Ornella Favero: “Così i figli convincono i genitori boss a cambiare” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 maggio 2019 Come nel caso del giovane che ha manifestato a Napoli sono molti gli eredi di famiglie malavitose che rinnegano i clan. Francesca ha 28 anni e suo padre lo hanno portato via da casa che lei ne aveva uno. “Sono figlia di un ergastolano - dice - e come sono cambiata io anno dopo anno così è cambiato lui. I nostri padri cambiano perché noi figli ci abbiamo messo la faccia”. Tommaso, suo padre, è Tommaso Romeo, boss della ‘ndrangheta e killer, una condanna a vita sulle spalle. “Grazie all’amore delle mie figlie ho avuto la forza di sopravvivere per 27 anni in un luogo pieno di disperazione, ma quell’amore mi ha anche fatto cambiare”. Carcere Due palazzi di Padova, sezione di massima sicurezza dove mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti sono murati vivi. È qui che è nato un progetto che, faticosamente, è riuscito a far parlare padri e figli, a creare le condizioni per una “dissociazione” che nulla ha a che fare con la collaborazione con la giustizia ma che salva entrambi. L’artefice è Ornella Favero, giornalista, fondatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. La vostra è un’esperienza felice e unica. Ci racconta come nasce? “Tutto nasce da una domanda: che cosa deve fare un mafioso per dimostrare che ha davvero voglia di chiudere con il suo passato, di dire basta a una vita che ha portato distruzione a sé e alla sua famiglia? La risposta è stata: partire proprio da quella famiglia, da quei figli che, nella maggior parte dei casi, sono proprio all’origine della decisione di tacere, di sopportare il carcere in silenzio proprio per non esporli a vendette o costringerli a cambiare nome o città”. Chi sono e quanti sono questi detenuti che insieme ai figli hanno aderito al vostro progetto e hanno deciso di voltare pagina? “Sono una decina, esponenti di associazioni mafiose, ‘ndranghetisti soprattutto, alcuni ergastolani. È ovvio che non sono pentiti nel senso di collaboratori di giustizia e questo dà ancora più valore alla loro scelta perché certamente non ha alla base motivi di opportunità”. Come siete riusciti a convincerli a fare questo passo? “Queste persone sono recluse in sezioni di alta sicurezza dove non hanno rapporti con nessuno. Abbiamo chiesto e ottenuto che potessero partecipare alla redazione del nostro giornale insieme ai figli, hanno accettato, si sono aperti, hanno trovato persino liberatorio e redimente incontrare gli studenti che portiamo in carcere e raccontare le loro esperienze sbagliate. E hanno anche recuperato un rapporto con questi ragazzi che, come ha fatto a Napoli il figlio del camorrista, hanno deciso chiaramente da che parte stare senza per questo entrare in conflitto con i genitori. Anzi”. Fosse così facile. Qual è la chiave giusta? “Esattamente quella che ha spiegato il ragazzo di Napoli. Tenere separato il lato affettivo. Non rinnegare. Dire: “Io amo mio padre ma sono consapevole del disastro che le sue scelte hanno portato nella vita sua e di tutta la famiglia”. E questo in qualche modo libera il mafioso che fino a quel momento aveva sempre tenuto una maschera di fronte ai propri figli accusando lo Stato, le istituzioni di averlo perseguito ingiustamente. I figli invece chiedono un’assunzione di responsabilità e questo fa venir voglia di partecipare e di ammettere i loro errori anche davanti ad altri, come gli studenti”. Cosa raccontano? “Uno come Tommaso Romeo, ad esempio, ha confessato ai ragazzi che proprio il confronto con loro, in cui rivede le sue figlie gemelle che ha lasciato da piccolissime, lo ha aiutato a rinnegare il suo passato. Lui che, per la ‘ndrangheta, reclutava proprio le giovani leve da avviare sulla strada criminale. Oggi con le sue figlie ha cominciato questo percorso con noi e non ha difficoltà a dire che la ‘ndrangheta fa schifo”. Adesso avete l’obiettivo di uscire dal carcere di Padova. “Sì, collaboriamo con i giudici del tribunale dei minori di Reggio Calabria e Bologna. Vorremmo arrivare negli istituti minorili, magari via Skype e provare a recuperare anche quei figli”. Fiammetta Borsellino: “L’ergastolo va rivisto: più educatori e meno agenti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2019 La figlia del magistrato ucciso ha partecipato a due incontri in Calabria. Ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano “in quell’inferno del 41 bis”, aggiungendo “sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello stato”. Verità, diritto alla conoscenza, depistaggi e difesa dello Stato di diritto. Queste le parole chiave del ciclo di incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus, che si sono conclusi la settimana scorsa e che hanno visto la partecipazione di Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992. Nei due incontri, il primo a Catanzaro, alla facoltà di Sociologia e il secondo al Comune di Rende, presso la sala Tokyo del Museo Del Presente, non si è parlato dell’antimafia come di solito avviene nei convegni sponsorizzati dai mass media, dove molto spesso la narrazione non coincide con lo Stato di diritto, evocando teorie della cospirazione che - divenute una spada di Damocle - frenano qualsiasi governo nel rivedere quelle misure emergenziali divenute nel frattempo ordinarie. Si è parlato della ricerca della verità sulle stragi, in particolar modo quella che ha coinvolto Borsellino. Così come sono stati trattati i temi del sistema penitenziario, che assume a volte forme più vendicative che non di reinserimento del detenuto nella società, e del giusto processo, da tutelare perché garantito dalla Costituzione. La verità sulla strage di via D’Amelio, infatti, è stata insabbiata dal depistaggio certificato, dopo 26 anni, grazie alla sentenza del Borsellino quater. Depistaggio avvenuto non solo per la conduzione delle indagini, ma reso possibile anche grazie l’irritualità dello svolgimento dei primi processi. “ll vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise”, ha esordito Fiammetta Borsellino durante il primo incontro. Ma non solo. “Si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre - ha spiegato Fiammetta -, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage”. Ma la causa della morte del padre? Un quesito posto da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, che ha sottolineato come solo pochi giornalisti - incappando in querele - ricordino ad oggi la vecchia storia del dossier mafia-appalti. Fu un’operazione condotta dai Ros e depositata in Procura a Palermo nel 1991 su spinta di Giovanni Falcone. Un dossier che poi interessò molto Paolo Borsellino. Ed è la figlia che risponde, ribadendo che la concausa della morte del padre è da ritrovarsi nel suo interessamento sul dossier di mafia- appalti. Ricordiamo che questa indagine è stata presa in considerazione, con sentenza definitiva emessa il 21 aprile del 2006, da parte della Corte d’Assiste d’Appello di Catania. Scrivono, infatti, i giudici che Falcone e Borsellino erano “pericolosi nemici” di Cosa Nostra in funzione della loro “persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa” e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale motivazione sarà poi ripresa anche nel Borsellino-quater, dove furono acquisite anche le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè, secondo cui “il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti”. La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Falcone e Borsellino, i quali “non interessavano proprio a nessuno”. Nella decisione di eliminare i due magistrati, quindi, aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. “L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova - si legge nella motivazione del Borsellino quater - in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura”. Fiammetta Borsellino ha ribadito l’importanza del dossier e ha chiesto lumi sulla richiesta di archiviazione, che fu depositata dopo tre giorni dalla morte del padre. Ha aggiunto la figlia del giudice, a proposito dei giornalisti che vengono querelati, l’importanza del diritto all’informazione e ha approfittato per ricordare che è a rischio la chiusura di Radio Radicale, “perché se non ci fosse stata lei che segue tutti i processi, noi oggi non sapremmo nemmeno di cosa si sta parlando”. Fiammetta poi è ritornata su mafia- appalti e ha aggiunto qualcosa di inedito. Il 14 luglio, cinque giorni prima dell’attentato, ci fu una riunione alla Procura di Palermo avente come oggetto anche la questione del dossier mafia- appalti, proprio perché i giornali montarono delle polemiche circa la conduzione dell’inchiesta. Vi partecipò Paolo Borsellino. La figlia, durante il primo convegno alla facoltà di Catanzaro, ha quindi posto una domanda: “Qualcuno tra magistrati e componenti del Csm, saprà dirmi cosa disse mio padre quel giorno?”. Durante il convengo di Rende, parliamo della seconda e ultima giornata del ciclo di incontri, interessante l’intervento del sociologo Ciro Tarantino che parte dalla domanda posta dalla locandina dell’evento “Chi è Stato”, con un duplice significato dal “chi è stato” l’esecutore delle stragi a chi è Stato con la maiuscola. “Gianni Rodari - ha spiegato Tarantino - dava valore cambiando la minuscola con la maiuscola, quindi qual è questa parte di Stato che si è reso responsabile della strage di via D’Amelio?”. Il sociologo ha sottolineato che nella storia repubblicana tale domanda si pone inevitabilmente sempre dopo le stragi, esattamente quando si fanno i funerali, appunto, di Stato. “Ed è proprio in quel momento - ha aggiunto - che si verifica lo scarto tra lo Stato ideale che noi vogliamo, da quello reale”. Tarantino ha puntato sul diritto alla verità e quindi l’importanza della memoria collettiva. “Gianni Rodari - ha concluso - sosteneva che la verità è una malattia e oggi assistiamo ad una molteplicità di verità prive di sapere. La memoria collettiva deve invece essere alimentata dalla duplice volontà di sapere”. Si è affrontato anche il ripristino del 41 bis, così come la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. È intervenuto a tal proposito il presidente della camera Penale di Cosenza, avvocato Maurizio Nucci: “I diritti del soggetto non vengono garantiti, la Costituzione è violata perché viene a mancare il diritto alla speranza”. Poi c’è Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaha, ha posto delle riflessioni in merito all’ergastolo ostativo e al carcere duro: “Ci sono persone condannate all’ergastolo, a cui è stata rubata la vita al pari delle vittime delle stragi. È necessario un regime carcerario che anche l’Onu considera tortura? Serve ad ottenere la verità?”. Fiammetta Borsellino ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano “in quell’inferno del 41 bis”, così come ha voluto sottolineare. “Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!”, ha affermato Fiammetta. E ha aggiunto: “Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie”. La figlia di Borsellino ha così concluso il suo pensiero: “lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve”. Carceri, una vera emergenza nazionale. Tre metri a testa se va bene di Ketty Volpe articolo21.org, 7 maggio 2019 La cella è un luogo desolante. Degradato. Ha odore acre che resta pregno su pelle, abiti e capelli. Si tira su con le narici, anche quando si vien fuori dalla galera. Nella cella le peggiori ore della vita. Si fa quasi tutto lì. Si mangia, si dorme, si cucina, si usa il water, si scrive, si sogna, si racconta di sé, si lava la biancheria, si guarda la tivvù, si ascolta la radio, si gioca a carte, si prepara il caffè, si ricorda, si fa finta di vivere, si vegeta. Talvolta, accadono lì, in cella, anche, inquietanti episodi di stupro, di violenze, di abusi, consumati in sordina. Soffocati da coperte e cuscini. Nascosti alla verifica della conta. Lasciano il segno, senza tracce per le perquisizioni. L’ambiente promiscuo agevola devianze e comportamenti violenti. Favorisce la follia, il suicidio, episodi di autolesionismo. Scrivere di detenuti e dei suoi modi di essere, di parlare e comunicare, significa andare a toccare con mano le contraddizioni della detenzione. Significa entrare nelle carceri sempre più inadeguate ad ospitare persone, cittadini italiani e stranieri. Significa snidare i numeri del sovraffollamento delle carceri e delle celle. Significa svelare privazioni e deprivazioni di un quotidiano deplorevole, disumano, scioccante. Significa coinvolgere l’opinione pubblica, la società civile, le autorità politiche preposte e non, ogni singolo cittadino, perché ci sia la giusta attenzione per quello che diviene sempre più una “discarica umana”. Un mondo a sé con vita disumana. Un mondo di numeri soli senza gli altri di fuori. Perché lì dentro tutto è letto, guardato, visto, sentito, percepito, attraversato, diviso dal binario del “dentro-fuori”. Due mondi divisi dal concetto di punizione/rieducazione. I detenuti presenti vanno ben oltre la capienza regolamentare. Quasi sempre. Va da sé che i numeri fluttuano e variano a seconda. Le carceri sono davvero una vera emergenza nazionale. Tre metri a testa se va bene. Le sbarre antievasione lasciano filtrare raggi di un sole a scacchi che non riscalda. Brucia. La luna non si vede mai intera quando è piena e le stelle ammiccano, divertite, un po’ ad esserci e un po’ a non esserci. Nella maggior parte delle carceri, in cella c’è il water e nelle sezioni femminili il bidet. Il lavandino serve ad ogni cosa e le docce in comune, solo quando sezione di turno, una volta a settimana o due se non prevalgono esigenze di sicurezza che ne vietano l’uso. Piano cottura e di lavoro sono messi su nel migliore dei modi nella stessa cella. Le provviste mandate da casa o comprate allo spaccio sono guardate a vista e controllate. I detenuti cucinano, tutti o quasi, in cella. Si cimentano in ricette e pietanze che condividono al desco imbandito con rito maniacale. Coprono il lavabo. Ne fanno uno scrittoio o a seconda. In ogni cella un televisore. Si vive chiusi. Anche quando si passeggia nei corridoi della sezione o si é all’aria. Si legge, si dorme, si cucina, si mangia, si evade col pensiero e non solo, ci si sveglia. C’è chi l’abbellisce di propria arte, chi mette al muro figli in fotografia e donnine mezze nude tra i ritratti di mamma e sposa. C’è chi scrive pensieri e parole e chi riprende, coi ricordi, belle donne e libertà perse. Pregiudizi tanti e pene detentive alternative poco attuate. Si distingue qualche carcere modello che pone al centro la rieducazione dei detenuti per il reinserimento. In altri tanta pena e poca umanità. Solo carcerazione. Le sensazioni provate il primo giorno di carcere sono indelebili. Come tatuaggi. Restano per sempre. Ne raccontano, in poesie e disegni, di ufficio matricola e presa delle impronte digitali. Un incubo quel suono delle chiavi girare nella serratura che si alterna al, nitido, pulsare del metallo percosso nelle sbarre. Suoni brutali e blindati sbattuti, nelle orecchie dei carcerati e nei ricordi di ex detenuti che ritornano, da volontari, per, dove sensibili direzioni, umanizzare il carcere. Luci accese nel cuore della notte e torce negli occhi per illuminare oltre la pupilla, guardare nelle palpebre, dentro, sotto, sino ad asciugare il cristallino. Ricordo lacerante è l’umiliazione della flessione, la procedura, di ieri e di oggi, all’ingresso, quando il detenuto viene invitato a spogliarsi e a fare una flessione per dimostrare, o fare accertare, che non nasconde nulla di illecito all’interno dell’orifizio anale. È una delle tante, continue, vessazioni umilianti che minano l’equilibrio psicofisico. Niente sesso, siamo in galera di Susanna Ripamonti huffingtonpost.it, 7 maggio 2019 Proprio in questi giorni, nella casa di reclusione di Milano-Bollate, si è celebrato il matrimonio tra due giovani che si sono conosciuti dietro alle sbarre. Non è la prima volta che succede, i matrimoni in carcere sono abbastanza frequenti e da quando la legge lo consente si celebrano anche unioni civili tra coppie gay: a Bollate è successo già due volte dall’inizio dell’anno. Si tratta di matrimoni “bianchi”, che escludono la possibilità di rapporti sessuali, perché le rigide leggi del carcere, che impongono la castità ai detenuti, non ammettono deroghe neppure in queste circostanze. