Le celle-carnaio e il vuoto mantra della galera di Antonio Mattone Il Mattino, 9 maggio 2019 Come una bomba a orologeria, dopo la sparatoria di piazza Nazionale e il ferimento della piccola Noemi che ha suscitato grande commozione in tutto il Paese, la dichiarazione esplosiva di Matteo Salvini non si è fatta attendere. “In giro per Napoli ci sono liberi oggi non alcune centinaia, ma parecchie migliaia di condannati in via definitiva che non sono in carcere ma a spasso”, ha detto il ministro degli Interni. Per assicurare queste persone alla giustizia il Viminale ha emanato la misura denominata “spazza clan”, che prevede ottocento assunzioni straordinarie per dare la caccia ai condannati in via definitiva che restano liberi per le lentezze della burocrazia. Si parla di una spesa di 25 milioni di euro spalmati su due anni. “La prevenzione e la repressione funzionano ma manca la fase finale. Per me contano i fatti, le chiacchiere le lascio agli altri”, ha continuato il leader della Lega. Ma proprio per attenersi ai fatti, manca un tassello fondamentale: in quale carcere rinchiudere queste persone visto che a Poggioreale ci sono quasi 2400 detenuti (800 oltre la capienza prevista), e in tutta Italia 10mila carcerati in più della soglia regolamentare? Queste cifre mettono a nudo l’emergenza dei sistemi giustizia e carcere che devono andare di pari passo se vogliamo aspirare ad essere un Paese civile. Non si può chiedere applicazione della giustizia e chiudere un occhio sulla legalità delle condizioni di detenzione. E se solo oggi si tirano fuori i numeri delle mancate esecuzioni delle sentenze, dati peraltro già noti come ha ricordato il presidente della Corte di Appello di Napoli Giuseppe De Carolis, bisogna dire che delle carceri in Italia non se ne parla più. Il governo gialloverde dopo aver bocciato i cardini fondamentali della Riforma proposta dall’esecutivo della passata legislatura - che dobbiamo ricordare non ha avuto il coraggio di approvarla pur avendone i numeri sufficienti - ha inasprito il ricorso al carcere. Come la legge “spazza-corrotti” che prevede l’applicazione del regime carcerario, senza sospensione dell’esecuzione della pena, anche per reati per i quali la normativa vigente all’epoca del processo consentiva la concessione di misure alternative. E se la sicurezza è il mantra che Salvini porta avanti in ogni campagna elettorale, come pensa di rendere effettivamente più sicura la nostra società, comprimendo di esseri umani le galere? O forse costruendo nuovi istituti di pena? Il carcere duro non cambia le persone, le rende più incallite e maggiormente connesse con il circuito criminale. Solo migliorando la quotidianità detentiva e ricorrendo a misure alternative si può diminuire la recidiva. Così come si deve aver presente che la costruzione di un nuovo penitenziario di 200-250 posti, richiede una spesa di che va dai 25 ai 35 milioni di euro, a cui bisogna aggiungere il costo necessario per il personale. Il sistema carcerario sta vivendo un momento difficile non solo per il sovraffollamento. Carenze negli organici, sia nel comparto sicurezza che per gli educatori, aggressioni tra i detenuti e agli agenti, aumento dei suicidi, difficoltà per le cure sanitarie, insufficienze della psichiatria sono le criticità su cui è caduto un silenzio tombale. Pochi giorni fa un ragazzo che stava scontando la pena ai domiciliari senza commettere alcuna infrazione, ha avuto la sentenza definitiva ed è tornato a Poggioreale. Eppure se gli fossero stati concessi i giorni di sconto di pena per buona condotta sarebbe dovuto già essere libero da mesi, ma il magistrato di sorveglianza ha ritenuto di farlo tornare in carcere, magari per pochi giorni, interrompendo così in modo brusco e traumatico il processo di reinserimento che stava portando avanti. Eppure non è un criminale incallito, ma la legge non riesce a ponderare le differenti situazioni, obbedisce al diktat del momento: più carcere, più sicurezza. La mancata notifica di migliaia di sentenze a Napoli come in tutta Italia è certamente una emergenza, che va affrontata. Tuttavia bisogna anche prevedere una detenzione umana degna di un Paese civile e aver presente che per la nostra Costituzione il carcere non è l’unico modo di espiare la pena. E, infine, ricordare al ministro Salvini che la fase finale di un processo di giustizia non è rinchiudere i criminali in cella, ma restituirli alla vita sociale migliori e cambiati. L’era del castigo di Ivo Silvestro La Regione, 9 maggio 2019 Intervista a Roy Garré, giudice del tribunale penale federale elvetico e storico del diritto, sulla giustizia riparativa. La giustizia riparativa trova sempre maggior spazio, sia nei convegni - l’Istituto di diritto dell’Usi ne ha organizzato uno lo scorso novembre e un secondo nei giorni scorsi - sia nei tribunali e nelle carceri. Tuttavia se in molti Paesi europei la giustizia riparativa è istituzionalizzata e sostenuta dalla politica - seppure con risultati discontinui, come sottolineato martedì all’Usi da Brunilda Pali dell’Università di Lovanio - in Svizzera possiamo al più parlare di “frammenti”, come da titolo dell’intervento di Roy Garré, giudice del Tribunale penale federale e storico del diritto. Roy Garré, perché è così difficile parlare di giustizia riparativa? Nel suo intervento diceva che viviamo nell’era del castigo… Sì, citavo Didier Fassin che nel suo libro “Punire, una passione contemporanea” scrive che nell’ultimo decennio “il mondo è entrato in un’era del castigo: le infrazioni alla legge vengono sanzionate con sempre maggiore severità. Tale tendenza non è direttamente correlata, come dimostrano tutti gli studi internazionali, ad alcun incremento della criminalità e della delinquenza”. Insomma, punire è considerato un fine in sé stesso, più che un mezzo... Questa è la tesi di Fassin. Per quanto mi concerne io mi rifaccio a Seneca e Platone: puniamo per prevenire nuovi reati e per stigmatizzare in maniera adeguata e giusta il crimine. C’è quindi una componente retributiva che è giusta - e che si manifesta nella durata della pena: più un reato è grave, più la pena è lunga - e c’è la prevenzione: evitare che la persona in questione commetta altri reati (prevenzione speciale) e che altre persone commettano reati simili (prevenzione generale). Per cui - e arriviamo così alla giustizia riparativa - altri mezzi per stigmatizzare e prevenire sono i benvenuti… Certo. Intanto è importante sottolineare che la giustizia riparativa non è alternativa ma complementare a quella punitiva tradizionale di cui non viene assolutamente messa in discussione l’importanza. In che misura è complementare? Non si mette in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale e si presuppone il consenso delle parti, cioè del reo e della vittima che possono in qualsiasi momento interrompere il percorso intrapreso. Ma possono esserci delle conseguenze sul procedimento penale... Questo dipende dalle varie declinazioni della giustizia riparativa: ci sono Stati in cui può portare a un alleviamento della pena, a una pena condizionale o - penso al diritto penale minorile svizzero - all’abbandono del procedimento. Dipende dalle scelte legislative. In Svizzera abbiamo due strumenti, la conciliazione e la mediazione... La conciliazione esiste sia a livello minorile sia - a determinate condizioni - di giustizia degli adulti e resta all’interno del paradigma giudiziario. La mediazione, che esiste solo a livello minorile, invece ne esce: il magistrato può, se le parti sono d’accordo, incaricare un mediatore, una terza persona esterna al mondo giudiziario. Ci sono esperienze molto positive, ad esempio nel Canton Friborgo, di mediazione. E c’erano esperienze positive anche per il diritto penale degli adulti, prima dell’entrata in vigore del nuovo codice unificato di procedura penale. Perché la mediazione, in Svizzera, non è prevista dalla procedura penale non minorile... Era prevista nel progetto originale del Consiglio federale, con riscontri molto positivi nella procedura di consultazione. Poi, piuttosto a sorpresa, il parlamento non ha seguito queste proposte iniziali. Come mai? Le motivazioni portare nel dibattito sono essenzialmente due: finanziarie e di tipo federalista - non si voleva imporre ai Cantoni soluzioni di questo tipo. Penso che comunque dietro a queste ragioni ci sia uno scetticismo di base nei confronti della giustizia riparativa. Scetticismo che non trova riscontro nelle esperienze fatte in tantissimi Paesi europei dagli anni Ottanta in poi - e negli stessi Cantoni svizzeri in cui veniva praticata. Quindi c’è una tradizione svizzera di giustizia riparativa? Sì. Forzando un po’ le cose, la potremmo trovare nella volontà conciliativa dei conflitti intercantonali presente nei primi Patti federali. Ma senza voler andare così lontano, è presente nel pensiero del padre del codice civile svizzero, Eugen Huber, centrato molto sulla tradizione delle decisioni “nach Minne und Recht”, una forma di equità al di là delle forme giuridiche strette. Su questo tipo di giustizia più conciliativa che formalistico-legale abbiamo una lunghissima tradizione in Svizzera, risalente al tardo Medioevo. È un discorso che va al di là del penale e riguarda più in generale le alternative extra-giuridiche alla risoluzione dei conflitti. Il penale è la forma più forte di intervento dello Stato però la logica che sta dietro è la stessa: ricomporre uno squilibrio che si è creato nel tessuto sociale. La forma di intervento più forte, ma c’è la tendenza a ricorrere sempre più spesso al penale… C’è effettivamente una proliferazione di normative penali all’interno di leggi speciali che potrebbero essere risolte con misure amministrative o di tipo civile. Per me il diritto penale dovrebbe concentrarsi sui beni giuridici fondamentali: la vita, l’integrità fisica, l’integrità sessuale, l’onore… Ci sono tutta una serie di condotte che non necessiterebbero dell’intervento del giudice penale - evitando anche di ingolfare la giustizia penale. Ma spesso è la popolazione stessa a chiedere l’introduzione di nuovi reati - oltre che pene più severe... Per quanto riguarda i nuovi reati, è chiaro che se ci sono comportamenti legati agli sviluppi tecnologici - ad esempio la ciber-criminalità - che necessitano