetica: ventidue convegni in appena due anni. Dai report sui migranti - riuscendo a bloccare la firma del Global compact sulle migrazioni - fino all’industria delle armi. Il suo uomo di fiducia al ministero degli esteri proviene dal mondo dei centri studi sensibili ai richiami russi. Dario Citati, analista di politica estera, difesa ed intelligence, segretario particolare di Picchi alla Farnesina, nel curriculum vanta diversi viaggi di studio nelle università russe, tra il 2008 e il 2012. Ha seguito il tema caro alla Lega - il concetto di Eurasia, vera fissazione di Aleksandr Dugin - per l’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, think-tank da dove proviene anche Daniele Scalea, cofondatore con Picchi del centro Machiavelli. E qui la passione per la Russia è irrefrenabile: “Colloquium Italo-Russo”, “Forum Euro-Russo”, la “Guida per gli imprenditori russi in Italia”, la “Russia e il Mediterraneo” sono alcune delle iniziative di ricerca promosse dal centro studi degli assistenti di Picchi appena tre anni fa. Giustizia informale, una tradizione secolare per risolvere i conflitti etnici di Elis Viettone La Repubblica, 10 marzo 2019 In molti Paesi in via di sviluppo i giudici informali conoscono più a fondo il contesto sociale in cui operano e sono in grado di restituire alla comunità un maggiore senso di riappacificamento. Esiste una giustizia formale e una giustizia informale, in molti Paesi nel mondo sono altrettanto importanti. “In Kirghizistan ci sono 250 magistrati e 5mila giudici informali: rivolgersi alla giustizia informale per la risoluzione delle controversie è molto più semplice, economico e immediato”, spiega Margarita Meldon, manager del Programma regionale Europa orientale e Asia centrale per Idlo, International Development Law Organization, che, in viaggio dai Balcani alla Mongolia, segue personalmente lo sviluppo della giustizia. Un sistema giudiziario più solido. Tra le principali attività dell’Idlo c’è il supporto alle istituzioni nella formazione di magistrati, giuristi e addetti al funzionamento del sistema giudiziario ufficiale affinché sia più efficiente e indipendente e l’aiuto ai singoli cittadini per garantire loro l’accesso alla giustizia - spesso si tratta di vittime di violenze, schiavitù e prostituzione. Infine, il sostegno al comparto economico, con leggi e regolamenti che promuovano le piccole e medie imprese. Insieme a queste tre aree, una speciale attenzione al miglioramento di meccanismi contro la corruzione e al rafforzamento della parità di genere. La giustizia informale ha una tradizione secolare. “In molti Paesi estremamente lontani dalla nostra cultura, come ad esempio quelli dell’Asia centrale, la giustizia informale è uno strumento fondamentale per la risoluzione dei conflitti tra etnie”, continua Meldon riferendosi anche alla relazione di Idlo Engagement with Customary and Informal Justice Systems. I giudici informali - che in alcuni casi sono eletti dagli abitanti di una determinata area, oppure sono i componenti del consiglio dei saggi di un villaggio - conoscono più a fondo il contesto sociale in cui operano, sono un numero maggiore rispetto ai magistrati e spesso non costano nulla, restituendo alla comunità un maggiore senso di riappacificamento. Questo tipo di procedimenti riguarda solo gli illeciti meno gravi ed è sempre possibile impugnare queste sentenze davanti ai tribunali tradizionali. La corruzione è la prima emergenza. “Da dieci anni mi occupo dei Paesi quali Albania, Kazakistan, Tagikistan, Mongolia Sono tutti davvero cambiati ma non sempre in meglio. In Tajikistan, ad esempio, ho visto un netto aumento del fondamentalismo religioso, pericoloso per i diritti di uomini e donne”. Su scala mondiale però la corruzione è la prima emergenza e le tecnologie non hanno aiutato: “Alla stessa velocità con cui oggi avvengono le transazioni finanziarie e gli investimenti, sugli gli stessi canali, viaggia anche una rete di corruzione che purtroppo non ha più confini”, puntualizza l’esperta. “Intercettare questi reati è sempre più complicato”. Bosnia. Il diritto di essere innocenti di Gigi Riva L’Espresso, 10 marzo 2019 Nel 1992 l’orrore della violenza delle donne musulmane: tra le 20 e le 50 mila. Nell’indifferenza. Fin dall’estate si scoprì che in Bosnia i serbi avevano aperto campi di concentramento per musulmani. Si vociferò addirittura