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei che non consente ai detenuti di continuare ad avere una vita affettiva e una normale sessualità, né con i propri coniugi che vivono all’esterno, né con partner conosciuti in carcere. Eppure nessuna condanna prevede in sentenza questa mutilazione che penalizza il detenuto, ma anche mogli, mariti, compagne e compagni che li attendono oltre le sbarre. È proprio impossibile regolamentare la vita detentiva prevedendo i cosiddetti colloqui intimi? Evidentemente no, visto che sono 31 su 47 gli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa che autorizzano, con varie procedure, le visite affettive in carcere. Sono ammesse per esempio in Russia, Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia e Austria. In Germania e Svezia ci sono miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la famiglia. In Olanda le visite avvengono in locali appositi o anche in cella. In Svizzera, a Lugano, nel parco che circonda il carcere, c’è un piccolo edificio separato riservato a questo tipo di incontri. La Danimarca autorizza visite settimanali di un’ora e mezza. E anche nella cattolicissima Spagna l’amore in cella è consentito con il partner che si presenta regolarmente ai colloqui settimanali. Ne usufruiscono quasi tutti i detenuti e gli incontri sono permessi anche fra persone dello stesso sesso. In Finlandia e Norvegia c’è un sistema di congedi coniugali. In Croazia e Albania, invece, gli istituti di pena concedono incontri non controllati della durata di quattro ore. Uscendo dall’Europa, in Canada le visite fino a 72 ore avvengono in apposite roulotte esterne al carcere. In America, fin dagli anni 90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i prigionieri hanno la possibilità di ricevere in visita una sex worker (lavoratrice del sesso). Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico e in molti Paesi latino-americani che sicuramente non sono all’avanguardia per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei detenuti, ma che almeno su questo fanno eccezione. Nel Parlamento italiano giacciono due progetti di legge, uno al Senato e uno alla Camera, che prevedono la creazione di spazi, all’interno dei penitenziari, in cui sia possibile incontrare il proprio partner, lontano da occhi indiscreti. La proposta è stata rinverdita dagli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, una supercommissione di esperti del mondo del carcere voluta dal Ministro Orlando, che ha terminato i lavori nel 2016. In quella sede si è avanzata l’ipotesi di consentire colloqui senza il controllo visivo e/o auditivo del personale di sorveglianza in “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, separate dalla zona detentiva. La proposta, come tutte quelle emerse dagli Stati generali, avrebbe dovuto rientrare nella riforma carceraria voluta dall’ex guardasigilli e rimasta lettera morta con l’avvento del nuovo governo. Attualmente, in Italia, anche il diritto alla sessualità e all’affettività dei detenuti sono regolati da meccanismi premiali: chi si comporta bene e ha già scontato almeno un terzo della pena può avere diritto, se il magistrato di sorveglianza lo ritiene opportuno, a permessi premio durante i quali, senza piantonamenti, può passare una giornata in famiglia, fuori dal carcere. È meglio che niente, anche se si tratta di una soluzione che riguarda solo una piccola percentuale di detenuti. Per gli altri l’amore può attendere. E può attendere anche per i due giovani che si sono appena sposati a Bollate, che per trascorrere assieme la prima notte di nozze (o almeno un pomeriggio) dovranno aspettare di avere entrambi, nello stesso giorno, un permesso premio e un luogo in cui amarsi. Per ora potranno incontrarsi nell’area colloqui del carcere e sfiorarsi le mani con discrezione, perché i contatti fisici (un bacio, un abbraccio) non sono ammessi. Per la luna di miele se ne parla a fine pena. Sicurezza e legalità, il capo dello Stato c’è. Ma non basta di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 7 maggio 2019 Su legittima difesa o diritti degli stranieri, le istituzioni di garanzia fanno sentire la loro voce. Mancano soggetti politici attivi in grado di ribaltare egemonie culturali diffuse. Per cambiare il merito delle politiche securitarie, non possiamo confidare sulle decisioni dei giudici o sui moniti del Presidente della Repubblica. Le istituzioni di garanzia fanno sentire la loro voce. Il Presidente della Repubblica promulgando con riserva la legge sulla legittima difesa, i giudici ordinari facendo venir meno il divieto di iscrizione all’anagrafe per gli stranieri. Entrambi in difesa della superiore legalità costituzionale. Non è la prima volta, peraltro, che il Capo dello Stato, nel momento stesso in cui appone la firma necessaria per fare entrare in vigore gli atti normativi dell’attuale maggioranza, rende pubbliche le proprie perplessità tramite una lettera indirizzata agli organi politici (Governo e Parlamento). Già nell’emanare il decreto sicurezza, Mattarella aveva rilevato la necessità di far comunque rispettare “gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”. Ora, la magistratura ha dato seguito alla indicazione del Presidente fornendo una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa sull’iscrizione anagrafica. Un’ordinanza equilibrata che si è limitata a far prevalere - come doveroso - i principi costituzionali sulle decisioni delle maggioranze parlamentari. In verità, sono molte le parti della legge sulla sicurezza che sollevano corposi dubbi di costituzionalità, come pure si sospetta della loro compatibilità con la normativa internazionale (aspetti che abbiamo puntualmente esaminate su queste pagine in diverse occasioni). È facile dunque prevedere, in un prossimo futuro, l’intervento di altri giudici: la Corte costituzionale, nonché Lussemburgo e Strasburgo. Col tempo è possibile, dunque, che le parti più lesive dei diritti fondamentali delle persone possano essere eliminate, limitando almeno un poco la violenza securitaria e il “diritto antiumanitario” della normativa attuale. È verosimile che una sorte analoga spetti alla legge sulla legittima difesa. La lettera del Presidente della Repubblica, rivolta formalmente al Parlamento e al Governo, pare anch’essa indirizzata in primo luogo ai giudici. Essa è rivolta a fornire un’interpretazione costituzionalmente compatibile della normativa appena promulgata. Contro la retorica propagandistica contenuta nello slogan “la difesa è sempre legittima”, il Presidente ricorda la necessità di un controllo del giudice per l’accertamento della “portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. In poche e chiarificatrici parole, richiamando la necessità di salvaguardare anche in questo caso i principi costituzionali, il Presidente ha smontato la ratio persecutoria della legge, riaffermando che la difesa è legittima se proporzionata all’offesa, altrimenti essa costituisce un eccesso da perseguire penalmente. È allo Stato - scrive ancora il Presidente - che spetta la “primaria ed esclusiva responsabilità” nella tutela dell’incolumità e sicurezza dei consociati. È per questo che la giustizia privata non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento né ai giudici può essere impedito l’accertamento dei fatti per verificare la congruità della reazione alle offese subite anche in casa propria. In definitiva la lettera del Presidente rappresenta un forte richiamo ai principi costituzionali in tema di ordine pubblico. Facilitati dall’autorevole interpretazione fornita dal Presidente, c’è ora da aspettarsi che i giudici, nel dare attuazione alla nuova normativa, non si facciano troppo intimidire dalle formulazioni indeterminate e “politico-propagandistiche” contenute nel testo, ma, anche in questo caso, ne forniscano una interpretazione costituzionalmente orientata, continuando a svolgere gli accertamenti necessari in tutti i casi di legittima difesa. Sembra dunque emergere una resistenza alle leggi e alle prassi discriminatorie quando queste travalicano il confine dello Stato costituzionale e di diritto da parte delle istituzioni di garanzia: Quirinale e giudici, in dialogo tra loro. Una reazione legittimata dalle rispettive competenze istituzionali. Spetta infatti ai giudici - sollecitati dal rappresentante dell’unita nazionale - garantire i diritti costituzionali, anche - soprattutto - nei casi in cui questi rischiano di venir compromessi dai poteri costituiti che operano oltre il costituzionalmente consentito. Non possono però spingersi oltre. Pertanto, seppure si riuscisse ad espungere dall’ordinamento - in modo più incisivo quando sarà il turno della Consulta - le questioni più propriamente incostituzionali, rimarrà comunque in vigore una regolamentazione dell’ordine pubblico che fa dello straniero e del diverso un capro espiatorio, riducendo le tutele e le forme di integrazione, sollecitando il privato a farsi giustizia da sé. Per cambiare il merito delle politiche securitarie, passando da una concezione che si basa sulla paura dell’altro e fomenta l’odio sociale, ad una concezione che ricerca un difficile bilanciamento tra le ragioni dell’ordine pubblico con quelle del rispetto dei diritti delle persone, non possiamo confidare sulle decisioni dei giudici o sui moniti del Presidente della Repubblica. Dovremmo avere soggetti politici attivi in grado di ribaltare egemonie culturali diffuse. Di questo si sente grande mancanza. Nord e Sud, quando anche la sicurezza divide il Paese di Gianfranco Viesti Il Messaggero, 7 maggio 2019 I tragici fatti di Napoli ripropongono ancora una volta il problema della sicurezza e della legalità in tutto il Paese, ma in particolare in alcune aree del Mezzogiorno. La diffusione di piccole e grandi forme di criminalità non è solo un dramma per chi è coinvolto, una ferita molto grave per la convivenza civile e una forte riduzione della qualità della vita per le comunità: con effetti profondi sulle scelte familiari, professionali, di mobilità che poi si compiono. Ma anche un vincolo forte allo sviluppo di attività di impresa; un ostacolo di primaria importanza allo sviluppo economico. Quanti ragazzi e ragazze giovani lasciano silenziosamente le città e le regioni più difficili in cerca non solo di occasioni di lavoro, ma anche di una maggiore tranquillità e qualità di vita? Quante imprese rinunciano ad investimenti nelle aree più problematiche, proprio per la difficile tutela della legalità? Quante iscrizioni perdono le eccellenti università di Napoli da parte di studenti che hanno timore a spostarsi a vivere in una città così complessa (con tutte le conseguenze che questo ha per le casse e il futuro degli atenei e l’economia della città)? E quanto l’economia sana di quelle stesse aree viene colpita dalle estorsioni e dalla concorrenza sleale di attività sul filo della legalità o apertamente finanziate dalla criminalità? A tutto questo va data una risposta molto più netta di quelle fornite fino ad oggi. E la risposta deve fornirla lo Stato italiano: in quanto garante dei diritti di cittadinanza di tutti i suoi cittadini, che non possono essere così drammaticamente diversi, a seconda della città in cui si vive, come oggi. Una risposta che non può che avere due volti. Da un lato, quello del ripristino della legalità. Il che significa non solo la repressione da parte delle forze dell’ordine e la condanna da parte della magistratura delle azioni criminali più evidenti; attività che nel tempo hanno ottenuto non pochi successi. Ma anche, più capillarmente, un controllo più sistematico del territorio; la progressiva eliminazione di tutte le forme di illegalità anche minore. Lo Stato ha il dovere di essere presente per le strade di ogni città; non può tollerare zone franche, aree grigie. Disparità territoriali nel diritto ad una vita serena, civile. Su questo l’impegno richiesto è assai maggiore: e sorprende come a mille allarmi per la “sicurezza” non si accompagnino piani di azione concreti per eliminarle. Dall’altro, quello della progressiva inclusione sociale di ampie fasce di popolazione a rischio. Tema complesso ma decisivo. Ciò significa una valorizzazione costante delle attività di partecipazione civica che convivono in quei territori insieme alle punte peggiori di degrado. L’ampia area napoletana ospita tanto luoghi del degrado quanto luoghi e attività di costruzione di forme di convivenza. Lo Stato, molto più intensamente e visibilmente di quanto oggi accada, deve schierarsi con i secondi. Significa un progressivo potenziamento dei servizi collettivi di assistenza e di cura; e dei presidi scolastici: l’argine più importante. E politiche di ampio respiro per la creazione di lavoro legale e tutelato: l’enorme scarto nei tassi di occupazione legale fra il Mezzogiorno e il resto d’Europa testimonia della dimensione dell’area grigia della “fatica” sottopagata e sommersa. Il diritto alla sicurezza e all’inclusione sociale non è una questioni locale, di qualche sindaco. È una grande questione nazionale, unitaria, delle strutture dello Stato e dei prefetti. È bene ribadirlo in tempi di “secessione dei ricchi”, nei quali parti di classi dirigenti delle aree più forti pensano esclusivamente in chiave di vantaggi localistici; nei quali le bozze di intesa sulle “autonomie differenziate” ufficialmente disponibili prevedono clausole che porterebbero ad una riduzione della spesa scolastica proprio nelle regioni del Sud, a vantaggio del Lombardo-Veneto, a pagare magari di più chi insegna nei comuni più ricchi rispetto a chi lavora nei territori più disagiati; nei quali le intese sotterranee raggiunte negli scorsi anni sulla perequazione delle capacità fiscali dei comuni continuano a privare proprio quelli più poveri delle risorse per i servizi sociali. È un grande investimento collettivo, a vantaggio dell’intero Paese. Insomma, curare il Sud sarebbe un modo per curare l’intera Italia. Colpire la criminalità organizzata significa indebolire anche le sue amplissime e ben radicate propaggini nel Nord del Paese; maggiore occupazione regolare al Sud significa maggiore gettito contributivo per le casse nazionali. Voler garantire a tutti i cittadini elementari diritti ovunque vivano, significa puntare a rafforzare la fiducia degli italiani nello Stato: assai di più di quanta, indeboliti e sfiduciati come sono, ne esprimano oggi. La camorra si batte nelle scuole di Paolo Mancuso La Repubblica, 7 maggio 2019 “Belve” tuona il cardinale Sepe, ai killer di piazza Nazionale; “medioevo della sicurezza” definisce la situazione napoletana il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho; “è una guerra”, è l’analisi di Isaia Sales: tre persone che sanno quello che dicono, che conoscono Napoli, la sua antropologia, la sua criminalità, la sua condizione umana. Ma allora, se di guerra si tratta, se dall’altra parte c’è un vero e proprio nemico, sappiamo tutti che al fronte si possono decidere le battaglie, ma non è lì che si decidono le sorti di una guerra. Le sorti di una guerra le decidono le retrovie: la capacità produttiva del Paese, lo spirito del suo popolo, la fiducia nella sua classe dirigente, la saggezza del suo governo. E allora, fuor di metafora, ben vengano più poliziotti, (non più esercito, per l’amor di Dio: mi domando cosa avverrà quando un soldato vedrà una scena come quella di piazza Nazionale: sparerà fra la folla? Rimarrà inerte? O quando un ragazzotto, arma in pugno, attratto da quella di un soldato... ma lasciamo stare). Ben vengano telecamere, moderne tecnologie di controllo, interventi di attacco sperimentati in altri tempi, quali quelli delle perquisizioni “di caseggiato”, invocati sempre da Cafiero. Serviranno ai magistrati, alle squadre mobili della polizia, ai nuclei investigativi dei carabinieri e della Finanza per migliorare la loro già straordinaria capacità d’intervento, dimostrata dai fermi che hanno già fatto seguito, dopo pochi giorni, alle sparatorie di piazza Plebiscito o di San Giovanni. Ma ormai lo sappiamo, non è lì che si vince la guerra. E il primo a non capirlo è proprio il nostro ineffabile ministro dell’Interno quando, dopo il grave ferimento della piccola Noemi, afferma “sto pregando per la bimba napoletana che è finita dove non doveva. I camorristi si ammazzino tra di loro senza rompere le palle alle persone che non c’entrano”. A prescindere dalla considerazione che la bimba era esattamente dove “doveva” essere, cioè in un piccolo parco giochi a due passi dal cuore della Giustizia napoletana, il suo esibito cinismo porta Salvini fuori strada, quando fa intendere che ci possano essere morti “buoni” e morti “cattivi”. Intendiamoci, possono esserci, e ci sono, persone innocenti colpite per errore o per vendetta, e le ricordiamo con dolore e commozione, una per una, E ci possono essere, e ci sono, criminali colpiti per vendetta o per “farsi largo”. Ma non possiamo non pensare che ogni morte è una tragedia: possiamo avere graduatorie istintive nel nostro cuore, ma la nostra mente deve tenere presente questo: che ogni morte è una tragedia. Non possiamo ignorare che ogni morte “colpevole” porta con sé una striscia di sangue che significa la miseria di una famiglia, figli che crescono con il desiderio della vendetta ed il mito della violenza, degrado civile, rivalità per prendere il posto lasciato vacante da chi è caduto, e così via. Il sangue chiama sangue. Ferito un suo gregario, forse che il clan Rinaldi non avrà la forza di rimpiazzarlo, ed a sua volta andare ad aggredire quello dei Mazzarella, in un gioco antico e perverso, cui farà seguito la faccia pulita e severa della repressione? Ma non è così, lo diciamo da tempo, magistrati, forze dell’ordine, intellettuali, preti, insegnanti, non è così che si vince la guerra: il lavoro da fare è nelle retrovie. Più difficile, molto più difficile, occorrerà spiegarlo alla rozzezza delle parole di quel nostro ministro, ma anche all’inerzia, alla passività, all’inconcludenza dei nostri governanti. Il lavoro da fare è altro: è nelle nostre strade, dove deve ricostruirsi un clima di rispetto delle regole ormai desueto, nei nostri ospedali, dove devono ricostruirsi rapporti di fiducie fra paziente e medico, nelle nostre istituzioni, dove chi ha la responsabilità dei territori (Comune, Città metropolitana o Regione che sia) ha il dovere di unire le proprie forze e mostrare ai cittadini un’azione connessa, efficace e coerente, ma soprattutto nelle nostre scuole, dove va curata la disaffezione e l’abbandono dei giovani, e dove i nostri insegnanti devo sentire accanto a loro la fiducia e la vicinanza nostra, di tutti i cittadini, nel lavoro duro e coraggioso che svolgono quotidianamente. Una fiducia ed una vicinanza che si dovranno esprimere, da domani ancor più di oggi, non solo a parole, ma con azioni di volontariato, di partecipazione, di collaborazione a tutte ed a ciascuna delle iniziative che i nostri insegnanti, tanto più nelle “aree di frontiera”, mettono ogni giorno in campo. E con il riconoscimento sociale e politico del loro ruolo e di quello della cultura: di quella cultura, e in questo caso della cultura della legalità, che essi sono chiamati a rappresentare ed a trasmettere ai giovani. Sola azione decisiva per vincere “la guerra”. La camorra si combatte intervenendo sulla durata dei processi di Alfredo Mantovano Il Foglio, 7 maggio 2019 Il caso Noemi ricorda che nella lotta contro il crimine i guai dipendono dai tempi lunghi fra reato e avvio della repressione. La cronaca di ieri ci riporta ancora notizie drammatiche sulla piccola Noemi, la bambina di 4 anni ancora in prognosi riservata ferita per errore qualche giorno fa in un agguato di camorra nel centro di Napoli. Sul tema del contrasto alla camorra ci sarebbero molte cose da dire. Limitiamo le considerazioni al profilo del contrasto. Non perché le iniziative di prevenzione non siano importanti; anzi, sono decisive. È che però una situazione come quella di Napoli esige una radicale bonifica dai personaggi più pericolosi. Napoli ha svariati problemi quanto a repressione penale. Il principale - non esclusivo del capoluogo campano, ma lì fortemente condizionante - è la gran quantità di criminali a piede libero, benché individuati come presunti autori di gravi delitti. Come mai? Quando la polizia giudiziaria conclude una indagine e deposita l’informativa contenente la richiesta all’autorità giudiziaria di emettere ordinanze di custodia cautelare, già è trascorso un certo tempo rispetto al fatto illecito che l’ha originata: un tempo tanto più lungo quanto più l’indagine è stata difficile e complessa. Dal deposito dell’informativa al momento in cui il pubblico ministero presenta al Gip la richiesta del provvedimento restrittivo trascorre altro tempo, mediamente da uno a due anni. Dal momento della richiesta del P.M. al momento dell’ordinanza del Gip si aggiunge un ulteriore segmento temporale, spesso prossimo ai due anni. Tirando semplici somme aritmetiche, che cosa significa? Che, anche a fronte di un crimine serio, i suoi responsabili possono restare in circolazione indisturbati fino a cinque anni. E non è detto che alla fine l’ordinanza venga emessa: se le esigenze cautelari che motivano la custodia in carcere si fondano sul rischio di ripetizione di reati della stessa specie, uno degli elementi di valutazione previsto dal codice di procedura è la distanza temporale dal fatto; non è così semplice motivare sul pericolo di tornare a commettere i medesimi delitti quando il reato per il quale si procede risale a un lustro prima. Finora ho parlato della fase cautelare: il giudizio vero e proprio ha tempi ordinari ancora più lunghi prima di giungere alla sentenza definitiva. Nelle more scadono i termini di custodia cautelare e gli imputati tornano in libertà, benché magari processati e condannati per omicidio o per associazione camorristica, o per entrambi: se gravitano nell’area della camorra è facile immaginare che cosa riprendano a fare, una volta usciti dal carcere. Chi ha responsabilità di governo, nazionale e del territorio, e di esercizio della giurisdizione a Napoli non può eludere questo nodo. Che non è nuovo, ma che non si risolve da solo. Intervistato domenica scorsa da Repubblica, il Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, che ben conosce Napoli per essere stato lì per anni Procuratore della Repubblica aggiunto, ha proposto una riedizione del c.d. modello Caserta: alla fine del 2008, a fronte dell’esplosione criminale nell’area del Casalese, fu istituito un tavolo che per due-tre anni si è riunito con cadenza mensile nella prefettura di Caserta, composto dal ministro dell’Interno - all’epoca Roberto Maroni, che affiancavo o all’occorrenza sostituivo essendo sottosegretario all’Interno con delega alla sicurezza - dai vertici nazionali delle forze di polizia, in primis Antonio Manganelli, che promosse l’iniziativa, dai vertici territoriali delle stesse forze di polizia e della magistratura inquirente. Si individuavano gli obiettivi e si mettevano a disposizione gli strumenti per raggiungerli, e all’incontro successivo si verificava quali risultati si fossero conseguiti, rettificando - se del caso - il tiro con mezzi differenti o rivedendo le priorità. Quel contrasto, coordinato e agganciato al territorio, diede frutti importanti per lo meno sul piano della stretta repressione, permettendo la cattura dei latitanti, la disarticolazione di non pochi clan, il sequestro e la confisca di molti dei loro patrimoni. Per carità, oggi vanno bene i poliziotti in più che il ministro dell’Interno sta inviando a Napoli; ma quando si combatte una guerra - quella alla camorra ha certamente talune caratteristiche di un conflitto bellico, se pur asimmetrico - è pregiudiziale identificare il nemico e le sue modalità operative, e comprendere le ragioni per le quali continua a essere a operativo. E questo non lo fai da solo, pur se sei istituzionalmente autorevole e dotato di mezzi: hai bisogno di condividere con chi è sul posto come indirizzare quei mezzi in modo mirato per coprire le effettive necessità. I tempi intollerabilmente lunghi fra un evento criminale e l’avvio della sua repressione, e quindi la conclusione dell’eventuale giudizio, vanno affrontati non col tratto polemico della critica alla Procura che ci mette tanto o ai Gip che non danno risposte rapide, ma con la concorde identificazione delle cause per le quali ciò avviene. Se si recupera il metodo del lavoro concorde di un decennio fa, si potrebbe scoprire che il primo ufficio che necessita rinforzi non è tanto la Questura, bensì quello del Gip: e qui l’intervento compete al ministro della Giustizia e al Csm, da coinvolgere nel tavolo comune. Si constaterebbe che uno dei limiti delle informative di reato è che spesso esse consistono in malloppi di centinaia, se non migliaia, di pagine, con l’inutile trasposizione al loro interno del contenuto di conversazioni telefoniche, senza un minimo di sintesi e di rielaborazione critica; poiché col meccanismo del “copia e incolla” larga parte di quelle informative sono trasferite pari pari nelle richieste del P.M. e nelle ordinanze del Gip, alla fine del percorso cautelare si hanno provvedimenti illeggibili e scarsamente comprensibili, che rischiano la censura nei gradi successivi di impugnazione. Inviare a Napoli polizia giudiziaria che formi a redigere in modo più efficace le informative - investire personale in questa direzione - serve più che mandare un centinaio di uomini aggiuntivi che operino per strada. Quel che rammarica per Napoli è che la realtà camorristica, oggi molto più che nel passato, appare tutt’altro che invincibile, e lo Stato non parte da zero. Servono però non le urla, gli slogan, la propaganda, lo scarico strumentale di responsabilità, bensì il governo continuativo del contrasto al fenomeno criminale. “Governo” chiama in causa il soggetto che opera e l’atto costante e fattivo del governare. La Napoli complice che accetta l’illegalità di Antonio Mattone Il Mattino, 7 maggio 2019 Mentre la piccola Noemi lotta tra la vita e la morte, la città torna alla sua normalità ancora frastornata dalla terribile sparatoria di piazza Nazionale. L’ennesimo evento tragico che ha colpito la vita fragile di un minore, conferma una bruciante verità: a Napoli l’infanzia è violata. Ancora una volta, e nulla lascia presagire che non accadrà più. E nel momento in cui e vengono riposti gli striscioni della manifestazione di domenica mattina per tornare alla vita di tutti i giorni, va ricordato che l’inferno di fuoco che si è abbattuto venerdì in una strada del centro è solo la punta di un iceberg, al di sotto del quale c’è una violenza diffusa ma ci sono anche una serie di intrecci e attività criminali presenti in molti quartieri e ambiti cittadini. Un sottobosco di trame, di piccole e grandi connivenze e di omissioni che danno linfa e prestigio alla malavita e che riguardano cittadini e istituzioni. Sappiamo che il controllo del territorio viene esercitato attraverso attività illecite come il racket o il parcheggio abusivo a cui si rivolgono molti automobilisti per posteggiare la propria vettura. Ci sono delle zone che sono delle vere e proprie enclave dove non è possibile sostare senza pagare il pizzo. E sappiamo che alcune di queste piazze godono della più totale impunità. I vigili urbani non si vedono mai, sono un vero miraggio. Bisogna dire con chiarezza che sottostare ai parcheggiatori illegali equivale a finanziare e sostenere la malavita. Così come ci sono gli appartamenti occupati abusivamente dalle famiglie camorriste, se non addirittura dati in affitto da enti morali. Una commistione tra legale e illegale che permette ai clan di accreditarsi e di imporsi sotto gli occhi di tutti e che tanti fanno finta di non vedere. E poi ci sono le grandi corruttele, le infiltrazioni mafiose nelle aziende e nelle istituzioni. Solo un mese fa il Procuratore capo Gianni Melillo lanciava l’allarme della presenza di fiduciari dei clan nelle imprese. Un tema assente nel dibattito pubblico che varrebbe la pena di approfondire. Le dichiarazioni del ministro degli Interni Matteo Salvini sul trend positivo dei dati sulla sicurezza destano sconcerto dopo gli avvenimenti che stanno insanguinando la città. “È stato come curare un ferita da arma da guerra” ha detto il medico che ha operato la bambina. Vogliamo comprendere che questa escalation di violenza non risparmia gli innocenti come avviene in una guerra? Forse ha ragione il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho quando dice che “per la politica la camorra non è una priorità”. L’encomiabile opera delle forze dell’ordine non basta per debellare i clan, né serve qualche poliziotto in più per rivoltare la città e per stanare i malavitosi. Ma c’è stato un altro fatto che è emerso durante la manifestazione di domenica. Il figlio di un boss ha preso le distanze dal padre in modo pubblico con una chiarezza esemplare. Un fatto nuovo che viene da un giovane e che può rappresentare una inaspettata iniezione di speranza, una presa di posizione che ha spiazzato un po’ tutti. Un gesto che può avere una grande valenza sia sui figli degli altri camorristi che sui giovani della città. Questo gesto ha bisogno di essere sostenuto non solo esprimendo una sacrosanta indignazione nelle manifestazioni, ma richiede scelte quotidiane di altrettanta presa di distanza dal malaffare, quello piccolo e quello grande. C’è bisogno di una ribellione morale dal basso che stani quella zona grigia apparentemente innocua ma che crea più danni di quanto possiamo pensare, perché entra nelle pieghe e nella mentalità del vivere di tutti i giorni. Una città che si indigna ma che poi accetta tante situazioni che possono sembrare normali ma che invece sono impastate di illegalità,è una comunità complice, che tentenna e cede ai suoi rituali più meschini. Il killer ripreso dalle videocamere di sorveglianza appare goffo, insicuro, non esperto nel maneggiare la pistola, eppure capace di seminare violenza e terrore. Forse l’agguato non è stato causato da motivi legati alla lotta tra i clan, ma da vicende personali. Saranno le indagini a chiarirlo. Tuttavia a Napoli bisogna dire con chiarezza che esiste una emergenza criminalità che va affrontata. Nei frammenti del filmato si intravede anche la piccola Noemi, che distesa in un angolo della strada alza il braccio per due volte, mentre chi gli ha sparato le passa accanto senza preoccuparsi minimamente di lei. Quella mano per terra che chiede aiuto è stata raccolta da un giovane coraggioso che non vuole rassegnarsi alla violenza. Neanche a quella della sua famiglia. E ci spinge a lottare perché ai bambini di Napoli non venga più rubata l’infanzia. Salvini trasforma il caso Siri in un’arma elettorale: “Se i giudici sbagliano, paghino” di Amedeo La Mattina La Stampa, 7 maggio 2019 Il vicepremier chiederà un rinvio della decisione in Cdm, ma Conte considera già chiuso il caso. La Lega non fa cadere il governo, ma Giorgetti avvisa: “Ora autonomia e flat tax o salta tutto”. Matteo Salvini chiederà un rinvio della decisione ma Giuseppe Conte considera già chiuso il caso di Armando Siri. Al Consiglio dei Ministri di domani non ci sarà una conta. Il premier comunicherà la sua volontà di revocare l’incarico al sottosegretario leghista. “Vedrete - ha detto ai giornalisti - mercoledì mattina troveremo una soluzione e si ricomporrà tutto. Non succederà nulla di così clamoroso. Il percorso è stato molto chiaro, molto trasparente e quindi non ci può essere nessuna sorpresa”. L’ottimismo del premier è di maniera perché sa che sul suo ruolo rimarrà una macchia: per i leghisti Conte si è schierato con i 5 Stelle, non è più super partes, un arbitro. Ma lo stesso presidente del Consiglio spiega di non avere mai accettato di fare l’arbitro, “ma di fare il premier, che è concetto ben diverso”. In sostanza, un premier che decide sulla base delle sue convinzioni. Per la Lega invece si è piegato al diktat di Luigi Di Maio e alle esigenze della campagna elettorale di M5S. Ma cosa farà Matteo Salvini e gli altri ministri del Carroccio? Andranno al Consiglio dei ministri per esprimere il loro dissenso, ma alla fine prenderanno atto della decisione del premier, aprendo una fase di conflittualità serrata sulle questioni economiche, sullo sblocca-cantieri, sull’autonomia regionale, la riduzione delle tasse a famiglie e imprese. “I giornalisti mi dicono: “mercoledì c’è un consiglio dei ministri sulle dimissioni di Tizio di Caio”. Quello mi interessa poco, per me mercoledì è una giornata importante perché vengono al Ministero dell’Interno le principali comunità di recupero dei tossicodipendenti perché voglio una legge che metta in galera gli spacciatori il giorno in cui vengono beccati”. Ma Salvini non si limiterà ad ascoltare. Dirà che la decisione presa da Conte non è stata concordata, discussa, è unilaterale. Non c’è stata nemmeno l’accortezza di aspettare che Siri incontrasse i magistrati. Insomma, nemmeno l’onore delle armi. Conte e Di Maio fanno un altro ragionamento: dicono che comunque del sottosegretario non si fidano più perché