di nuove norme penali, sono il primo a dire che è importante colmare queste lacune. Anche se il codice penale è fatto talmente bene che molte fattispecie concepite tra Otto e Novecento restano valide anche nel mondo virtuale: un’ingiuria resta un’ingiuria detta verbalmente o sui social media. Per quanto riguarda il punitivismo della popolazione, bisogna sfatare un mito: ci sono studi molto interessanti che hanno confrontato giudici professionisti e persone prive di una formazione giuridica sulla pena da irrogare in casi concreti. E, salvo alcuni casi particolari, tendenzialmente la popolazione è meno severa dei giudici professionisti. Un conto è discutere al bar di un caso di cui si legge sul giornale; un altro ritrovarsi in un processo a giudicare un altro essere umano. Condannati in libertà, in arrivo lo “spazza-clan” di Salvini di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 9 maggio 2019 Ma è scontro di cifre Giustizia-Viminale. Una norma “spazza-clan”, così la definisce Matteo Salvini che ieri ha annunciato un decreto Sicurezza- bis. L’obiettivo del ministro dell’Interno è consentire ai tribunali di notificare le sentenze a migliaia di condannati in via definitiva che circolano liberamente nelle nostre città. Secondo il Viminale, soltanto a Napoli, sarebbero 12mila le persone a piede libero nonostante sentenze definitive a loro carico, tra questi anche appartenenti ai clan della camorra. Per superare lo stallo, Salvini ha stanziato 25 milioni di euro per assumere 800 persone da impiegare nei tribunali. Ma è guerra di numeri con il ministero della Giustizia che nei mesi scorsi aveva già predisposto un’ispezione al tribunale partenopeo stabilendo che si tratta di 9mila casi per cui sarebbe prevista la sospensione dell’esecuzione della pena, quindi non si tratterebbe di condannati da mandare in carcere. A fare da scenario all’iniziativa di Salvini c’è sicuramente il caso della piccola Noemi, ma balza agli occhi anche il rapporto sempre più logoro al governo tra Lega e 5 Stelle con il titolare del Viminale che è voluto entrare a gamba tesa su un tema che sarebbe di competenza del ministro grillino Alfonso Bonafede. Da Largo Arenula ricostruiscono diversamente la situazione dei tribunali napoletani, pur riconoscendo che il problema delle mancate notifiche esiste ed è grande. “La situazione di Napoli - spiegano fonti del ministero di Giustizia - è già da tempo all’attenzione. Lo scorso marzo, infatti, si è conclusa un’ispezione presso la Corte d’Appello che ha evidenziato alcune disfunzioni nell’esecuzione di tutti gli adempimenti successivi alla sentenza irrevocabile ed è stata emanata una raccomandazione dall’Ispettorato Generale”. Secondo i tecnici del ministero il problema ha già visto sostanziosi passi avanti. “Abbiamo immesso nuovo personale, anche di recente, ed è stata creata una task-force dedicata agli adempimenti esecutivi. Ciò ha consentito, nel triennio 2016-2018, di ridurre significativamente l’arretrato, completando gli adempimenti esecutivi relativi a sentenze di condanna per quasi 17mila processi, fra cui 400 maxi”. Dall’ispezione emerge che si tratta di circa 9mila casi in totale e “non riguardano - precisano da Largo Arenula - pene da scontare in carcere”. A stimolare l’idea del decreto “spazza clan” del Viminale è stata una relazione del presidente della Corte d’Appello di Napoli, Giuseppe De Carolis di Prossedi. Il dato delle 12mila mancate notifiche fu citato dal presidente partenopeo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018. Il magistrato precisò di aver inviato comunicazione di questo problema “di priorità assoluta” al Csm. “Le singole sezioni penali - spiegò - oberate da ingenti carichi di lavoro riuscivano a malapena a dare esecuzione alle sentenze nei confronti di imputati già detenuti e tendevano a tralasciare quelle nei confronti di imputati liberi”. Gli effetti di queste mancate notifiche riguardano soprattutto le persone che commettono più reati e subiscono più processi. “La conseguenza è che i condannati continuano a risultare incensurati - spiegava De Carolis - e possono fruire più volte legittimamente del beneficio della sospensione condizionale della pena in caso di ulteriori condanne”. Fu quindi avviata una task-force predisponendo delle unità del tribunale messe al lavoro anche di sabato per evadere le pratiche e il personale affiancato anche da alcuni tirocinanti messi a disposizione dalla Regione Campania. Il problema è noto da anni e non riguarda soltanto Napoli, ma è mal comune di molti tribunali italiani. “È un’emergenza nazionale - ha tuonato Salvini - come conferma l’omicidio del giovane Stefano Leo avvenuto a Torino lo scorso febbraio”. Leo venne infatti ucciso da un killer che sarebbe dovuto già essere in carcere per gli effetti di una precedente condanna non notificata. Per Salvini è prioritario intervenire direttamente con il Viminale perché le mancate notifiche impattano direttamente sulla sicurezza nazionale. A piede libero ci sarebbero anche trafficanti di esseri umani rimasti nel limbo della burocrazia italiana. I 25 milioni saranno ripartiti in due anni e porteranno all’assunzione straordinaria di 800 persone che andranno ad affiancare i magistrati nei tribunali italiani. Salvini prepara un decreto sicurezza bis, stretta su mafie e scafisti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 maggio 2019 Pronta la norma spazza-clan che dovrebbe consentire l’immediata esecuzione delle sentenze di condanna a mafiosi, camorristi e ‘ndraghetisti mai notificate per mancanza di personale. Nuove norme per rendere più efficace la lotta alle mafie, contro gli scafisti e a tutela delle forze dell’ordine. C’è un decreto sicurezza bis sul tavolo del ministro dell’Interno Matteo Salvini che questa mattina ha anche annunciato una nuova norma cosiddetta spazza-clan perché dovrebbe consentire l’immediata esecuzione delle sentenze di condanna mai notificate per mancanza di personale che lasciano liberi mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti, 800 assunzioni straordinarie per 25 milioni di euro spalmati in due anni. Obiettivo: notificare le sentenze alle migliaia di condannati in via definitiva che restano liberi di girare per le nostre città in attesa del pezzo di carta. Solo a Napoli, secondo la relazione del presidente della Corte d’Appello, sono ben 12.065. La mancata notifica di migliaia di sentenze in tutta Italia è una emergenza nazionale, come conferma l’omicidio del giovane Stefano Leo avvenuto a Torino il 23 febbraio 2019. Il presidente della Corte d’Appello chiese scusa alla famiglia della vittima. La situazione degli arretrati raggiunge livelli drammatici a Napoli: un quadro che indebolisce gli sforzi delle Forze dell’Ordine per garantire la sicurezza - sottolineano fonti del Viminale. Da qui, la misura straordinaria che il Viminale coprirà con fondi propri, già individuati dagli uffici. Gherardo Colombo: “Non solo manette, la legalità conviene bisogna spiegarlo” di Giusi Spica La Repubblica, 9 maggio 2019 “Non sono d’accordo con l’inasprimento delle pene: per ogni corrotto che va in carcere, altri cento continuano: meglio educare alle regole”. “La repressione non serve. I cittadini devono capire che rispettare le regole conviene”. Gherardo Colombo, uno dei giudici simbolo di Mani pulite, sbarca a Messina per presentare il suo libro sulla corruzione (“Il legno storto della giustizia”) nel day after del blitz per mazzette al provveditorato opere pubbliche. Dopo Tangentopoli è nata una nuova classe dirigente. Che però non sembra meno permeabile della precedente alla corruzione… “Mani pulite è stata una bolla di sapone, benché sia durata 13 anni fra indagini e processi. Molte posizioni sono state prescritte, tanti imputati sono stati assolti perché il fatto contestato non costituiva più reato. La politica ha sostanzialmente depenalizzato il falso in bilancio e altri reati, ha ridotto i termini di prescrizione, è intervenuta sulla validità delle prove. L’attenzione che i cittadini dedicavano alle indagini nei primi anni di Tangentopoli è scemata ed è diventata opposizione. Tutte le volte in cui la cultura dominante entra in conflitto con le regole, vince la cultura dominante e perdono le regole. Oggi la corruzione è più anarchica. Prima riguardava i partiti, ora coinvolge sempre di più le persone”. In Sicilia il costo della corruzione è di quattro miliardi di euro. Nel suo libro parla di “insostenibilità economica del sistema”. Che significa? “Le stime sono al ribasso. Se un imprenditore vuole vincere un appalto barando, dovrà fare l’offerta più conveniente. Mettiamo che il costo per fare una strada sia 100: per vincere deve presentare un’offerta di 90. Se aggiunge il prezzo della tangente, dovrà costruire la strada con 80. È chiaro che si rivarrà sull’ente pubblico, usando ad esempio meno asfalto del dovuto. Quindi la strada si usurerà prima, costringendo a nuovi lavori. Oppure l’imprenditore proporrà varianti in corso d’opera, così da far lievitare i costi. In un modo o nell’altro, le tangenti le pagano sempre i cittadini attraverso le tasse, così alte anche per questo. Inoltre, se un imprenditore vince gli appalti perché corrompe e non perché è bravo, il livello professionale delle imprese si abbassa. Senza contare i danni per la democrazia: ci sono state carriere politiche costruite con i profitti della corruzione”. È cresciuto il ruolo della criminalità organizzata? “La mafia è presente in molti settori, anche nell’imprenditoria. La corruzione è una delle sue armi. E, a differenza dell’intimidazione, la corruzione crea consenso”. Uno dei settori più colpiti dalla corruzione è la sanità. Perché? “Perché la spesa sanitaria assorbe gran parte dei bilanci delle Regioni. E i corruttori vanno dove ci sono i soldi. Sono a rischio tutti i settori dove circola denaro: un tempo le opere pubbliche, oggi i servizi”. Basta il contrasto penale? “Le indagini e i processi non sono uno strumento efficace. Ci vuole l’educazione. Bisogna far comprendere fin da bambini che il rispetto delle regole fa sì che tutti, indipendentemente dalla condizione sociale di partenza, possano avere le stesse possibilità. Oggi invece per gli italiani regola è sinonimo di obbligo, sanzione. E a nessuno piace essere