che in alcuni funzionassero forni crematori. Le città erano assediata e bombardate. Le formazioni paramilitari cetniche di Zeljko Raznjatovic detto Arkan saccheggiavano e massacravano la popolazione civile. Esecuzioni pubbliche a sangue freddo, fosse comuni. La guerra col suo volto più truce era tornata per la prima volta in Europa dopo il 1945. I miliziani non nascondevano affatto le loro imprese criminali: se ne vantavano, certi di una duratura impunità. Pensavamo di aver conosciuto tutta la gamma degli orrori. Non era vero, ne mancava uno, il più vile. Fu nell’autunno di quel feroce 1992 che cominciarono a circolare notizie di stupri sistematici sulle donne musulmane, soprattutto nell’est del Paese occupato dai serbi in primavera dopo la proclamazione di indipendenza dalla Jugoslavia. Dall’area filtravano poche notizie, i cronisti erano sottoposti a un rigido controllo. La mancanza di fonti si accompagnava a un altro elemento decisivo: la ritrosia delle vittime nell’ammettere la loro condizione. Alla violenza si sostituiva la vergogna. Il perverso circuito del silenzio che accomunava i carnefici e i loro bersagli non poteva durare, il fenomeno era troppo gigantesco per restare sconosciuto benché sia difficile, ancora oggi, tracciarne i confini. Ci si deve accontentare di una cifra vaga, un compasso largo, tra le 20 e le 50 mila bosniache sotto il pieno dominio dei loro aguzzini. È la casualità che ha separato le sommerse dalle provvisoriamente salvate. Molte furono uccise dopo aver terminato il loro compito di donne di piacere. Diverse lasciate libere perché era convinzione che avrebbero tenuto il segreto. Alcune si suicidarono. Altre furono liberate quando la loro gravidanza era troppo avanzata per abortire. In una società fortemente maschilista dove la discendenza è paterna, avrebbero generato figli serbi. Era lo sconcertante orgoglio del guerriero che vince in camera da letto oltre che sui campi di battaglia. Nell’impazzimento di quel conflitto, l’etnia aveva un peso rilevante. A inizio del 1993 nacquero i primi figli dello stupro. Le loro madri andarono a partorire spesso lontano dai luoghi d’origine. Case “protette” sorsero negli altri cantoni della Bosnia e nella vicina Croazia. L’anonimato veniva garantito ma si fece strada l’idea di permettere che firmassero dichiarazioni con la loro storia omettendo nome e cognome reali. Affinché un giorno, ci fosse stato un giudice in Europa, i colpevoli fossero condannati. Lentamente emersero dettagli raccapriccianti. Non erano state risparmiate nemmeno le suore di conventi lontani dai centri abitati e qualche sorella era rimasta incinta. Il Vaticano, regnante Giovanni Paolo II, aveva discretamente suggerito che nemmeno in questo caso la Chiesa approvava l’interruzione di gravidanza. Molte madri erano state violentate a casa loro davanti ai propri figli piccoli. L’età non metteva al riparo, dalle men che adolescenti alle settantenni purché fossero dell’etnia “avversaria”. Nei luoghi tristemente noti del conflitto erano sorte case di piacere per la soldataglia. Omarska, Prijedor, Zvornik, Foca, Visegrad. Già la Visegrad del “Ponte sulla Drina” del Premio Nobel Ivo Andric. Anche nei sobborghi di Sarajevo conquistati dai cetnici. Il “New York Times” collocò in uno di questi bordelli, a Vogosca, persino il pluridecorato generale canadese Lewis McKenzie, comandante dell’Unprofor, i caschi blu dell’Onu che avrebbero dovuto “garantire la pace”. Una pace mai vista fino al 1995. Con l’ufficiale, diversi dei suoi soldati, alcuni pure resi padri chissà se consapevoli o meno, se non dalle donne prigioniere e schiave, da ragazze che si prostituivano per necessità. Le prime confessioni dei responsabili, unite alle testimonianze delle vittime che osarono rompere il silenzio, resero chiaro che in Bosnia c’era stato un salto di qualità delle nefandezze umane. La violenza sessuale era diventata un’arma di guerra, faceva parte di una strategia studiata e pianificata a tavolino. Lo stupro di massa serviva a umiliare, spargere terrore, fiaccare la resistenza, mettere mogli contro mariti. Il premio Pulitzer americano Roy Gutman pubblicò una serie di articoli sul tema di cui uno aveva per titolo “Stuprare per ordine”. Ci vollero alcuni anni ma finalmente all’inizio del nuovo Millennio, arrivò un giudice in Europa. Per i fatti di