aveva spinto su un emendamento per favorire non l’interesse generale ma quello di un imprenditore, Paolo Arata, in società con Vito Nicastri, accusato di essere vicino alla mafia. Salvini però insisterà, chiederà di rinviare la decisione, di attendere l’incontro di Siri con i magistrati, ben sapendo che un rinvio verrà concesso. Intanto, non ha chiesto a Siri di dimettersi, almeno fino a ieri. Nella Lega finora tutti escludono che possa chiederglielo per evitare di arrivare al Consiglio dei ministri con una situazione di stallo. In ogni caso, il ministro dell’Interno non aprirà una crisi di governo sul caso Siri. “Il governo va avanti - avverte Giancarlo Giorgetti - se sarà in grado di fare bene le cose che abbiamo promesso di fare. Il governo è a rischio se non fa le cose che ha promesso di fare. Dobbiamo confrontarci con gli alleati su quanto ancora c’è da fare”, aggiunge Giorgetti, mettendo al primo posto l’autonomia regionale. “Su questo punto e sull’introduzione della flat tax occorre andare avanti”. Ma c’è un aspetto che comincia a venire evidenziato dalla Lega. Una volta preso atto della decisione di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio, emergerà l’anima “giustizialista” dei 5 Stelle. Siri sarà innalzato al ruolo della vittima e Salvini potrà mandare al suo elettorato lo stesso messaggio che in passato mandava Silvio Berlusconi agli elettori del centrodestra quando era lui sulla graticola della giustizia. Lo stesso elettorato che più lo attaccavano e più votava il leader di Forza Italia. Hanno forse questo senso le parole di Giorgetti che parla di “evidente clima persecutorio nei confronti di Siri”. Al sottosegretario viene pure contestato un mutuo, ricorda Salvini: “Allora è un reato che stanno compiendo milioni di italiani. Io sono tranquillo, possono aprire tutte le inchieste che vogliono”. Poi il capo della Lega aggiunge che “i processi sono troppo lunghi, bisogna cambiare”. “Ed io penso che anche i giudici come tutti i lavoratori se sbagliano devono pagare”, afferma Salvini durante il comizio in piazza Portanova a Salerno. Messaggi chiari e una vittima sacrificale come Siri gli fa pure comodo. Cucchi, medici verso la prescrizione. Il pg: “Una sconfitta per la giustizia” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 7 maggio 2019 La richiesta e le considerazioni del Procuratore generale: “Per salvarlo bastava un po’ di umanità”. “Processo iniziato male e finito peggio”. Ilaria: “Sette anni di depistaggi”. Una prescrizione che rappresenta anche una sconfitta della giustizia. Così, nove anni dopo, invocando l’estinzione del reato (omicidio colposo) nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, primario e medici del “Sandro Pertini” dove Stefano Cucchi, detenuto, morì, il procuratore generale Mario Remus sottolinea la resa giudiziaria implicita in questo (inevitabile) passaggio. Perché qualunque sia, a questo punto, l’esito del processo bis nei confronti dei carabinieri accusati di aver picchiato Cucchi, o di quello eventuale verso ufficiali e sottoufficiali che, secondo la nuova inchiesta della Procura, depistarono le indagini, è certo che nel reparto dell’ospedale “Pertini” si verificarono “negligenze imperdonabili”. Di più: è lecito parlare, secondo Remus, di una mancanza di “umanità” da parte dell’ospedale. Non solo Cucchi non fu trattato con la dedizione e il riguardo che meritava. Ma, come sottolinea anche l’avvocato del Campidoglio (parte civile), Enrico Maggiore, ci furono lacune e superficialità imperdonabili. “Stefano era collaborativo” - Neppure la disidratazione del paziente fu rilevata. Un fatto che, per il pg, rappresenta l’indice “di una trascuratezza inammissibile e di una sciatteria che imperversava in quell’ambiente”. Dunque l’accusa di omicidio colposo nei confronti degli imputati, pur in via di prescrizione, appare supportata da elementi incontrovertibili né è vero che il ragazzo non collaborasse: “Cucchi - dice Remus - era un paziente difficile sotto l’aspetto psicologico ma non è vero che non collaborava. Un tocco di umanità sarebbe bastato per salvarlo”. Da quei medici, conclude l’accusa, non fu ascoltato “dal punto di vista sanitario e da quello psicologico”. La fase della verità - Quanto al primo processo, messo in piedi tra “imputazioni traballanti” nei confronti dei medici e accuse ingiustificate nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, è “iniziato male” e proseguito “peggio”. L’esito - prescrizione per i sanitari del Pertini - è frutto dei depistaggi dell’Arma secondo la famiglia Cucchi. In questa direzione il commento dell’avvocato Fabio Anselmo: “Credo che la dichiarazione di prescrizione sia lo stigma finale di sette anni di depistaggi dei quali, dal 21 maggio (giorno in cui è fissata l’udienza davanti al gip per gli otto carabinieri indagati dal pm Giovanni Musarò, ndr) in poi, saranno chiamati a rispondere generali e alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri”. Sul punto interviene anche la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: “Un processo del tutto sbagliato fatto a spese e sulla pelle della nostra famiglia che ha pagato un prezzo altissimo ma che, fortunatamente, oggi si trova in una fase completamente diversa. Una fase di verità, arrivata grazie al nostro impegno e soprattutto a quello di Fabio Anselmo, ma anche grazie alla presenza di tutti coloro che, in tutti questi anni, non ci hanno mai abbandonati perché da soli non si fa niente”. Condizionale con risarcimento. Sospensione della pena solo a chi ripaga i danni del furto di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 7 maggio 2019 È quanto previsto dalla riforma sulla legittima difesa, pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Se non si risarcisce il derubato, niente condizionale. Nella legge sulla legittima difesa allargata, la tutela della persona offesa vince sui benefici per l’imputato. Si tratta di una regola che vale, nel caso di condanna per furto in appartamento o per furto con strappo. Trattandosi di una nuova disciplina che incide in pejus sul trattamento sanzionatorio, essa non potrà avere effetti che per i futuri fatti di furto. Ma la regola potrebbe giocare effetti disincentivanti ex novo. Peraltro questo, come altri punti della neonata legge n. 36/19 del 26 aprile 2019 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 102 del 3 maggio 2019), non mancano di spunti di discussione, ogni volta che si pensi a come si calerà nel concreto. La norma (nuovo sesto comma dell’articolo 165 del codice penale) si limita a prescrivere che nel caso di condanna la sospensione condizionale della pena deve comunque essere subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. Le praterie lasciate da questa formulazione sono sconfinate. Ad esempio, nulla si dice a proposito di chi debba effettuare il pagamento, ed in particolare non si dice se l’imputato potrà avvantaggiarsi della sospensione condizionale quando il pagamento è fatto da un terzo (ad esempio un familiare). La logica della meritevolezza individuale del beneficio della sospensione condizionale porterebbe a dire che a pagare debba essere l’imputato. Una logica sostanziale porterebbe, invece, a dire che la vittima non debba perdere il risarcimento se effettuato da un terzo e che, quindi, anche il pagamento del terzo potrebbe essere rilevante. Nulla si dice, poi, a proposito dei tempi e di eventuali rateizzazioni: l’imputato o chi per esso può pagare un po’ alla volta. Questo può avere una rilevanza processuale? La norma parla di pagamento integrale e non di promessa di pagamento. Anche qui una strada potrà e dovrà essere trovata nelle aule di giustizia. Non è per nulla affrontato, poi, il caso di incapacità incolpevole a pagare. Se uno non può proprio pagare perché povero, privo di redditi e privo di proprietà, ci sono chance di recupero della sospensione condizionale? La risposta negativa significa dire di no a chi potrebbe meritare il beneficio, ma non ha denari. Prevedibile che di tutto ciò di discuterà davanti alla Corte costituzionale. Peraltro non è da escludersi una valutazione a priori, da parte della legge, di un elemento di meritevolezza della sospensione condizionale agganciata a una resipiscenza operosa e fattiva del responsabile. Nelle aule di giustizia ai giudici spetterà poi di giudicare sulla quantificazione del danno. La sospensione condizionale è subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. Quell’aggettivo “integrale” agiterà le discussioni di difensori e pubblici ministeri. La valutazione dell’integralità del risarcimento può dipendere dalla stima de bene sottratto, o da altri parametri più o meno oggettivi. Anche qui possono essere evidenziate posizioni diverse. Ma c’è comunque il danno morale, che ha una sua volatilità. Certo che il riconoscimento da parte della persona offesa di essere stata integralmente risarcita non potrà essere messo in discussione. Ma la contestazione da parte della persona offesa, che chiede/pretende un risarcimento maggiore non potrà essere un veto. Ecco allora che il giudice dovrà valutare se la cifra sia o meno satisfattiva, aprendo la strada a possibili impugnazioni da parte della persona offesa. Si inserisce nel discorso della vita in salita della norma in commento anche il rilievo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale nel promulgare la legge ha segnalato che l’articolo 3 della legge subordina al risarcimento del danno la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena, nel caso di condanna per furto in appartamento o per furto con strappo ma che lo stesso non è previsto per il delitto di rapina. Secondo il capo dello stato il trattamento differenziato tra i due reati non è ragionevole poiché gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina. Sciopero avvocati: adesione non valida solo se tutti i reati si prescrivono nei 90 giorni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 6 maggio 2019 n. 18844. L’adesione del difensore allo sciopero non è valida solo se tutti i reati per i quali si procede si prescrivono nel termine dei 90 giorni previsto dal Codice di autoregolamentazione, e non solo uno o alcuni di essi. La Corte di cassazione, con la sentenza 18844, detta un principio di diritto da applicare nel caso in cui il difensore chieda il rinvio del processo per la sua adesione all’astensione proclamata dalla categoria quando uno solo dei reati contestati si prescrive entro i 90 giorni. La Suprema corte analizza l’articolo 4 sul codice di autoregolamentazione, anche alla luce delle linee guida diffuse dal primo presidente Canzio a luglio 2017. I giudici ricordano che l’astensione, in materia penale, non è consentita nei processi in cui la prescrizione matura durante lo “sciopero” o, per quelli pendenti nel giudizio di legittimità, entro 90 giorni. Nel procedimento esaminato, nella dead line dei 90 giorni rientrava solo il primo termine di prescrizione del reato, perché il fatto era stato contestato in più momenti. Per alcuni di essi dunque la dichiarazione di astensione si sarebbe potuta accogliere, mentre la stessa cosa non poteva accadere per i reati con prescrizione ravvicinata. Ad avviso dei giudici si tratta di valutare se esista una margine di discrezionalità, che consenta di ritenere prevalente l’esigenza difensiva di garantire l’assistenza legale, sull’interesse dello Stato alla prosecuzione del giudizio, visto il prossimo maturare del termine di prescrizione. Il collegio privilegia l’esigenza difensiva e sceglie la via più aperta. La Suprema corte sottolinea che l’articolo 4 non può ritenersi tassativo, come emerge dalle linee guida in tema di “astensione dei difensori dalle udienze penali” diffuse dal primo presidente della Cassazione, per stabilire criteri uniformi da seguire riguardo a problemi organizzativi. Criteri nei quali si attribuisce al collegio un margine di discrezionalità nelle ipotesi non espressamente previste anche dalle linee guida “con speciale riguardo al bilanciamento, pure eccezionale, del diritto costituzionalmente protetto del difensore con altri diritti parimenti garantiti”. E il caso esaminato non è chiaramente regolamentato dal Codice di autoregolamentazione, che parla genericamente di processi con reati la cui prescrizione maturi entro 90 giorni dal periodo di astensione. La Suprema corte fa la scelta più “permissiva” secondo la quale l’astensione non è valida solo se tutti i reati si prescrivono nei 90 giorni. Una via che assicura al difensore la possibilità di esercitare una facoltà garantita dalla Costituzione, ed è priva di conseguenze per il processo, perché l’accoglimento della richiesta del legale sterilizza il corso di prescrizione per tutti reati oggetto del giudizio. Nuove sanzioni antiriciclaggio, favor rei anche per la banca di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2019 Cassazione n. 11774. In materia di antiriciclaggio, anche la banca può giovarsi dell’applicazione retroattiva e d’ufficio, da parte della Cassazione, delle sanzioni previste dal Dlgs n. 90 del 2017 se più favorevoli. La nuova normativa che attua la direttiva (UE) 2015/849, può dunque applicarsi anche ai procedimenti in corso, e nonostante le sanzioni siano già state comminate, qualora tenuto conto dei nuovi parametri esse risultino nel complesso meno penalizzanti per chi ha commesso l’illecito. Persona fisica o anche giuridica. Lo ha stabilito la Suprema corte, sentenza 11774 di oggi, giudicando sul caso di una omessa segnalazione di operazioni sospette da parte dell’istituto di credito. La vicenda - Nel 2010 il ministero dell’Economia aveva sanzionato il direttore della banca e, in via solidale, l’istituto, per 42mila euro per via del mancato alert in merito a “ripetute e consistenti operazioni bancarie” svolte nel corso del 2004 da parte di un cliente. Proposto ricorso, prima il tribunale di Bergamo e poi la Corte di appello di Brescia avevano dichiarato la prescrizione nei confronti del dirigente ma non della banca. Le motivazioni della Suprema corte - Una lettura fatta propria dalla Cassazione secondo cui “l’obbligazione del corresponsabile solidale è autonoma rispetto a quella dell’obbligato in via principale e, pertanto, non viene meno nell’ipotesi in cui quest’ultima, ai sensi dell’art. 14, ultimo comma, della legge n. 689 del 1981, si estingua per mancata tempestiva notificazione”. L’obbligato solidale che abbia pagato la sanzione, precisa la decisione, conserva però l’azione di regresso. Riguardo poi i tempi della contestazione nei confronti della banca, la sentenza ricorda che “l’accertamento da cui fare decorrere il termine per la notifica della contestazione si ha allorché la amministrazione non solo ha avuto contezza degli elementi posti a base della contestazione (nella specie, mediante appunto l’autorizzazione del PM all’utilizzo dei dati raccolti nel procedimento penale), ma li ha altresì coordinati e verificati”. E dunque non vi era stato alcuno sforamento dei tempi per quanto riguarda l’istituto. Tornando alla applicazione del favor rei, la Cassazione, richiamando i precedenti nn. 20647 e 20648 del 2018 che avevano sciolto positivamente il dubbio relativo ad un caso analogo (relativo però a due manager bancari) in cui discuteva della possibilità di applicare la nuova normativa alle violazioni antecedenti il Dlgs 90/2017, ha affermato che “in materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione”. “Né - prosegue - tale conclusione contrasta con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata”. Per cui, conclude la sentenza, si impone “il rinvio alla Corte territoriale perché valuti se, in relazione all’illecito commesso dalla Banca ricorrente, debba ritenersi in concreto più favorevole il regime sanzionatorio di cui al decreto legge n. 143/1991 o quello di cui al decreto legislativo n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017 e, in questa seconda ipotesi, ridetermini il trattamento sanzionatorio alla stregua della normativa sopravvenuta”. Alcol, dubbi sul no alla cancellazione dal certificato penale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 17270/2019. La Consulta dovrà tornare a pronunciarsi su reati stradali: la Cassazione, con l’ordinanza n. 17270 del 19 aprile, ha sollevato questione di legittimità costituzionalità sulla disciplina in materia di casellario giudiziale (Dpr 313/2002), dove prevede che le sentenze di condanna per il reato di guida in stato di ebbrezza a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità, poi