obbligato”. Il blitz di martedì ha portato alla prima applicazione in Sicilia del decreto “spazza-corrotti”. È una misura efficace? “Non sono d’accordo con l’inasprimento delle pene. La pena deve essere proporzionata al fatto. E poi dovrebbe essere applicata. Ma quando il fenomeno è diffuso come la corruzione, per ogni corrotto che mettiamo in carcere, altri cento continueranno a farlo. L’unica strada è l’educazione alle regole”. La politica ha gli anticorpi per contrastare la corruzione? “La politica è espressione della cittadinanza. Dovremmo chiederci se il popolo ha gli anticorpi. E non credo sia così”. Ecco il manifesto dell’Ucpi per un diritto penale liberale di Giulia Merlo Il Dubbio, 9 maggio 2019 È il documento ideato dal presidente dei penalisti italiani Caiazza: sarà presentato domani a Milano, nell’evento clou della tre giorni di astensione. La presunzione di non colpevolezza e difesa dei diritti e delle libertà della persona sono i cardini del diritto penale, radicati nella Costituzione. “Ma oggi vengono esplicitamente messi in discussione e vilipesi”, scrive il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza. Per questo l’Ucpi ha promosso, già dal congresso di Sorrento dell’ottobre 2018, un “Manifesto del diritto penale e del giusto processo”, in cui è stata coinvolta non solo l’avvocatura penale, ma anche l’accademia. Il risultato di questo approfondimento verrà presentato alla manifestazione indetta per domani e sabato presso l’università Statale di Milano, con un programma fitto di incontri e da parte dei massimi esponenti dell’avvocatura e dell’università. Un’iniziativa che costituisce il culmine della tre giorni di astensione dalle udienze proclamata dall’Ucpi da ieri fino alla giornata di domani. A portare i saluti all’incontro milanese saranno il rettore dell’università, Elio Franzini, la presidente della Corte d’Appello di Milano, Marina Tavassi, il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, il presidente dell’Ordine del capoluogo lombardo, Vinicio Nardo, e la presidente della Camera penale di Milano, Monica Gambirasio. A seguire, la presentazione delle ragioni e dei contenuti del “Manifesto”, che proseguirà anche nella mattinata di sabato con interventi di avvocati e professori. Le conclusioni verranno tratte al termine dei lavori dal presidente dell’Ucpi Caiazza. “L’idea di promuovere il concepimento e la scrittura di un “Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto Processo” nasce in una peculiare contingenza politica - l’avvento dei populisti al governo del Paese - ma affonda le sue radici nella assai più risalente crisi del garantismo penale”, si legge nell’introduzione al documento, la cui versione completa è scaricabile dal sito dell’Unione. Il “Manifesto” individua trentacinque punti, che sono anche i principi di un diritto penale liberale, frutto della riflessione sulla crisi del garantismo penale, dovuta alla “progressiva divaricazione tra “effettività” e “normatività” delle norme penali”. I penalisti spiegano le ragioni della scelta di un manifesto condiviso con l’accademia con l’analisi della situazione dell’oggi, in Italia: “Il populismo penale è oggi al governo del Paese e raccoglie intorno a sé un facile quanto incontestabile consenso popolare. È ormai esplicita e politicamente rivendicata l’aggressione ai principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza, della eccezionalità della privazione della libertà personale che non segua alla esecuzione della pena, della tipicità, determinatezza ed irretroattività del precetto penale, della finalità rieducativa della pena, oltre che della sua proporzionalità ed adeguatezza alla gravità della violazione commessa”. Per questo, i penalisti italiani “intendono lanciare con forza questo grido di allarme”, facendo convergere anche “il fondamentale ed insostituibile contributo dell’università”, con l’obiettivo di “raccogliere e definire nel loro preciso contenuto quei principi fondamentali che definiscono nei suoi tratti fondamentali l’idea stessa del diritto penale liberale e del giusto processo”. Un coinvolgimento, questo, che viene da lontano e in particolare dall’iniziativa dell’appello al Capo dello Stato Sergio Mattarella sottoscritto da 150 docenti universitari, contro la norma che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Di qui, dunque, l’iniziativa del Manifesto, che punta a fare chiarezza sulla corretta declinazione dei principi del diritto penale. In particolare, il terzo punto si concentra proprio sulla declinazione del diritto penale come irrinunciabilmente liberale: “Liberale è il modello di diritto penale che legittima l’intervento punitivo solo quando è strettamente necessario e proporzionato alle esigenze di tutela, oltre che rispettoso della persona che lo subisce”. In buona sostanza, dunque, secondo le parole del Manifesto, la coercizione della libertà individuale deve essere legittimata solo nel contesto “di una rappresentanza democratica, di istituzioni non onnipotenti che agiscono nel solco della separazione dei poteri”. Questo e tutti gli altri punti del Manifesto verranno spiegati e dibattuti a Milano, con l’obiettivo di rappresentare un quadro compiuto dei principi, dei limiti e delle proiezioni sociali del sistema penale, che sono il cuore dello stato di diritto. Taranto: 44enne suicida in carcere, avrebbe finito di scontare la pena ad agosto norbaonline.it, 9 maggio 2019 Ancora un suicidio, in queste ore, nel carcere di Taranto, il più sovraffollato d’Italia con il 200% in più di presenze. La denuncia è del sindacato Osapp. L’ultimo suicidio riguarda un detenuto 44enne di Manduria, Marco Rossi, che avrebbe finito di scontare la pena ad agosto prossimo. L’uomo si è impiccato in una cella dell’infermeria, legando alle grate una rudimentale corda, ricavata dalla stoffa di un pantalone. L’Osapp denuncia le precarie condizioni di vita dei detenuti e quelle altrettanto difficili degli agenti di polizia penitenziaria, numericamente insufficienti a garantire i necessari Tolmezzo (Ud): la storia infinita degli internati condannati a vita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2019 I reclusi nella “Casa di Lavoro” sono impegnati meno di 8 ore al mese. Non solo un mancato intervento da parte delle istituzioni proposte, ma anche un drastico peggioramento. Parliamo dell’insostenibile situazione che vivono gli internati al 41 bis ospiti della cosiddetta “Casa Lavoro” del carcere di Tolmezzo. A denunciarlo a Il Dubbio è l’avvocata Maria Teresa Pintus che è anche la referente della Sardegna per l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle camere penali. “Sono stata a Tolmezzo il 2 maggio scorso e la situazione è peggiorata - spiega Pintus - ora gli internati lavorano solo otto ore al mese, quindi due alla settimana”. E per lavoro si intende quello “domestico”, mansioni - tipo lo “scopino” - necessarie affinché sia garantito il mantenimento dell’istituto e sono di scarsa qualificazione dal punto di vista riabilitativo. “La serra - continua l’avvocata - ancora è in disfunzione, perché non ci sono i finanziamenti per aggiustarla”. Quindi, non solo la serra - quella caratterizzante per una “Casa Lavoro” - ma si è ridotto ulteriormente l’orario di lavoro non professionalizzante. Un problema esteso non solo agli internati, ma anche ai detenuti comuni. Cosa ha provocato tutto ciò? “Quando sono andata a fare un colloquio con un detenuto recluso nella sezione di Alta Sorveglianza - risponde l’avvocata Pintus - è iniziata la battitura come forma pacifica di protesta perché con il taglio dei fondi per il lavoro, i detenuti sono lasciati a se stessi e senza una minima occupazione”. Il risultato di tutto ciò è che nel corridoio della sezione si comincia a sentire l’odore nauseante della spazzatura, visto che non viene ritirata per mancanza dei lavoranti. Una questione divenuta insostenibile tanto che l’osservatorio nazionale carcere dell’Unione delle camere penali presieduto dagli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro, è pronto ad elaborare un documento per indirizzarlo al ministero della Giustizia e al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La questione è seria. Per alcune settimane gli otto internati a Tolmezzo hanno anche intrapreso uno sciopero della fame. Come già riportato su Il Dubbio tramite le parole dell’avvocato e militante dei radicali italiani Michele Capano, la serra che dovrebbe tenere occupati gli internati, in realtà non è in funzione da moltissimi mesi e quindi accade che la misura di sicurezza si svolge quasi interamente al 41 bis come gli altri detenuti. In mancanza di ciò, il magistrato di sorveglianza non ha gli strumenti per valutare la mancata cessazione della pericolosità sociale e quindi la proroga diventa pressoché automatica. Una questione, quella degli internati senza lavoro, che già nel 2016 fu segnalata da Rita Bernardini del Partito Radicale. Andò a visitare il carcere de L’Aquila dove prima erano ospitati gli internati al 41 bis. Ed era lì che c’era il problema della mancanza di lavoro. Grazie a quella segnalazione, l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo li aveva trasferiti a Tolmezzo per farli lavorare nella serra. Ora le stesse identiche problematiche si riscontrano in questo istituto. Da ricordare che la paradossale condizione di internamento a Tolmezzo era stata oggetto già di apposita menzione e segnalazione da parte del Collegio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella relazione al Parlamento del 2018, ed è esplicitata anche nel Rapporto tematico sul 41bis pubblicato il 5 febbraio scorso. Gli internati, ex detenuti che hanno già finito di scontare la loro pena, rimangono ancora gli “ultimi degli ultimi” all’interno delle patrie galere, con l’aggravante che sono stati tagliati i fondi per il lavoro, quello che doveva essere il cavallo di battaglia del Governo per la riabilitazione. Ferrara: “Liberi di filosofare”, lezione in carcere con la scuola statale Cpia cronacacomune.it, 9 maggio 2019 Può sembrare ironico far filosofia in carcere, invece la proposta di un laboratorio sulla filosofia, rivolto agli studenti del corso di Agraria all’interno della Casa circondariale, ha riscosso grande successo e mostrato appieno di aver vinto la