Bosnia, il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja sancì per la prima volta che la violenza sessuale è un crimine contro l’umanità. Una piccola parte degli autori è stata condannata. Simbolicamente, tuttavia, una grande vittoria. Tempo è passato. Delle sopravvissute qualcuna ha superato i traumi, molte no, altre continuano a nascondere le terribili vicende che le videro protagoniste. I figli dello stupro sono cresciuti e diventati uomini. Quanti sono? Dai due ai quattromila, anche qui una stima approssimativa che assomma i certi, gli inconsapevoli, quelli dati in adozione che mai sapranno delle loro origini. Per la prima volta alcuni di loro parlano. Reclamano diritti negati perché il padre è “enne enne”. Reclamano, soprattutto, quella che dovrebbe essere una banalità: il diritto di essere quel che sono alla luce del sole. Innocenti. La guerra infinita nella Siria dei “buchi neri” di Alberto Negri Il Manifesto, 10 marzo 2019 Dal buco nero di Al Baghouz vediamo emergere, insieme a centinaia di cadaveri di donne e vittime yazide nelle fosse comuni, i prigionieri dell’Isis e le loro famiglie. Questa è la Siria dei “buchi neri”, un conflitto con un campo gravitazionale così intenso che non se ne vede la fine. La guerra siriana proprio non si esaurisce all’orizzonte del modesto villaggio di Al Baghouz, sull’Eufrate. Dove le forze curdo-arabe hanno assediato l’ultima sacca di un Califfato che a un certo punto controllava migliaia di chilometri quadrati a cavallo tra Iraq e Siria e la vita di quasi nove milioni di persone. Al culmine della sua potenza ho potuto vedere sventolare la bandiera nera a 15 chilometri dal centro di Damasco, a 70 da quello di Baghdad, a 40 minuti di auto dalla capitale curda irachena di Erbil, a Makmour, dove proprio ieri l’Isis ha fatto fuori 6 miliziani delle forze sciite. E nella roccaforte dei curdi siriani a Kobane, nell’ottobre 2014, il vessillo di Al Baghdadi era di fronte, dall’altra parte della strada. Dal buco nero di Al Baghouz vediamo emergere, insieme a centinaia di cadaveri di donne e vittime yazide nelle fosse comuni, i prigionieri dell’Isis e le loro famiglie. Le mogli dei jihadisti accusano ad alta voce gli americani di essere i veri massacratori del popolo siriano. Qualche cosa di diverso mi racconta Lamya Haji Bashar la giovane yazida, premio Sakharov, ridotta in schiavitù dai jihadisti. “Le donne dell’Isis sono state quasi peggio degli uomini che mi hanno stuprato. Sono stata venduta cinque volte - racconta Lamya - e ogni volta picchiata, violentata e torturata dai miei aguzzini: gli uomini mi stupravano, le donne mi trattavano come un animale che striscia per terra”. Il volto di Lamya porta le cicatrici di una granata esplosa mentre tentava la fuga ma i segni dentro la sua anima sono ben più profondi. “Vedo che oggi escono dall’assedio e chiedono di tornare a casa, mi domando se questa sia davvero giustizia: forse dovrebbero affrontare un processo alla Corte penale internazionale”. La guerra non finisce in questo lembo di terra siriana si Al Baghouz affacciata sul governatorato iracheno di Al Anbar - dove si stima ci siano ancora 5-7mila combattenti - per i seguenti motivi che elenchiamo: 1) A Idlib e nel Nord siriano - 2,5 milioni di abitanti - ci sono ancora decine migliaia di jihadisti affiliati di Al Qaida, con stime variabili da 20mila a 40mila. La loro resa o ricollocazione è affidata all’accordo tra Russia, Turchia e Iran, ma non c’è ancora niente di deciso neppure dopo il vertice trilaterale di Sochi del 14 febbraio. L’aviazione siriana da giorni martella a Khan Shaykhun e Jisr Shughur, rispettivamente a sud e a ovest di Idlib, dove sono asserragliate anche le milizie filo-turche. 2) Continua il conflitto tra curdi e la Turchia. I curdi, considerati da Ankara dei “terroristi”, chiedono una forza internazionale di interposizione mentre Erdogan insiste per ampliare la sua “fascia di sicurezza” dopo essersi impossessato del cantone curdo di Afrin: qui nelle scuole si insegna il turco e Ankara ha imposto la sua economia. Il presidente turco ieri ha ribadito la minaccia di invasione e al contempo ha confermato la sua sfida a Usa e Nato con l’acquisto del sistema di difesa missilistico S-400 e per gli S-500 di prossima generazione. È chiaro che vuole il via libera di Putin, il quale nicchia, mentre tiene sulla corda gli americani. 