dichiarato estinto per positivo svolgimento dello stesso, risultino nei certificati del casellario chiesti dall’interessato. La non menzione, oggi, opera automaticamente per patteggiamento e decreto penale di condanna e va qualificata - come chiarito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 223/1994) - come incentivo ad accelerare la definizione del processo. Peraltro, anche la riabilitazione e l’estinzione del reato a seguito del trascorso positivo del periodo di sospensione condizionale della pena comportano la cancellazione delle condanne dai certificati del casellario. Non garantire analogo beneficio a chi, con il lavoro di pubblica utilità, abbia volontariamente svolto un percorso di condotte in favore della collettività pare irragionevole. Ma le argomentazioni decisive fanno leva sulla recente sentenza n. 231/2018 della Consulta, che ha dichiarato l’incostituzionalità della normativa in materia di casellario perché non prevedeva l’esclusione, nei certificati chiesti dai privati, dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova e della sentenza che dichiara l’estinzione del reato a seguito del lavoro svolto. I due istituti - sospensione del procedimento penale con messa alla prova e svolgimento del lavoro di pubblica utilità - sono infatti riconducibili a un unico comune denominatore: valorizzare la risocializzazione attraverso lo svolgimento volontario di attività gratuita per la collettività. In questi casi, non premiare l’interessato con la non menzione appare ingiustamente punitivo, dato che il precedente costituisce un pregiudizio reputazionale agli occhi dei terzi (come il potenziale datore di lavoro), che va confinato nel certificato a uso esclusivo del giudice, per garantire che la sostituzione della pena non venga concessa una seconda volta. Peccato che la riflessione della Cassazione non sia stata prima colta dal legislatore, che avrebbe potuto risolverla all’interno del Dlgs 122/2018 (modifica della normativa in materia di casellario giudiziale), prevedendo, come stabilito dalla Corte costituzionale, la non menzione nel certificato chiesto dall’interessato (che diventa unico) delle sentenze che hanno dichiarato l’estinzione del reato a seguito del buon esito della messa alla prova. Si sarebbe potuto evitare un nuovo intervento della Consulta, il cui esito appare scontato. L’esimente della legittima difesa è esclusa in ipotesi di reciproca condotta violenta Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2019 Reato - Cause di giustificazione - Legittima difesa - Difesa non proporzionata all’offesa - Esclusione dell’esimente. Non può applicarsi l’esimente della legittima difesa nel caso in cui il soggetto aggredito abbia reagito non a scopo di difesa della propria persona ma con evidente proposito di vendetta nei confronti del soggetto agente, configurandosi una difesa non proporzionata all’offesa. Nel caso in esame l’aggressore era stato condannato dai giudici di merito per il reato di percosse mentre la parte aggredita, con una reazione particolarmente violenta, colpendo più volte, aveva provocato gravi lesioni personali ed era stato dunque condannato per il reato di cui all’art. 582 c.p. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 aprile 2019 n. 17787. Reato - Cause di giustificazione - Difesa legittima - In genere - Volontaria determinazione dello stato di pericolo - Compatibilità con la legittima difesa reale o putativa - Esclusione - Fattispecie. Non è invocabile la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, da parte di colui che abbia innescato o accettato un duello o una sfida, ovvero abbia attuato una spedizione punitiva nei confronti dei propri avversari, mancando, in tal caso, il requisito della convinzione - sia pure erronea - di dover agire per scopo difensivo. (Fattispecie in cui l’imputato, avvertito che fuori dal locale pubblico in cui si trovava lo attendeva un gruppo avversario, pur potendo fare ricorso alle forze dell’ordine per sventare il pericolo di un’aggressione, usciva all’esterno armato di un coltello a serramanico, colpendo all’addome uno dei rivali). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 1° agosto 2018 n. 37289. Reato - Cause di giustificazione - Legittima difesa - Invocabilità da parte di chi accetti una sfida - Esclusione - Eccesso colposo - Esclusione. Non è invocabile la legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida oppure reagisca a una situazione di pericolo volontariamente determinata o alla cui determinazione egli stesso abbia concorso e nonostante disponga della possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore. Né, in ogni caso, può essere configurato l’eccesso colposo previsto dall’articolo 55 del codice penale, in mancanza di una situazione di effettiva sussistenza della singola scriminante, di cui si eccedono colposamente i limiti. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 19 luglio 2018 n. 33707. Reato - Cause di giustificazione - Difesa legittima - Necessità di difesa. La configurabilità dell’esimente della legittima difesa deve escludersi nell’ipotesi in cui lo scontro tra due soggetti possa essere inserito in un quadro complessivo di sfida giacché, in tal caso, ciascuno dei partecipanti risulta animato da volontà aggressiva nei confronti dell’altro e quindi, indipendentemente dal fatto che le intenzioni siano dichiarate o siano implicite al comportamento tenuto dai contendenti, nessuno di loro può invocare la necessità di difesa in una situazione di pericolo che ha contribuito a determinare e che non può avere il carattere della inevitabilità. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 gennaio 2000 n. 365. Sassari: detenuto ucciso in carcere, tre ergastoli in appello Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2019 La Corte li ha ritenuti responsabili dell’omicidio di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nel 2008 in una cella del carcere di San Sebastiano a Sassari, morte archiviata inizialmente come suicidio. Tutti gli imputati erano stati assolti in primo grado. Altri due agenti della Penitenziaria prescritti per favoreggiamento. Fine pena mai. La Corte d’appello di Sassari ha ribaltato la sentenza di primo grado condannando all’ergastolo Pino Vandi, Nicolino Pinna e l’agente penitenziario Mario Sanna, ritenendoli responsabili dell’omicidio di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nel 2008 in una cella del carcere di San Sebastiano a Sassari, morte archiviata inizialmente come suicidio. Tutti gli imputati erano stati assolti in primo grado nel giugno 2014, ma il pg Gian Carlo Moi aveva chiesto il massimo della pena alla giuria popolare presieduta dalla giudice Plinia Azzena. Il dibattimento si è aperto dopo le rivelazioni di un altro detenuto, il pentito Giuseppe Bigella, che nel 2011 confessò di aver ucciso Erittu, con l’aiuto di Pinna e su commissione di Pino Vandi, anche loro rinchiusi a San Sebastiano, e con la collaborazione dell’agente Sanna. A giudizio c’erano anche altri due agenti penitenziari, Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda, accusati di favoreggiamento ma per entrambi il pg aveva chiesto il proscioglimento per prescrizione del reato. Faedda è stato però condannato a 3 anni e 4 mesi per le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti nel settembre 2011 quando fu riaperta l’inchiesta. Prima della camera di consiglio l’imputato Pinna aveva rilasciato una dichiarazione spontanea. “Volevo sottolineare che conoscevo bene Erittu, siamo cresciuti assieme, era un mio amico, ed ero amico di tutta la sua famiglia - ha detto rivolgendosi alla Corte - Io non sono un violento, non sono mai stato condannato per atti di violenza. Dopo il carcere mi stavo rifacendo una vita, e adesso ho perso tutto. Avevo aperto un bar, e ho dovuto svenderlo, ho perso la mia famiglia. Ho perso tutto”. Erittu era rinchiuso in una cella liscia, perché in qualche occasione aveva manifestato la volontà di uccidersi. Per questo motivo, spiega la Nuova Sardegna, la sua morte avvenuta per strangolamento con una coperta fu da subito archiviata come suicidio. Dopo tre anni però Bigella, portotorrese detenuto per l’omicidio a coltellate di una gioielliera durante una rapina nel 2005, aveva deciso di collaborare con gli inquirenti confessando di aver partecipato al delitto per metterlo a tacere, poiché a conoscenza di informazioni importanti riguardo alla mala sassarese e barbaricina. Il reo confesso è stato condannato con rito abbreviato dal Gup di Cagliari a 14 anni di carcere. Benevento: Radicali in visita nel carcere “per i detenuti i soliti problemi” di Fabrizio Ferrante e Sarah Meraviglia ntr24.tv, 7 maggio 2019 Giovedì scorso, 2 maggio, una delegazione dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo si è recata in visita presso il carcere di Benevento. L’iniziativa faceva parte di un ciclo di ingressi in carcere che ha incluso anche Bellizzi Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi, mentre il prossimo 18 maggio sarà la volta di Ariano Irpino. Il carcere di Benevento, diretto da Claudio Marcello, ospita al momento 402 detenuti (in circa 450 posti) di cui 5 semiliberi, 22 giovani adulti, 60 in attesa di primo giudizio, 40 in attesa di appello, 27 ricorrenti, 226 definitivi e 48 con una posizione giuridica mista, 85 donne e 37 con tossicodipendenze certificate (alcuni in terapia con il Sert). Il 65% dei detenuti si trova recluso a causa di reati collegati all’art.74 del testo unico in materia di stupefacenti. Punto dolente è il rapporto dei ristretti con la magistratura di sorveglianza, non presente spesso in istituto e anzi a tal proposito i detenuti lamentano la totale assenza dei magistrati. A parziale scusante, va ricordato che la magistratura competente oltre ad occuparsi dei detenuti di Benevento ha in carico le carceri di Avellino, Lauro, Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi, è evidente dunque che vi siano enormi difficoltà su questo fronte. Gli educatori presenti in istituto sono sei, un buon numero se comparato alla media degli educatori presenti in altre strutture detentive ma di gran lunga non sufficiente. Il direttore Marcello, che ha iniziato la sua carriera nelle carceri italiane prima da educatore e poi da direttore, tiene in maniera particolare a queste figure, presenze assolutamente non marginali ma fondamentali in carcere. In molte strutture detentive l’educatore viene declassato (talvolta anche per volontà sua) a mero animatore, una persona che si fa carico del compito di intrattenere i detenuti. Ma la normativa in realtà dice tutt’altro sul conto del mestiere-missione di costui: egli ha il compito di seguire il detenuto nel suo percorso rieducativo, osservando e certificando come il piano trattamentale offerto dall’istituto influisca sul soggetto. Il direttore Marcello sogna un carcere con almeno un educatore per reparto (se non due) in maniera tale da consentire un contatto più diretto tra detenuto ed educatore, circostanza che permetterebbe al primo di essere seguito da una figura professionale alla quale ha diritto e all’altro di svolgere in maniera piena la propria professione. Per quanto riguarda la sanità, l’impressione è sempre la stessa rispetto a quanto emerso in altre visite, come nel carcere di Bellizzi Irpino ma anche altrove: infatti, a Benevento l’Asl sembra considerare la sanità penitenziaria come un compito ingrato e proprio per questo motivo, molto spesso i responsabili degli istituti si trovano a dover dare agli stessi medici indicazioni sul da farsi e sugli standard minimi che vanno rispettati (compito che attualmente non spetterebbe al direttore). In questa struttura, che presenta anche un’articolazione di salute mentale, gli specialisti ci sono e si fa in modo che questi effettuino visite frequenti, con cadenza almeno settimanale. Tuttavia ciò non sempre è possibile e talvolta si sono verificati periodi di forte carenza di specialisti. Qualche mese fa, ad esempio, per quasi tre mesi è mancata in struttura la figura del ginecologo, situazione chiaramente inaccettabile in un istituto di pena che conta ben 85 signore. Lo psichiatra risulta presente in struttura tre volte la settimana, in ordine ai disturbi psichiatrici la responsabile dell’articolazione di salute mentale del carcere di Benevento ci racconta che il 70% dei disturbi presenti tra i detenuti sono qualificabili come “borderline”, disturbi cioè non necessariamente psichiatrici ma comportamentali, spesso nati proprio dalla ristrettezza della vita carceraria. In seguito alla chiusura degli Opg, molti detenuti con patologie psichiatriche borderline sono stati ritenuti idonei alla vita carceraria, il problema è proprio questo: il carcere è concepito come una discarica sociale. Infatti le Rems sono troppo poche e i detenuti che non riescono ad essere gestiti lì vengono rispediti in cella, contemporaneamente neanche le articolazioni di salute mentale sono sufficienti (sebbene qui in Campania ve ne sia una per provincia). Per risolvere questo problema e per tutelare la salute di questi detenuti ancora più vulnerabili, servirebbe l’implementazione di misure alternative al carcere, affermano all’unisono dottori e direttore. Il carcere di Benevento risale agli anni 80 e, sul piano strutturale, è composto da: il reparto giudiziario che prevede quattro piani in cui figurano altrettante sezioni di detenuti in alta sicurezza, due sezioni di detenuti in media sicurezza (i cosiddetti comuni) l’articolazione psichiatrica e l’infermeria. In un’ala a parte sono presenti invece il reparto femminile, quello dei sex offender e quello dei detenuti semiliberi lavoranti ex art 21. La struttura prevede il regime delle celle aperte per più di otto ore al giorno durante le quali i detenuti hanno la possibilità di spostarsi da una cella all’altra e di recarsi presso la sala di socialità del proprio reparto (una sorta di saletta giochi, con tavoli da ping pong, tavolo e sedie in plastica, in cui i detenuti possono chiacchierare e intrattenersi). L’istituto presenta inoltre sei stanze adibite a palestra, pur se con pochi macchinari a disposizione dei detenuti. L’offerta del carcere di Benevento sul piano culturale e formativo spazia su più campi: i detenuti hanno infatti la possibilità di frequentare l’istituto alberghiero, percorso scolastico particolarmente utile (soprattutto al Sud) ai fini della ricerca di un impiego una volta ottenuta la libertà. Questo percorso scolastico impegna al momento 100 detenuti. Vi sono poi corsi di alfabetizzazione per italiani e stranieri e corsi di teatro. Per le detenute è previsto un corso di scuola superiore indirizzo arte e moda. La struttura offre inoltre ai detenuti un singolare corso di copisteria musicale che prevede la trascrizione al computer di spartiti musicali, quest’attività occupa al momento sei detenuti e prevede un corso di formazione della durata di due anni con successivo impiego entro le mura carcerarie. È stato poi attivato un corso di pasticceria, anch’esso finalizzato ad un futuro inserimento lavorativo. Partiranno a breve alcuni corsi di formazione regionale riguardanti l’edilizia e la professione di estetista. Gli altri detenuti si accontentano di lavorare, con turni di sei mesi ciascuno, alle dipendenze della struttura stessa nei ruoli di spazzino, cuoco o addetto alle pulizie. Secondo il direttore - che ha avuto modo di intrattenersi con la delegazione radicale durante la visita - quello di Benevento è un carcere “aperto” verso l’esterno che interagisce piuttosto bene con la società civile e con le istituzioni. Alla delegazione radicale sono dunque apparse evidenti anche a Benevento le medesime criticità rilevate nel carcere di Bellizzi Irpino (sempre nella giornata di giovedì 2 maggio) e in altre strutture: ovvero, oltre a un rapporto difficile con la magistratura e l’ufficio di sorveglianza, un’offerta formativa e di inserimento occupazionale non ancora in linea con le aspettative dei detenuti, senza dimenticare l’annosa e irrisolta questione della sanità penitenziaria, ben lontana da standard accettabili. Catanzaro: maestri cestai, dietro le sbarre un’arte antica di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 7 maggio 2019 Antonella Mannarino e Caterina Mirarchi da 7 anni curano un laboratorio nel carcere di Catanzaro. Attraverso l’associazione “Amici con il cuore” si recupera la tradizione calabra della lavorazione degli intrecci. E i detenuti della sezione di Alta sicurezza realizzano