sfida. Gestito dal Cpia - la scuola statale cui è affidata l’organizzazione delle sezione pedagogica del carcere cittadino e voluto dal dirigente Fabio Muzi - il progetto “Liberi di filosofare” è stato affrontato con una quindicina di utenti grazie all’intervento volontario del prof. Giovanni Fioravanti, per ragionare sui rischi di pregiudizi e preconcetti. Socrate, Platone e Aristotele introdotti come compagni di viaggio nello spazio di una cella. “Devi sapere di non sapere” dice Socrate ad Alcibiade - nei dialoghi di Platone - e le pareti si allargano al mondo delle idee. Cos’è un’idea? Studenti italiani e stranieri di varia provenienza si esercitano nella riflessione che porta alle risposte. “Fai scaturire il sapere che è dentro di te”, suggerisce ancora Socrate ed è così che viene voglia di cercare i libri di filosofia nella biblioteca interna, molto pochi in verità come se la riflessione sul mondo non dovesse appartenere al mondo recluso, come se il pensiero non potesse trascendere oltre le mura sorvegliate. Aiutato dalla narrazione dei miti, il prof. Fioravanti ha condotto gli studenti al recupero della storia del pensiero umano, congiungendo la riflessione filosofica all’attualità. Un progetto-processo - questo del filosofare - che non può limitarsi a pura e semplice operazione di trasmissione/assimilazione di un sapere codificato, ma diventa un’operazione di ripensamento, di ricostruzione di senso, di rottura col passato e di continuità nel solco dell’umanità. Questo l’obiettivo della prof. Cristina D’Avino che ha coordinato il corso. “Occorre riconoscere ai detenuti la loro dignità di persone - sottolinea la professoressa - e nutrire per essi il massimo rispetto se si vuole che essi si mettano in discussione e siano disposti ad accettare il conflitto socio- cognitivo. Solo così saranno in grado di elaborare, lentamente, nuovi e più condivisibili paradigmi interpretativi della realtà sociale e comunitaria”. E allora Democrito spiega che ognuno di noi è un aggregato di atomi particolare, perciò è colpito in modo diverso dalle cose che lo circondano e questa può diventare una chiave di lettura “ affinché ciascun detenuto si riappropri della sua identità e si faccia protagonista di un nuovo, personale progetto di vita”- insiste D’Avino. A questo punto appaiono in tutta evidenza l’opportunità e l’efficacia di un laboratorio di filosofia, e in generale di iniziative a carattere culturale, da svolgersi proprio in carcere dove, nonostante le condizioni di isolamento e di forte limitazione della libertà, può farsi strada la cultura del dialogo, dell’ascolto e della reciprocità, necessaria perché ciascun detenuto si riappropri della sua identità e si faccia protagonista di un nuovo, personale progetto di vita. Latina: corso della Caritas per diventare volontario penitenziario latinacorriere.it, 9 maggio 2019 Quattro incontri formativi, a partire dal 13 maggio prossimo, per diventare volontario penitenziario. L’iniziativa è della Caritas diocesana di Latina. Le domande di iscrizione si possono presentare entro il 10 maggio; per ogni altra informazione e contatti visitare il sito www.caritaslatina.it da dove è possibile scaricare la scheda d’iscrizione. Il corso è rivolto a soggetti già impegnati in attività di volontariato o interessati a farlo e ha lo scopo di formare volontari capaci di operare all’interno e all’esterno della struttura detentiva, in collaborazione con educatori e operatori penitenziari, al fine di partecipare in maniera attiva al reinserimento socio-lavorativo di soggetti in stato di detenzione. Nello specifico gli obiettivi del corso sono i seguenti: comprendere il funzionamento di un istituto penitenziario; favorire l’acquisizione dei principali strumenti per gestire in maniera efficace la relazione con i detenuti; acquisire informazioni in merito alle azioni e alle attività messe in atto per favorire il reinserimento socio-educativo e lavorativo dei detenuti. La Caritas pontina già presta servizio presso il carcere di Latina, dove dal 3 marzo 2014 è in funzione il “Centro di Ascolto e Aiuto”. È il luogo offerto a tutte le persone detenute per incontrare volontari della Caritas diocesana proprio per non sentirsi abbandonati e messi ai margini non solo della società, ma soprattutto delle nostre comunità parrocchiali. Funzione prevalente dei volontari Caritas all’interno del Carcere è l’Ascolto, cuore della relazione di aiuto, dove chi ascolta e chi è ascoltato vengono coinvolti, con ruoli diversi, in un progetto che, ricercando le soluzioni più adeguate, punta a un processo di liberazione della persona dal bisogno. Perugia: dieci detenuti allestiscono una cena da gourmet in carcere lavoce.it, 9 maggio 2019 “Questa sera, si cena in carcere”. Sta tutta in un gioco di parole e in una provocazione la nuova sfida del Nuovo complesso penitenziario di Perugia, che il 9 maggio ospiterà all’interno delle mura un vero e proprio ristorante in occasione della quinta edizione delle “Golose evasioni”, cena-evento organizzata nell’ambito del corso di “Addetto alla cucina”. Un corso speciale, quello organizzato nel laboratorio di Capanne nell’ambito dell’avviso “Umbriattiva giovani”, finanziato dalla Regione e gestito dalla cooperativa sociale Frontiera lavoro. Il corso prevede 255 ore di lezione e offre a 10 detenuti under 30 del reparto penale dell’istituto perugino la possibilità di apprendere un mestiere sotto la guida di esperti chef che trasmettono tutti i trucchi per diventare professionisti a 360 gradi, capaci di soddisfare le richieste dei clienti più esigenti. Il 9 maggio sarà presente, tra gli altri, alla cena in carcere anche il card. Gualtiero Bassetti, da sempre sensibile alle problematiche dell’universo carcerario: la sua prima visita pastorale da vescovo fu a Capanne, la prima visita quando indossò la porpora fu di nuovo qui. La partecipazione e le parole di Bassetti - “Nei confronti del carcere c’è uno spirito perbenista - dichiara il Cardinale. - Molti non sanno che invertirsi le parti, se tutto fosse manifesto. Il carcere, grazie a iniziative come questa, sta uscendo dall’isolamento e sta suscitando un interesse sia nel mondo cattolico sia in quello laico. Parteciperò alla cena perché desidero onorare queste creature umiliate, che magari proprio per questo hanno commesso dei reati”. Il valore del lavoro nel progetto di reinserimento - Delle competenze acquisite, gli allievi daranno un saggio durante la cena “Le golose evasioni” che si svolgerà per un pubblico pagante all’interno della struttura penitenziaria. Saranno affiancati nella preparazione della cena dagli chef Catia Ciofo, Antonella Pagoni, Cristiano Venturi e Andrea Mastriforti, tutti nomi tra i più importanti del panorama ristorativo italiano, mentre i musicisti di Umbria Ensemble guidati da Maria Cecilia Berioli offriranno un contributo musicale in apertura della cena. Un menu e una carta dei vini che non hanno nulla da invidiare ai locali più celebri di Perugia. Passatelli con punte d’asparagi, datterino appassito, fusione di menta e guanciola di vitello brasato sono solo alcune delle specialità del menu. Cuochi e camerieri sono dieci detenuti, istruiti e guidati da quattro fantastici chef e da un maître professionista, Emilio Sabbatini, dalla lunga carriera nella ristorazione di alto livello. I quali hanno affrontato questa nuova sfida con entusiasmo: “Qui si lavora con persone che hanno commesso degli errori e che stanno portando avanti un percorso di reinserimento, a cui bisogna insegnare tutto. Ma hanno molta umiltà e grande voglia di imparare”, spiega a nome di tutti una delle docenti, Catia Ciofo. Tutti i dettagli della serata sono curati con la massima attenzione. Tavoli eleganti, tovaglie raffinate, candele accese, piatti di porcellana, sottopiatti, bicchieri di vetro e posateria di alta qualità. Per Aldo, 28 anni, uno degli allievi, una delle soddisfazioni più grandi è “sapere che il cliente gradisce non solo il cibo, ma anche la preparazione. Si mangia con tutti i cinque sensi, quindi anche con gli occhi”. Per Aldo, Nour Eddine, Gianluca e gli altri detenuti, il corso per “addetto alla cucina” rappresenta una straordinaria opportunità per imparare un mestiere. Perché il lavoro rappresenta l’arma migliore per combattere la recidiva ed evitare che l’ex detenuto, una volta tornato in libertà, commetta nuovi reati. Ma imparare un mestiere spesso non basta. “Non è la magistratura - sottolinea il coordinatore del progetto, Luca Verdolini - a dare il fine pena ai detenuti; è la società. Perciò desideriamo che l’attività formativa di Frontiera lavoro in carcere diventi un marchio forte e credibile. E che possa costituire un elemento importante nel curriculum di ogni detenuto che vi transiterà”. Disuguaglianza, trattare con cura di Danilo Taino Corriere della Sera, 9 maggio 2019 In molti Paesi ricchi o in crescita, le differenze di reddito aumentano. Ma si può anche osservare che spesso, le differenze di reddito basse e in calo si coniugano con una certa povertà generale del Paese: cioè si è spesso poveri anche in un Paese a bassa disuguaglianza. Il mondo assiste a una forte crescita delle disuguaglianze di reddito - si sente affermare sempre più spesso. Tanto che la questione è diventata uno dei temi di analisi e di discussione centrali nel dibattito politico odierno. Pure per spiegare i voti anti-élite che si registrano in molti Paesi. Se il problema sia la disuguaglianza o la povertà è questione aperta, che ovviamente porta a soluzioni politiche diverse tra loro. Ma anche nel valutare la sola differenza di redditi si arriva a risultati per nulla scontati. Ourworldindata.com, centro di analisi basato alla Oxford University, ha studiato, per 83 Paesi l’Indice di Gini - tra i numerosi, il più utilizzato per misurare la disuguaglianza - nel 1990 e nel 2015. Nell’indice considerato, a zero c’è l’uguaglianza assoluta, a cento la disuguaglianza totale nella quale un individuo si accaparra tutto il reddito. Un primo risultato è che nei 25 anni considerati molti Paesi hanno visto aumentare la disuguaglianza e molti l’hanno vista scendere, tanto che, nel complesso, l’Indice Gini di tutti i Paesi è leggermente diminuito, da 39,6 a 38,6. In alcune realtà molto popolose, però, la disuguaglianza è salita