In Italia 55 bambini vivono in carcere con le mamme truenumbers.it, 8 maggio 2019 Hanno meno di tre anni. La maggior parte è in Campania. A San Vittore sono 10. Case famiglia protette, istituti a custodia attenuata, classici penitenziari. La legge italiana prevede diverse soluzioni per le detenute con figli piccoli (da 0 a 3 anni), per evitare che questi siano strappati dalle proprie madri nel momento di maggiore bisogno. In sostanza, però, si tratta di bambini in carcere con le mamme, con tutto ciò che questo comporta. Quanti sono i bambini in carcere con le mamme - Il loro numero è in calo: nel 2008 in Italia i bambini in carcere con le mamme erano 78, nel 2009 sono scesi a 73 e oggi sono 55. La maggior parte si trova in Campania: uno al Bellizzi di Avellino e ben 13 nell’Icam di Lauro (una sorta di appartamento protetto per madri detenute). Di questi, 7 sono figli di italiane e 6 di donne straniere. Seguono il carcere milanese di San Vittore, che oggi ospita 10 bambini, e le case circondariali di Torino (Le Vallette) e Roma (Rebibbia). In entrambi vivono 8 bambini, equamente divisi fra italiani e stranieri. Madri detenute: le alternative al carcere - Portare i figli in carcere non è un obbligo, ma una possibilità prevista dalla legge, che la concede alle madri di bambini da 0 a tre anni, in modo da evitare il distacco. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella possono essere devastanti. Per questo la legge Finocchiaro del 2001 ha favorito l’accesso delle madri con figli a carico alle misure cautelari alternative, una sorta di domiciliari con bimbo che però ha lasciato dietro le sbarre le straniere che non hanno una fissa dimora. Per risolvere il problema, nel 2011 è stata approvata una nuova legge che consente la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta: niente sbarre, niente cancelli ma veri e propri appartamenti per le madri, che possono portare a scuola i figli o assisterli in ospedale se sono malati. Inoltre, dal 2006, sono stati creati in via sperimentale degli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) a Milano, Venezia, Cagliari, Lauro. Si tratta di strutture detentive più leggere che permettono alle detenute madri che non possono beneficiare della casa famiglia, di tenere con sé i figli. Sembrano quasi asili, con corridoi colorati, agenti in borghese e senza celle ma sono un carcere a tutti gli effetti. Malafollia, quei racconti di una umanità costretta in cella di Valentina Stella Il Dubbio, 8 maggio 2019 Domani al Salone Internazionale del Libro sarà premiato il vincitore del “Premio Goliarda Sapienza- Racconti dal carcere”, il concorso letterario nato nel 2011 e rivolto alle persone detenute, con il coinvolgimento diretto di grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor. Il progetto è promosso e organizzato da InVerso Onlus con il sostegno della Siae e fin dalla sua nascita ha come madrina la scrittrice Dacia Maraini. Per questa edizione speciale dal titolo Malafollia, è stata costituita una factory creativa formata da alcuni degli autori (detenuti e qualche ex detenuto) che si sono distinti nel corso delle precedenti edizioni del concorso e che qui si sono cimentati nella scrittura di racconti sul tema della follia in carcere, ispirandosi alle proprie esperienze personali. Scrive ad esempio Michele Maggio: “La pazzia per me è andare a dormire tutte le sere sperando di morire durante il sonno. La pazzia è svegliarsi tutte le mattine e gemere “Fanculo” a denti stretti. La pazzia è sognare di crepare in un conflitto a fuoco con gli sbirri e di portarsene qualcuno all’inferno. La pazzia è desiderare di tornare in carcere perché il mondo fuori è troppo complicato e possiede un’anima più nera e crudele. La pazzia è andare avanti senza uno scopo. Penso. “La pazzia è un comportamento anomalo rispetto alla società” dico. E mi do un 9 per la risposta diplomatica e un 10 per l’ipocrisia”. I racconti sono pubblicati in “Malafollia - Racconti dal carcere” edito da Giulio Perrone Editore, in libreria da pochissimi giorni, i cui proventi contribuiranno alla realizzazione di progetti in favore della cultura della legalità. “Talvolta i comportamenti tenuti in carcere sembrano follia - scrive Albinati nell’introduzione - e invece rappresentano la resistenza contro di essa, un modo per mantenersi vigili, integri, ad esempio il parlare da soli: “i monologhi che facevo ad alta voce, convinto che se fossi rimasto un anno senza comunicare con nessuno come imposto dal verdetto di condanna, avrei perso l’uso della parola”. La premiazione a Torino sarà preceduta da un reading tratto dai racconti tenuto da Luigi Lo Cascio, a cui seguirà un dibattito proprio con Edoardo Albinati, Erri De Luca, Patrizio Gonnella, con la conduzione di Antonella Bolelli Ferrera. La giuria è presieduta dal maestro Elio Pecora ed è composta di scrittori e, anche quest’anno, di studenti liceali. A poche ore dall’appuntamento letterario abbiamo fatto qualche domanda al presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Cosa ci raccontano queste storie? Si tratta di una antologia che evidenzia come all’interno del carcere esista una umanità molto ricca, profonda, capace di esprimersi, e anche letterariamente nobile; una raccolta di testi che svelano ciò che è nascosto ai disattenti, spesso male orientati dai media sul tema carcerario. Racconti che ci dicono che non esiste invece quella frattura che viene costruita in modo artificiale e probabilmente artificioso fra carcere e società esterna. Dentro il carcere troviamo quelle stesse sensibilità umane e letterarie che esistono fuori dal carcere. Quel muro che ci separa dal carcere appare molto più dividente di quello che è in realtà. Queste narrazioni possono aiutare a superare gli stereotipi che riguardano il tema carcerario? È importante che ci sia una empatia tra chi in questo caso legge e chi scrive. Questa immedesimazione potrebbe aiutare sicuramente a superare i pregiudizi. Chiaro è che la portata di comunicazione non arriverà mai a tutti coloro che sono invasi dai tweet di Salvini o dei forcaioli di tutti i tipi. Questa antologia quindi non ha quella portata numerica però ha una forza di impatto emotivo che aiuta a decostruire quei sentimenti di odio, di rabbia e quelli volgari di richiesta di una pena dura, fuori dalla legalità costituzionale, che oggi sentiamo spesso richiamare in giro. Qual è la peggior malattia di cui soffre oggi il sistema carcerario? Probabilmente è una malattia ontologica: pensare che il carcere sia l’unica pena possibile. Noi crediamo di affidare al carcere tutto quello che vogliamo risolvere fuori dal carcere. Così facendo, non ci liberiamo dal bisogno di carcere. Quando esso non sarà più onnivoro, probabilmente sarà anche meno afflittivo. Purtroppo non si crede più ad un sistema sanzionatorio diversificato, che preveda pene alternative al carcere. Cosa significa dignità azzerata in carcere? Visto che stiamo parlando di un libro proviamo tutti ad immaginare il nostro scrittore che non ha disposizione nessuno spazio per scrivere nella sua cella affollata e in condizioni igieniche e sanitarie precarie e disperanti, con un cappotto addosso perché infreddolito dalla mancanza di riscaldamento in un freddo inverno, con una penna e senza computer che sono vietati anche se non connessi alla linea internet. Non so se possa rappresentare una immagine di dignità negata, ma di sicuro non raffigura l’esecuzione di una pena moderna. Concetti ribaditi da Patrizio Gonnella nella sua prefazione a “Malafollia - Racconti dal carcere”: ““La giustizia è lenta ed estenuante, e l’innocenza, anche se provata, soltanto ferita uscirà di prigione” così scriveva Pierre Clémenti nella sua bellissima autobiografia Pensieri dal carcere”. Di questi tempi bisognerebbe meditarci”. La giustizia in campagna elettorale di Giovanni Orsina La Stampa, 8 maggio 2019 Sogno una campagna elettorale nella quale non si parli di questioni giudiziarie. È il sogno meraviglioso di un paese civile nel quale i giornali non riportano intercettazioni telefoniche e a nessuno viene chiesto di dimettersi per un avviso di garanzia, ma si aspetta una sentenza passata in giudicato (eh sì: nel paese civile una condanna in primo grado non basta - anche se, a parziale risarcimento dei fan della ghigliottina, per arrivare al giudicato in quello stesso paese non occorrono tempi biblici). Purtroppo è soltanto un sogno. Sono venticinque anni ormai che la realtà italiana batte sentieri ben diversi, e con una ripetitività tale da dimostrarsi più noiosa ancora del mio irenico garantismo onirico. Pure in questa campagna elettorale europea del 2019, allora, tocca prendere faticosamente atto di come-piaccia o non piaccia - l’inchiesta lombarda che è diventata ieri di pubblico dominio e l’ormai ben noto caso del sottosegretario Armando Siri siano destinati ad avere un impatto sulla scena politica, e valutare di che tipo di impatto possa trattarsi. Il Movimento 5 stelle è il principale beneficiario delle due vicende, ovviamente. L’opposizione alla corruzione del ceto amministrativo, il giustizialismo, l’invocazione all’onestà definiscono il terreno dell’antipolitica “pura” sul quale il grilliamo è nato, ha prosperato, e non può che muoversi con la massima disinvoltura. La purezza resta pericolosa, certo: là dove arrampicandosi sulla scala dell’antipolitica il Movimento è salito al potere, come a Roma, restar fuori dalle cronache giudiziarie s’è rivelato più complicato del previsto. Ma oggi non si parla di Roma: si parla di un sottosegretario della Lega e della Lombardia governata dal centrodestra, quindi i pentastellati non hanno che da rallegrarsi. Non solo. Se, come pare, Armando Siri sarà infine costretto a fare un passo indietro senza che questo, almeno per il momento, produca conseguenze per la sopravvivenza del governo, il Movimento sarà infine riuscito a mettere a segno un colpo contro Salvini, approfittando dell’imprudenza del leader leghista che, per difendere il sottosegretario, s’è addentrato su un terreno politicamente sdrucciolevole. E un solo colpo dato a fronte dei tanti che i pentastellati hanno incassato, certo. Ma è arrivato al momento giusto, e potrebbe restituire un qualche dividendo elettorale. L’inchiesta lombarda riguarda soprattutto Forza Italia. Non pare questione da poco, e gli esponenti del partito che vi sono coinvolti non sono di secondo piano. Ciò detto, fra tutti i partiti in lizza per le elezioni europee quello di Berlusconi è forse quello che meno può risentire di una vicenda del genere. A motivo sia della tradizione garantista di Forza Italia - non sempre saldissima, in verità, ma comunque ben più salda di quella delle altre forze politiche - sia dei suoi rapporti travagliati con la magistratura. La Lega, infine. Almeno per il momento l’inchiesta lombarda sfiora soltanto il presidente della Regione, Attilio Fontana. Ma al Pirellone Forza Italia è parte essenziale della maggioranza a guida leghista, quindi è difficile immaginare che Salvini riesca a non pagare proprio nessun prezzo politico - mentre, dall’altro lato, non è impossibile ipotizzare che la vicenda rafforzi chi nella Lega ritiene opportuno perseguire la completa indipendenza da Berlusconi. Quanto al caso Siri, mostra per un verso, e per l’ennesima volta, che il giustizialismo è un’arma pericolosa: chi trae vantaggio dal brandirla finisce prima o poi per restarne vittima. E per un altro verso introduce un primo velo, non pesantissimo ma neppure irrilevante, sull’aura di invincibilità che ha circondato finora il ministro dell’Interno. Penalisti in sciopero contro la “deriva populista e giustizialista della legislazione penale” di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 maggio 2019 Tre giorni di proteste. Da mercoledì, per tre giorni, gli avvocati penalisti tornano a scioperare contro la “deriva populista e giustizialista della legislazione penale in Italia”. Una deriva, denuncia l’Unione camere penali italiane, che ha origini lontane ma che “oggi si è trasformata in un obiettivo prioritario del governo del paese”: “La legislazione penale è costantemente ispirata all’indiscriminato e irragionevole aumento delle pene, con una vera e propria idolatria per la condanna perpetua - detentiva o comunque inibitoria e interdittiva - del reo; al disprezzo per la funzione rieducativa della pena e a ogni alternativa al carcere; alla sovversione della presunzione di non colpevolezza”. Nel merito, i penalisti richiamano l’attenzione sui numerosi interventi legislativi in materia di giustizia adottati dalla maggioranza gialloverde, compresa la riforma anticorruzione (la cosiddetta “spazza-corrotti”), in cui “si assegna al concetto di corruzione una valenza etica, tale cioè da dover essere combattuta con ogni mezzo, anche il più riprovevole”, e alla proposta di introduzione del referendum propositivo anche in materia penale, “con un effetto catastrofico sull’assetto generale della democrazia liberale che ha il suo perno irrinunciabile nella rappresentanza politica”. Per queste ragioni, all’astensione dalle udienze i penalisti italiani affiancheranno una manifestazione di due giorni che si terrà venerdì 10 e sabato 11 maggio all’Università degli Studi di Milano, e che punta a chiamare a raccolta il mondo accademico, le istituzioni, la politica e la pubblica opinione intorno al “Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo”, stilato dall’Ucpi in collaborazione con i giuristi delle più autorevoli università italiane. Il Manifesto fissa “i principi irrinunciabili” ai quali dovrebbe ispirarsi la legge penale e processuale, in procinto di essere riformata dal governo gialloverde e richiama innanzitutto al rispetto del principio di proporzionalità della pena. Nella parte relativa ai “princìpi di un processo penale liberale”, spicca il netto rifiuto di ogni abuso della carcerazione preventiva”. Stop anche al fenomeno del processo mediatico: “Prima della condanna definitiva, la cronaca giudiziaria deve mantenersi entro binari rispettosi della presunzione d’innocenza: essa deve informare sul processo, non allestirne uno parallelo ad uso e consumo dei mass media”. Contro le mafie non basta solo il coraggio dei figli dei boss di Isaia Sales Il Mattino, 8 maggio 2019 “Chi mi chiede se Michael Sullivan era una brava persona o solo un poco di buono, io do sempre la stessa risposta, dico soltanto: era mio padre!”