oggetti d’artigianato con carta e materiali riciclati. La prima volta che sono entrata in carcere avevo molto timore. Ti colpisce il contatto con l’ambiente: arrivi e chiudono una porta, vai avanti e ne chiudono altre: ci si sente in trappola. Poi ho conosciuto detenuti di un’educazione straordinaria e con le mani d’oro. Quando lavorano cercano la perfezione, si mettono continuamente in discussione”. Doveva proporre ai carcerati un corso d’arte della durata di un mese e mezzo. Invece sono già sette anni che, due volte a settimana e per undici mesi l’anno, Antonella Mannarino, maestra d’arte, insieme con Caterina Mirarchi, insegnante, varca la porta del carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro. Costruito nel 1993, in via Tre Fontane, è il più grande della regione. Ospita 700 detenuti nei suoi tre padiglioni, fra cui quello di alta sicurezza dove si trova il laboratorio dell’associazione “Amici con il cuore” che la maestra ha fondato nel 2012 con un gruppetto di amiche. Non pensavano al carcere: “Macché, volevamo fare qualcosa per aiutare l’ambiente, sensibilizzare sui temi del riciclo. E abbiamo pensato di recuperare un’arte antica calabrese, quella dei restai che lavoravano con la iuta, il salice, le canne, secondo la tecnica detta “ad uno o a due tessitori”. Ho studiato queste trame e abbiamo cominciato a preparare oggetti di carta intrecciata: cesti, borse, cappelli, lampadari”. Oggetti così belli da attirare l’attenzione di una educatrice del carcere, Letizia De Luca, che propone all’associazione di tenere un laboratorio nel penitenziario. Da quando ci sono loro, i muri dei corridoi dell’“Alta sicurezza” sono tappezzati con le fotografie dei luoghi più belli della Calabria (castelli sul mare, monti e scogliere), sistemate nelle cornici intrecciate realizzate dai detenuti che lavorano in gruppi da quindici-venti e riutilizzano la carta dei giornali e altri materiali che provengono dal carcere. Come le vecchie confezioni del caffè. L’associazione ha esteso il progetto ai ragazzi dell’Istituto Penale per Minori “Paternostro” e della Comunità Ministeriale. La soddisfazione più grande è sapere che grazie a quei cestini qualche detenuto, riacquistata la libertà, ha scoperto di avere un mestiere fra le mani. È il caso di Nicola (nome di fantasia), 57 anni, che prima di uscire le aveva detto: “Non voglio più tornare qui dentro: diventerò un uomo buono”. Promessa che rinnova ogni giorno quando sistema in strada la sua bancarella di cesti da vendere ai turisti. “Insegnare in carcere mi ha fatto capire che un uomo in un attimo può sbagliare, ma dentro di lui - conclude Mannarino - c’è sempre una parte buona, che viene fuori se alimentata. E l’arte può aiutare”. Da nove anni il carcere di Catanzaro è diretto da Angela Paravati: “Le volontarie di “Amici con il cuore” sono tutte donne e hanno una sensibilità particolare per trattare con i detenuti. La donna, in fondo, è l’educatrice della famiglia e i carcerati ritrovano in loro questa figura”, spiega. Il laboratorio del riciclo, come gli altri attivati nel penitenziario, “non è un passatempo ma un lavoro di pazienza e concentrazione. C’è un bel clima e il rientro in sezione è più sereno”. I lavori che poi sono messi in vendita dall’associazione “servono a contrastare il pregiudizio in una società che non è pronta ad accogliere chi ha alle spalle un periodo di detenzione. E questo - aggiunge - può essere una spinta per tornare a delinquere”. Senza contare la piaga sociale dei tossicodipendenti, che si macchiano di reati per procurarsi la droga, o dei malati psichiatrici. “Il carcere deve essere prima di tutto un’occasione di comprensione di ciò che hanno compiuto. Per questo facciamo frequentare corsi di mediazione, in cui i detenuti incontrano le associazioni dei famigliari delle vittime”. Uno dei successi? “Un ex detenuto ed ex tossicodipendente che ora si dà da fare per abbellire la sua città con murales e mosaici”. Piacenza: nel carcere maturano le fragole della solidarietà piacenzasera.it, 7 maggio 2019 Arrivano nei supermercati le fragole del carcere di Piacenza. Da metà maggio i piacentini potranno infatti acquistare e gustare le fragole biologiche del progetto “Ex Novo”. Promossa dalla cooperativa sociale l’Orto Botanico, con il sostegno di Fondazione Cattolica Assicurazione, Università Cattolica del Sacro Cuore e di Geoponica s.r.l., l’iniziativa prevede la coltivazione dei frutti sia in pieno campo che in serra fuori suolo e mira a costruire percorsi di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. I detenuti selezionati dalla direzione penitenziaria (nel video la testimonianza di Marco, 34enne detenuto che lavora da un mese al progetto) hanno l’opportunità di svolgere l’attività lavorativa in carcere, usufruire di corsi di formazione e percepire una retribuzione, iniziando così un cammino di crescita e di riscatto, sia personale che sociale, da portare avanti anche una volta tornati in libertà. Come spiegato nella mattinata del 6 maggio alla Casa Circondariale delle Novate da tutti i rappresentanti delle realtà coinvolte nell’iniziativa, i detenuti che partecipano al progetto “Ex Novo” sono al momento due, ma per la fase di raccolta e confezionamento, che avverrà a breve, è previsto il coinvolgimento di altre due persone. “Oggi presentiamo l’esito di un percorso iniziato qualche tempo fa e che vogliamo portare avanti in futuro - ha spiegato Maria Gabriella Lusi, direttrice del carcere di Piacenza - Il carcere è un luogo di vita e di lavoro, è importante quindi che i detenuti capiscano come con questo progetto le loro giornate acquisiscono un valore sempre maggiore”. “Si tratta di una sfida a 360 gradi” - ha poi voluto evidenziare Fabrizio Ramacci, presidente della cooperativa L’Orto Botanico - questo progetto ha una grande valenza sociale. Ricordiamo che in precedenza non c’era lavoro retribuito all’interno della Casa Circondariale, oggi invece i detenuti sono a libro paga della cooperativa: speriamo di aumentare in futuro la superficie di coltivazione per accrescere le possibilità di lavoro”. “Tra le altre cose in carcere abbiamo anche due persone che lavorano nella falegnameria interna e producono oggettistica. Inoltre è presente un orto che vede impegnata una persona e i cui prodotti vengono commercializzati ai detenuti”. Come mostrato in prima persona dalle due persone coinvolte nel progetto, le fragole coltivate sono di due tipologie diverse: la Clery, dalla forma conica allungata e dal color rosso carminio brillante, e la Murano, del medesimo coloro e dal sapore dolce. Ruolo importante nella coltivazione di queste due prelibatezze lo ricopre la Facoltà di Agraria dell’Università Cattolica, che ha portato un approccio innovativo e sostenibile a livello ambientale, arricchendo ulteriormente il progetto di una valenza ecologica, oltre che sociale. “L’iniziativa vuole educare alla sostenibilità - ha commentato il professor Ettore Capri, referente dell’Ateneo per il progetto - I detenuti stanno inoltre acquisendo specializzazioni utili per il mercato del lavoro: stiamo infatti promuovendo un agricoltura sociale e sostenibile, con lo scopo di creare nuovi agricoltori per il mercato del futuro”. Le fragole saranno in vendita all’Ipercoop di Montale a Piacenza. Napoli: lezione a Poggioreale per il musicista Marco Zurzolo di Gennaro Morra Il Mattino, 7 maggio 2019 È reduce da una lezione speciale il Maestro Marco Zurzolo, che sabato scorso è entrato nel carcere di Poggioreale, dove ha incontrato 120 detenuti e 70 studenti di giurisprudenza. Un evento previsto nello stage di “Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza” promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi della Campania, “Luigi Vanvitelli”, e organizzato con il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello. In quell’occasione il sassofonista ha accompagnato l’attore Pietro Bontempo nell’opera musicale “Costituzione e carcere” dello stesso Ciambriello e Mena Minafra. Un’esperienza molto coinvolgente per il musicista napoletano, che ieri ha pubblicato sul suo profilo Facebook una fotografia in cui abbraccia un detenuto presente alla lezione. Un’immagine allegata a un post in cui polemizza con “certi” scrittori di film e fiction, ma anche con i cantanti rap: “A Poggioreale con questi miei amici sventurati, vittime di un sistema malato che tutti denigrano ma nessuno ha veramente interesse a fermarlo. Ormai l’hanno fatto diventare una moda, uno stile di vita. Film, fiction e, soprattutto, scrittori - scrive Zurzolo -. È facile fare l’opinionista stando a casa, senza problemi... E mi fermo qui altrimenti pó...”. Ogni riferimento a Saviano e alla sua opera non è per nulla casuale, considerato che il sassofonista ha già attaccato lo scrittore in altri post pubblicati sul social network di Zuckerberg. Ma in quest’occasione ne ha anche per i cantanti rap: “Rapper che dicono tutti la stessa cosa: cocaina, Rolex, Ferrari e femmine a zeffunn’ (come se piovesse, ndr), altrimenti nun si nisciun’ - prosegue il post. E poi chiedono sempre scusa alla mamma per la vita che hanno scelto. Io ho l’impressione che molti di questi rapper non hanno proprio idea di che vuol dire finire a Poggioreale e la sera, quando tornano a casa, abbuscano dalla mamma. Forse perciò chiedono sempre scusa. Spero con tutto il mio cuore che continuano a giocare con le rime, magari scrivendo una canzone che parla di un fratello che ce l’ha fatta”. E conclude: “L’abbraccio con questo ragazzo è una delle cose più belle che mi poteva capitare. Vas’ riflessivi”. Pozzuoli (Na): “È moda… per il sociale”, in passerella le detenute del carcere femminile napolivillage.com, 7 maggio 2019 Dopo la positiva esperienza dei precedenti anni, si ripete la sfilata di moda nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, con le detenute che indosseranno in passerella gli abiti di stilisti d’eccezione. L’evento, organizzato dalla P&P Academy, si terrà nella struttura carceraria di via Pergolesi giovedì 16 maggio 2019 alle ore 15. Le detenute sfileranno con gli abiti degli stilisti Luciano Fiore Couture, Anna Ferrillo, Istituto Superiore Marconi, IIS Don Geremia Piscopo, dopo aver seguito un corso di portamento e di “bon ton” all’interno dello stesso carcere. Saranno truccate dai professionisti del make-up Nicola Acella e Antonio Riccardo e pettinate da Ciro Paciolla. Alla serata, che sarà presentata da Anna Paparone e Gaetano Gaudiero, parteciperanno come ospiti Mr.Hyde - Ludo Brusco e Rudy Brass -, Ivan Granatino e lo Chef Stellato Pasquale Palamaro. Saranno presenti, tra gli altri, la direttrice della casa circondariale Carlotta Giaquinto, l’assessore alle Pari Opportunità della Regione Campania Chiara Marciani e i sindaci dei comuni flegrei. “È Moda… per il sociale” è stato promosso dalla Fitel Campania e dall’associazione Nirvana con il patrocinio della Regione Campania e del Comune di Pozzuoli. La sfilata, che ha esclusivamente finalità sociali, si propone da un lato di offrire alle detenute un momento di svago e di aggregazione, e dall’altro di avvicinarle al mondo della moda. Ingresso solo su invito. Foggia: “Dentro” i versi, progetto culturale nel carcere statoquotidiano.it, 7 maggio 2019 Ideato da Daniela D’Elia, con il patrocinio del Comune - Assessorato alla Cultura e con la collaborazione del Csv. “Le vie d’uscita: la poesia e l’arte”. Questo il titolo del progetto che inizierà domani, 7 maggio, e vedrà il coinvolgimento dei detenuti della Casa Circondariale di Foggia. L’iniziativa progettuale è stata ideata dall’artista Daniela d’Elia, risoluta nel desiderio di portare “La Voce del mare” anche dietro le sbarre del penitenziario, con l’obiettivo di donare ai ristretti partecipanti la “libertà” che solo la poesia e l’arte riescono a dare. “Per realizzare questo progetto - spiega Daniela d’Elia - mi sono affidata all’esperienza di Annalisa Graziano, giornalista e responsabile della promozione del volontariato penitenziario del Csv Foggia e alla sensibilità e disponibilità dell’Assessore alla Cultura del Comune di Foggia, Anna Paola Giuliani. La prima mi ha indicato la strada per entrare in contatto con il mondo carcerario e mi ha fornito preziosi consigli; la seconda ha scelto di patrocinare, con convinzione, il progetto. Entrambe hanno condiviso e supportato con entusiasmo questa iniziativa che porta con sé tanto un’emozione fortissima quanto la profondità d’azione della poesia e dell’arte quali strumenti utili al servizio delle fasce più deboli e delle persone meno fortunate”. Ad affiancare Daniela d’Elia nella prima fase del progetto, dedicato alla potenza dei versi, si avvicenderanno i poeti protagonisti della prima edizione del Festival de “La voce del Mare”. “Alcuni - spiega l’ideatrice del progetto - giungono persino da lontano, commossi ed entusiasti di essere coinvolti in questa iniziativa, consapevoli che dietro questo dare si celi un grande dono, quello di un’esperienza forte che permetterà loro di conoscere vite e storie di una umanità sofferente, costretta in tempi e spazi differenti”. Animeranno gli incontri nell’Istituto Penitenziario foggiano Salvatore Ritrovato da Urbino, Rossella Tempesta da Formia, Vincenzo Mastropirro da Ruvo di Puglia e poi Maria del Vecchio da Lucera, Raffaele Niro e Lucio Toma da San Severo e i foggiani Alfonso Graziano e Giuseppe Todisco. I componimenti dei detenuti partecipanti saranno poi declamati durante la seconda edizione del Festival “La voce del mare”, che si terrà a settembre prossimo. Il progetto dedicato all’arte prenderà, invece, il via in autunno e ad affiancare Daniela d’Elia sarà la creativa Luisa Sabba; a conclusione dell’iniziativa verrà allestita una Mostra al Palazzetto d’arte “Andrea Pazienza”. “Ringrazio la Direzione, l’Area Trattamentale e la polizia penitenziaria per aver accolto la nostra proposta - conclude Daniela D’Elia - un’idea nata con l’obiettivo di regalare, attraverso i componimenti poetici, momenti di “evasione” e analisi introspettive che possano favorire nei detenuti una valutazione critica del vissuto e del proprio operato”. Radio Radicale, scontro tra due culture di Sergio Valzania Il Dubbio, 7 maggio 2019 Il rifiuto di scorgere la complessità del mondo impedisce di riconoscere le ragioni per le quali l’emittente è un pezzo significativo del nostro sistema di libertà. La questione di Radio Radicale non è epifenomeno, bega di condominio, ripicca di un gerarca minore - come lo ha fotografato Massimo Bordin - divenuto sottosegretario all’Editoria che vuole dimostrare il potere proprio e del proprio partito sbarazzandosi di qualcuno che gli è antipatico da sempre. Il guaio sta nel fatto che si tratta davvero di un confronto culturale, della contrapposizione di due modelli di pensiero, all’interno di uno dei quali per Radio Radicale non c’è più posto e le cui ragioni vengono ripetute un giorno sì e uno no dal direttore dell’autorevole organo ufficiale del Movimento Cinque Stelle. Il rifiuto di finanziare Radio Radicale si incastona alla perfezione in una concezione semplificata della realtà, per la quale i problemi sono tutti di agevole soluzione. Per la Tav basta fare una valutazione costi- benefici e sappiamo se è opportuno o meno partecipare a un progetto europeo in corso da decenni; per l’immigrazione è sufficiente chiudere i porti e lo squilibrio demografico tra Africa ed Europa scompare di colpo; per abolire la povertà, questione radicata nella storia dell’umanità, non serve altro che un piccolo provvedimento legislativo, qualche domanda presso l’apposito sportello e non ci si pensa più. Anche per il ponte di Genova si fa il possibile e per il resto la vita va avanti da sola, qualche disagio va messo nel conto. Quindi se esistono canali televisivi dedicati dei due rami del Parlamento si può fare a meno del servizio svolto fino a oggi egregiamente da Radio Radicale. La logica è la stessa. Piccole soluzioni per piccoli problemi. Dietro a queste scelte sta una cultura che esprime un programma antipolitico centrato sull’”uno vale uno” e sulla convinzione che l’onestà non sia una componente prepolitica, necessaria a ogni onesto lavoratore di qualunque settore bensì il solo requisito da richiedersi a chi si occupa degli interessi pubblici. Che non hanno bisogno di alcuna competenza per essere gestiti nel modo migliore: è sufficiente la comune dedizione di una persona qualunque. Non a caso questo modo di affrontare i problemi di definisce tecnicamente come qualunquismo. Il rifiuto