significativamente. In Cina da 34,9 a 49,5, in India da 29,7 a 35,15, in Indonesia da 32 a 41, negli Stati Uniti da 38,24 a 41,5. Tanto che se l’indice complessivo viene ponderato tenendo conto delle popolazioni si nota che nel corso di una generazione è salito da 36,7 a 40,8. In Italia è cresciuto abbastanza significativamente ma rimane a un livello non elevatissimo: da 29,27 a 34,96. Il Paese con il livello di disuguaglianza più basso è la Danimarca, passata dal 23,9 del 1990 al 24,9 del 2015. Quello con la maggiore differenza di reddito è il Sud Africa: da 59,33 a 63,03. Tra i Paesi con le riduzioni più significative, la Russia, da 48,38 a 37,74; l’Ucraina, da 29,71 a 25,46; l’Algeria, da 40,19 a 27,72; il Messico, da 54,34 a 48,31. In sostanza, non c’è una correlazione stabile tra il livello di sviluppo di un Paese e il suo livello di disuguaglianza. In molti Paesi ricchi o in crescita, le differenze di reddito aumentano. Ma si può anche osservare che spesso, le differenze di reddito basse e in calo si coniugano con una certa povertà generale del Paese: cioè si è spesso poveri anche in un Paese a bassa disuguaglianza. È un tema da trattare con cura, da non semplificare. Periferie e rabbia. Quel “normale” e irresponsabile falò dell’odio di Carlo Fusi Il Dubbio, 9 maggio 2019 La gelida primavera delle nostre banlieu si gonfia di esasperazione. Mentre sulfurei strateghi dell’odio col cranio rasato soffiano sul fuoco del risentimento, allestendo falò che attirano le falene di chi pensa di essere stato privato di un diritto e determina per loro lo stesso destino: quando arrivano troppo vicino alle fiamme, si bruciano. L’abbaglio di saper discernere ragioni e torti, assegnando agli “italiani” sfrattati tutte le prime e lasciando ai rom legittimi assegnatari l’universo dei secondi, produce un corto circuito nel quale va in tilt il vero e unico criterio che si può e deve seguire: far proprie e rispettare le regole dello Stato di diritto. Quelli a cui il Comune riconosce il diritto di avere un appartamento, non possono entrarci dopo essere stato costretti ad un percorso di guerriglia urbana. Chi sente di essere stato privato di una legittima attribuzione ha gli strumenti che la legge assegna per far valere le proprie ragioni. Bene ha fatto il sindaco Raggi: e non si curi delle critiche inverosimili di Luigi Di Maio. Andando più a fondo, guai a fare spallucce dinanzi alla rabbia che cova nelle periferie e in chi ci vive. Guai a girare la testa, ritenendolo “normale”, di fronte al clima di violenza e intimidazione che viene alimentato irresponsabilmente e delinquenzialmente da chi cerca solo lo scontro. Le immagini di minacce verso giovani mamme rom, che tutta Italia ha visto, sono indecenti e indegne di un Paese civile: è sperabile che le forze dell’ordine che hanno svolto senza incertezze il loro dovere sappiano identificare i responsabili. A noi, a tutti quelli che le stesse immagini hanno visto comodamente seduti nei salotti di casa propria, spetta il sussulto dell’indignazione non fine a sé stessa. I fatti di Casalbruciato riguardano e interrogano la coscienza di ognuno. Se il falò dell’intolleranza continuerà a bruciare, cauterizzerà chi abita nelle periferie e chi nel centro; chi protesta e chi subisce; chi butta benzina e chi prova a spegnere le fiamme. La violenza genera violenza. Chi fa finta di non capirlo o, peggio, non vuole, sarà la prima vittima. La sindaca Raggi a Casal Bruciato rompe l’assedio razzista contro la famiglia rom di Giuliano Santoro Il Manifesto, 9 maggio 2019 “Rimangono lì, è loro diritto”. La sindaca di Roma tiene il punto della legalità ma viene contestata dalla folla aizzata dai fascisti di CasaPound. Nessun sostegno dal capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. Insieme alla prima cittadina, il direttore della Caritas e il vescovo ausiliario. L’immagine di Virginia Raggi, della sua scorta che rompe l’assedio stretto attorno al palazzo di via Sebastiano Satta nel quartiere romano di Casal Bruciato, è quella di una giornata di tensione fatta a cerchi concentrici. Al centro ci sono loro, Senada Sejdovic e suo marito Imer coi loro bambini ancora asserragliati dentro casa. Progettavano una festa per presentarsi ai nuovi vicini. Dalle finestre del secondo piano vedono accendersi conflitti e scombinarsi equilibri politici. Ad esempio dentro al Movimento 5 Stelle: la visita della sindaca con tanto di incoraggiamento alla resistenza pare non sia stata apprezzata dal “capo politico” Luigi Di Maio in persona, che avrebbe detto ai suoi che avrebbe preferito che Raggi si fosse occupata “prima dei romani”. La formula rimanda al “prima gli italiani” di Matteo Salvini e delle destre estreme. Manifestano sostegno a Raggi - che ha risposto a chi la contestava: “Restano lì perché ne hanno diritto” - il M5S di Roma, il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra e il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia. Fuori dal mondo grillino, le esprime solidarietà una buona fetta delle opposizioni, da Forza Italia con la capogruppo Anna Maria Bernini al Pd col segretario Nicola Zingaretti. Assieme a Raggi, in visita agli assediati di Casal Bruciato ci sono il direttore della Caritas don Benoni Ambarus e il vescovo ausiliario di Roma, don Gianpiero Palmieri. Portano l’invito di Papa Bergoglio: proprio oggi in Vaticano era previsto l’incontro tra il Papa e alcuni esponenti del popolo rom. Il secondo centro concentrico è il quartiere. Dentro una Roma sfilacciata e spesso abbandonata a se stessa Casal Bruciato cerca una sua identità, sospesa tra le lotte del passato e le paure del presente. A sentire le narrazioni delle destre e le semplificazioni mediatiche, ci si immagina una periferia estrema e apocalittica. La realtà è come sempre più complessa. Se si guarda questo territorio venendo dal centro, passando dall’ipermoderna stazione Tiburtina che con l’alta velocità diventa lo snodo più importante della capitale, si ha l’impressione di trovarsi nel cuore vitale di una metropoli caotica ma in movimento. Procedendo sulla via Tiburtina, però, l’asfalto si fa sempre più irregolare, quasi mangiato dalla crisi. Il sogno industriale della Tiburtina valley lascia il posto a capannoni trasformati in sale da gioco, un distretto dell’azzardo che costeggia i lavori mai finiti del raddoppio della strada, pensato vent’anni fa, quando ancora si immaginava un futuro commerciale per l’area. A sinistra c’è Pietralata, la borgata narrata da Elsa Morante che ha cambiato faccia soltanto alla fine degli anni Settanta, quando il sindaco comunista Luigi Petroselli innalzò il manto stradale sottraendolo alle esondazioni dell’Aniene. Bisogna passare dall’altro lato della Tiburtina, in mezzo ai palazzi sobri del piano casa di Fanfani, per arrivare a Casal Bruciato. Il terreno della sfida è la piazza Riccardo Balsamo Crivelli, sulla quale affaccia l’appartamento conteso. Ci sono le bandiere tricolori dei fascisti, che non sono più di cinquanta. Al di là dei blindati, ecco un altro cerchio concentrico, l’assedio che ieri ha contestato gli assedianti. Quando gli antirazzisti si contano capiscono che possono partire in corteo per le strade del quartiere, la polizia si sposta. Dal megafono quelli di Asia Usb ricordano a questo quartiere fatto di case popolari e composto da moltissimi reduci di occupazioni e assegnazioni strappate con la lotta che un diritto negato a qualcuno non rappresenta un diritto concesso a tutti. I fascisti di CasaPound, al contrario, portano qui al Tiburtino la parola d’ordine coniate nel corso di un altro assedio recente, quello di Torre Maura, che sostiene esattamente la natura escludente e vendicativa della loro vertenza: “Diritto alla casa, diritto al lavoro - recita lo slogan - Non ce l’abbiamo noi, non ce l’avranno loro”. A proposito di cori, i capi di CasaPound, qui rappresentata da Mauro Antonini, giurano che non hanno nulla a che vedere col manifestante che l’altroieri è stato sorpreso ad urlare: “Troia, ti stupro!” a Senada Sejdovic mentre entrava in casa sua con in braccio una bambina terrorizzata. Le foto però dimostrano che quel personaggio è comparso più volte dietro ai banchetti dell’organizzazione neofascista con tanto di coccarda. Sarebbero in corso indagini. Una delegazione della Cgil in mattinata ha incontrato il questore di Roma Carmine Esposito per lamentare la tolleranza verso le minacce e le intimidazioni dell’estrema destra. Quest’ultimo, racconta il segretario generale della Cgil di Roma e del Lazio Michele Azzola, avrebbe annunciato che tutti i partecipanti alla contestazione organizzata da CasaPound “sono stati deferiti all’autorità giudiziaria”. Alberto Campailla, della campagna solidale Nonna Roma, ha passato la notte assieme della famiglia rom. Dopo di lui ci saranno altri ospiti. “È un segnale per non lasciarli soli, almeno fin quando non finisce il clamore - racconta - Adesso grazie alla generosità di molti stiamo raccogliendo mobili e suppellettili per arredare l’appartamento”. Un altro modo di rompere l’assedio. Ius Soli, per il diritto di cittadinanza la “marcia” a Roma davanti palazzo Montecitorio di Vladimiro Polchi La Repubblica, 9 maggio 2019 La legge si era arenata in Senato durante il governo Gentiloni. Prevedeva solo la possibilità per i nati in Italia da genitori stranieri di diventare cittadini italiani senza attendere i 18 anni. Di Maio: “Non è nel contratto di governo”. È da mesi fuori dai radar. Lontana da ogni agenda politica. Eppure la riforma della cittadinanza riguarda la vita di un milione di ragazzi e ragazze nati e cresciuti in Italia. Per questo, i figli di immigrati si sono dati appuntamento. Obiettivo: rilanciare lo ius soli, o meglio quella versione limitata che ha preso il nome di ius culturae. L’appuntamento è per domani: la “marcia dei diritti” a Roma, davanti palazzo Montecitorio. Un passo indietro. Nella scorsa legislatura si è arenata in Senato la riforma che introduceva uno ius soli temperato: la possibilità per i nati in Italia da genitori stranieri di richiedere la cittadinanza (a determinate condizioni: frequentare un ciclo scolastico quinquennale o avere un genitore “soggiornante di lungo periodo”) senza dover attendere i 18 anni. Il vicepremier Luigi Di Maio ha ricordato