. Sono le ultime parole di un film indimenticabile di Sam Mendes (con un’interpretazione superlativa di Tom Hanks) che racconta di un ragazzino che in circostanze tragiche viene a sapere che il suo affettuoso padre non è altro che un killer spietato al servizio di un boss mafioso. E sarà lui stesso coinvolto nelle conseguenze delle attività paterne. Non si può non pensare a questo film nel commentare ciò che è avvenuto in questi giorni a Napoli dopo che una bambina è stata gravemente ferita da una pallottola vagante (durante un regolamento di conti davanti a un bar in una piazza affollata) e il giorno dopo il figlio di un boss della camorra ha guidato il corteo di protesta contro la disumanità del “mestiere” del padre: “Io sono Antonio Piccirillo. Mio padre, Rosario Piccirillo, ha fatto scelte sbagliate nella vita. È un camorrista. E io voglio lanciare un messaggio ai figli di queste persone: amate sempre i vostri padri, ma dissociatevi dal loro stile di vita. Perché la camorra è ignobile, ha sempre fatto schifo e non ha mai ripagato”. Parole da sottoscrivere. Come quelle di Annabella Serra, battagliera madre in lotta contro la chiusura di una scuola di Pagani, figlia del boss “Cartuccia”, recentemente balzata alla cronaca per l’intenzione di candidarsi a consigliere comunale: “Quando mio padre è morto avevo poco più di 19 mesi. Ci siamo ritrovati da soli, io e i miei fratelli a rimboccarci le maniche e siamo andati avanti con umiltà e voglia di riscatto”. Aggiunge Serra: “Se c’è qualcosa che ho imparato da lui, soprattutto grazie ai miei fratelli, è che dovevo prendere una strada diversa dalla sua. Oggi mio figlio sogna di essere un magistrato antimafia”. O le parole che Luigi Cantelli, un giovanissimo laureato in economia, nipote del boss Bidognetti (detto Ciccio ‘e Mezanotte), ha usato per candidarsi alle prossime elezioni a Casal di Principe: “Nessuno al momento della nascita ha la possibilità di scegliere i propri familiari, ma non ho mai avuto rapporti con lui, ne condanno moralmente le azioni, che hanno danneggiato anche indirettamente la mia persona”. E Renato Natale, il sindaco uscente, un simbolo della battaglie contro i clan dei casalesi, così ha dichiarato: “Ci ho pensato a lungo prima di accettare la candidatura del nipote di Bidognetti. La scelta di rompere con il passato va consolidata”. O quelle ancora di Vincenzo Pirozzi, figlio di Giulio, boss del clan Misso, attore, sceneggiatore e regista (ha girato alcune puntate di “Un posto al sole” e ha recitato in Gomorra): “Ho una storia particolare, mio padre è in carcere in regime di 41-bis perché era un boss. Sono tanti anni che un vetro mi separa da mio padre, anni in cui non ho potuto nemmeno toccarlo. Paradossalmente la realtà si cambia con una sola cosa, quella del vivere la quotidianità. Vivere il buono e il brutto, ma sapendo quale scegliere per sé. Il proprio destino si sceglie”. Alcuni anni fa Maria Rosa Nuvoletta, un’apprezzata insegnante, scrisse un romanzo dal titolo significativo, “Legami d’amore”, sul suo difficile e complesso rapporto con il padre (il boss di Marano) e la sua famiglia. E Nunzio Giuliano, che aveva parlato della dissociazione dall’attività della sua famiglia criminale di Forcella in Diario di una coscienza (dopo la morte del figlio per overdose) aveva rappresentato tragicamente la difficile condizione di chi vuole sottrarsi al destino della nascita e ne viene lo stesso travolto: fu ucciso come vendetta trasversale per il pentimento del fratello Luigi. Anche nelle università succede che studenti appartenenti a famiglie malavitose chiedano di svolgere tesi sul tema della lotta alla camorra. A me è capitato di darne alcune. I casi sono ormai molti e forse è venuto il momento di una riflessione più attenta sul fenomeno della dissociazione dei figli e parenti di camorristi dall’attività dei padri e dei propri familiari. A dimostrazione che non c’è niente di già scritto e predeterminato per i figli dei boss o per chi è dentro la malavita. E anche se quelle sopra descritte fossero delle eccezioni, o pochi casi isolati, andrebbero comunque conosciute e interpretate. Perché se non si rompe quel mondo dall’interno, la battaglia contro le camorre e le mafie non può essere mai vinta. Solo quando la rottura culturale e sociale arriva a toccare gli stessi membri delle famiglie criminali, allora si può dire di essere all’inizio della fine del dominio mafioso. Certo, la ribellione al sistema mafioso e camorristico di chi non ne fa parte è importante e decisivo, perché ci segnala che il consenso criminale riguarda chi vive e lavora a ridosso di esso (e non sono pochi, indubbiamente), ma una ribellione dall’interno ci indica che quel mondo è disgregabile e attaccatile, a condizione però che non ci si limiti ad affrontarlo esclusivamente sul piano militare: su quel fronte ci vogliono anche altre armi, e quelle culturali e sociali sono fondamentali. Il regno della camorra e delle mafie deve essere attaccato soprattutto dall’interno. E quanto abbiamo raccontato ci dimostra che le condizioni soggettive per farlo ci sono, mancano però quelle oggettive, cioè gli strumenti, le risorse, la pazienza, l’abnegazione e la volontà politica per farlo. Non è vero che non c’è niente da fare, quel mondo non è inespugnabile. Ci vuole fatica, passione e tempo, ma si può fare. Gerry Savastano indubbiamente è una realtà e non semplicemente una finzione di una famosa serie tv. I figli dei boss in linea di massima ripetono la vita dei padri. E la maggior parte dei giovanissimi che finiscono in galera o nelle carceri minorili sono già segnati da parenti che erano finiti a loro volta in carcere. E più comodo, e ci impegna di meno, sostenere che quello è un universo dai percorsi segnati. Ma se ci rassegniamo alla inamovibilità di quel segmento sociale anche il nostro (apparentemente lontano) ne sarà influenzato e condizionato. Parafrasando Jean Jacques Rousseau (“La ricchezza dei poveri è data dai loro figli; quella dei ricchi dai loro genitori”) si potrebbe concludere che la ricchezza dell’antimafia è fatta anche dalla diserzione dei figli dei mafiosi. Siamo tutti Antonio Piccirillo, che rinnega al megafono il padre camorrista di Antonella Boralevi La Stampa, 8 maggio 2019 C’è in ospedale, a Napoli, una bambina piccola, con i piccoli polmoni trapassati da una pallottola calibro 9. Un’arma da guerra. Non ha ancora 4 anni. Era seduta al tavolino di un bar, di quelli sul marciapiede, con sua nonna. Forse aspettava un gelato. Invece è arrivato un killer camorrista. Ha ammazzato la vittima designata. Ma ha colpito anche lei. Però questa non è la solita storia di Napoli Gomorra. Questa è anche una storia di rinascita. Perché, durante la manifestazione civile che ha portato lì, in piazza Nazionale dove il sicario ha colpito Noemi, migliaia di napoletani coraggiosi, c’è stato uno più coraggioso di tutti. Uno che ha 23 anni. Che mai aveva parlato in pubblico. Si è fatto passare il megafono. Così, d’impulso, ha raccontato poi. E, su quella marea di teste insieme forti e disperate, la sua voce giovane è esplosa come una bomba. “Sono Antonio Piccirillo, figlio di Rosario Piccirillo, che ha fatto scelte sbagliate nella vita. È un camorrista. Dissociatevi, figli di queste persone. Perché la camorra è ignobile, ha sempre fatto schifo e non ha mai ripagato”. Questo giovane uomo ha cambiato il mondo. Ha fatto diventare di colpo il mito di Gomorra uno schifo. Questo ragazzo senza padre (“Non l’ho mai visto, per vent’anni è entrato e uscito dal carcere”) ha saputo diventare, lui, padre. Padre di tutti i figli di camorra che forse provano lo stesso schifo, ma non avevano il coraggio di rinnegare i padri. ANTONIO PICCIRILLO. Scriviamolo in maiuscolo, il nome di questo giovane eroe. Ha fatto qualcosa che non si era mai visto. Ha dato ai giovani senza futuro, raccontati da Gomorra, un’alternativa. Ha preso il rischio. Ha aperto il cuore. Retroattivo o no? È scontro tra toghe sul decreto Salvini di Simona Musco Il Dubbio, 8 maggio 2019 Una sentenza riapre il dibattito sulla norma. La Corte di Cassazione si spacca sul decreto Salvini. E le toghe si fanno “la guerra”, usando come ring il campo dei permessi di soggiorno per i migranti. La battaglia riguarda la possibilità di applicare la nuova legge anche ai giudizi pendenti e non solo alle nuove domande, risultando, di fatto, retroattiva. Un punto sul quale ora dovranno pronunciarsi i giudici delle Sezioni Unite, chiamati in causa dal collegio presieduto dal giudice Francesco Antonio Genovese, più propenso a considerare le nuove regole valide anche per le domande presentate prima del 5 ottobre scorso. Un orientamento decisamente diverso rispetto a quello del collega Stefano Schirò, che a gennaio aveva evidenziato, con la sentenza 4890 della prima sezione civile, l’irretroattività della norma. Ma pochi mesi dopo, il 3 maggio, le cose sono cambiate nonostante la presenza, nei due collegi, di due componenti identici - sotto la presidenza di Genovese, che ha inviato gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per “l’eventuale assegnazione” alle Sezioni Unite. Tutto parte dalle ordinanze prodotte dalla Cassazione sui ricorsi presentati dal Viminale contro tre sentenze, due provenienti dalla Corte d’Appello di Trieste e una da Firenze, con le quali i giudici avevano riconosciuto la protezione umanitaria a tre cittadini stranieri, due del Gambia e uno del Bangladesh. In un primo caso il riconoscimento era avvenuto in considerazione del “non perfetto stato di sicurezza” esistente in Gambia, nell’altro riconoscendo il radicamento del giovane che aveva presentato richiesta nel tessuto sociale italiano, “nel quale studia e coltiva i suoi principali legami, mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo” e tenuto conto della “sicura prognosi di insormontabili difficoltà di immediata reintegrazione nel Paese di origine”. Per il terzo caso, invece, i giudici avevano considerato positivamente l’inserimento nel contesto sociale e il raggiungimento dell’indipendenza economica, essendo stata tale persona assunta a tempo pieno. Il ricorso proposto da Salvini ha fornito ai giudici della Suprema Corte il pretesto per contestare con passaggi a volte anche molto duri nei confronti del relatore della sentenza precedente - l’interpretazione data a gennaio dai colleghi, secondo i quali le novità introdotte dal decreto “non trovano applicazione” per le richieste di protezione umanitaria presentate prima del 5 ottobre 2018, data dell’entrata in vigore della nuova legge. Secondo quell’interpretazione, le domande avanzate fino al 4 ottobre vanno valutate sulla base della normativa precedente. Con una sola differenza: il rilascio, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura “casi speciali”, adattando così le certificazioni alle indicazioni della nuova norma, che, in pratica, elimina i permessi umanitari, salvo alcune eccezioni. Una contraddizione, per il giudice Genovese, che parla, in alcuni passaggi, di “suggestioni irrilevanti”, “ambiguità” e “aporie” e secondo cui, trattandosi di domande di protezione umanitaria non ancora definite in sede amministrativa o pendenti in sede giurisdizionale, parlare di retroattività potrebbe essere errato, fermo restando che tale principio “può essere derogato in modo espresso ovvero tacito e desumibile in modo non equivoco da obiettivi elementi del contenuto normativo”. E il decreto Salvini, affermano i giudici, conterrebbe “una norma di diritto intertemporale” che impone di applicare il meccanismo di conversione del permesso umanitario nel permesso “in casi speciali”, escludendo, di fatto, l’applicazione delle vecchie norma alle situazioni pendenti. “Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza 4890 - contestano i giudici - il permesso da rilasciare sarebbe quello nuovo, ma le condizioni sarebbero quelle della legge previgente”. Una conclusione non condivisa dal nuovo collegio, secondo cui “non si comprende per quale ragione l’autorità amministrativa non dovrebbe applicare interamente la nuova normativa, essendo tenuta a provvedere alla conversione del permesso che è prevista dalla nuova legge”. Aggiungendo, in conclusione, anche una valutazione sull’idea stessa di protezione umanitaria come “oggetto di un diritto immanente e inviolabile della persona”, così come definito dalla sentenza precedente. Tale diritto, contestano i giudici, sarebbe comunque “suscettibile di regolazione da parte del legislatore, cui spetta il bilanciamento tra i valori in gioco il controllo del fenomeno migratorio e i diritti delle persone di derivazione anche internazionale posto che altrimenti si consentirebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti in campo, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute”. Castrazione chimica contro gli stupratori, che barbarie di Fabio Evangelisti Il Dubbio, 8 maggio 2019 Il delitto di Viterbo scatena profonda rabbia, emotività e dubbi. ma il problema è quello di non violentare la democrazia. La vicenda è nota e tragicamente uguale a tante altre. Troppo uguale. Con una lettura deformata però dal clima di perenne campagna elettorale. Siamo dunque intorno alla metà di aprile e in un pub di Viterbo una ragazza di 36 anni viene brutalmente picchiata e violentata. I presunti aggressori sono due ancor più giovani ragazzi: Francesco Chiricozzi di 21 e Marco Licci di 19 anni. I due l’avrebbero presa a pugni e stuprata mentre era in stato di incoscienza. Gli autori avrebbero anche filmato la violenza e minacciato la loro vittima. Passano alcuni giorni e, subito dopo la denuncia da parte della ragazza, si scatena la polemica politica. Stavolta gli autori delle sevizie non sono immigrati clandestini e di colore, ma baldi virgulti di italica stirpe. Per di più uno degli arrestati è consigliere per Casa Pound, nel vicino comune di Vallerano. Apriti cielo! Da sinistra, compiendo l’analoga e grossolana operazione che fa la destra quando generalizza e associa immigrazione e violenza, parte subito la richiesta di scioglimento dell’organizzazione di estrema destra, mentre il vice premier Salvini tuona imbarazzato: “Nessuna tolleranza per pedofili e stupratori: la galera