di scorgere la complessità del mondo, e anche la sua ricchezza, impedisce di riconoscere le ragioni per le quali Radio Radicale è un pezzo significativo del nostro sistema di libertà. Non è solo Dio a nascondersi nei dettagli e a lottare lì con il demonio. Anche la libertà e la democrazia vivono in spazi particolari inseriti in complessità integrate. Il motore funziona perché c’è il lubrificante. Si votava tanto nell’Italia Fascista quanto nella Romania di Cerausescu, anche lì c’erano i sindacati e si stampavano giornali, a Roma c’era la radio e a Bucarest hanno fatto in tempo a vedere anche la televisione di regime. A questo si aggiungeva il famoso cartello presente nei locali pubblici “Qui non si parla di politica”, intendendo per politica una sorta di male sociale, più grave del tifo calcistico, per il quale si pretende di occuparsi delle vicende della collettività immaginando che per esse si debba decidere tra modalità di gestione diverse, che il faticoso accompagnare la lenta soluzione di problemi che vengono da lontano non sia competenza di una ristretta élite ma possa essere esperienza sociale, condivisa. Perché le risposte non sono date, vanno costruite. Non basta creare una commissione di studio composta da tecnici per ottenere la risposta certa a ogni quesito. Il senso di una politica democratica consiste nelle convinzione che le decisioni sul futuro comune, si tratti di gallerie o di immigrati, di assistenza sociale o di politica del lavoro, debbano emergere da una laboriosa esperienza collettiva nella quale i politici hanno la responsabilità della mediazione. Radio Radicale è una componente, magari non perfetta ma certo funzionale, di quell’apparato che Winston Churchill definiva un pessimo sistema di governo, ma comunque il migliore che siamo stati capaci di creare. Salone del Libro. “O noi o l’editrice di CasaPound”: il museo di Auschwitz avverte Torino di Luca Ferrua e Francesca Paci La Stampa, 7 maggio 2019 Volete Auschwitz o la casa editrice, vicina a CasaPound, Altaforte? Di provocazione in provocazione lo psicodramma del Salone del Libro di Torino mette gli organizzatori di fronte a un nodo che con il buonsenso non si potrà sciogliere. L’ultimo atto della vicenda risale a ieri sera, quando è arrivata la lettera firmata da Halina Birenbaum, sopravvissuta al lager, dal direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, Piotr M. A. Cywinski, e dal presidente e dall’ideatore del “Treno della memoria” ovvero Paolo Paticchio e il torinese Michele Curto (coinvolto, peraltro, in un’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati ai Rom). Dalle lettera emerge una richiesta ferma, indirizzata al Comune di Torino come “istituzione e come azionista indiretto del Salone”: quella di scegliere tra avere al Lingotto Halina Birembaun e il museo di Auschwitz oppure lo stand della casa editrice Altaforte. Le parole non lasciano dubbi: “Non si può chiedere ai sopravvissuti di condividere lo spazio con chi mette in discussione i fatti storici che hanno portato all’Olocausto, con chi ripropone una idea fascista della società”. E aggiungono: “Non si tratta, come ha semplificato qualcuno, del rispetto di un contratto con una casa editrice, bensì del valore più alto delle istituzioni democratiche, della loro vigilanza, dei loro anticorpi, della costituzione italiana, che supera qualunque contratto”. La sindaca ieri ha sottolineato che “Torino è antifascista e al Salone ci sarà perché le idee si combattono con idee più forti”. Ma la lettera chiede di rescindere il contratto con Altaforte. E quella è un’altra storia. Il contratto lo hanno stipulato gli organizzatori del Salone dicendo sì alla richiesta di una casa editrice che è stata accettata come tutte le altre e che ha già pagato il suo spazio ben prima di diventare un caso politico. I vertici del Comitato di Indirizzo che guida il nuovo Salone ieri sono stati riuniti fino a notte alta negli uffici del Circolo dei Lettori trasformato in bunker inviolabile. La loro posizione è sempre la stessa, anche di fronte alle ultime dichiarazioni del leader di Altaforte Francesco Polacchi che ieri evidenziava il suo sentirsi fascista: “Le dichiarazioni non spostano l’asse. Nessuna lo fa. Sappiamo che è una provocazione ma il Salone resta aperto a tutti”. L’esempio che circola nei corridoi dello storico palazzo del centro di Torino rende bene l’idea: “Non vogliamo fare la fine di Totti che è stato provocato da Poulsen per tutta la partita ma ha finito per essere lui l’espulso”. Una posizione che mostra tutta la sua complessità, anche perché nel cuore del Salone c’è pure l’Aie casa di tutti - ma proprio tutti - gli editori la cui presa di posizione si può più o meno sintetizzare in questo concetto: “Chiunque ami i libri e la lettura ha nel proprio Dna la libertà di pensiero, di espressione e in particolare di edizione in tutte le sue forme”. Oggi alla luce della lettera firmata dal direttore di Auschwitz e delle continue provocazioni in arrivo da CasaPound è probabile che vengano prese in esame strade diverse, la situazione è in continua evoluzione. Solo ieri è arrivata la defezione di Zerocalcare, uno da folle oceaniche che al Salone mancherà e che in coda al post su Facebook con cui annunciava l’addio ha aperto forse il vero fronte di questa vicenda: “Sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro”. Il caso è divampato in un momento di profonde lacerazioni politiche e sta travolgendo un Salone che sull’onda dell’entusiasmo dell’edizione del rilancio non ha fatto in tempo a mettere in campo gli anticorpi per evitare di essere strumentalizzato da Altaforte, capace di conquistare una visibilità inimmaginabile fino a pochi giorni fa. Il Salone comincia giovedì ed è il momento delle scelte, ma il peso non può restare solo sulle spalle degli organizzatori. Città e Regione - che ieri hanno sottolineato il loro essere antifascisti - devono fare la loro parte, magari cominciando a rispondere alla lettera partita da Auschwitz. L’Avvenire della nostra comunicazione di Alberto Leiss Il Manifesto, 7 maggio 2019 In difesa del “quotidiano di ispirazione cattolica” per la sua sensibilità culturale e la passione giornalistica. Mentre il discorso politico - si fa per dire - tra i giovani maschi del governo si inabissa alla sfida sull’esposizione degli attributi, sfogliare come ho fatto domenica il “quotidiano di ispirazione cattolica” Avvenire ha prodotto per me l’effetto di una folata di aria buona. Premetto che non sono credente e nemmeno troppo sicuro di dovermi dire cristiano, anche se ritengo le parole di Gesù un messaggio straordinario sempre attuale. Ma come non apprezzare il buon italiano in cui sono espressi numerosi buoni sentimenti e buone intenzioni - e raccontate belle esperienze - di un giornale che due giorni fa “apriva” la sua prima pagina con il titolo “Solidarietà al minimo”? Parole che si riferiscono alla pessima politica del governo verso tutte quelle iniziative - nel “terzo settore” e non solo - rivolte alla vita di chi sta peggio e al miglioramento dei legami sociali. Ma che, lette tra “occhielli” e “sommari” sulle diatribe intorno al caso Siri, le polemiche su un ministro dell’Interno che fa solo propaganda mentre si spara nel centro di Napoli, e le minacce di crisi di governo, suonavano anche come una malinconica constatazione. La bagarre quotidiana per qualche voto in più in vista delle elezioni ha consumato ormai ogni pur minimo tratto “solidale” tra chi almeno qualche ora al giorno dovrebbe sentirsi al servizio di tutti i cittadini, non solo della propria parte. Ma rischio di cadere nella retorica “buonista”, anzi ci sono già caduto. La cosa irritante è che tutto questo clamore mediatico monocorde sul duello dei contendenti possa non avere nessun significativo effetto (tranne il generale malgoverno e l’imbarbarimento comunicativo). Tanto varrebbe ridurlo in una rubrichetta a una colonna, come una volta si faceva nelle pagine di cronaca festive per le “farmacie aperte oggi”. Quello, almeno, era considerato un “servizio al lettore”. Veramente avevo acquistato Avvenire attratto da un articolo sui soldati-robot, segnalato nella rassegna stampa di Radio Radicale: in effetti un servizio interessante e inquietante di Lucia Capuzzi, dal quale si apprende che sono già centinaia, e in buona parte realizzati, i progetti di ricerca per creare macchine belliche capaci di agire da sole, in prospettiva di autonomizzarsi dal controllo umano. Non mancano, per fortuna, le reazioni eticamente consapevoli, e una campagna internazionale to stop killer robot partita già nel 2013, con 120 organizzazioni in 55 paesi, tra cui il nostro. Se ne parlerà sabato al Maxxi di Roma, a conclusione del Festival dei Diritti umani che sta itinerando da Milano a Bologna, Firenze e nella capitale. Prima di arrivare alle pagine culturali, però, ho registrato il grido di allarme del direttore Marco Tarquinio sulle politiche di questi mesi: “… con un’asprezza di parole e di atti politici mai vista prima d’ora le reti di solidarietà sono state incredibilmente messe sotto ingiuria, sotto schiaffo e sotto processo…”. Poi ho letto un bel reportage di Elena Molinari dagli Usa: dietro le cifre della ripresa del Pil e dell’occupazione sbandierate da Trump emerge la realtà di centinaia di migliaia di persone con pensioni da fame e salari bassissimi, che vendono casa e si mettono sulla strada per inseguire lavori precari. Qui sul manifesto - anch’esso sotto la minaccia dei tagli voluti dal fanatismo ideologico grillino - si è molto giustamente parlato a favore di Radio Radicale. Credo che altrettanto la sensibilità culturale cattolica e la passione giornalistica di Avvenire vadano difese in nome del pluralismo e della qualità del modo in cui ci informiamo e comunichiamo. “Straniero a chi?” E venne il 68 delle seconde generazioni di Mohamed A. Tailmoun* Il Manifesto, 7 maggio 2019 Prima della nascita della Rete G2 - Seconde Generazioni, un figlio di immigrati cercava di “mimetizzarsi”, passava per straniero e cercava di essere trattato da straniero, come i suoi genitori e parenti. Almeno finché, per un qualche miracolo, veniva a conoscenza della legge per la concessione della cittadinanza in Italia, la L.91/92, e diventava cittadino italiano. Era un percorso per pochi “iniziati”, di cui nessuno comprendeva bene i termini: si ignorava la legge, figuriamoci la possibilità di modificarla! E l’atteggiamento da parte di chi diventava italiano, per lo più era: “Se ci sono riuscito significa che il sistema funziona, la legge offre sbocchi e possibilità, quindi va bene così, la legge non va modificata”. Tutto questo, pian piano, dopo il 2005, è cambiato. In questo senso il merito della Rete G2 - Seconde Generazione è quello di aver avvicinato alla politica chi la politica la rifiutava, anzi la guardava con sospetto. Per far comprendere a noi stessi e al nostro paese, l’Italia, che noi eravamo qui e non eravamo di passaggio, inventammo il concetto di “seconde generazioni dell’immigrazione”, da cui la sigla “G2”, che molti usano ma pochi capiscono. I primi corsi di formazione della Rete G2 - Seconde Generazioni, che hanno formato una generazione di attivisti, parlavano di riforma, dello Ius soli e di seconde generazioni. Era il periodo pionieristico, quando il motto era “niente per noi senza di noi!”. Sembrava il ‘68 delle “seconde generazioni. Ci chiedevamo, allora, come mai a scuola fossimo tanti e nei seggi elettorali, invece, inesistenti. E la risposta che ci davamo era, per colpa della L.91/92. Cominciammo, quindi, a ragionare su come cambiare questa legge maledetta, che in un paese demograficamente condannato ad essere vecchio ci impediva di essere quello che eravamo: italiani come tutti gli altri, né più, né meno. Ritornerà spesso, come un ritornello, un elemento di confusione, per cui il termine “seconde generazioni” lo si userebbe solo per definire coloro che sono figli di “entrambi” i genitori immigrati e comunque facendo passare l’idea che solo chi non ha ottenuto la cittadinanza italiana sia veramente una “seconda generazione”. Si è trovato, così, il modo di creare le “banlieue” concettuali anche Italia, perdendo di vista il concetto originale e il motivo per cui era stato creato. Ma chi sono, quindi, le “seconde generazioni”? Chi è nato qui in Italia da genitori stranieri, chi è cresciuto qui ma nato altrove, ragazzi/e adottate, figli/e di rifugiati, chi ha il problema della cittadinanza in senso stretto o semplicemente chi si percepisce discriminato perché si sente dire che non esistono italiani “neri”, “cinesi”, “arabi”, “rumeni”, “musulmani”, “ebrei” ecc. Soggetti, quindi, che solidarizzano con chi la cittadinanza non ce l’ha e spera che prima o poi in Italia nessuno li tratti più da stranieri. Straniero a chi? Appunto! Ma le resistenze sono ancora tante. Prima di tutto tra le stesse “seconde generazioni”, che a volte non vogliono acquisire consapevolezza di sé. Molti, infatti, preferiscono rimanere “mimetizzati” e sostengono che se parli di “figli di immigrati” o di “seconde generazioni” crei confusione, disordine, divisione, auto segregazione. Per loro l’Italia è perfetta, è il paese dei balocchi, e noi della “Rete G2” perché dovremmo rompere questo idillio? Incuranti del fatto, però, che da quella temperie sociale e culturale è emerso un processo irreversibile e un nuovo soggetto sociale. Da questo nuovo “meelting pot” culturale sono nati cantanti e generi: film come “Bangla”, cantanti come Ghali, Mahmood, Tommy Kuti, Diamante e molti altri. Anche dal punto di vista politico, la prima proposta di legge sulla riforma della cittadinanza si è imposta nel dibattito proprio grazie ad una proposta dal basso, lanciata dalla società civile e dai diretti interessati, le seconde generazioni. Si tratta della Campagna l’Italia sono anch’io, nata nel 2011 e promossa da 19 associazioni, tra cui Rete G2 - Seconde Generazioni- che ha lanciato una raccolta di firme per una proposta d’iniziativa popolare di riforma della legge 91/92. Per far discutere la proposta di riforma in Parlamento erano sufficienti 50.000 firme e si arrivò a più di 200.000! Purtroppo appena la proposta di riforma approdò in Parlamento, la XVI Legislatura terminò. Con l’inizio della Legislatura successiva, la proposta di riforma rimase ferma in commissione Affari costituzionali, fino alla nomina della deputata Marilena Fabbri come relatrice di un testo base da cui iniziare la discussione. La stesura definitiva del testo della riforma fu varata dopo due giri di audizioni e una complessa trattativa. I testo definitivo della riforma sulla cittadinanza prevede che i bambini nati in Italia diventino italiani per nascita soltanto se almeno uno dei genitori ha il permesso dell’Ue per soggiornanti di lungo periodo (valido per i cittadini extra Unione europea) o il “diritto di soggiorno permanente” (per cittadini Ue). In alternativa, come gli altri bambini non nati in Italia ma arrivati qui entro i dodici anni, bisogna obbligatoriamente frequentare uno o più cicli scolastici per almeno 5 anni e, almeno per le elementari, concludere positivamente il ciclo scolastico. Inoltre, per i più grandi è prevista una norma transitoria per sanare le situazioni pregresse. Intorno alla proposta di legge Fabbri si sono coalizzati associazioni, movimenti e un patto tra partiti, sia di destra che di sinistra, che hanno contribuito alla stesura e all’approvazione. È stato un movimento ampio e traversale che ha permesso di arrivare a un testo di riforma condiviso da una maggioranza. Successivamente la sua approvazione, non solo la maggioranza ha votato a favore (quindi Pd, sinistra, Ncd), ma Forza Italia si è divisa, il M5S si è astenuto e solo la Lega e i soliti partiti di estrema destra hanno votato contro. La norma è stata poi approvata alla Camera dei deputati il 13 ottobre del 2015. Vittoria di un modello, che poi non si ripeterà perché la riforma rimarrà parcheggiata al Senato della Repubblica senza nessuna possibilità d’approvazione. Del resto, se “veramente” la si voleva approvare, si sarebbe dovuta discutere prima dell’approvazione della riforma costituzionale di Renzi in doppia lettura. Sta di fatto che al Senato si fece il contrario della Camera, non si cercarono compromessi, nonostante fosse chiaro, a un certo punto, che non ci fossero i numeri neanche tra i senatori della maggioranza. E non sto qui a ricordare i senatori assenti che fecero mancare il numero legale per l’inizio della discussione il 23 