giorni fa che lo ius soli “non è nel contratto, né nell’agenda di governo”. Ma i “nuovi italiani” non ci stanno e rilanciano. “Una nuova battaglia per il bene del Paese”. “Pensiamo sia giunto il momento di riprendere la lotta e di affrontare il tema della cittadinanza in maniera adulta, senza farci influenzare dai vari partiti politici - scrivono i promotori della manifestazione di domani - non riconoscere la cittadinanza a coloro che sono nati o cresciuti nel nostro Paese con origine diversa, vuol dire negare la realtà: ovvero che l’Italia è da sempre un Paese multiculturale dove la radicata identità nazionale e locale deve dialogare con una molteplicità di culture diverse all’interno di una compagine di valori condivisi. Ancora una volta è come se quel milione di italiani che vede negato un diritto fondamentale, non contasse nulla. La lotta per l’estensione del diritto di cittadinanza è una lotta giusta, che va nella direzione dell’eliminazione delle diseguaglianze sociali e politiche. È una battaglia sacra per il bene di questo nostro Paese”. La marcia dei diritti. A partecipare alla “marcia dei diritti” sono molte associazioni (da Cara Italia a Neri Italiani, da Amnesty all’Anpi, da A buon diritto fino alla Casa internazionale delle donne) e tanti figli e figlie di immigrati che hanno aderito al manifesto pubblicato su Facebook. Onu: sparizioni forzate in Italia, fondamentale il ruolo del Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2019 Apprezzamenti del Comitato delle Nazioni Unite all’organo di monitoraggio. Il Comitato Onu sulle sparizioni forzate nei giorni scorsi ha reso note le proprie osservazioni conclusive sul primo Rapporto del governo italiano sullo stato di attuazione della Convenzione, sulla cui implementazione il Comitato vigila. Per “sparizione forzata” si intende qualsiasi privazione di libertà commessa da agenti o con il consenso di uno Stato, rifiutando in seguito di riconoscere detta privazione e di comunicare il luogo in cui la persona in questione si trova. Durante il mese di aprile, a Ginevra, si era tenuta una sessione di lavori del Comitato, dedicata tra l’altro all’esame del Rapporto dell’Italia. Il Comitato aveva audito la delegazione del governo italiano e l’Ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà. Nel documento appena pubblicato, il Comitato nota positivamente che il Garante nazionale costituisce un effettivo organo di monitoraggio della situazione delle persone private della libertà, adempiendo efficacemente al suo mandato Onu di Meccanismo nazionale di prevenzione. Allo stesso tempo il Comitato guarda con preoccupazione alle misure recentemente entrate in vigore a seguito della conversione in legge del “Decreto sicurezza”, in particolare relativamente alla possibilità di trattenere persone migranti destinate al rimpatrio in non meglio specificati “locali idonei” nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica sicurezza. Il Comitato invita quindi il governo italiano a rendere tempestivamente noto l’elenco dei “locali idonei” garantendo, in tal modo, pieno accesso da parte del Garante nazionale e di tutti gli organismi sovranazionali di controllo che su tali luoghi hanno il compito di vigilare. Infine, fra le altre raccomandazioni rivolte all’Italia ci sono quelle relative alla necessità di prevedere una fattispecie di reato specifica riguardante le sparizioni forzate, di aumentare gli sforzi per prevenire le sparizioni dei migranti, in particolare minori, per rintracciare coloro di cui si sono già perse le tracce e per fornire un’effettiva cooperazione e assistenza giudiziaria agli Stati esteri in tema di persone scomparse e per assicurare che nel concreto nessuna persona venga estradata verso Paesi a rischio di sparizioni forzate. La Convenzione Onu, ratificata dall’Italia nel 2015, aveva introdotto il divieto delle sparizioni forzate, considerate un crimine contro l’umanità. Vengono quindi individuati una serie di obblighi in capo agli Stati al fine di prevenire le sparizioni forzate, tra cui: proibizione della detenzione segreta; impegno a detenere le persone in strutture ufficialmente riconosciute e controllate, e che conservino un registro di tutti i detenuti; diritto ad ottenere informazioni sui detenuti. La Convenzione riafferma, inoltre, il diritto delle vittime al riconoscimento della verità e ad un’equa riparazione per sé e per i propri parenti, così come il diritto a formare delle associazioni ed organizzazioni per contrastare il fenomeno delle sparizioni forzate. La Convenzione tratta anche il problema del rapimento dei bambini i cui genitori sono vittime di sparizione forzata, la falsificazione della loro identità e la conseguente adozione. Per garantire tutto ciò, la Convenzione ha previsto l’istituzione di un Comitato sulle sparizioni forzate, con il compito di monitorare l’implementazione degli obblighi assunti dagli Stati, ricevere ricorsi interstatali e individuali, e la possibilità di avviare una procedura umanitaria d’urgenza per effettuare ispezioni sul campo e sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Generale quelle situazioni in cui il ricorso alle sparizioni forzate è diffuso e sistematico. Salvini contro la cannabis light: “Chiuderò tutto” di Nadia Ferrigo La Stampa, 9 maggio 2019 Ma i negozianti ribattono: “Noi combattiamo l’illegalità”. Alle dichiarazioni del ministro dell’Interno sugli smart shop ribatte Luca Marola, patron di EasyJoint: “Sottrae oltre il 10 per cento dei guadagni alle mafie”. A fine mese la sentenza della Cassazione. “Da domani, mando la polizia. Li voglio vedere chiusi uno a uno. Ci saranno controlli a tappeto. Adesso basta, ci vogliono le maniere forti” tuona il ministro dell’Interno Matto Salvini parlando dei cannabis shop. E aggiunge: “Su questa storia degli shop sono pronto a litigare sul serio anche con gli alleati M5S. Non vorrei che ci fosse qualche parlamentare o anche qualche collega ministro che li frequenti”. A ribattere è Luca Marola, patron di EasyJoint, l’azienda di Parma che ha guidato il boom della cosiddetta “cannabis legale”, la canapa con un Thc inferiore allo 0,2 per cento. “Il fenomeno della cannabis light, oggi è assodato grazie a studi scientifici ed inoppugnabili che forse il ministro avrebbe dovuto avere il buongusto di studiarsi, sottrae il 12% degli introiti alle mafie. Questa è la nostra lotta alla criminalità che il ministro deputato al suo contrasto vuole annichilire e riconsegnare alle mafie per mero interesse propagandistico”. Marola riporta i risultati dello studio “Cannabis light e criminalità organizzata. Analisi della liberalizzazione (involontaria) in Italia” realizzato da tre ricercatori dell’University of York. Qui la versione completa della ricerca, in inglese. “Dall’analisi emerge che la legalizzazione della C-light ha portato a una riduzione dell’11-12% dei sequestri di marijuana per ciascuno dei grow shop preesistenti e a un calo significativo di altri stupefacenti derivati dalla canapa” si legge nel testo. “Considerando che il numero medio di grow shop in ciascuna provincia è di circa 2,76 e che il prezzo della marijuana è valutato in 7-11 euro al grammo (Oedt 2016), le nostre stime sulle 106 province analizzate suggeriscono che i mancati guadagni dovuti alla liberalizzazione della C-light varino, mediamente, fra 159 e 273 milioni di euro l’anno. Questi dati si riferiscono al solo mercato della marijuana, escludendo altre droghe a base di canapa come le piante di cannabis e l’hashish - continuano i ricercatori. Questi risultati avvalorano la tesi che, anche in un breve periodo di tempo e con un sostituto imperfetto, l’offerta di sostanze illegali della criminalità organizzata subisca uno spostamento a causa dell’ingresso di rivenditori ufficiali e leciti”. “Accostare il fenomeno legale della cannabis light, fenomeno che ha visto l’apertura di un migliaio di nuove partite IVA e l’apertura di almeno 2000 aziende agricole, spesso a conduzione giovanile, al consumo di droga penso sia utile al ministro Salvini solo per nascondere la sua incapacità nell’arrestare lo spaccio ed il narcotraffico, oggi monopolisti della droga grazie proprio alle politiche del ministro” conclude Marola. La sentenza della Corte di Cassazione sulla destinazione d’uso - Ad aprile è nato il Consorzio Nazionale per la Tutela della Canapa, ideato per difendere la produzione della cannabis legale e rilasciare un certificato di garanzia: sono più di 3mila gli ettari messi a produzione della canapa legale con un trend annuale in continua ascesa e sono 15mila i punti vendita in tutta Italia. Ma è attesa per il 30 maggio la decisione della Cassazione a Sezioni Unite che potrebbe far chiudere per sempre i negozi che vendono la canapa. Il problema nasce dalla normativa poco chiara sulla cosiddetta canapa legale e sulla sua destinazione d’uso: la marijuana venduta dai vari negozi di ‘“erba legale” viene fumata, e non usata per l’uso ornamentale a cui sarebbe destinata secondo la legge. Le Sezioni Unite dovranno decidere se va applicata la legge del 2016 che legalizza la vendita di prodotti con un Thc inferiore a 0,2 o il testo unico sugli stupefacenti. Il responso dovrebbe arrivare il 30 maggio e se negativo, le saracinesche dovrebbero abbassarsi per tutti. Dopo il grande numero di sequestri disposti da diverse procure, la magistratura ha dato vita a orientamenti contrastanti. A fronte di una sentenza della sesta sezione penale della Cassazione, secondo la quale il commercio delle infiorescenze di cannabis light è comunque lecito, c’è stata un’altra pronuncia della sezione penale, che, volendo dire l’opposto, ha pensato che l’unica soluzione sia quella di far intervenire le Sezioni Unite. La battaglia sulla cannabis di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 9 maggio 2019 Matteo Salvini si allontana dal caso Siri accendendo una nuova polemica nel governo: la guerra alla droga light. Dal Viminale, dopo un incontro con le comunità terapeutiche, punta l’obiettivo contro i negozi di inflorescenze della canapa, spuntati po’ ovunque grazie all’interpretazione estensiva di una normativa del ministero dell’Agricoltura nata a tutela della produzione industriale di cannabis a basso contenuto di Thc (tra il 2% e il 6%). Negozi che mettono in