non basta, ci vuole anche una cura” annunciando una legge sulla castrazione chimica per gli stupratori. Nel gioco delle parti, gli risponde Di Maio: “Basta con questa storia, è una presa in giro alle donne e non è nel contratto di governo. Anche CasaPound la chiedeva, ma quello che serve è la certezza della pena e anni e anni di detenzione, perché lo strumento della castrazione chimica lascia i violentatori a piede libero”. In questo modo, dal fatto specifico l’attenzione si sposta al tornaconto elettorale e sul tappeto rimane soltanto il tema castrazione sì o castrazione no. Con il rischio di dimenticarci della/ e vittima/ e, delle violenze sofferte e del trauma che ogni donna inevitabilmente si porta dietro per tutta la vita. Così, l’altra sera, mi capita di leggere su Facebook un commento che mi fa sobbalzare: “Sono per la castrazione, senza se e senza ma”. A scriverlo è una giornalista che conosco e apprezzo. Potrei arrivare a definirla una cara amica. Quella sua perentorietà mi spiazza. Mi disorienta. Che faccio? Copio e incollo e le mando il testo integrale dell’intervista al professor Vittorino Andreoli, curata da Luciana Matarrese per l’Huffington. L’illustre neuropsichiatra ci va giù duro: “Castrazione chimica? Un’imbecillità! Qui si rischia di castrare la democrazia”. Per quello che a 79 anni è tra i più autorevoli esponenti della psichiatria mondiale lo stupro di Viterbo - come pure il pestaggio a morte dell’anziano di Manduria e l’aggressione della professoressa di Lodi - sono ‘“‘effetto di una crisi più ampia, di una degenerazione del vivere civile che riguarda anche l’esercizio del potere”. E rischia di affondare la nostra democrazia, aggiunge Andreoli che continua: “Il potere è in mano ai cretini, la cultura è considerata inutile, il sapere non conta. Conta il potere come verbo, faccio perché posso non perché è utile”. La risposta della mia interlocutrice non si fa attendere: “La mia è una rabbia profonda, lontana. Ho sempre pensato a questo tipo di punizione contro pedofili e stupratori. Lo penso perché ritengo che una certa categoria di maschi, preferirebbe la morte alla mancata virilità, seppur temporanea. Mi spiace che esca dalla bocca di Salvini perché sono anti- salviniana. Credo soprattutto che, aldilà della pena (applicata o meno), diffondere l’uso della castrazione chimica in caso di stupro e pedofilia possa fungere da deterrente. Ed è quest’ultima minaccia che potrebbe far diminuire i casi. Forse sarà stupido, ma io la penso così, perché non tollero e non sopporto simili reati, non li perdono assolutamente e li condanno con pene esemplari affinché non accadano più”. E conclude “Lo stupro è come uccidere l’anima di una persona, rubarle il resto della vita”. Continuo a credere che ad un atto barbaro non si possa rispondere con la barbarie di Stato. Anche se la pancia del Paese e i sondaggi oggi dicono tutt’altro. La castrazione ultima ratio. Detenzione e rieducazione strumenti da preferire di Gianfranco Morra Italia Oggi, 8 maggio 2019 Solo se chimica (e quindi reversibile) e soltanto se su richiesta del condannato per violenze sessuali. L’opinione pubblica è sempre più sconvolta dai frequenti episodi di stupro, anche pedofili, non di rado accompagnati dalla loro trasmissione in web, di cui ha giornalmente notizia. Il ministro degli interni, fra i rimedi possibili, ha anche invocato la castrazione chimica: “Che è una pratica democratica e pacifica. Ci vuole, ha concluso Salvini, una castrazione chimica, con una pillola, non con le forbici. Magari dando a chi l’accetta uno sconto di pena”. Ha suscitato lo sdegno e la protesta di molti, ai quali questa tecnica appare come un residuo di tempi oscuri e selvaggi. È stato accusato di crudeltà e di calcolo elettorale. Ma gli italiani stanno con lui e una petizione al parlamento, presentata l’altro giorno dal segretario della Lega, Molteni, ha già avuto 100 mila firme. Che corrispondono ai dati di un sondaggio in merito: il 60% dei cittadini è favorevole a questa pratica in tutti i partiti (nella Lega, ma anche nel M5S, nonostante Di Maio abbia osservato: “Non è nel contratto di governo”). E parte non piccola giunge addirittura a chiedere la castrazione totale. Che sarebbe certo troppo. Si tratta tuttavia di un vecchio problema. Lo troviamo già agli albori della storia: Saturno tagliò i genitali al padre Urano. Più avanti la castrazione veniva usata per fini religiosi (culto di Cibele e gnostici, come Origene, che non esitò a fare il “sacrificio”). In Cina era una pena per stupratori e adulteri. Nel mondo islamico serviva a creare gli eunuchi per gli harem. Nel mondo cristiano produceva la voce infantile per il canto (castrati dell’opera). E il filosofo Abelardo, per avere sedotto la nipote Eloisa del canonico Fulberto, fu da lui fatto castrare. Tempi barbari, certo. Ma ancor oggi la castrazione chimica è presente nelle legislazioni di alcune nazioni tutt’altro che incivili (Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia, Francia, Belgio, alcuni Stati Uniti, Australia, India, Russia). Ma solo col consenso del colpevole, di età non inferiore a 20 anni, del quale sia stata dimostrata la pericolosità sociale. Anche se non avviene spesso. Uno stato di diritto e democratico non può imporre la castrazione, ma solo fornirla come intervento opzionale richiesto dal “malato” a spese dello Stato. Si tratta dell’uso di farmaci ormonali, che riducono le fantasie e il desiderio sessuale, frenando l’eccitabilità. Non si tratta in alcun modo di una castrazione definitiva, perché la somministrazione dei farmaci può essere interrotta in ogni momento. Non v’è dubbio che ridurre l’intervento di Salvini a una semplice fatto elettorale è cosa stupida. Il problema esiste da tempo e va affrontato, come fanno tante altre nazioni. Tutti ricordiamo il più riuscito fi lm dedicato a questo problema. Nel 1971 uscì la violentissima pellicola di Stanley Kubrick Arancia meccanica, tratta dal noto romanzo di Antony Burgess. Con fine previsione, i due autori hanno indovinato cosa presto sarebbe accaduto anche nella civilissima Inghilterra e in tutta Europa: tre giovani sofisticati e svagati si dedicano alla tortura, allo stupro e all’uccisione. Tutti violenti e malvagi, tutti “arance meccaniche”, persone umane fuori, criminali dentro, ma quella società in cui vivono lo è molto più di loro. Il loro capo Alex viene carcerato e sottoposto al metodo di cura, psico-chimico, “Ludovico”. Alla fine del dramma è “guarito” e può tornare nel mondo civile. Ma l’ultima inquadratura del fi lm mostra il suo sguardo ormai vuoto, più di un automa che di un essere libero. Non è più un uomo, perché non può più fare né il bene né il male. Sappiamo anche che la tendenza alla violenza e allo stupro non dipende solo da fatti fisici e costitutivi. Molto vi contribuiscono la mancata educazione morale e sociale. La castrazione chimica non esaurisce il problema, anche se sarebbe un errore non tener conto della sua utilità in certe condizioni. L’uomo è sempre un essere complesso, qualcosa di misto (una medietas dicevano gli umanisti del rinascimento) tra la bestia e Dio. Occorre aiutarlo a superare la sua animalità nella spiritualità. Con la formazione familiare, scolastica e sociale. Anche se, nei casi in cui la bestialità prevalga, occorre aiutarlo (dietro sua richiesta) con i mezzi che la scienza ci suggerisce. Compresa la castrazione chimica. Politica e corruzione, l’eterno ritorno. Adesso pene certe e condanne rapide di Venanzio Postiglione Corriere della Sera, 8 maggio 2019 Si vedevano al ristorante e lo chiamavano “la mensa dei poveri”. Il mago delle relazioni e dei voti è un signore già condannato in via definitiva nel 2017 per concussione. Anche lo sfregio. Si vedevano al ristorante e lo chiamavano “la mensa dei poveri”. Hanno immaginato la tangente su una sentenza per tangenti: pure la corruzione sa essere creativa. Il mago delle relazioni e dei voti, raccontano i pm, è un signore già condannato in via definitiva nel 2017: per concussione. Quando si dice la competenza. E l’inchiesta poteva e doveva andare avanti, alla ricerca di prove e reati: hanno dovuto interrompere. D’urgenza. Con gli arresti. Perché, ascoltando i colloqui, saltavano fuori nuovi illeciti: così, in diretta. Sono passati 27 anni dal famoso 17 febbraio del ‘92, quel mattino d’inverno in cui Mario Chiesa veniva arrestato, Tonino Di Pietro diventava famoso, si apriva Tangentopoli, cadeva un sistema politico e si immaginava la lunga primavera dell’onestà. Da Milano all’Italia tutta. Però 27 anni fa è come 27 mesi fa e 27 ore fa, la corruzione ambientale specchio e condanna di un Paese uguale a se stesso, al di là delle norme, dei partiti, delle inchieste. Delle promesse, dei proclami. Ma forse anche dei garantisti e dei giustizialisti. Che si scontrano sul nulla e parlano di nulla se non si aggrediscono i due temi aperti (quelli veri): la selezione della classe politica e l’efficacia e la rapidità della giustizia. Altrimenti avremo sempre mezze figure con la bustarella in tasca e processi infiniti che aiuteranno lo spettacolo e mortificheranno la legalità. E avremo pene molto severe e molto inapplicate, grandi megafoni per la propaganda e nuovi tagli alla giustizia. La delusione sarà più forte, se i primi passi dell’inchiesta di Milano verranno confermati, a cominciare dalle “sinergie con le cosche della ‘ndrangheta”. Perché nell’immaginario italiano davvero, e ancora, la Lombardia è la regione che lavora-produce-innova partendo dalle sue imprese e prova a trascinare un Paese frenato dalle risse (quotidiane) al governo e malmenato dalle bastonate (mensili) dell’Europa. È una spinta che fa bene all’Italia e ci tiene ancorati al mondo: tutti i giorni. Ma poi, un martedì mattina, la notizia che scuote il sistema lombardo di governo, costruito da sempre sull’alleanza Forza Italia-Lega e citato con insistenza come modello nazionale. Ci sono 43 misure cautelari, con 12 arresti in carcere e con gli “azzurri” emergenti sotto scacco. A partire da Pietro Tatarella, vice coordinatore regionale di Forza Italia e anche candidato alle Europee del 26 maggio: in lista, ma ora in cella. Indagato lo stesso governatore leghista, Attilio Fontana, per abuso d’ufficio, anche se la Procura ha mostrato cautela e quindi servirà prudenza. Non è solo un fatto giudiziario. E non è facile scagliare pietre. La Lega, a Roma, si è incartata nella vicenda Siri e ha ridato slancio ai 5 Stelle. Gli stessi 5 Stelle che hanno visto il proprio presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito, finire in carcere per corruzione. Nella capitale, dove governano. Il Pd, solo per citare l’ultima pagina, ha la ferita dell’Umbria ancora aperta, dopo decenni di amministrazione e di potere. Poi, certo, ogni caso è un caso, ogni responsabilità è personale e l’indagato non è un condannato. Ma neppure la legge “spazzacorrotti” si è rivelata (per ora) una minaccia sufficiente e l’ipotesi della “giustizia a orologeria” si spegnerà prima di nascere. Sarebbe uno strano orologio. Visto che in Italia ci sono sia elezioni che indagini in continuazione. È una battaglia che va fatta nei partiti. Dentro i partiti. Con le inchieste. Ma anche nella società, nella cultura, alla ricerca degli anticorpi che esistono in Lombardia e non solo in Lombardia. È forse qui che, un giorno, deve davvero finire la pacchia. Senza dire che le persone marciranno in galera o che bisogna buttare la chiave nel lago di Como o che si devono tagliare le mani come nelle leggi ispirate alla sharia. Le persone degli altri partiti, naturalmente. Meglio pene certe e condanne rapide: la riforma più semplice sarà quella più difficile. Partendo da Cesare Beccaria, milanese e gloria nazionale, che l’ha scritto nel Settecento. E poi una politica che chiama “mensa dei poveri” il ristorante dove si scambiano tangenti dovrebbe vergognarsi subito. Prima di inchieste e processi. E gli 007 comprarono il software che ci spia illegalmente di Emiliano Fittipaldi L’Espresso, 8 maggio 2019 Inchiesta della procura di Roma sul malware Exodus. I nostri servizi segreti l’hanno acquistato da una ditta calabrese, che archiviava dati sensibili in Oregon. L’Aise al procuratore Pignatone: non l’abbiamo usato. Il sospetto dei magistrati della procura di Roma fa tremare le vene ai polsi. Migliaia di fotografie, chat private, audio vocali e dati sensibili intercettati dai nostri servizi segreti sarebbero infatti finite in mano a una società privata calabrese che le ha immagazzinate in un archivio segreto negli Stati Uniti, in Oregon. Utilizzando un’area cloud di Amazon che non solo era, illegalmente, di esclusivo appannaggio dell’azienda di Catanzaro, ma che poteva essere facilmente bucata dall’esterno. In pratica informazioni delicatissime dei nostri 007 sarebbero state in rete per anni, allocate non in Italia su server protetti ma all’estero, e facilmente accessibili (con una semplice password e uno username) da chiunque avesse avuto voglia di darci una sbirciata. È questa la clamorosa ipotesi investigativa di Giuseppe Pignatone - procuratore della Repubblica di Roma - e dei suoi pm, che stanno segretamente lavorando da settimane sulla vicenda del sistema spyware chiamato “Exodus”. Se è noto che la procura di Napoli ha sequestrato la piattaforma informatica messa a punto dalle società informatiche e.Surv e STM srl (il procuratore capo Giovanni Melillo ha spiegato che il software - di fatto un trojan che infettava i cellulari trasformandoli in microspie - era usato da procure di mezza Italia per le indagini giudiziarie), gli inquirenti hanno scoperto che tra i clienti delle ditte calabresi c’erano infatti anche i nostri 007. Cioè l’Aisi, l’agenzia che monitora la sicurezza interna del Paese, e l’Aise, l’organismo di intelligence che ha il compito di prevenire le minacce provenienti dall’estero. Impossibile dire, a oggi, se i responsabili delle due società abbiano costruito un sistema informatico illegale per un mero errore operativo o per commettere reati (qualche giornale ha ipotizzato che i pm napoletani indaghino anche su presunte attività di dossieraggio e ricatto). Ma è un fatto che l’imprenditore Giuseppe Fasano e l’ingegnere Salvatore Ansani della e.Surv, e Maria Aquino e Vito Tignanelli della STM che commercializza i prodotti