3) Permane il vero motivo strategico del conflitto che nel 2011, da rivolta popolare contro il regime alauita, si è trasformato in una guerra per procura contro l’influenza dell’Iran, l’alleato storico di Assad, con il coinvolgimento della Turchia delle monarchie del Golfo e delle potenze occidentali che pur di abbattere il regime hanno sostenuto i jihadisti, come del resto ha affermato di recente il colonnello francese François-Régis Legrier nell’intervento sulla Revue de la Défense nationale, con grande disappunto delle Forze Armate. 4) Israele, che gli Stati uniti si ritirino o meno, continuerà i raid in Siria contro i pasdaran iraniani. Azioni militari che coinvolgono inevitabilmente gli Hezbollah, alleati di Teheran in Libano. Gli israeliani sono stati investiti da Washington del ruolo di guardiani della regione mentre anche Putin, che finora ha contato sugli iraniani, deve arrivare a un accordo sia con l’Iran che con Netanyahu che ha incontrato la scorsa settimana a Mosca. Chi “tradirà” chi? Putin è il vincitore della guerra, insieme all’Iran e al regime di Assad, ma ha anche grandi interessi politici ed economici con Israele, la Turchia e le monarchie del Golfo: deve far fruttare, con la ricostruzione, una vittoria militare di prestigio ma assai costosa. 5) La fine territoriale dell’Isis non è la fine del jihadismo: continueranno azioni di guerriglia e l’insurrezione sunnita, tra Siria e Iraq, non è sepolta perché le rivendicazioni settarie restano sia in Siria che tra la minoranza sunnita dell’Iraq. Come non è certo evaporata sull’Eufrate l’ideologia dell’Isis che si è diffusa con le sue affiliazioni ben oltre i confini del Medio Oriente, dall’Asia all’Africa. Una questione si lega all’altra, una guerra si lega all’altra. La fine dell’Isis, nel gioco degli specchi mediorientali, riflette il netto contorno di una sconfitta militare ma anche il destino tragico e precario di interi popoli e nazioni. Iran. Otto ambientalisti rischiano condanne per false accuse di spionaggio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 marzo 2019 In Iran, otto ambientalisti, accusati di spionaggio solo per aver usato telecamere per osservare specie in pericolo, rischiano il carcere e persino la pena di morte, al termine di un processo irregolare. Il verdetto è atteso nei prossimi giorni. Gli otto scienziati, che hanno rapporti con la sezione persiana del Fondo per la protezione del patrimonio naturale, sono stati arrestati tra il 24 e il 25 gennaio del 2018 mentre stavano svolgendo ricerche su alcune specie animali in pericolo in Iran, tra cui la scimmia asiatica e il leopardo persiano. Un nono scienziato arrestato con loro, Kavous Seyed-Emami, di passaporto iraniano e canadese, è morto in circostanze sospette nella prigione di Evin due settimane dopo. Le autorità hanno dichiarato che si è trattato di un suicidio e hanno restituito la salma ai familiari solo a condizione che la seppellissero rapidamente, senza far effettuare un’autopsia indipendente. Le autorità giudiziarie hanno accusato gli otto ambientalisti di aver usato progetti a carattere scientifico e ambientalista come copertura per raccogliere informazioni militari segrete. Vi sono tuttavia prove che, durante un lungo periodo di isolamento nella sezione 2-A di Evin, controllata dalle Guardie rivoluzionarie, siano stati torturati per farli “confessare”: durante una delle rare visite familiari, alcuni di loro si sono presentati coi denti rotti e hanno mostrato ecchimosi sul corpo. Sulle loro denunce non è mai stata aperta alcuna indagine. L’incriminazione è arrivata nell’ottobre 2018: quatto degli arrestati (Niloufar Bayani, Houman Jowkar, Morad Tahbaz e Taher Ghadirian) sono stati accusati di “corruzione sulla Terra”, reato particolarmente grave contro l’integrità fisica delle persone o contro la sicurezza o gli interessi della nazione per il quale è prevista la pena di morte; altri tre (Amirhossein Khaleghi, Sepideh Kashani e Abdolreza Kouhpayeh) di spionaggio, per cui rischiano fino a 10 anni di carcere; e infine Sam Rajabi di “collaborazione con stati ostili contro la Repubblica islamica” e “collusione per commettere reati contro la sicurezza nazionale”, reati per i quali potrebbe essere condannato a 11 anni. Il processo a porte chiuse, affrontato senza avvocati di propria scelta, è iniziato presso la Sezione 28 del Tribunale rivoluzionario di Teheran il 30 