commercio prodotti ritenuti dal Consiglio superiore di sanità “pericolosi”, al punto di chiedere - nel parere dell’aprile 2018 - di non consentirne la vendita. Salvini accusa: “In Italia ci sono più di 60o punti vendita (per la precisione 778 a ieri, ndr) che propongono filtri per tisane, semi di canapa, bevande energetiche, torte, ma anche bustine di marijuana legale, con un valore bassissimo di Thc. La metà sono centrali di spaccio. Non voglio uno Stato spacciatore”. E aggiunge: “La droga è un’emergenza nazionale de-va-stante. Ho avuto conferma di quello che avevamo intuito: c’è una questione educativa. Da ministro dell’Interno ho dato indicazione alle forze dell’ordine di controllare uno per uno, per quanto mi riguarda con l’obiettivo di chiuderli, tutti i presunti negozi turistici di cannabis”. Il ministro poi aggiunge: “Vanno sigillati perché sono un incentivo all’uso di stupefacenti. Non aspetto i tempi della giustizia, esercito quello che è in mio potere come ministro dell’Interno”. E rilancia: “Identico approccio adotteremo per tutte le feste delle “canne” e della cannabis d’Italia. Chiederò che siano vietate tutte. Lo stato spacciatore non è lo Stato di cui faccio il ministro”. E, lanciando una stoccata al Movimento Cinque Stelle, chiosa: “Su altro non litigo con gli amici della maggioranza, su questo sì. Sono pronto a far cadere il governo”. Il ministro della Salute dei Cinque Stelle, Giulia Grillo, minimizza: “Non bisogna dare informazioni sbagliate. Nei canapa shop non si vende droga. Se come ministro dell’Interno è in possesso di informazioni che io non ho, bisogna fare un altro ordine di considerazioni”. Ma, spiega al Corriere Tu, “il tema è quello delle categorie fragili. Da un punto di vista della salute, la restrizione è legata a questo”. Quindi “no” alla chiusura dei negozi, “sì” alle “restrizioni di vendita per categorie come quelle di minori e donne in gravidanza”. Ma la questione pone un problema al Movimento, che non più tardi di martedì sera, con Nicola Morra, si era espresso in favore della legalizzazione delle droghe leggere (“non la escludo”). “Il ministro dell’Interno segue il copione per cui il proibizionismo punta al basso: ai consumatori. E lascia liberi i narcotrafficanti” dichiarano la segretaria e la tesoriera dei Radicali Italiani Silvja Manzi e Antonella Soldo. Il Pd, con Chiara Gribaudo, ironizza: “Il venditore di fumo Salvini decide di prendersela con i negozi di cannabis light, evidentemente non vuole concorrenza”. “Si spara per strada, la criminalità ha rialzato la testa e Salvini pensa ai shop”, stigmatizza Erasmo Palazzotto (Leu). Soddisfatte le associazioni. Il Movimento italiano genitori (Moige) sottolinea di aver svolto una indagine dalla quale emerge che il 68% dei rivenditori dei cannabis shop hanno dato il prodotto anche a minorenni. E conclude: “Vanno chiusi”. Stati Uniti. A New York i detenuti possono telefonare gratis per 21 minuti al giorno Avvenire, 9 maggio 2019 Il provvedimento è stato approvato l’anno scorso ma è entrato in vigore, a New York, sono la scorsa settimana: per i detenuti, le telefonate dal carcere saranno gratis. Un cambiamento non da poco - come ha spiegato il sindaco della metropoli, Bill De Blasio - perché consentirà a chi è in cella di tenersi in contatto con la famiglia, con gli avvocati e con quella rete di conoscenze che è fondamentale per rientrare nella società una volta scontata la pena. Fino ad ora, le telefonate costavano 50 centesimi per il primo minuto e cinque per ogni minuto successivo: da adesso, i detenuti potranno fare una chiamata ogni tre ore per un totale di 21 minuti quotidiani. Gli agenti penitenziari non sono del tutto d’accordo: questa possibilità - spiegano - potrebbe favorire le gang che operano all’interno delle carceri. Francia. Amnesty: sospendere l’uso dei proiettili di gomma e vietare le granate esplosive di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 maggio 2019 Secondo dati ufficiali dal novembre 2018, quando sono iniziate le proteste dei cosiddetti “gilet gialli”, sono stati feriti oltre 2.200 manifestanti e 1.500 agenti delle forze di polizia. Nel marzo 2019 l’Ispettorato generale della polizia nazionale (Igpn) e l’Ispettorato generale della gendarmeria nazionale (Iggn), gli organismi incaricati di indagare sull’uso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia e gendarmi, si stava occupando di 83 denunce presentate da manifestanti che erano rimasti feriti da proiettili a impatto cinetico ossia proiettili di gomma esplosi dai Lanciatori di proiettili a scopo di difesa (Lbd 40). Fonti non ufficiali stimano che il numero dei feriti da proiettili di gomma sia più elevato. Secondo il giornalista David Dufresne, sarebbero 282. In altri 32 casi le ferite sono state causate dalle granate Gli-F4 che esplodono gas lacrimogeni: in particolare, 23 persone hanno perso la vista da un occhio dopo essere state colpite da proiettili di gomma, cinque hanno perso l’uso di una mano per lo stesso motivo e altre cinque dopo essere state colpite da una granata. Considerato il numero di manifestanti che hanno riportato gravi ferite dopo essere stati colpiti dai proiettili di gomma e l’assenza di addestramento specifico per alcune unità di polizia incaricate del mantenimento dell’ordine pubblico, Amnesty International ha chiesto al ministro dell’Interno francese di sospenderne l’uso fino a quando le autorità non avranno valutato in modo approfondito e indipendente l’accuratezza e la precisione di tali armi. Amnesty International ha chiesto inoltre al ministro dell’Interno di vietare l’uso delle granate esplosive contenenti gas lacrimogeno Gli-F4 a causa della pericolosità e della contraddittorietà degli effetti prodotti: l’esplosione e il rumore potrebbero rendere incapaci le persone di disperdersi, che dovrebbe essere esattamente l’obiettivo dell’uso del gas lacrimogeno. Questo, peraltro, potrebbe a sua volta causare gravi ferite e costituire un trattamento crudele e inumano. Qui si può leggere un approfondimento tecnico sui pericoli insiti nell’uso dei proiettili di gomma e delle granate esplosive durante le manifestazioni. Libia. Una piccola ma pericolosa guerra mondiale di Franco Venturini Corriere della Sera, 9 maggio 2019 Ora è più che mai indispensabile una vera conferenza di pace, con la partecipazione anche della Russia e della Cina, che finge disinteresse. Le milizie che difendono Tripoli hanno sin qui ridicolizzato i proclami guerreschi del generale cirenaico Khalifa Haftar. E dalla Turchia, si dice, stanno arrivando nella capitale libica nuove forniture di armi. Partendo da simili premesse Fayez al Sarraj avrebbe dovuto esibire a Roma il più ampio dei sorrisi, prima di proseguire con altrettanta baldanza per le altre capitali europee. Invece il capo del governo libico internazionalmente riconosciuto aveva in valigia un Sos politico. A tutti, e per primo a Giuseppe Conte, Sarraj ha rivolto un appello disperato, quasi da ultima spiaggia: non privatemi dell’appoggio occidentale, non siate comprensivi verso chi sta usando la forza contro donne e bambini, non siate equidistanti tra chi aggredisce e chi si difende. Sarraj ha ragione a sentirsi minacciato, perché in Libia i giochi sono cambiati e la guerra civile che tanto ci riguarda è diventata una piccola guerra mondiale. Circoscritta nel territorio, combattuta per procura da milizie tribali, ma comunque mondiale e straordinariamente pericolosa per chi, come noi, le sta davanti. La svolta ha avuto luogo il 15 aprile scorso, quando Donald Trump ha preso l’iniziativa di telefonare a Khalifa Haftar, già impegnato a bombardare Tripoli, congratulandosi per le sue operazioni anti-terrorismo e riscontrando, secondo un comunicato della Casa Bianca, “una visione condivisa sulla transizione della Libia verso un sistema politico stabile e democratico”. Quel gesto non ha soltanto smontato la “cabina di regia” che sulla Libia l’Italia filo-Serraj si era illusa di condividere con l’America. Non ha soltanto distrutto la mediazione che l’Onu conduceva tra le parti, e che da quattro anni era l’ombrello formale della incauta linea italiana. Ha anche confermato, quella telefonata, che la guerra civile libica aveva ormai travolto i suoi confini, che gli schieramenti contrapposti in Libia avevano le radici in conflitti assai più ampi e capaci di coinvolgere gli interessi delle grandi potenze. I punti di riferimento che aiutano a capire l’offensiva militare di Haftar e le paure politiche di Sarraj sono due e hanno entrambi una portata che attraversa tutto il mondo islamico: chi è favorevole e chi è contrario ai Fratelli musulmani? E ancora: chi appoggia e chi osteggia l’Iran sciita? Trump, che per appoggiare Haftar ha contraddetto il suo Segretario di Stato Pompeo, ha ricevuto in aprile la visita di Abdel Fattah al-Sisi. In quella occasione il presidente egiziano deve essere stato molto convincente, perché i suoi nemici giurati, i Fratelli musulmani, sono diventati di colpo i nemici dell’America. A tal punto che ora la Casa Bianca annuncia di volerli iscrivere nell’elenco dei gruppi terroristici internazionali. E non basta, perché quando la Gran Bretagna ha presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una mozione che reclamava la cessazione delle ostilità a Tripoli e la protezione della popolazione civile, gli Stati Uniti hanno votato contro assieme alla Russia. Del resto l’Egitto di al-Sisi appoggia da tempo Haftar che combatte gli islamisti nella confinante Cirenaica, e filo-Haftar sono da anni anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno finanziato l’operazione Tripoli. Ma la discesa in campo degli Stati Uniti e la carta abilmente giocata da al-Sisi contro i Fratelli musulmani cambia la natura dell’alleanza, identifica con maggiore precisione una guerra che è mediorientale anche se viene combattuta in Libia. Tanto più che l’alleanza benedetta da Trump supera anche il secondo test, forse ancora più importante del primo: non è forse vero che Arabia Saudita, Emirati e Stati Uniti sono le punte di lancia (con Israele, s’intende) dell’ostilità e delle sanzioni contro l’Iran sciita? Anche questa alleanza, se funziona nel Golfo, può funzionare in Libia. Dall’altra parte, a sostegno di Sarraj, si trovano soltanto conferme