informatici della prima, sono tutti indagati a vario titolo per violazione della privacy, frode in pubbliche forniture e intromissione abusiva in sistema informatico. Com’è possibile che i nostri servizi di sicurezza abbiano acquistato un malware pagando centinaia di migliaia di euro senza accorgersi che Exodus inviava le loro intercettazioni ambientali e telefoniche in Oregon? Com’è accaduto che la polizia giudiziaria e molte procure della Repubblica abbiano assegnato appalti pubblici alla e.Surv senza aver notato che pure ignari cittadini potevano scaricare da Google Play il trojan - nascosto in app civetta che avrebbero così bucato la sicurezza del colosso di Mountain View - trasformando il loro telefonino in un captatore illegale? Gli investigatori stanno cercando di rispondere a ogni domanda. La procura di Roma, che per competenza è titolare del fascicolo sull’uso di Exodus fatto da Aisi e Aise, ha iniziato a chiedere informazioni dettagliate. Rispettivamente a Mario Parente, nominato direttore dell’Aisi nel 2016 e prorogato di altri due anni nel 2018, e a Luciano Carta, arrivato al vertice di Forte Braschi solo lo scorso novembre. All’Espresso risulta che l’acquisto di Exodus da parte dell’Aise sia avvenuto alla fine del 2016. In concomitanza con l’arrivo, nel servizio, di Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che quell’anno - dopo polemiche con l’allora comandante dei carabinieri Tullio Del Sette - s’era spostato all’agenzia guidata allora da Alberto Manenti. A Ultimo, che vantava eccellenti rapporti con l’allora sottosegretario a Palazzo Chigi con delega ai servizi Marco Minniti, e ai suoi uomini traslocati dal Noe vengono affidati compiti rilevanti. Dal rafforzamento della sicurezza degli accessi della sede romana al tentativo di pacificare le tribù del Fezzan (la regione della Libia meridionale dal quale passano le carovane di migranti dirette verso Nord), fino al rilancio dell’ufficio delegato alla sicurezza interna. De Caprio - l’uomo che ha catturato Totò Riina - diventa presto il dominus del reparto, che deve investigare anche sulle possibile talpe che si annidano tra le nostre barbe finte. Per lavorare bene (il terrorismo dell’Isis è il pericolo maggiore, e in quei mesi il governo spinge affinché i servizi possano usare di più e meglio le cosiddette intercettazioni preventive) Ultimo chiede ai suoi capi un trojan decente e un sistema di captazione informatico di qualità. All’Aise, nel 2016, sono del tutto scoperti: i vecchi software spia dell’agenzia, forniti dall’azienda milanese Hacking Team, sono finiti in soffitta dal luglio 2015. Da quando, cioè, la società milanese di David Vincenzetti era stata presa di mira da un hacker che aveva rubato e messo in rete centinaia di gibabyte di informazioni, dati, codici, email e liste dei clienti. Manenti, il suo allora capo di gabinetto (e attuale vicedirettore) Giuseppe Caputo e Ultimo, che aveva già usato Exodus in alcune inchieste giudiziarie quando comandava il Noe di Roma, decidono così di comprare lo spyware di e.Surl. Che viene dato in dotazione, in via sperimentale, solo all’ufficio di De Caprio. E non al reparto tecnico dell’agenzia. Possibile che eventuali intercettazioni dell’Aise (che devono sempre essere autorizzate dalla procura generale della Corte d’appello di Roma) siano finite nell’archivio segreto in Oregon? Secondo Carta, no. Dopo aver analizzato per settimane - insieme al nuovo capo della sicurezza e dell’ufficio legale Massimiliano Macilenti - documenti ed evidenze interne, il direttore dell’Aise (che tra il 2016 e il 2017 era il numero due di Manenti, ma le sue deleghe non riguardavano sistemi di sorveglianza e intercettazioni preventive) ha risposto a Pignatone spiegando che, almeno “per tabulas”, lo spyware non è mai stato utilizzato. Né dagli uomini di Ultimo né da altri agenti segreti dell’Aise. Come mai Exodus non sia mai diventato operativo, nonostante i denari spesi per comprarlo, è un mistero. Il contratto con la STM è segreto e non è nemmeno stato depositato al Dis. Di certo il servizio esterno dopo il primo acquisto non ha interrotto i rapporti con la ditta calabrese: un anno e mezzo dopo l’agenzia acquisterà un altro software, stavolta destinato al reparto tecnico della cyber security. Una versione modificata di Exodus che, secondo fonti interne, “funzionava molto meglio del primo”, con intercettazioni e dati tutti allocati “in un server protetto interno all’agenzia”. Anche il Copasir sta indagando sulla vicenda. “Perché è vero che l’Aise ha certamente comprato Exodus, chi ne ha fatto un impiego rilevante è l’Aisi, la polizia giudiziaria, oltre a procure di mezza Italia. Dobbiamo capire se ci troviamo di fronte a gravi errori e sottovalutazioni, o se invece esistono soggetti privati o delle istituzioni che hanno fatto un uso illecito del trojan”, dice un autorevole esponente del Comitato per la sicurezza guidato dal piddino Lorenzo Guerini. Anche il grillino Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, s’è detto preoccupato: tutti i dati riservati captati dal malware finivano infatti nel cloud Amazon in Oregon. Chiunque aveva una password poteva entrare nell’archivio. E vedere (e scaricare) non solo i dati riservati della sua indagine, ma anche quelli di istruttorie segrete di terzi. Il sistema Exodus, di fatto un malware di Stato, ha funzionato per anni indisturbato. Solo all’inizio di quest’anno, per un caso fortuito, un finanziere di stanza a Benevento s’è accorto che qualcosa non funzionava. Il militare, impiegato nella procura campana e al lavoro su un’indagine penale che prevedeva anche intercettazioni telematiche, dopo una serie di interruzioni delle connessioni di rete con il server ha provato a collegarsi sfruttando altri indirizzi, percorsi alternativi. Accorgendosi così che i dati della sua inchiesta non erano protetti in modo sicuro: da qualsiasi pc, persino da un tablet o uno smartphone, era possibile accedere a un server di Amazon localizzato negli Usa, che custodiva l’intero archivio realizzato dalla e.Surv. I responsabili della ditta, però, con ogni cliente istituzionale hanno firmato contratti che prevedrebbero non solo la tutela della privacy di tutte le informazioni, ma anche la loro corretta conservazione. Possibile che la ditta calabrese abbia realizzato un deposito cloud non sul territorio nazionale e privo di adeguata sicurezza solo per risparmiare e fare margini migliori? Si vedrà. Intanto le procure di Benevento e poi quella di Napoli (dove il fascicolo è stato acquisito per competenza) hanno scoperto pure - come i ricercatori di Security Without Borders e di Motherboard che hanno pubblicato per primi la notizia - che Exodus ha intercettato illegalmente anche un migliaio di cittadini italiani del tutto estranei ad indagini penali o investigazioni dei servizi. Gli esperti hanno rivelato che su Google Play Store venivano piazzate dall’azienda di Catanzaro delle app malevole che, dopo il download, infettavano con Exodus il cellulare del malcapitato. Lo spyware si camuffava dentro applicazioni comuni, come quelle che vengono scaricate per migliorare le performance dei device o quelle che segnalano le nuove promozioni di vari operatori telefonici. Secondo i tecnici di Motherboard, una volta che Exodus veniva installato, prima raccoglieva informazioni base sul cellulare che era stato hackerato, come il codice Imei. Poi, in una fase successiva, prendeva il controllo totale del telefonino, trasformandolo in una cimice, estraendo immagini e video, oltre alla cronologia del browser di Internet, tutte le chat di Whatsapp e di Telegram e i contatti della rubrica. Secondo “Repubblica” è stato proprio Ansani, ingegnere di e.Surv, a fare agli inquirenti le prime ammissioni, e ha rivelare di avere piazzato su Android (non risultano invece operazioni simili sul sistema di Apple) applicazioni che trasformavano i cellulari in apparecchi-spia. Per l’ingegnere, però, il contagio è stato deciso a tavolino solo per effettuare dei test sul software, e non per effettuare intercettazioni a pioggia. Antonello Soro, garante della privacy, conferma che la storia resta oscura. “È un fatto gravissimo”, ha detto, “faremo anche noi i dovuti approfondimenti per quanto concerne le nostre competenze. La vicenda presenta contorni assai incerti, ed è indispensabile chiarirne l’esatta dinamica”. Il timore maggiore degli inquirenti di Roma e Napoli, però, non riguarda le centinaia di cellulari intercettati illegalmente. Ma il rischio che i dati segreti di indagini delle procure italiane e del nostro controspionaggio siano state oggetto non solo di archiviazioni illecite (una falla che potrebbe già aver compromesso investigazioni sensibili), ma di un vero e proprio mercimonio di informazioni riservate. È solo un sospetto, per ora. L’inchiesta è solo all’inizio. Chance ampia per la riqualificazione della medesima condotta penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 18793/2019. Spazio ampio per la diversa qualificazione giuridica del fatto. Perché, comunque, nei diversi gradi di giudizio la difesa può essere messa nelle condizioni di intervenire. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza 18793 della Quarta sezione penale. Nel dettaglio, il giudice può procedere a un diverso incasellamento nella legge penale della medesima condotta senza la necessità di informare preventivamente le parti sia in primo grado sia in appello. La difesa infatti potrà fare valere le sue ragioni nel successivo grado di giudizio, in appello oppure in Cassazione. Davanti a quest’ultima, poi, la diversa qualificazione è possibile quando le parti sono state informate, anche solo oralmente, da parte del procuratore generale in sede di requisitoria oppure anche dal collegio giudicante stesso prima della discussione. Intreventi suprflui poi se l’atto stesso dell’impugnazione ha al centro proprio il tema della determinazione giuridica della condotta. La Cassazione fa precedere queste conclusioni da un’attenta ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dove il riferimento obbligato sul punto sono le sentenze Drassich, dell’11 dicembre 2007 e 24 febbraio 2018. Pronunce che hanno affermato e precisato il diritto dell’imputato a essere informato della natura e dei motivi dell’accusa. Un’informazione che non può essere però limitata agli esclusivi elementi di fatto, ma impone anche l’evidenza della qualificazione giuridica dei fatti contestati, alla quale naturalmente l’ordinamento fa seguire il relativo trattamento sanzionatorio. È necessario però, torna a sostenere la Cassazione, un approccio non formale al principio affermato in sede europea, ritenendo che il diritto all’informazione sulle cause dell’accusa deve trovare applicazione solo quando l’imputato non ha avuto spazio per rielaborare la propria linea difensiva. Una necessità di interpretazione nel segno della “ragionevolezza” che va declinata nei diversi gradi di giudizio. Determinante è allora la possibilità per l’imputato di confronto con l’autorità giudiziaria attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, non solo davanti al giudice di appello, ma anche in Cassazione. A ulteriore precisazione, osserva la Cassazione, va sottolineato che è garantito il diritto al contraddittorio anche quando la nuova determinazione del fatto è stata compiuta direttamente con la sentenza di primo grado senza un preventivo confronto sul punto. Davanti alla Cassazione, infine, l’unico elemento da tenere presente è che la riqualificazione non può arrivare a sorpresa, al momento della decisione. Deve così essere considerato superato quell’orientamento che aveva ritenuto colpita da nullità la sentenza che aveva operato a una riqualificazione dell’imputazione senza un preventivo contraddittorio. Riciclaggio. Per la connessione basta il legame tra due o più reati di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 18031/2019. La Cassazione penale, con la sentenza 18031/19, ha ritenuto ammissibile l’attrazione della competenza territoriale anche cautelare nel luogo dove si assume siano stati commessi i delitti di riciclaggio, autoriciclaggio e associazione per delinquere con la finalità del compimento di reati tributari e omissioni contributive previdenziali e assistenziali anche se non c’è identità degli autori dei reati. Nel caso di specie, il ricorso dinnanzi alla Suprema Corte è stato proposto avverso una ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Milano aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip in ordine al delitto di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di molteplici reati di natura tributaria e di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali. Secondo il ricorrente, il Collegio del riesame avrebbe errato nel riconoscere la competenza per territorio in capo al Tribunale di Milano posto che per i medesimi fatti e nei confronti dei medesimi soggetti (ad eccezione però del ricorrente) pendeva procedimento penale innanzi alla Procura della Repubblica di Bari. Per essere più chiari, nel procedimento pendente innanzi al Tribunale di Milano, il ricorrente era indagato per il reato di associazione per delinquere, finalizzato alla commissione di molteplici delitti di diritti tributario e di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali mentre nel procedimento presso il Tribunale di Bari si contestavano a numerosi soggetti ma non al ricorrente, per l’appunto, il delitto di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio e all’autoriciclaggio anche dei proventi illeciti derivanti dalle stesse frodi fiscali su cui indagava la Procura di Milano. Ciò nonostante, il Tribunale del riesame di Milano, aveva ritenuto di confermare la propria competenza in quanto non sussisterebbe piena coincidenza degli indagati e degli importi individuati come provento della frode fiscale ma soprattutto i reati di riciclaggio e di auto-riciclaggio che andrebbero riguardati come i più gravi non sarebbero stati contestati al ricorrente, non indagato a Bari, ma solo ad altri soggetti, sicché non opererebbe il criterio della connessione. Quest’ultimo assunto, è stato tuttavia sconfessato dalla Corte di cassazione, la quale richiamando un insegnamento delle Sezioni unite (sentenza 53390 del 26 ottobre 2017) ha escluso che ai fini della