dicembre del 2017. Ecco, io ricomincerei la battaglia da dove l’abbiamo lasciata veramente, cioè il 13 ottobre 2015, alla Camera dei deputati. *Sociologo, militante Rete G2-seconde generazioni Roma, case ai rom: proteste in strada da Casal Bruciato a Ponte Mammolo di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 7 maggio 2019 Polizia e carabinieri monitorano la situazione in via Sebastiano Satta e in via Schopenhauer, dopo che episodi analoghi si sono verificati nei giorni scorsi in via Facchinetti. Nel primo caso con gli abitanti anche esponenti di CasaPound. Torna a salire la tensione sulla questione delle case popolari alle famiglie rom. Una cinquantina di persone, con l’appoggio di esponenti di CasaPound, sono scese in strada in via Sebastiano Satta, zona Casal Bruciato, per protestare contro la presenza di un gruppo di nomadi che avrebbe dovuto prendere possesso di un alloggio legittimamente assegnato dal Comune. Lo stesso è accaduto in via Schopenhauer, a Ponte Mammolo, nello stesso quadrante cittadino. Per il momento non ci sono stati incidenti, ma polizia e carabinieri stanno monitorando la situazione. Nei giorni scorsi altre proteste sempre per un’assegnazione di casa ai rom in via Cipriano Facchinetti, ancora a Casal Bruciato, lo stesso quartiere dove settimane fa per due-tre giorni i residenti si sono mobilitati per il medesimo motivo, mettendo i cassonetti in mezzo alla strada. Famiglia di 14 persone barricata al secondo piano - In particolare in via Satta le proteste degli abitanti riguardano l’assegnazione di un appartamento a una famiglia bosniaca composta da quattordici persone: madre, padre e dodici figli nati in Italia. “Ci hanno minacciato, vogliono tirarci una bomba, vogliono picchiarci”, avrebbe detto il capo famiglia che è riuscito a entrare nell’alloggio solo con la scorta della polizia. Adesso i quattordici componenti della famiglia di assegnatari sono barricati nell’immobile al secondo piano dell’edificio. Imer: “Perché ce l’hanno con noi?” - “Ci hanno gridato che siamo zingari e che dobbiamo andare via. I miei bambini hanno paura, non sappiamo cosa fare, ma non vogliamo andare via”. Imer Omerovic, la moglie e i suoi 12 figli trascorrono da barricati il primo giorno nella casa popolare che il Comune ha assegnato al 40enne bosniaco. “I bambini sono tutti nati qui, in Italia”, sottolinea il capo famiglia dall’appartamento con le stanze ancora vuote e qualche materasso sul pavimento, al secondo piano del complesso popolare di via Satta mentre nel cortile interno una cinquantina di residenti ascoltano gli slogan dei rappresentanti di CasaPound. “Abbiamo vissuto nel campo di Tor dè Cenci, poi in quello della Barbuta, sull’Appia - dice ancora Imer -. Abbiamo fatto richiesta di un alloggio popolare e ce l’hanno concesso, ma appena arrivati ci hanno urlato contro. Volevano picchiarci. Perché?”. “Non ce l’ho con i rom, ma con il fatto che vivranno in 14 in cento metri quadrati, con un bagno solo. Senza contare il fatto che ancora sto pagando il mutuo di casa mia”, spiega invece Bruno, dirimpettaio di Imer. Fratelli d’Italia: persone provenienti dai campi nomadi - “Da quanto ci risulta in zona Casal Bruciato, via Satta n. 20, l’amministrazione 5 Stelle avrebbe assegnato un nuovo alloggio popolare ad una famiglia rom. Si tratterebbe di 14 persone, provenienti dal campo La Barbuta, che andrebbero ad abitare tutti insieme nello stesso appartamento. Sempre in queste ore analoga situazione è accaduta in via Shopenhauer n. 66 dove un’altra famiglia rom ha ottenuto una casa popolare, e stranamente con una domanda fatta nel 2018 e se ciò risultasse vero significa che avrebbe saltato le graduatorie. Dopo via Facchinetti, nel IV Municipio spuntano assegnazioni ai nomadi di dubbia legittimità. Ma la sindaca non aveva promesso che avrebbe chiuso tutti gli insediamenti? Da Casal Bruciato a Casal de Pazzi la Raggi continua a dare case ai rom. Una vergogna, uno schiaffo a tutte quelle famiglie italiane senza un tetto”, accusa Fabrizio Ghera, capogruppo alla Regione Lazio e candidato alle elezioni europee nel collegio Italia-Centro. CasaPound: gli ex inquilini volevano acquistare l’immobile - “I residenti della zona sono in strada in segno di protesta contro questa decisione che scavalca le famiglie romane per piazzare i nomadi che la Raggi, obbligata a sgomberare i campi abusivi, non sa dove mettere”, spiegano invece da CasaPound Roma. “I residenti sono su tutte le furie, perché il Comune aveva proposto l’acquisto degli appartamenti da parte degli assegnatari e qualche famiglia ha già versato un acconto ma adesso si vedono scippare sotto il naso un appartamento”, dice Giuseppe Di Silvestre, referente territoriale di CasaPound del V Municipio. “È la seconda volta in un mese che succede, e l’appartamento in questione si trova a soli 200 metri dall’altro alloggio che siamo riusciti ad impedire che venisse assegnato ai rom”. “L’appartamento al centro della protesta - aggiunge Giorgio Dossena, referente territoriale di CasaPound del VI Municipio - si era liberato due settimane fa. Assegnataria era una signora ma ci vivevano i nipoti, che volevano riscattare l’immobile, tanto che avevano già versato duemila euro di acconto. Ma il Comune li ha bollati come occupanti abusivi e i parenti dell’assegnataria hanno dovuto lasciare l’immobile, subito riassegnato, ai rom per l’appunto”. Raggi: “CasaPound rispetti le leggi dello Stato” - La sindaca Virginia Raggi replica così, su Facebook, a Cpi: “CasaPound deve rispettare le leggi dello Stato. Nessuno può pensare di sostituirsi alle istituzioni. Questi delinquenti chiedono che l’appartamento venga tolto alla famiglia rom. Chiedono che queste persone tornino nei campi nomadi. Gli stessi campi rom che l’estrema destra dice di voler chiudere e che ha aperto anni fa. Cosa propongono? Nulla. Perché non hanno idee”. “La verità - aggiunge - è che CasaPound specula sulla pelle di tutte le persone e occupa abusivamente un palazzo in pieno centro. Predica male e razzola ancora peggio. Non fatevi ingannare da questi imbroglioni. Noi, invece, stiamo facendo rispettare le leggi, stiamo chiudendo i campi nomadi spingendo gli abitanti a trovarsi un lavoro, pagare le tasse e mandare i figli a scuola. Le regole vanno rispettate da tutti”. I Radicali: tutelare i legittimi assegnatari rom - “Continuano a Roma le proteste per l’assegnazione di alloggi alle famiglie rom, fomentate e strumentalizzate da organizzazioni politiche. E, a quanto si apprende, di nuove se ne annunciano già per domani a Casal Bruciato. È necessario che le istituzioni e le forze dell’ordine garantiscano la sicurezza e la dignità dei legittimi assegnatari di case popolari”. Così Riccardo Magi, deputato radicale di +Europa che commenta: “Sarebbe molto grave se si ripetesse quanto accaduto un mese fa a Torre Maura, dove i manifestanti si sono potuti riversare a ridosso del cancello del centro che ospitava le famiglie rom, rivolgendo gravi minacce perfino ai minori. Su questo ho presentato anche un’interrogazione al ministro dell’Interno per sapere in quella circostanza quali provvedimenti siano stati adottati nei riguardi di chi ha commesso reati penali minacciando cittadini accolti nel centro accoglienza”. Campidoglio: attuato il Piano di inclusione rom - Dal Comune, sempre sulla questione rom, si sottolinea invece come “il piano finalizzato al superamento dei campi e all’inclusione delle popolazioni rom, sinti e caminanti procede regolarmente, sulle basi di quanto previsto dall’apposita delibera. Il piano ha già consentito il raggiungimento di obiettivi rilevanti, tra cui una consistente e generalizzata riduzione dei roghi tossici. È stato inoltre ridotto il perimetro dei campi Barbuta, Castel Romano e Monachina, evitando anche che si creassero nuovi insediamenti”. Il documento approvato da Roma Capitale e in fase di attuazione “tiene conto delle direttive internazionali ed europee in vigore in materia di diritti umani e di non discriminazione, in particolare la direttiva 2000/43/CE del 29 luglio 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (recepita in Italia con Decreto Legislativo n. 215 del 9 luglio 2003) e la direttiva del 2000/78/CE del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (recepita con Decreto Legislativo n.216 del 9 luglio 2003)”. È in via di pubblicazione l’avviso per il superamento di Castel Romano, che fissa come obiettivo generale quello di sostenere percorsi relativi alla fuoriuscita degli ospiti che prevedono l’implementazione di misure sistematiche volte al raggiungimento di una progressiva inclusione sociale, economica e abitativa. “Contatti con agenzie immobiliari per il mercato privato” - Sempre per il Campidoglio “il lavoro in corso presso La Barbuta ha già prodotto frutti importanti: l’iscrizione scolastica ha registrato una crescita notevole, passando dal 47% (febbraio 2017) al 67% (agosto 2018) del totale in obbligo scolastico. Il comando della polizia locale ha potenziato i controlli agli ingressi del campo come forma di contrasto ai roghi, che sono quindi fortemente in diminuzione. Sono già state coinvolte 62 agenzie immobiliari per il reperimento di abitazioni presso il mercato privato. Sono stati effettuati 119 colloqui per trovare un’occupazione agli abitanti del campo e sono stati completati 27 corsi di formazione in settori come logistica, pulizie, ristorazione, cura del verde”. Per il Comune poi buoni risultati alla Monachina dove “tutti i minori sono attualmente iscritti a scuola, anche grazie al lavoro che ha permesso di sanare le evasioni scolastiche degli anni precedenti. Per favorire l’orientamento lavorativo e la formazione degli ospiti del campo, è stato sottoscritto un protocollo operativo sperimentale tra l’Ufficio Speciale Rsc e la rete dei Col ed è stata avviata la sperimentazione con la presa in carico di circa 15 persone”. Turchia. Dopo otto anni Ocalan incontra i suoi avvocati di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 7 maggio 2019 Il 2 maggio, dopo ben otto anni di proibizione, Ocalan ha potuto incontrare per un’ora i suoi avvocati nell’isola-prigione di Imrali. Un avvenimento che è sicuramente dovuto all’estenuante sciopero della fame, avviato dall’esponente di HDP Leyla Guven l’8 novembre 2018 e condotto ormai da oltre settemila prigionieri politici curdi e da centinaia di sostenitori. In gennaio, sempre in risposta allo sciopero della fame, Ocalan aveva potuto incontrare, ma solo per pochi minuti, il fratello (dopo due anni di isolamento totale). Nella conferenza stampa tenutasi a Istanbul presso l’hotel Taksim Hill il 6 maggio, gli avvocati (Hamili Yildirim, Abdullah Öcalan, Ömer Hayri Konar, Veysi Aktas) hanno riportato una dichiarazione del leader curdo in cui si auspica la ripresa dei negoziati di pace. Quanto allo sciopero della fame in corso, Ocalan ha chiesto di evitare ogni perdita di vite umane. Dal 27 luglio 2011 questa è la prima volta che al leader curdo viene concesso di incontrare i suoi difensori. Da allora questi avevano deposto ben 810 domande per poterlo vedere. Nel comunicato degli avvocati si auspica una soluzione politica attraverso un “metodo di negoziazione democratica lontano da ogni polarizzazione e da ogni cultura del conflitto “ per arrivare a una “profonda riconciliazione sociale”. Proseguendo: “Possiamo risolvere i problemi in Turchia, così come in tutta la regione, a cominciare dalla guerra (…) con l’intelligenza, la politica e la cultura al posto della violenza fisica”. Per quanto riguarda la Siria gli avvocati ritengono che “attraverso l’intermediazione delle Forze democratiche siriane (FDS) tutti dovrebbero sforzarsi di risolvere i problemi astenendosi dalla cultura del conflitto nella prospettiva di una democrazia locale garantita dalla Costituzione nel quadro dell’unità del paese. E in quanto tale, l’opinione della Turchia dovrebbe essere presa in considerazione”. Quanto ai militanti prigionieri in sciopero della fame “con tutto il rispetto dovuto alla resistenza degli amici dentro e fuori dalle prigioni, noi vorremmo sottolineare che non devono arrivare a metter in pericolo la loro salute o a morire. Per noi la salute mentale, fisica e spirituale viene prima di tutto”. In sostanza occorre “approfondire e chiarire il metodo adottato nella dichiarazione del Newroz 2013 e proseguire su questa strada”. Per arrivare a “una pace degna e a una soluzione politica democratica”. Emirati. Malata di cancro muore in prigione nonostante l’appello dell’Onu di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 maggio 2019 Una donazione alle famiglie siriane rifugiate negli Emirati Arabi le è costata una condanna a 10 anni di carcere e ora anche la vita. È morta domenica scorsa Alia Abdulnoor nonostante due mesi fa l’Onu avesse lanciato un appello per la sua liberazione: “La signora Abdulnour - si legge nell’appello - è soggetta a un trattamento disumano e degradante. È costretta a stare in una stanza senza finestre, incatenata al letto e piantonata dalle guardie. Siamo molto preoccupati per la integrità fisica e morale”. La donna era stata arrestata il 28 luglio 2015 con l’accusa di “finanziare il terrorismo” mentre aveva semplicemente aiutato a raccogliere fondi per le famiglie siriane negli Emirati. Dopo l’arresto è stata tenuta in isolamento per sei mesi e sottoposta a minacce, umiliazioni fisiche e psicologiche. Alla fine ha firmato una confessione estorta sotto tortura. “Vogliamo ricordare agli Emirati Arabi Uniti che la tortura e i maltrattamenti sono proibiti universalmente e che ogni confessione estorta in questo modo non può essere usata come prova” ha sottolineato l’Onu. Nel 2017 Abdulnoor è stata condannata a 10 anni di prigione. Da tempo le organizzazioni per i diritti umani e la famiglia della donna avevano accusato le autorità di negare alla detenuta le cure adeguate alla sua malattia e di impedirle di vedere la famiglia. All’ospedale di Tawam, dove era ricoverata, hanno sostenuto che la prigioniera aveva rifiutato la chemioterapia mentre per la famiglia la donna era stata costretta a firmare il documento. Repubblica Centrafricana. Missionario italiano arrestato ma rilasciato “a furor di popolo” di Lorenzo Boratto La Stampa, 7 maggio 2019 Un assembramento di 3000 persone con urla e slogan ha ottenuto la liberazione del religioso. “Un po’ di agitazione… Molti di voi sono già al corrente… È stata una settimana piuttosto agitata. Sabato 27 aprile sono tornato al fiume, perché volevo vedere la situazione dell’Ouham, e le imprese cinesi che vi estraggono l’oro. Ho fatto alcune foto: i cantieri non si sono fermati, anzi. Quando prendo la strada per rientrare arriva un militare, che mi intima di fermarmi. È armato, e non ho molta fiducia, e dico che io vado avanti. Chiama con la radio di altri soldati, che arrivano immediatamente. Mi chiedono perché sono andato a fare delle foto del sito... e dico loro che non è vietato. Sono molto agitati e gridano contro di me, mi confiscano la macchina fotografica e il telefono e mi perquisiscono. Mi accompagnano dove ho lasciato la macchina e mi dicono che sono in arresto!”. Scrive così sul suo blog padre Aurelio Gazzera, carmelitano originario di Cuneo, da tempo missionario nella Repubblica del Centro Africa, arrestato dalle autorità locali e poi rilasciato “a furor di popolo”. Accade a Bozoum, nella parte nord occidentale della Paese africano, dove il missionario cuneese risiede da oltre 20 anni. Il lungo racconto del padre cuneese si conclude: “Singila na Nzapa. Grazie a Dio! I giorni seguenti sono molto tesi. Oltre tutto, le autorità di Bangui reagiscono, accusandomi di essere io stesso un trafficante d’oro! E allora, per una volta, mi permetto di pubblicare qui le foto di alcune delle cose fatte, con l’aiuto di Dio (e di tante persone): ecco il mio oro!”. La “colpa” del missionario: aver fotografato il luogo dove da gennaio si è installata una società cinese, con grandi macchinari e mezzi. È stato deviato il corso d’acqua per setacciare e filtrare l’oro. I militari lo accusano di aver violato una proprietà privata, lui spiega che non è così e mostra la foto. È stato “liberato” grazie a una specie di “rivolta popolare”. Un’ora dopo il suo arresto la notizia circola e comincia a radunarsi la gente, davanti alla Brigata Mineraria: un assembramento di 3 mila persone con urla e slogan per chiedere la liberazione immediata del religioso (amato dalla popolazione perché con loro ha vissuto anche la guerra civile). Così viene rilasciato.