degli schemi già descritti. La Turchia non è nemica dei Fratelli musulmani, e pur non amando l’Iran collabora con Teheran (e con la Russia) nello scacchiere siriano. E il Qatar, che pure appoggia il governo di Tripoli, non è stato forse sottoposto a sanzioni nel 2017 da parte di Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Bahrain per aver troppo dialogato con il “terrorismo iraniano”? Tutto torna, deve essersi detto Trump prima di chiamare Haftar il 15 aprile. E così gli europei, a cominciare dagli italiani e dai francesi, scoprono quanto poco hanno contato e quanto poco contano nella vicenda libica. Ma l’Italia, più della Francia, non può permetterselo. Per i flussi migratori di oggi e di domani, per i nostri rifornimenti energetici, per la nostra sicurezza. È uno scandalo che la parola Libia non sia mai stata pronunciata nelle forsennate campagne elettorali della Lega e dei 5 Stelle, che si presume conoscano gli interessi fondamentali dell’Italia. Ed è anche vero che il premier Conte ha reagito male alla fraterna conversazione tra Haftar e Trump, suggerendo una equidistanza tra i contendenti libici che in realtà non abbiamo mai avuto, legati come siamo sempre stati al carro dell’Onu e di Serraj. Ma Conte, e questo va detto a suo merito, di Libia si occupa non soltanto quando è in avvicinamento un barcone di disperati. L’impresa di far contare l’Italia è disperata, al punto in cui siamo e con i nostri precedenti. Ma chi può escludere che lo stallo militare induca tra non molto Haftar a salvare la faccia con l’aiuto di una mediazione efficace? E cosa farebbero a quel punto i suoi molteplici e autorevoli protettori? Serve più che mai una vera conferenza di pace, diversa da quella di Palermo e da quelle organizzate in Francia. Con la presenza degli Usa, della Russia e della Cina che finge disinteresse. L’alternativa sarà, sempre di più, la guerra mondiale di Libia. Asia Bibi libera lontano dal Pakistan. “Lottiamo per l’altra donna in cella” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 9 maggio 2019 La cristiana salvata dalla pena di morte avrebbe raggiunto le figlie in Canada. Venti ore di volo hanno diviso gli otto anni nel braccio della morte lasciati alle spalle e la nuova vita che ha davanti. Da oltre tre mesi Asia Bibi stava pregustando questo momento: da quando, a gennaio, è stata annullata in modo definitivo la sua condanna per blasfemia. L’incubo giudiziario era finito, ma la libertà non arrivava. I radicali islamici erano pronti a farsi “giustizia” da soli, così è stata tenuta nascosta, in un luogo segreto insieme al marito per cento lunghi giorni, lontano anche dalle sue figlie. Asia sapeva che la sua nuova vita sarebbe ripartita altrove. Così questa bracciante cristiana che non era mai uscita dal suo villaggio nel Punjab se non per scontare una pena ingiusta, si ritroverebbe ora dall’altra parte del mondo, in Canada, dove le sue Eisham, 18 anni, e Esha, disabile, si erano già rifugiate mesi fa. Asia “si è ricongiunta alla sua famiglia, è un grande giorno, giustizia è fatta” ha esultato Saif ul-Malook, il legale a capo del collegio difensivo che ha fatto ribaltare la sentenza di condanna davanti alla Corte Suprema, lo scorso ottobre. Pur ammettendo di non aver parlato con lei, l’avvocato ha avvalorato una notizia apparsa ieri sui media locali e non ancora confermata (ma nemmeno smentita) né dalle autorità pachistane né da quelle canadesi. “Ci sono questioni sensibili di privacy e problemi di sicurezza e quindi non posso commentare”, ha chiarito il premier canadese Justin Trudeau ieri ai giornalisti fuori del Parlamento. Una fonte diplomatica di Islamabad, sotto anonimato, ha confermato però che Asia è “una cittadina libera che può andare dove vuole” e che “ha abbandonato il Pakistan per volontà propria e con l’appoggio totale del governo”. Certo è che lei sarebbe partita ben prima. Che Ottawa fosse la sua destinazione era apparso evidente già prima di Natale, dopo che altri Paesi europei avevano rifiutato più o meno apertamente di offrire asilo alla donna: a novembre lo stesso premier canadese aveva detto di essere in contatto con Islamabad. “Questi mesi sono serviti alle autorità per neutralizzare il partito islamista Tehreek-e-Labaik Pakistan (Tlp) che ha fatto della lotta alla blasfemia e della persecuzione di Asia Bibi la sua bandiera” dice al Corriere l’ambasciatore italiano a Islamabad Stefano Pontecorvo. In Pakistan, dove l’Islam è religione di Stato, quasi nessuno mette in discussione la legge che punisce chi profana il Corano con la morte, ma la maggior parte dei musulmani ne denuncia l’uso strumentale dei fanatici per colpire le minoranze o i propri nemici. Dopo l’assoluzione della donna a ottobre, migliaia di estremisti avevano messo a ferro e fuoco il Paese. Per sedare la rivolta, il premier Khan aveva concesso che non avrebbe lasciato espatriare Asia finché la stessa Corte Suprema non si fosse pronunciata sul ricorso degli islamisti. Il verdetto finale è arrivato a gennaio. Ma la partenza è stata rinviata. In questi mesi, dopo l’arresto dei suoi leader, molti seguaci hanno preso le distanze dal gruppo estremista, che ora risulta decimato. Ma cautela e riserbo sono comprensibili. Del resto, però, ci sono altre donne (e uomini) che trarrebbero più beneficio dal clamore internazionale che ha contribuito a questo lieto fine. “È tempo di occuparsi delle altre Asia Bibi condannate a morte in Pakistan”, dice al Corriere Saif ul-Malook. “Come Shaghufta Kausar, 45enne, reclusa ora nella cella lasciata libera da Asia Bibi nella prigione di Multan: sarà la mia nuova battaglia”. Burkina Faso. Progettomondo.mlal: “Coltiviamo il futuro” nelle carceri di Nadia Boffa futura.news, 9 maggio 2019 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” diceva Voltaire. Ed è proprio da questa frase che nasce l’idea del progetto “Coltiviamo il futuro, Piemonte - Burkina, cooperazione e diritti umani in carcere”, presentato questa mattina, 8 maggio, nel Palazzo della Regione Piemonte. Il progetto, cofinanziato dalla regione Piemonte, ha come partner i Comuni di Fossano (To) e Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, il Ministero della Giustizia - Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta e le Direzioni Generale Guardie di Sicurezza Penitenziaria nazionale e del Carcere Maco di Ouagadougou. A presentare il progetto Ivana Borsotto, vicepresidente di Progettomondo.mlal, una delle associazioni impegnate nella realizzazione dell’intervento. “Il nostro obiettivo è umanizzare le carceri del mondo. In particolare quelle del Burkina Faso, paese che amiamo e che al momento desta preoccupazione per le problematiche sociali. L’idea nasce da una visita che abbiamo fatto lo scorso anno a settembre in cui abbiamo visto con i nostri occhi i problemi delle carceri”. “Coltiviamo il futuro” nasce per contribuire a migliorare le condizioni di vita di donne e minori in detenzione nel carcere Maco (Maison de correction d’Ouagadougou) della capitale del Burkina Faso, per l’appunto Ouagadougou. Il Burkina Faso è un paese di 19 milioni di abitanti, dove al momento ci sono 29 carceri suddivise in tre aree penitenziarie. Il carcere di Ouagadougou è il più grande ed è situato nella zona penitenziaria centrale. La prima costruzione risale al 1964, ma ora c’è una grossa parte che non è più utilizzata perché nel tempo si è deteriorata. “Al momento sono 2.200 detenuti in una superficie di 73 mila metri quadrati. La capacità sarebbe di 1300 persone” dichiara Ouedraogo Nogmanegre Claude, direttore del carcere della capitale, che sottolinea come il problema più grande sia il reinserimento sociale dei detenuti, nonché la loro alimentazione. Il primo scopo del progetto è quello di migliorare la salute psicofisica dei detenuti. Per farlo si prevedono tre diversi interventi tra cui la realizzazione di un orto irriguo di 12.500 mq che garantisca la produzione orticola per 12 mesi all’anno; la realizzazione di corsi di formazione e l’accompagnamento tecnico; la nascita di corsi di alfabetizzazione riconosciuti dal sistema scolastico nazionale per facilitare il reinserimento scolastico post-detenzione. Un progetto fortemente sostenuto dalla regione Piemonte “Si tratta di una cooperazione che nasce dalle amministrazioni locali per rivolgersi al mondo. Un progetto che prevede una contaminazione reciproca tra la situazione carceraria italiana e quella del Burkinafaso” afferma l’assessore alla cooperazione decentrata internazionale della regione Piemonte Monica Cerutti. Principali ideatori e attori del progetto il direttore Ouedraogo Nogmanegre Claude, ma anche Padre Adre François Kientega, Cappellano penitenziario Maco per tre anni, dal 2011 al 2014, che ha gestito numerose attività sociali insieme ai padri Camilliani. Ma soprattutto le associazioni Progettomondo.mlal e “Noi con voi”, che lavorano per migliorare le condizioni all’interno dei carceri da molti anni. Tra i progetti di cui si sono occupati nel passato la realizzazione di un carcere minorile in Bolivia, e un programma decennale di servizi e attività sociali nei carceri del Mozambico. Yemen. Appello per la liberazione di tremila migranti detenuti L’Osservatore Romano, 9 maggio 2019 L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha lanciato un pressante appello per liberazione di oltre 3000 migranti, principalmente etiopici, detenuti in Yemen. Da due settimane, infatti, queste persone si trovano “in due luoghi di detenzione temporanei nei governatorati di Aden e Abyan”, ha detto il portavoce dell’organizzazione, Joel Millman, nel corso di un briefing a Ginevra. Desta particolare preoccupazione la condizione delle circa 2500 persone rinchiuse in uno stadio di calcio ad Aden, dove gli operatori umanitari hanno anche riscontrato condizioni sanitarie particolarmente carenti che favoriscono la diffusione di epidemie. Nei giorni scorsi, le guardie che sorvegliano la struttura hanno sparato contro i migranti, ferendo due persone, una delle quali in modo molto grave. Il direttore della divisione operazioni ed emergenze dell’Oim, Mohammed Abdiker, ha spiegato che “questa terribile situazione si deteriorerà ulteriormente”, sottolineando “la necessità immediata” di istituire un’autorità civile per la gestione di questi campi.