configurabilità della “ connessione teleologica” che ricorre quando taluni dei reati per cui si procede siano stati commessi per eseguire o per occultare gli altri, debba sussistere identità fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo. In particolare, le Sezioni unite a suo tempo avevano chiarito che questo tipo di connessione, a differenza di quella plurisoggettiva e di quella mono-soggettiva, richiama un legame oggettivo tra due o più reati, senza esigere che l’autore di quello strumentale all’altro debba necessariamente prendere parte a quest’ultimo, che può quindi essere commesso anche da terzi. È importante infine il fatto che, ad oggi, la giurisprudenza sembrerebbe avallare la tesi secondo cui il reimpiego dell’imposta evasa configuri automaticamente il delitto di auto-riciclaggio, con conseguente applicazione di misure cautelari reali. Ai fini del reato di maltrattamento degli animali vale anche l’incuria di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 4 aprile 2019 n. 14734. Ai fini della condanna per maltrattamento degli animali assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà verso gli animali, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dello animale stesso, procurandogli dolore e afflizione. Con la recente sentenza n°14734/2019, la Corte di Cassazione affronta una vicenda che riguardando asini da soma sembra d’altri tempi, coniugando tuttavia una prospettiva novella: una spinta di diritto vivente verso una nuova visione della posizione giuridica soggettiva dell’animale. Le circostanze censurate - Il Tribunale di prime cure aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato poiché nella sua qualità di titolare di una azienda agricola deteneva alcuni asini in condizioni incompatibili con la loro natura, producendo ad essi gravi sofferenze. Gli asini presentavano evidenti difficoltà deambulatorie. Un asinello neppure era più in grado di reggersi sulle zampe. Le coordinate valutative - A giudizio della Corte, configurano reato di maltrattamento di animali non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di compassione verso gli animali destando ripugnanza per la loro aperta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sui sensi dell’animale, producendogli dolore. Non solo le sevizie, le torture o le crudeltà caratterizzate da dolo quindi, ma anche incuria che reca danno agli animali quali esseri senzienti capaci di percepire gli stimoli del male (parimenti alle attenzioni amorevoli). La configurabilità dell’ipotesi di animali in condizioni incompatibili con la loro natura non può quindi prescindere dall’elemento della sofferenza che deve risultare da un’adeguata prova. Se fosse sanzionabile la semplice detenzione degli animali in condizioni contrastanti con la di essi natura, di per sé sola e dunque in assenza di concreta sofferenza, qualsivoglia detenzione a prescindere dal luogo, dalle modalità, dalla durata e dagli scopi della stessa, si porrebbe per ciò stesso in contrasto col precetto penale, dal momento che si tradurrebbe in una privazione della libertà dell’animale e quindi contrasterebbe con la natura dell’animale stesso, impulsivamente orientato a vivere in libertà dall’uomo. Per altro verso, l’elemento della incompatibilità naturalistica della detenzione conferisce al reato la necessaria determinatezza, così ottemperando al principio di legalità. In altre parole il requisito della sofferenza fisica o psichica, esprime con chiarezza la scelta di considerare gli animali come esseri viventi suscettibili di tutela diretta e non mediata sol perché oggetto del sentimento di pietà nutrito dagli esseri umani verso di loro. In questa ottica il concetto di inutile sofferenza non risponde a una visione antropocentrica della sofferenza animale (la pietà), ma a un’esigenza di determinatezza della fattispecie altrimenti esposta alle sensibilità soggettive dei consociati e dello stesso giudice. Nel caso di specie, si pone in evidenza come agli animali, era impedita o, comunque, resa particolarmente difficoltosa la deambulazione, tanto che uno di essi non riusciva neppure più ad alzarsi dal carro utilizzato per trasportare gli animali al lavoro, esponendoli tutti a grossi rischi durante l’alpeggio, dovendosi muovere su un terreno non piano. La detenzione in tali condizioni, per la Corte deve ritenersi certamente inconciliabile con la natura degli animali e foriera di sofferenze inaccettabili. A ben guardare la condotta crudele consiste non solo nel cagionare all’animale sofferenze senza alcuna necessità, ma anche nel sottoporre lo stesso ad una condizione di vita che, non risultando necessaria alle esigenze della custodia e dell’allevamento, gli cagioni martirio. Di talché, come nel caso di specie, anche la detenzione di un animale in condizioni tali da costringerlo a una postura innaturale, tale da impedire o rendere assai difficile la deambulazione o il mantenimento di una posizione eretta, integra reato di maltrattamento degli animali. Ciò perché la crudeltà, concettualmente presuppone l’assenza di un giustificato motivo del soggetto agente: la disumanità è di per sé caratterizzata dall’assenza di una causa proporzionata o dalla spinta di un motivo intollerabile. Rientrano nella fattispecie le condotte che si rivelino crudeli in quanto espressione di significativa insensibilità umana. Comportamento questo che non necessariamente richiede il preciso scopo di infierire apertamente sull’animale. Devesi aggiungere che determinare sofferenza non comporta necessariamente che si cagioni una lesione all’integrità fisica dell’animale, potendo la sofferenza consistere in meri patimenti interiori dello stesso. Infine la Corte stigmatizza la forza dell’arresto ermeneutico con il rigetto della richiesta, avanzata dal difensore dell’imputato, di esclusione della punibilità per supposta particolare tenuità dei fatti. Lazio: quasi la metà dei detenuti ha una pena sotto ai due anni di Teresa Valiani Redattore Sociale, 8 maggio 2019 La relazione annuale del Garante regionale. I detenuti sono 6.500 a fronte di 5.252 posti regolamentari. Anastasìa: incrementare misure alternative. “Un anno complicato ma in cui non sono mancati risultati e passi in avanti e in cui si sono poste le basi per sviluppi ulteriori”. Strutture, sovraffollamento, assistenza sanitaria, minori, stranieri, lavoro, studio e suicidi: è una foto in bianco e nero, con molte zone d’ombra, ma anche con qualche apertura, quella che restituisce la relazione annuale dell’attività svolta dall’ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà del Lazio, terza regione in Italia per numero dei detenuti, dopo Lombardia e Campania. Questa mattina, 7 maggio, la presentazione del report nella Sala Mechelli del Consiglio regionale. Carcere e sovraffollamento. “Siamo di nuovo sopra i 60mila detenuti in Italia, 6.500 nel Lazio, a fronte di 5.252 posti regolamentari - spiega il Garante Stefano Anastasìa. Negli ultimi due mesi la popolazione detenuta ha smesso di crescere ma la situazione resta critica perché non c’è un’inversione di tendenza mentre si registra una decrescita dei reati. È dunque l’effetto di un allarme sociale che, per quanto infondato, pesa sulle prassi e sugli orientamenti degli operatori della sicurezza e della giustizia”. Il sovraffollamento, pari al 118 per cento in Italia, è al 124 per cento nel Lazio. Anche la percentuale di detenuti stranieri è più alta nel Lazio che in Italia, con evidenti criticità nella gestione di istituti di pena privi di mediatori culturali e nello stesso accesso alle alternative al carcere, fortemente limitate dalle condizioni socio-anagrafiche. Più del 40 per cento dei condannati in esecuzione penale in carcere ha un residuo pena inferiore ai due anni, nel Lazio quasi il 50 per cento. “In questa regione - sottolinea il Garante - il sovraffollamento non esisterebbe se i condannati a meno di un anno potessero accedere alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova al servizio sociale”. Le strutture. “Particolarmente critiche - spiega Anastasìa - le condizioni delle carceri di Latina, Cassino, Regina Coeli e Civitavecchia Nuovo complesso: principali carceri di ingresso nel sistema penitenziario regionale. Lo stato del patrimonio penitenziario italiano è desolante, nelle strutture e nelle suppellettili. Quasi dappertutto le docce sono fuori dalle stanze, in condizioni critiche, l’acqua calda in stanza è una rarità e in alcuni istituti c’è ancora il water a vista. Per non parlare della nudità degli spazi comuni, dell’accoglienza dei familiari in visita o delle condizioni degli impianti sportivi. Continuiamo a rinviare il problema della qualità degli spazi detentivi a quando avremo finito di affannarci sulla soglia dei tre metri quadri a testa prescritti dalla giurisprudenza Cedu, ma forse solo affrontando il problema della qualità riusciremo a risolvere il problema della quantità”. I minori. “A dispetto di una certa, morbosa, attenzione mediatica - spiega il Garante -, il sistema della giustizia penale minorile continua a dare buona prova di sé”. Sono ulteriormente diminuiti gli ingressi nel Centro di prima accoglienza di Roma, leggermente aumentati quelli a Casal del Marmo e stabilizzati i collocamenti in comunità. “Su ciascuno di questi percorsi pesano i ragazzi italiani, anche se a Casal del Marmo restano trattenuti gli stranieri e una percentuale di ragazze non corrispondente agli ingressi in Cpa e in Ipm, segno di una loro maggiore difficoltà ad accedere alle misure di comunità. Poco meno della metà sono i giovani adulti, tra i 18 e i 25 anni, autori di reati compiuti da minorenni, che vengono ospitati in Istituto”. Rems e Tso. Nel Lazio ci sono 5 strutture per 91 posti disponibili e al 31 dicembre risultavano internate 84 persone. “Significativo - commenta il Garante - il riequilibrio tra misure di sicurezza provvisorie, internamenti di semi-infermi e destinatari di misure di sicurezza definitive a favore di queste ultime. Per quanto insufficiente, è importante anche la riduzione della lista d’attesa, da 70 a 52 persone”. Nel 2018, sono state 43 le persone dimesse, di cui 30 in libertà vigilata presso comunità terapeutiche, tre in libertà vigilata con prescrizioni, cinque per revoca della misura e tre per trasferimento in carcere. “Sulla malattia mentale e il trattamento sanitario obbligatorio per motivi di salute psichica - annuncia Anastasìa - inizieremo un monitoraggio specifico dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura e delle sue forme di disposizione e di applicazione. Intanto registriamo il dato fornito dal Dipartimento di epidemiologia al Garante nazionale, secondo cui i ricoveri con Tso nel Lazio sono in costante calo e, tra essi, quelli con diagnosi di disturbi psichici”. Il lavoro di un anno. Sono state prese in carico 631 delle 841 persone private della libertà che si sono rivolte all’ufficio. “Fatte salve il gran numero di richieste di contatto per ragioni di studio, vera specialità di questo ufficio e di questa regione che, anche grazie all’impegno di alcuni atenei ha un quarto dei detenuti iscritti all’università in Italia, il maggior numero di contatti sono motivati da problemi riferibili alle condizioni di detenzione, all’assistenza sanitaria e alla richiesta di trasferimento”. Alle visite e agli interventi si affianca il lavoro di confronto istituzionale e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Salute in carcere. L’assistenza sanitaria resta una delle maggiori preoccupazioni dei detenuti. Dall’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria sono emerse le necessità di: potenziare la medicina specialistica, attivare una diversa modalità operativa dei Dipartimenti di salute mentale in carcere, verso una presa in carico effettiva del detenuto infermo di mente, informare i detenuti sui servizi offerti, garantire continuità terapeutica e informatizzazione della cartella clinica. Lavoro, formazione e previdenza sociale. Istruzione scolastica con discreta diffusione anche se “ogni anno - sottolinea il Garante - deve confrontarsi con minacce di tagli di classi che non tengono conto dei difficili percorsi. D’altro canto, l’Amministrazione penitenziaria continua a non ponderare con la dovuta accortezza i trasferimenti dei detenuti che spesso interrompono percorsi di studio e di istruzione non proseguibili nelle nuove sedi di destinazione”. Sul lavoro si registra “un impoverimento dell’offerta di lavoro minimamente qualificato, retribuito e con una prospettiva di stabilizzazione”. Situazione che pone in rilievo “la scelta di Roma Capitale di riproporre la clausola sociale di valorizzazione dell’inserimento lavorativo dei condannati nei propri appalti pubblici. Anche altri enti territoriali e aziende pubbliche potrebbero muoversi in questa direzione, dando un contributo effettivo ai processi di reinserimento delle persone detenute”. Suicidi e morti in carcere. “I dati in regione sono ambivalenti: al contrario che a livello nazionale, diminuiscono i suicidi, ma aumentano le morti - sottolinea il Garante ricordando i due bambini uccisi dalla madre a Rebibbia -. In carcere ci si uccide 17 volte più che fuori perché il carcere è un luogo in cui la sofferenza personale e la pena per la propria condizione di vita sono acuite dalla perdita della libertà. L’Amministrazione penitenziaria, con l’ausilio del personale sanitario, deve fare tutto quello che può per prevenire simili eventi, e l’adozione dei Piani di prevenzione del rischio suicidario in quasi tutti gli istituti di pena della regione va in questo senso. Ma non si può pensare di debellare il suicidio dalle carceri o di attribuirne la responsabilità all’agente di sezione che ha tardato qualche secondo ad affacciarsi allo spioncino. Piuttosto bisognerebbe ponderare con più attenzione le stesse scelte di carcerazione, sia in fase cautelare che in fase esecutiva, e nel corso di essa fare attenzione a quei momenti e a quelle situazioni ad alto rischio, come la rottura di una relazione familiare, il sopraggiungere di un nuovo titolo di detenzione, l’esecuzione di un provvedimento disciplinare”. (Teresa Valiani) Sardegna: carceri, Uta e Oristano le strutture più in “sofferenza” L’Unione Sarda, 8 maggio 2019 A Is Arenas 4 detenuti su 5 sono stranieri. Alcune delle carceri