gennaio 2019. In una delle udienze, Niloufar Bayani ha ritrattato la “confessione” sostenendo di essere stata costretta a farla dopo che era stata fiaccata dalle torture fisiche e psicologiche: le è stato detto che le avrebbero somministrato droghe, che le avrebbero scarnificato le unghie e che avrebbero arrestato i suoi genitori. Una volta, coloro che la stavano interrogando le hanno mostrato una foto della salma di Kavous Seyed-Emami, facendole credere che avrebbe fatto la stessa fine. Espulsa dall’aula, non ha potuto essere presente alle ultime tre udienze. La vicenda degli otto ambientalisti è talmente assurda che persino i ministri dell’Intelligence, dell’Interno e della Giustizia hanno dichiarato che non esistono prove che essi siano delle spie. Funzionari del ministero dell’Ambiente hanno chiesto la loro scarcerazione. Egitto. “Io critico Al Sisi, ora ho paura” L’attore egiziano rischia il carcere di Viviana Mazza Corriere della Sera, 10 marzo 2019 Waked si è schierato contro il regime sin dal 2011. Ora ha rivelato di aver ricevuto un rifiuto per il rinnovo del passaporto e di non poter tornare al Cairo. Molti lo ricorderanno nel ruolo di un fondamentalista islamico nel film Syriana con George Clooney, oppure nei panni di uno sceicco yemenita che vuole avvicinare Oriente e Occidente nella commedia romantica “Il pescatore di sogni”. Amr Waked, uno degli attori egiziani più famosi all’estero, è noto per essersi schierato contro il regime sin dalla rivoluzione del 2011 (su cui ha realizzato anche un film, L’inverno dello scontento) fino alle critiche per la decisione del generale-presidente Abdel Fattah Al-Sisi di cedere due isole strategiche nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi l’attore, che da un paio d’anni vive tra la Francia e la Spagna, ha rivelato ai sei milioni e mezzo di followers su Twitter di aver paura di ritornare in patria, dove rischierebbe otto anni di carcere per aver diffuso “notizie false” e insultato le istituzioni. Ha spiegato che gli è stato anche rifiutato il rinnovo del passaporto all’estero, con la richiesta di tornare in Egitto, ma non intende farlo finché non ci sarà democrazia e giustizia. Migliaia di critici in Egitto sono stati costretti al silenzio attraverso le leggi e le minacce. Dallo scorso luglio le autorità possono servirsi dell’accusa di diffondere “fake news” per chiudere siti internet e profili social con più di 5.000 follower, anche senza bisogno di autorizzazione giudiziaria. Nei giorni scorsi il fotoreporter Mahmoud Abu Zaid, detto Shawkan, è stato scarcerato dopo cinque anni ma 25 giornalisti restano in prigione. Le critiche della stampa estera vengono spesso descritte come parte di un complotto straniero per diffondere il caos in Egitto, mentre il governo sostiene che le misure restrittive delle libertà civili sono necessarie per ricostruire l’economia e combattere il terrorismo. Al Sisi ha più volte suggerito che i diritti politici sono meno importanti del diritto al “pane”, a un’abitazione e di altri bisogni primari. Tutto ciò divide gli egiziani, incluse le celebrità. Rami Malek, egiziano-americano, che ha appena vinto l’Oscar come miglior attore nei panni di Freddie Mercury in Bohemian Rapsody, ha elogiato già quattro anni fa Al Sisi in un’intervista con Egypt Independent per aver “salvato l’Egitto dalla guerra civile” e perché “tratta tutti i cittadini allo stesso modo, al di là della religione, la cosa giusta da fare”. Malek, nato a Los Angeles da genitori egiziani (il papà da guida turistica al Cairo si era reinventato venditore porta a porta di assicurazioni) appartiene alla minoranza cristiana copta che per lo più appoggia il raìs. Dopo la sua vittoria agli Oscar, dove ha ricordato le sue origini, le autorità del Cairo hanno cercato di rivendicare un legame con l’attore, e il ministero dell’Immigrazione ha persino twittato parte del suo discorso. Ma molti, inclusa l’organizzazione dei diritti umani “Human Rights Watch”, denunciano l’ipocrisia di queste manifestazioni d’orgoglio: “Rami Malek è stato premiato per aver dato vita ad una icona queer, ma se Freddie Mercury vivesse in Egitto oggi potrebbe essere incriminato per depravazione com’è accaduto a settantasei persone l’anno scorso”. Non potrebbe nemmeno essere intervistato dai media, come stabilisce una nuova legge, a meno che non sia un “omosessuale pentito”.