sarde sono ancora in stato di “sofferenza” o “sovraffollate”. A tracciare un quadro della situazione degli istituti penitenziari dell’Isola è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che analizza i dati diffusi dal Ministero della Giustizia sulla realtà detentiva al 30 aprile 2019. “La Casa Circondariale Ettore Scalas di Cagliari-Uta continua a avere un numero di persone private della libertà oltre il limite regolamentare. Conta infatti 572 persone per 561 posti, 26 donne e 134 stranieri (23,4%)”, afferma Caligaris. Anche a Oristano “la situazione non è rosea”, sottolinea, con 266 detenuti per 265 posti, mentre è “al limite della capienza” il San Daniele di Lanusei (33 per 33). Situazione nella norma invece per i carceri di “Badu ‘e Carros” di Nuoro (215 reclusi per 377 posti, con una sezione di 140 post chiusa per lavori di ristrutturazione), di “Giovanni Bacchiddu” di Sassari (421 detenuti per 454 posti), di Nuchis-Tempio Pausania (144 presenti per 168 posti) e “Giuseppe Tomasiello” di Alghero (119 per 156). “Vi è infine da segnalare - sottolinea la presidente dell’associazione - il sottoutilizzo delle colonie penali: a fronte di 692 posti disponibili sono occupati poco più della metà (372 pari al 53%) con una presenza di stranieri pari a 270 (72,5%). La percentuale più significativa di persone prevalentemente extracomunitarie spetta a “Is Arenas”, con 76 stranieri su 96 detenuti (79%), seguita da Mamone 142 su 183 (77,5%). Al terzo posto Isili 52 su 93 (55,9%). “È infine ancora irrisolto il problema dei direttori. La pianta stabile attuale è di 5 responsabili per 10 istituti con una organizzazione che vede prevalere i commissari nella gestione delle strutture penitenziarie isolane”, ha concluso Caligaris. Marche: carceri, approvata all’unanimità mozione su carenze organico e strutturali anconanews.it, 8 maggio 2019 Ha incassato 15 voti favorevoli e un consenso trasversale da parte delle forze politiche presenti in Aula (7 maggio), la mozione a firma dei consiglieri Mastrovincenzo, Urbinati, Leonardi, Busilacchi, Marconi, Carloni, Maggi e Rapa che impegna il presidente della Giunta a sollecitare il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) Emilia Romagna - Marche a prendere provvedimenti sulla situazione in cui versano le carceri marchigiane. Sovraffollamento, carenza di agenti di Polizia penitenziaria ed educatori, necessità di una dirigenza esclusiva per le Marche e non condivisa con altre regioni. Sono stati questi i temi al centro del dibattito. Una mozione, firmata da tutti i capigruppo, necessaria in seguito alla presentazione, nel gennaio scorso, del “Report 2018. Istituti penitenziari e REMS Regione Marche” stilato dal garante regionale Andrea Nobili, dove erano emerse una serie di criticità presenti negli istituti penitenziari. Il garante aveva chiesto il ripristino di “un’adeguata presenza del Prap, con uffici in loco ed un dirigente che pensi esclusivamente alle esigenze del territorio regionale”. Anche i sindacati di Polizia penitenziaria (Fp - Cgil, Fns - Cisl, Sappe, Ugl) avevano messo in luce una serie di criticità, tra le quali il ritardo nella realizzazione dei lavori di ristrutturazione della Casa di Reclusione di Fossombrone (Pesaro e Urbino), il sovraffollamento a Montacuto con 307 detenuti a fronte dei 256 previsti, la carenza negli organici di Polizia penitenziaria e la necessità di procedere all’aggiornamento della pianta organica. Un quadro nel quale si è inserita anche la chiusura del carcere di Camerino in seguito ai danni inferti dal sisma del 2016. Il capogruppo del Movimento 5Stelle, Gianni Maggi, ha posto l’accento sulla necessità di rieducare i detenuti, un aspetto molto importante anche per il contenimento dei costi sostenuti dallo Stato per il mantenimento dei carcerati. Ha poi ringraziato le guardie carcerarie che “svolgono lavoro delicato e le associazioni di volontariato che impiegano tempo e denaro per assistere i detenuti”. “Un problema di grande civiltà”, ha evidenziato. Durante il suo intervento in Aula, Maggi ha posto anche una riflessione sulle droghe leggere spiegando che con la loro liberalizzazione “ci sarà meno affollamento”. Un inciso che ha suscitato le ire della consigliera regionale di Fratelli d’Italia Elena Leonardi che si è espressa in forte disaccordo con il capogruppo dei pentastellati. “Un messaggio fortemente diseducativo verso i giovani” ha detto la consigliera che ha invocato piuttosto un inasprimento di pena per chi spaccia. “Le modiche quantità stanno portando solo a morte” ha sottolineato la Leonardi -. Porterò avanti una battaglia aspra contro le droghe. Basta a chi vende morte e poi viene rimesso in libertà. Lo spaccio è intollerabile”. Rientrando nel merito della mozione la consigliera ha ripercorso le tappe salienti che hanno portato alla nascita della mozione, con i sindacati di Polizia penitenziaria che avevano esposto la loro preoccupazione riguardo alle problematiche presenti nella carceri marchigiane. La Leonardi ha posto l’accento sul fatto che le più alte percentuali di suicidio tra le forze dell’ordine si registrano proprio tra gli agenti di Polizia penitenziaria. Il presidente del consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo ha sottolineato la trasversalità di consensi incassati dalla mozione, mentre il capogruppo del Pd Fabio Urbinati ha posto l’accento sull’urgenza della questione e sull’importanza della riabilitazione. Per la Lega è intervenuta la consigliera Marzia Malaigia che ha ricordato come spesso il detenuto è anche l’agente di Polizia penitenziaria e chi lavora negli uffici amministrativi, evidenziando la necessità di rivedere la situazione delle carceri. Il consigliere dei Popolari Marche - Unione di Centro, Luca Marconi ha posto l’accento sull’importanza del perdono e della misericordia da parte della società. Torino: il carcere al Salone del Libro, un evento per ridare dignità ai detenuti di Susanna Marietti ilfattoquotidiano.it, 8 maggio 2019 Il carcere entra con delicatezza, originalità e determinazione nel Salone Internazionale del Libro di Torino. Il prossimo giovedì 9 maggio alle ore 15.30 presso la Sala Rossa del Salone si terrà l’evento finale del premio intitolato alla scrittrice Goliarda Sapienza - ideato e promosso da InVerso Onlus, nella persona della giornalista Antonella Bolelli Ferrara, con il sostegno di Siae - che il carcere lo aveva conosciuto e raccontato nei suoi aspetti più assurdi, comuni a epoche e luoghi, quelli che ci lasciano ancora increduli nel vedere quali persone la nostra società decide di destinare alla galera. Si tratta quanto meno di un triplo evento, quello del Salone di Torino (che ospita il Premio Goliarda Sapienza per la seconda volta e quest’anno in un’edizione speciale). In primo luogo, la presentazione del libro Malafollia - Racconti dal carcere (Giulio Perrone Editore). Il volume contiene i racconti selezionati e scritti da detenuti, storie che provengono dal profondo delle prigioni d’Italia. Sono belli, i racconti raccolti, scritti con personalità e capaci di testimoniare una follia a volte dirompente e a volte sottile, che il contesto carcerario non sottrae a una dimensione emotiva comune a ciascuno di noi. In sequenza si possono leggere gli scritti di Michele Maggio, Patrizia Durantini, Stefano Lemma, Salvatore Torre, Sebastiano Prino ed ‘Edmond’. L’attore Luigi Lo Cascio, insieme ad alcuni degli autori, leggerà brani del libro. A parlarne ci saranno gli scrittori Edoardo Albinati ed Erri De Luca, da sempre vicini ai temi del carcere, e il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella. Un altro evento sarà quello dell’annuncio del vincitore dell’VIII edizione del Premio Goliarda Sapienza. Spetterà a una giuria presieduta da Elio Pecora e composta tra gli altri da circa 250 studenti liceali designare il vincitore del premio letterario, che ha una storia bella e oramai quasi decennale. Ma c’è un terzo, fondamentale evento. Ed è il carcere in sé. La sua rappresentazione all’esterno, il suo essere contenitore rimosso di corpi, cervelli e anime. In tempi bui dalle tentazioni illiberali quali quelli che stiamo vivendo, bisogna accendere i riflettori intorno a tutte le umanità che ci circondano, comprese quelle che qualcuno vorrebbe confinare per sempre nel dolore, nella pena, nel silenzio. Un evento come quello torinese ha lo scopo maestro di togliere il carcere e i detenuti dal cono d’ombra dove si vorrebbe ricacciarli e dare loro dignità. Quella dignità che è propria di ogni essere umano e che qui acquista la forza della letteratura, della capacità di usare la parola per colpire le intelligenze e i cuori di chi legge e ascolta. C’è bisogno di empatia per cambiare l’approccio dell’opinione pubblica al carcere, per ridimensionarne la funzione meramente afflittiva, per ridurne il peso sociale. Ognuno di coloro che leggerà Malafollia dovrà immaginare che lo scrittore del singolo racconto viveva probabilmente in una cella sovraffollata, doveva negoziare piccoli, piccolissimi spazi e tempi per non essere disturbato, doveva elemosinare carta, penna e scrivania. In carcere è raro che sia consentito usare i computer. I detenuti sono gli ultimi cittadini che inviano lettere scritte a mano e che appongono francobolli. Pochi giorni dopo l’incontro di Torino, il successivo 16 maggio, Antigone presenterà il suo Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione. Lo scopo è ancora quello di rompere i pregiudizi, di superare gli stereotipi, di informare correttamente, di ridurre le distanze. La riduzione delle distanze tra il senso comune punitivo e il valore costituzionale delle pene è il grande risultato cui hanno lavorato i curatori del Premio Goliarda Sapienza. Di questo siamo loro grati. Siena: “Fuori dal buio”. le storie dei detenuti, tra sogni e errori di Giulia Maestrini Corriere Fiorentino, 8 maggio 2019 Presentato il volume di scrittura collettiva nato nel carcere. Sette uomini, tutti diversi; italiani e stranieri, il più giovane ha 26 anni e il più anziano 64, alle spalle hanno storie complesse e dolorose, vengono da luoghi diversi e attraverso diverse strade sono arrivati tutti qui, nella Casa circondariale di Santo Spirito, il carcere di Siena. E da qui adesso “escono” grazie alle loro parole divenute un libro: si intitola Fuori dal buio (ed. Futura, 2019, 111 pagine, 12 euro) ed è il frutto di un progetto di scrittura collettiva durato 11 mesi e guidato dalla giornalista senese Cecilia Marzotti. È stata lei a tirare i fili di questa trama; intrecciare pensieri sparsi, appunti e perfino disegni da cui tutto è partito. Dal bisogno di mettere nero su bianco sensazioni ed esperienze, raccogliere spaccati di vita vera (la loro, ma anche degli altri detenuti che hanno scelto di raccontarsi) e, da quelli, iniziare a definire i personaggi, i luoghi, la storia, i sogni e gli errori. Perché sogni ed errori sono l’architrave di questo libro: un giallo che è di finzione, ma verosimile e, anzi, ha i piedi ben saldi dentro la vita vera. “La trama del racconto è dettata dal caso - spiega il direttore della Casa Circondariale, Sergio La Montagna nell’incontro alla biblioteca degli Intronati - la storia dei protagonisti che si ritrovano in carcere per un beffardo scherzo del destino, un incontro sfortunato con chi li ha convinti a delinquere. Proprio come spesso accade nella realtà”. C’è una finalità “catartica” allora in questa scrittura che “è un modo di restare vivi”. La forma è diretta, lineare, scarna, va dritta al punto senza eleganza posticcia. Il ruolo della coordinatrice è stato quello di mettere insieme i pezzi senza edulcorare, cucire e guidare ma senza stravolgere una scrittura autentica. “Troverete una punteggiatura a tratti fanciullesca - spiega Marzotti - e forse qualche errore: d’altronde li hanno commessi nella loro vita, ben vengano anche nel loro libro”. Non c’è solo questo, però: c’è piuttosto un grande desiderio di riscatto in questo lavoro che per mesi ha coinvolto l’intera comunità del carcere, ospiti, agenti, educatrici e soprattutto loro, i detenuti-scrittori. “Hanno lavorato a testa bassa e avuto la forza di raccontarsi pur sapendo di aver sbagliato”, fino a uscire appunto “fuori dal buio”, abbattendo idealmente quelle sbarre. Perché è per questo che è nato il libro, “per farci liberare”: lo spiega Roberto, uno dei detenuti-scrittori che parla a nome di tutti. “Era importante dire che dentro il carcere esiste un’umanità e che nessuno ci sarebbe entrato se avesse trovato un perché là fuori. Il buio è il nostro, ma è anche quello che sta fuori e ci circonda: se tutti uscissimo dal buio, le carceri sarebbero meno affollate” Locali che quotidianamente assistono ad altre e diverse declamazioni, più inclini a suffragare l’idea iniziale di abbandonare ogni speranza, entrando. E invece, come ha giustamente sottolineato la Direttrice del reclusorio scaligero, la originalità della proposta sta proprio nella sua ideazione, capace di tradurre l’offerta trattamentale in un percorso disponibile, trasformando un caposaldo della nostra cultura in un concreto ed efficace strumento di crescita della persona, nella sua dimensione emotiva e relazionale, e tenendo cioè in vita quella speranza che, per chi entra nella città dolente, si temeva abbandonata. Le stelle che infine, tutti insieme, (ri)uscimmo a riveder, in un gradevolmente complice tramonto di fine aprile, splendono di una luce particolare per chi, con i detenuti e i ragazzi coinvolti, compia il percorso allestito: è la luce di un futuro in cui la promiscuità di una sera, fra buoni e cattivi, ammesso di saperli sempre riconoscere, non sarà più un episodio ma la chiave di lettura di una ricostruita esistenza. E Brescia, in tutto questo, cosa centra? Non poco se pensiamo che l’illuminata visione che ha reso disponibile la struttura penitenziaria veronese e quindi consentito la realizzazione di un - senza dubbio - complesso quanto apprezzabile progetto, è quella della dottoressa Maria Grazia Bregoli, Valtrumplina doc, già direttrice di Canton Mombello. A Lei un plauso convinto. Catania: “Liberaci dai nostri mali”, la speranza degli uomini dietro le sbarre sicilianetwork.info, 8 maggio 2019 Un’indagine che va oltre il reato, quella realizzata dalla nostra giornalista siciliana Katya Maugeri in “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento”, con la prefazione di Claudio Fava e la postfazione del giornalista de “La Repubblica”, Salvo Palazzolo, edito dalla Villaggio Maori Edizioni. Un viaggio inchiesta nelle carceri, arricchito dal progetto fotografico di Alessandro Gruttadauria. Sette detenuti raccontano le loro storie, i loro errori, le loro debolezze, i rimpianti e la speranza di costruire un nuovo progetto di vita. L’autrice indaga le vite dietro le sbarre di chi, oltre agli errori commessi e l’etichetta di “carcerato”, rimane un essere umano. Non c’è assoluzione nelle sue riflessioni: nelle sue “ore d’aria” annota le sue emozioni di intervistatrice e riesce a raccontare le difficili condizioni psichiche di chi ha commesso un reato, e di chi, fuori da una cella, ha lasciato rimpianti e sogni. Il libro sarà presentato a Catania venerdì 17 maggio alle 18.30 nella sala E7 Assostampa al Centro fieristico Le Ciminiere. A dialogare con l’autrice Daniele Lo Porto (segretario provinciale Assostampa) e Santino Mirabella (giudice e scrittore). Modererà l’incontro il giornalista Alessandro Sofia. Tra le tematiche affrontate, la tossicodipendenza, con il contributo del Centro di solidarietà Il Delfino di Cosenza, la criminalità organizzata, la giustizia riparativa, la triste realtà dei suicidi in carcere, con la testimonianza di Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia e le riflessioni di Mario Conte, consigliere Conte d’Appello di Palermo. “Liberaci dai nostri mali” non è solo un’inchiesta: è il racconto di una realtà di cui bisognerebbe avere coscienza, superando sbarre, muri e pregiudizi. Padova: i detenuti sul palco con lo spettacolo su Babele Il Gazzettino, 8 maggio 2019 Il Festival Biblico entra anche alla casa di reclusione Due Palazzi. Lunedì alle 13.30 i detenuti salgono sul palco per lo spettacolo Babele: another brick in the wall. “La Torre di Babele ha detto Ciro, giovane detenuto del laboratorio teatrale - che ci arrocca in posizione difensiva verso l’altro e l’ignoto, è dentro ognuno di noi”. La piccola comunità teatrale del Due Palazzi è composta di persone differenti per età, provenienza geografica e sociale. Il tema polis è stato accolto partendo dalla narrazione biblica di Babele e cogliendone l’aspetto vitale. L’evento nasce all’interno del progetto Teatrocarcere Due Palazzi attivo dal 2005 con la direzione artistica di Maria Cinzia Zanellato e dal 2015 in collaborazione con Adele Trocino. Progetto che si articola in attività di laboratori di formazione pedagogica artistica e realizzazione di appuntamenti culturali. La finalità è favorire la relazione e il percorso di dialogo e inclusione tra carcere e città. Verona: il teatro dietro le sbarre di Carlo Alberto Romano Corriere di Brescia, 8 maggio 2019 Il sistema scolastico italiano, seppur con tempi e modalità differenti, ha sempre offerto a ogni studente la possibilità di appropriarsi, magari anche solo superficialmente, dell’immensa opera dantesca. E credo che a molti fra questi ex studenti, entrando in alcuni dei nostri istituti penali, il ricordo dell’accesso alla città dolente, abbia frequentemente evocato l’idea di lasciare ogni speranza. Quale sorpresa, quindi, se al di là del cancello del carcere di Verona, alcune sere fa, a chi succeda di oltrepassarlo, capiti di incontrare Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, il Conte Ugolino o altre delle immortali figure create dal Poeta nel suo capolavoro. Eppure, questo è proprio ciò che avviene a chi, come chi scrive, ha avuto il piacere di presenziare, presso la casa circondariale veronese, alla proposta performativa realizzata dal Teatro del Montorio, che unisce l’impegno di 15 attori detenuti e 8 studenti delle scuole veronesi, con il patrocinio dell’Ufficio scolastico di Verona e il sostegno di Fondazione San Zeno. Una esperienza straordinaria, alla quale la collocazione carceraria non sottrae alcuna solennità e che, semmai, proprio nelle diverse inflessioni degli attori che hanno dato vita ai versetti di Dante, acquisisce un valore aggiunto, di universale afflato. Ottima la regia di Alessandro Anderloni, che ha scelto di violare la tradizionale staticità del palcoscenico (e vieppiù del carcere) con una rappresentazione itinerante nei corridoi, nelle aule e nei cortili della struttura penitenziaria. Roma: l’ovale a Rebibbia non è più palla prigioniera di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 8 maggio 2019 Nel rugby, chi gioca all’ala ha un ruolo cruciale. Dev’essere agile, veloce e abile nell’afferrare al volo la palla ovale e insieme l’occasione giusta, che può portare la squadra a segnare una meta. Mirko, la sua occasione l’ha artigliata con forza, insieme alla palla. E ora corre veloce, sulla fascia sinistra, con la maglia numero 11 dei Bisonti. I suoi scarpini graffiano il terreno del campo in pozzolana, sollevando nuvolette di una polvere fina, che si attacca alla maglia e alle gambe madide di sudore. Ma Mirko non ci bada neppure e, sbuffando come un treno, punta verso lalinea di meta. I compagni gli corrono a fianco e lo incitano, mentre cerca di scansare un avversario. Le mura e le recinzioni perimetrali del penitenziario romano di Rebibbia circondano il campetto polveroso del “G9”, ma lui non le vede, guarda oltre. È mercoledì, il giorno del permesso accordatogli per allenarsi: dopo il training mattutino in carcere, dalle sette alle undici di sera potrà uscire per la sessione serale sui campi di Tor Bella Monaca, insieme al resto della squadra. Mirko lo fa già da tre settimane, da quando la società dei Bisonti Rugby (nata a Frosinone neI2011) ha ricevuto l’autorizzazione dal direttore del carcere. Un effetto positivo, uno dei tanti, del progetto federale “Rugby oltre le sbarre”, creato con l’obiettivo di contribuire, attraverso l’applicazione concreta dei valori educativi di questo sport, “alla risocializzazione del detenuto”. Mirko è dentro da undici anni e dovrà scontarne altri due. Il primo allenamento fuori, rigorosamente dalle 19 alle 23, l’ha sostenuto il 17 aprile. È la sua “finestra di libertà” settimanale. E non è un privilegio, se l’è guadagnata con un comportamento corretto che qui dentro chiamano “buona condotta”. Così, con un “adattamento” dell’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario (che consente il lavoro esterno dei detenuti) la direzione della casa circondariale gli ha concesso di allenarsi fuori, sotto la responsabilità dei Bisonti Rugby. “L’autorizzazione per Mirko è il raggiungimento di uno dei nostri obiettivi - considera Germana De Angelis, presidente dei Bisonti -. Il rugby può essere uno strumento per la ricostruzione di un percorso di vita”. Parliamo di esistenze da rifondare su basi solide, dopo che bufere personali e gesti criminali le hanno devastate. “Non siamo noi a scegliere le persone, ci arrivano a seguito di una valutazione dell’amministrazione penitenziaria. A noi interessa solo che abbiano voglia di giocare e di entrare con noi nello spirito del rugby”. Grazie a un protocollo siglato nel 2018 fra Federazione italiana rugby e Dipartimento amministrazione penitenziaria, il gioco della palla ovale viene praticato in 18 istituti di pena. E ci sono due squadre di detenuti (La Drola di Torino e Giallo Dozza di Bologna) che partecipano al Campionato italiano di serie C, disputando tutte le gare sui campi dentro le carceri. “Il rugby è uno sport straordinario, capace di appianare ogni differenza sociale” e di far percepire a chi lo pratica il senso di rispetto per le regole, per i compagni e per gli avversari, ragiona il presidente della Fir Alfredo Gavazzi. L’obiettivo, aggiunge Germana, è quello di camminare accanto ai detenuti “e possibilmente di continuare a farlo fuori dalle mura. Non entriamo mai nel merito dei reati commessi perché non siamo lì per giudicare. Qualcuno lo ha già fatto e loro stanno scontando la loro pena”. È un “tendere una mano, in questo caso attraverso il rugby, a chi ha la voglia di andare avanti”. Mirko quella voglia ce l’ha. E la storia passata di errori e reati se l’è lasciata alle spalle. Ai suoi compagni di gioco, comunque, il passato non interessa: “Non chiedo mai a chi incontro per quale tipo di reato sia dentro, il solo fatto di conoscerci attraverso un pallone ovale e su un campetto vuol dire che un cammino è stato già fatto - dice ancora Germana - Così sta accadendo con Mirko e speriamo che accada con altri, per cui abbiamo fatto la stessa richiesta”. Poi la presidentessa sorride, mentre osserva il numero 11 che s’invola sulla fascia. Ancora una volta, caparbio, Mirko punta alla meta. Nell’incavo del braccio, tiene stretta una palla che presto non sarà più prigioniera. Contro lo sfruttamento, il sindacalismo radicale di Aboubakar Soumahor di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 8 maggio 2019 “Umanità in rivolta”, edito da Feltrinelli è il resoconto della sua esperienza. Sabato una doppia presentazione: insieme a Mimmo Lucano e Nadia Terranova, e poi a Michela Murgia. Una giornata passata con la schiena piegata sui campi in attesa della paga, di fame, giornaliera. E quando arriva il momento, il padroncino che promette: “lavori bene, ti prendo con me per sempre. Domani ci vediamo alla stessa ora di questa mattina”. La prospettiva è un salario, di merda, ma certo, evitando così l’umiliazione di essere scelto, come fosse una bestia, nello svincolo di una squallida via pugliese. Il giorno dopo, il protagonista di questa storia di ordinaria ingiustizia si presenta in forte anticipo, ma il padroncino non si fa vedere né allora né in seguito. È questo il primo rapporto con un mercato del lavoro con caratteristiche schiavistiche di Aboubakar Soumahoro, sindacalista Usb, originario della Costa d’Avorio, divenuto uno dei volti noti di un sindacalismo radicale perché legato a concretissime aspirazioni di “umanità e giustizia sociale”. Aboubakar ha ora messo in parole scritte molte delle cose sostenute con pazienza e documentazione nelle interviste rilasciate o quando ha preso la parola in trasmissioni in prima serata (“Propaganda Live”, ma non solo). Il libro, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Umanità in rivolta (pp. 125, euro 13), alterna ricordi personali a riflessioni su una filiera produttiva - l’agro alimentare - che produce un fiume di profitti sulla pelle di migranti e non solo pagati poche decine di euro a giorno. L’autore lo scrive senza girarci intorno: lo sfruttamento è la caratteristica dominante nelle campagne italiane. E se è ormai drammaticamente noto che la maggioranza dei salariati sono migranti, Aboubakar Saumahoro ricorda anche la donna “italianissima” morta di fatica nelle campagne pugliesi, punta anche lei di un iceberg che pochi vogliono vedere. Lo sfruttamento è dunque indifferente al colore della pelle, nonostante non possa essere taciuto il fatto che la maggioranza degli omicidi da lavoro nell’agricoltura coinvolga uomini e donne migranti morti in incidenti stradali o negli incendi che scoppiano nei piccoli, tanti lager dove sono segregati tanto i “regolari” che gli “irregolari”. Le parti più analitiche del libro sono quelle sullo sfruttamento nella filiera dell’agro-alimentare e quella sulla razzializzazione del mercato del lavoro. La prima è una filiera globale tanto nella produzione che nella distribuzione e vendita. I profitti - miliardi e miliardi di euro - sono garantiti di salari da fame nella produzione e nella logistica (i facchini). Importante è che l’autore abbia tenuto insieme i due momenti, perché la produzione senza una distribuzione just in time vedrebbe realizzati lentamente i profitti che invece scorrono senza intoppi attraverso il lavoro semischiavistico di agricoltori e facchini. Altrettanto coinvolgente è l’analisi sulla razzializzazione del mercato del lavoro. I migranti sono stati sottoposti a un regime progressivo di apartheid sin dagli anni Ottanta del Novecento. Segregati nelle campagne e nelle città, con una riduzione e un rifiuto istituzionalizzato di diritti civili, sociali e politici dei quali Matteo Salvini è l’ultima, in ordine di tempo, manifestazione Qui Aboubakar Saumahoro è amaro nel suo pacato realismo: non c’è stata nessuna sostanziale differenza tra governi di centro sinistra e centro destra. L’unica diversità è che questi ultimi non nascondono il razzismo di stato dietro l’ipocrisia e i tempi più lenti come invece hanno fatto e fanno quando sono al governo le coalizioni di centro sinistra. L’autore non sostiene però che tutti sono uguali. Il suo sindacato, l’Unione sindacale di base, non nasconde il fatto di essere di sinistra e di essere un sindacato di classe, ma sa che non ci sono “governi amici” quando si richiedono diritti civili, sociali per i lavoratori. La discriminante è se vengono accolte le proposte avanzate. E Aboubakar Soumahoro invita il lettore a tessere con pazienza relazioni che portino anche a piccoli risultati, ma costanti nel tempo e nelle spazio sociale. In fondo, le grandi e radicali trasformazioni si costruiscono seguendo il passo più lento di chi è in marcia. Lo diceva una icona della sinistra mondiale, il Che. Con meno enfasi lo dice anche quest’uomo che fa parte di quella genia di uomini e donne che “non mollano mai”. Sia quando sono sconfitti. Sia quando hanno piccole, ma seminali vittorie. Il libro sarà presentato sabato 11 maggio al Salone del libro di Torino in due occasioni: alle 13,30, alla sala Ora, con il sindaco di Riace Mimmo Lucano e la scrittrice Nadia Terranova; e alle 16 in dialogo con Michela Murgia nell’Arena Robinson. Radio Radicale: appello contro la chiusura da un gruppo di intellettuali La Repubblica, 8 maggio 2019 Professori universitari di diritto e sociologia chiedono al governo un passo indietro: “Chiunque abbia a cuore la democrazia, lo stato di diritto, le libertà fondamentali ha anche a cuore la radio e il suo straordinario archivio”. “Radio Radicale svolge un ruolo pubblico, straordinario, insostituibile. È un esempio di informazione al servizio della conoscenza pubblica”. Inzia così un appello firmato da 181 docenti universitari che chiedono al governo di tornare sui suoi passi e bloccare la chiusura dell’emittente prevista per il 21 maggio. Effetto immediato del combinato disposto del taglio dei contributi all’editoria e del mancato rinnovo della convenzione che prevede la trasmissione dei lavori parlamentari. “Lungo gli ultimi quarant’anni Radio Radicale ci ha assicurato un’informazione puntuale, approfondita, pluralista. Chiunque abbia a cuore la democrazia, lo stato di diritto, le libertà fondamentali ha anche a cuore Radio Radicale e il suo straordinario archivio”, scrivono i firmatari. Nell’elenco si possono leggere i nomi di Luigi Ferrajoli (filosofo del diritto, Università Roma Tre), Gaetano Silvestri (presidente emerito della Corte costituzionale e presidente Associazione costituzionalisti italiani), Enzo Cheli (costituzionalista, Università di Firenze), Patrizio Gonnella (sociologo del diritto e presidente di Antigone), Gaetano Azzariti (costituzionalista, Sapienza Università di Roma), Fulco Lanchester (costituzionalista, Università La Sapienza Roma), Valerio Onida (costituzionalista, Università di Milano), Stefano Ceccanti (costituzionalista, Università La Sapienza Roma, deputato del Pd), Alessandro Pace (costituzionalista, Università La Sapienza Roma), Giuseppe de Vergottini (costituzionalista, Università di Bologna), Salvatore Bonfiglio, (costituzionalista Roma Tre). “L’informazione è un diritto che non può essere degradato a mero prodotto di mercato. È dovere pubblico, e dunque anche nostro dovere, sostenere un’informazione al servizio dei cittadini e della loro libera formazione di pensiero. Radio Radicale è presente nelle aule parlamentari, nelle aule dei tribunali, nelle carceri. Grazie a Radio Radicale siamo tutti più informati sullo stato della democrazia e dei diritti umani in Italia, in Europa e nel mondo”, scrivono gli studiosi. E concludono: “La comunità degli studiosi del diritto ha sempre avuto i microfoni di Radio Radicale a disposizione per portare la cultura giuridica al di fuori dell’accademia. Spegnere Radio Radicale significa impoverire la società e la cultura italiana, significa ferire la sua democrazia. I valori costituzionali non possono e non devono mai essere tradotti in denaro”. War on drugs? L’alternativa è già qui di Susanna Ronconi e Maria Stagnitta Il Manifesto, 8 maggio 2019 La 26esima Conferenza Internazionale sulla Riduzione de Danno, che si è appena chiusa a Porto, ha levato una voce fortissima contro le politiche globali, a fronte di cifre, storie, immagini da tutto il mondo che dicono di una irrinunciabile urgenza di cambiamento. Per avere un’idea della 26esima Conferenza Internazionale sulla Riduzione de Danno (RdD) che si è appena chiusa a Porto, è utile leggere il documento siglato da 329 associazioni, in cui - non certo per la prima volta - il mondo della Riduzione del Danno (RdD) invoca una riforma radicale delle politiche globali, ma che per la prima volta dice senza mezzi termini che è colma la misura per quanto concerne il governo globale delle droghe: l’UnoDc non può più esserne il regista. Perché è una agenzia di lotta al crimine, e perché sotto la sua guida continua da decenni il massacro della war on drugs. La regìa passi al Segretario generale oppure a un pool di agenzie Onu (UnAids, Oms, Unhchr, per esempio). La conferenza è stata una voce fortissima contro le politiche globali, a fronte di cifre, storie, immagini da tutto il mondo che dicono di una irrinunciabile urgenza di cambiamento: dagli omicidi extragiudiziali nelle Filippine, alla crisi dell’Aids nei paesi che non hanno nel tempo sviluppato buone politiche di RdD, fino alla crisi del fentanyl negli Stati uniti, dove si cerca di risalire dai guasti della guerra alla droga. E mai come in questa conferenza - la più affollata di sempre, secondo Harm Reduction International, con oltre 1200 delegati di 90 paesi si è dimostrato come la RdD sia l’alternativa strategica all’attuale impianto proibizionista: plenarie e sessioni specialistiche hanno declinato con grande evidenza la doppia natura della RdD, politica e paradigma, da un lato, e pratica concreta dall’altro. Due facce inscindibili che ne sono la forza, due dimensioni di uno stesso approccio che a Porto hanno ritrovato - e non sempre è stato così evidente - la loro coesione. Decriminalizzare e rispettare i diritti umani e insieme governare socialmente il fenomeno e i rischi che porta con sé con efficacia: è possibile, è realistico. L’esempio è rappresentato proprio dalla crisi del fentanyl: una molecola pericolosa, è vero, ma che si nutre di un sistema impreparato e della retorica proibizionista. Con una rinnovata spinta dal basso - quella grazie a cui la RdD è nata e si è evoluta, del resto - si costruiscono modalità concrete di intervento: hanno preso parola, a Porto, decine e decine di esperienze, modelli e valutazioni su stanze del consumo, drug checking, distribuzione comunitaria del naloxone, accesso ai servizi, valorizzazione delle reti dei consumatori, che disegnano una strategia possibile e vincente. Ma che, al tempo stesso, non smettono di mettere all’angolo la politica, perché è il contesto punitivo il primo “imprenditore della sofferenza”. Tra i tanti temi di una conferenza partecipata, accesa nei toni e ricca di storie ed evidenze insieme, ne citiamo due. I diritti umani: declinati non più nella maniera retorica che abbiamo sentito dai governi alla riunione delle Nazioni unite a Vienna, ma con la “pretesa” politica della esigibilità, e come elemento-guida delle politiche globali; parole rimbalzate dalle storie dei morti ammazzati delle favelas brasiliane alla limpida esposizione di Michelle Bachelet, capo Unhachr. E poi il protagonismo delle persone che usano sostanze, con un salto di qualità: non solo “gruppo di interesse” che porta le sue rivendicazioni - anche, ed è importante - ma soggetto attivo e trasversale a tutti gli ambiti, portatore di competenze. Diritti e saperi, insomma. Un esempio, la ricerca. Molte sessioni ad essa dedicate hanno incluso i consumatori, che rifiutano di essere oggetto di studio e rivendicano un protagonismo attivo e competente. Brasile. Ministro Giustizia: necessarie più opportunità di lavoro a detenuti ed ex detenuti agenzianova.com, 8 maggio 2019 Il ministro della Giustizia brasiliano, Sergio Moro, ha sollecitato le imprese brasiliane a dare maggiori opportunità di lavoro a detenuti o ex detenuti. Per il ministro è importante che gli imprenditori offrano opportunità ai detenuti che cercano di rientrare nella società attraverso il lavoro e lo studio, o che abbiano abbandonato il sistema carcerario e che non vogliano nuovamente tornare a delinquere. “Dobbiamo credere nella ri-socializzazione del prigioniero”, ha dichiarato il ministro nel corso della cerimonia di consegna del ‘Sigillo riscattà, certificazione concessa alle aziende che decidono di assumere detenuti o ex detenuti. “Questo è un obiettivo importante, perché non possiamo mai perdere la fiducia e sperare che le persone possano riscattarsi. (...) Uno dei modi migliori è dare a queste persone un’opportunità” ha detto il ministro. Lanciato dal ministero della Giustizia e della Pubblica Sicurezza alla fine del 2017, il sigillo rientra nella strategia federale che punta a incoraggiare le società pubbliche e private, così come le agenzie e imprese di economia solidale, ad assumere detenuti o ex detenuti. Nel primo ciclo di certificazione delle aziende, relativo all’anno 2017/2018, 112 istituti hanno ricevuto il sigillo, la maggior parte sono tuttavia enti pubblici. Obiettivo del ministero è quello di espandere questo numero a mille entro il 2020, cercando di attirare più aziende private possibili. L’assunzione dei prigionieri avviene attraverso accordi che le società qualificate per sostenere il progetto di risocializzazione del detenuto firmano con i governi degli stati in cui agiscono. Per ottenere la certificazione deve impiegare tra l’1 e il 3 per cento dei detenuti. In cambio gli imprenditori ottengono uno sconto sui contributi versati per i lavoratori. Brasile. Appropriazioni di terre e disboscamenti, si rischia un bagno di sangue di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 maggio 2019 Nei primi tre mesi del 2019, secondo l’organizzazione non governativa brasiliana Imazon, sono andati perduti 12 chilometri quadrati di foresta amazzonica, con un aumento del 100 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. Eppure era la stagione delle piogge, quella in cui entrare in quei territori è più difficile. Ora che è alle porte la stagione secca, Amnesty International ha denunciato il rischio di violenti scontri se il governo non proteggerà le terre tradizionali dei popoli nativi in Amazzonia dalle crescenti appropriazioni illegali e dai disboscamenti da parte di invasori armati. Il mese scorso Amnesty International ha visitato tre territori del Brasile settentrionale: Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau nello stato di Rondônia e Arara nello stato di Pará. L’organizzazione per i diritti umani ha anche incontrato rappresentanti del governo, pubblici ministeri ed esponenti di organizzazioni non governative. Secondo le organizzazioni non governative e le autorità, a invadere armi in pugno le terre dei popoli nativi sono persone incoraggiate e aiutate da politici e aziende agricole locali a occupare terreni e a vendere il legname. I leader nativi dei tre territori visitati da Amnesty International hanno denunciato alle autorità recenti appropriazioni illegali di terreni e disboscamenti. La risposta del governo è insufficiente. La sorveglianza delle terre native dipende in larga parte dal coordinamento tra vari organismi governativi. La Fondazione nazionale degli indigeni del Brasile (Funai) non ha poteri di polizia e dipende dal sostegno di altre istituzioni, come l’Istituto brasiliano per l’ambiente e le risorse naturali rinnovabili (Ibama) e la Polizia federale. Secondo gli esperti incontrati da Amnesty International, negli ultimi mesi le operazioni di sorveglianza sono diminuite a causa di problemi di bilancio. Tra gennaio e aprile 2019 la Procura federale ha inviato almeno quattro lettere al ministero della Giustizia e a quello delle Donne, della Famiglia e dei Diritti umani (da cui, dal gennaio 2019, dipende la Funai), denunciando il peggioramento della situazione di sicurezza nei territori Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau, paventando il rischio di un conflitto e sollecitando l’intervento della Forza di sicurezza nazionale in attesa di un piano di protezione a lungo termine. I due ministeri finora non si sono coordinati con la Forza di sicurezza nazionale per proteggere i territori Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau e del piano a lungo termine non si parla. Proteggere i diritti dei popoli nativi non solo è doveroso ma è anche fondamentale per lottare contro il cambiamento climatico. Infatti, quando le foreste vengono distrutte o date alle fiamme, il carbone che conservano viene rilasciato nell’atmosfera principalmente sotto forma di emissioni di diossido di carbonio. Myanmar. Dopo 500 giorni in cella e un Pulitzer liberati i due giornalisti Reuters di Emanuele Giordana Il Manifesto, 8 maggio 2019 Arrestati nel 2017 con l’accusa di violazione del segreto di Stato, Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano pubblicato le prove di una strage di rohingya compiuta dall’esercito birmano. Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i due giornalisti birmani della Reuters arrestati nel 2017 e condannati a sette anni di carcere l’anno scorso, sono liberi. La mossa a sorpresa è una delle rare buone notizie che arrivano dal Myanmar e si accompagna a una decisione dell’ufficio del presidente Win Myint di procedere in occasione dell’anno nuovo (iniziato a metà aprile) a un’amnistia generale per oltre 6.500 prigionieri. Cui è seguito il perdono per i due reporter. Le foto li ritraggono felici e sorridenti. Entrambi hanno famiglia e uno ha una figlia nata mentre il padre era dietro le sbarre. I due giornalisti, che per la loro indagine su una strage di rohingya hanno ricevuto il Pulitzer nel 2018, hanno passato in carcere più di 500 giorni e avevano forse perso le speranze dopo il rigetto in gennaio del ricorso presentato dai loro legali a fronte della condanna in primo grado nel settembre 2018 a sette anni per violazione del segreto di Stato. Wa Lone e Kyaw Soe Oo non avevano partecipato all’udienza in cui il giudice aveva sostenuto che la difesa non era stata in grado di dimostrare la loro innocenza e che la punizione comminata era “adeguata” al crimine. Ora i due giornalisti finalmente liberi dicono che continueranno a fare il loro mestiere. Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano raccolto prove dirette (poi messe assieme dai colleghi della redazione centrale) sui crimini commessi da Tadmadaw (l’esercito) nello Stato del Rakhine da cui, nell’agosto 2017, i militari hanno costretto alla fuga oltre 700mila rohingya, la minoranza musulmana della regione quasi completamente trasferita in Bangladesh in campi profughi che sono ormai una città. Furono arrestati con una trappola: avevano incontrato degli agenti che gli avevano messo in mano dei documenti mentre la polizia aspettava quel momento per arrestarli con la prova di una violazione del segreto di Stato. Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano raccolto prove in particolare su una strage compiuta dall’esercito birmano nel villaggio di Inn Din, nel nord del Rakhine nel settembre 2017. Si tratta a oggi dell’unica strage ammessa (in seguito) dai generali birmani. La loro condanna aveva sollevato polemiche, reazioni e proteste ma il Myanmar non aveva mai mostrato alcun segno di marcia indietro. Poi ieri la buona notizia. Intanto nel Rakhine non è solo la comunità rohingya, ormai ridotta all’osso e in gran parte sfollata, a soffrire degli esiti di una guerra contro le minoranze e che vede sulla scena negli ultimi mesi l’Arakan Army, formazione armata il cui scopo è la protezione della minoranza arakanese (e buddista) del Rakhine. Il governo dello Stato ha chiesto al governo dell’Unione 20 milioni di dollari per un rifugio per gli oltre 30mila sfollati in fuga dai combattimenti ripresi a gennaio tra AA e Tatmadaw. Gli sfollati, sostenuti da gruppi locali della società civile e monaci, hanno sollecitato il governo statale a fornire aiuti e riparo a chi fugge da una delle tante guerre del Paese.