Giustizia riparativa minorile, un progetto al via nel Triveneto di Marzia Paolucci Italia Oggi, 6 maggio 2019 Una stretta di mano. Accompagnamento alla mediazione penale. Si chiama “Una stretta di mano” il progetto di giustizia riparativa minorile del Cnca - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza gestito dalla “Casa San Benedetto-Istituto Don Calabria di Verona”, opera sociale, educativa e sanitaria promossa dalla Congregazione Poveri Servi della Divina Provvidenza, in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità. Il progetto di cui è partner Cittadinanzattiva, è nato per sviluppare un approccio riparativo alla giustizia in ambito penale in Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino, individuando strategie, modalità e strumenti innovativi di mediazione, di riparazione e di assistenza alla vittima del reato e di responsabilizzazione degli autori attraverso il coinvolgimento delle comunità locali. Il fi ne è quello di creare una rete territoriale e spazi di informazione e di ascolto che accompagnino entrambe le parti verso un percorso di mediazione che punti a una nuova responsabilizzazione del minore nei confronti della vittima del reato commesso. Il progetto si svolgerà nel territorio del Triveneto, già da tempo impegnato in una diffusa attività di mediazione e progetti o esperimenti di giustizia riparativa, con il coinvolgimento di diverse associazioni e amministrazioni. La rete istituzionale è costituita dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione penale esterna per il Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, dal Centro di giustizia riparativa della Regione Autonoma Trentino Alto Adige e dal Centro per la Giustizia Minorile per il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano, soggetto capofila. I fondamenti del modello riparativo sono il riconoscimento della vittima - la parte lesa deve potersi sentire riparata nella sua dignità - e l’autoresponsabilizzazione del reo. Il minore soggetto di reato deve essere consenziente e su di lui va costruito un percorso mirato che dovrebbe portarlo a rielaborare il conflitto e i motivi che lo hanno causato, riconoscendo la propria responsabilità e avvertendo la necessità di ripararlo. La comunità va coinvolta nel processo di riparazione nel doppio ruolo di destinataria delle politiche di riparazione e di attore sociale nel percorso fondato sull’azione riparativa da parte del reo. Il progetto vuole avviare e realizzare percorsi di mediazione penale rivolgendo l’attenzione al reo e soprattutto alla vittima, creando spazi di informazione e di ascolto che accompagnino entrambe le parti a intraprendere il percorso di mediazione. Incontri con esperti saranno la premessa per una riflessione sulla giustizia riparativa tra gli operatori. Per promuovere la creazione di una rete territoriale di soggetti interessati, previsto anche l’avvio di rapporti con i referenti regionali e con gli amministratori degli enti locali per l’avvio di attività di sensibilizzazione alle tematiche della giustizia ripartiva. Chiude il cerchio la costituzione di un coordinamento regionale delle organizzazioni e degli enti che intendano sviluppare politiche e azioni di giustizia ripartiva. Saranno individuati soggetti pubblici e del terzo settore da coinvolgere in tavoli di lavoro specifici, capaci d programmi di giustizia riparativa vicini ai luoghi e ai contesti di vita e di relazione di autori e vittime di reato. Contestualmente, l’azione di sensibilizzazione e di negoziazione con i referenti regionali è finalizzata ad individuare le condizioni di fattibilità per la costituzione di un tavolo di lavoro regionale in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, premessa per un coordinamento regionale in materia di giustizia riparativa. Avvocati penalisti in sciopero dall’8 al 10 maggio La Repubblica, 6 maggio 2019 Protesta contro “riforme giustizialiste e populiste”. Il presidente della Camere Penali: “C’è un crescente accanimento legislativo”. Durante l’astensione sarà presentato un manifesto sull’idea liberale della Giustizia. Tre giorni di astensione dalle udienze dall’8 al 10 maggio contro “riforme giustizialiste e populiste”, in occasione dei quali sarà presentato un manifesto sull’idea liberale della Giustizia penale. Lo ha annunciato il presidente della Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, al Congresso forense. “Stiamo assistendo a un crescente accanimento legislativo - ha detto - che sceglie percorsi simbolici e soluzioni pericolose, che segue il senso di insicurezza della pubblica opinione”. I penalisti scioperano criticando riforme e provvedimenti annunciati, dalla disciplina della legittima difesa “connotata - si legge nella nota che annuncia la protesta - da finalità esclusivamente propagandistiche”, “fino alla idea barbarica della castrazione chimica” e alla, “spazza-corrotti”. “Non è una questione di rigore - afferma il presidente dei penalisti, Caiazza. Noi avvocati non siamo schierati coi corrotti, ma con cittadini presunti innocenti fino a sentenza definitiva”. L’Ucpi, “considerato che non sia più procrastinabile la esigenza di dare nel paese un forte segnale di allarme per questa sconsiderata, ossessiva gara alla promulgazione di norme sempre più eclatantemente connotate da una idea iperbolica e simbolica del più cupo e cinico populismo giustizialista”, ha deliberato l’astensione delle udienze per i giorni 8, 9 e 10 maggio. E sollecita la partecipazione di tutti gli avvocati, magistrati, cittadini e studiosi alle giornate di presentazione del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, il 10 e 11 maggio a Milano. Pignatone: “la politica affida ai giudici i problemi etici che non risolve” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 maggio 2019 Bilancio di fine carriera del procuratore di Roma: l’Italia è un Paese in cui non si rinuncia a usare le indagini per delegittimare gli avversari. Mercoledì il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone lascerà il suo incarico, dopo sette anni e due mesi, e la magistratura, dopo 45 anni di carriera, nel pieno del conflitto tra politica e giustizia. Riaccesosi anche a causa di alcune indagini condotte dal suo ufficio, come sul caso Siri. “Di indagini in corso però non parlo”, premette. Ma il contrasto tra magistratura e politica è fisiologico o in Italia è diventato un fenomeno patologico? “Se dura da decenni, seppure in forme diverse, si deve ritenere che ci siano ragioni strutturali, al di là delle scelte o delle colpe di alcuni protagonisti che pure esistono. C’è la posizione costituzionale della magistratura, indipendente dagli altri poteri e dalle loro esigenze; e c’è la tendenza, diffusa in tutto l’Occidente, ad ampliare il ruolo dei giudici, affidando loro la soluzione di problemi di natura istituzionale, economica o addirittura etica che la politica non sa o non vuole risolvere. Il nostro, poi, è da sempre un Paese profondamente diviso, in cui si continua a negare legittimazione all’avversario politico e non si rinunzia a usare contro di lui il risultato delle indagini, a prescindere dal loro esito finale”. È il motivo per cui a ogni avviso di garanzia, arresto o sentenza scoppia una polemica? “È uno dei motivi. Anche perché il nostro sistema processuale sembra fatto apposta per alimentare il conflitto. La scelta garantista di avere tre gradi di giudizio ha un costo inevitabile in termini di possibile contrasto tra le successive decisioni e di durata dei procedimenti, aggravata poi dall’incredibile carenza di risorse; mentre la tutela del diritto di difesa impone la discovery, e quindi la conoscenza, degli atti processuali anche in fasi iniziali delle indagini”. C’entra anche un uso eccessivo delle intercettazioni? “Spesso si dimentica che le ultime due legislature ne hanno esteso l’uso proprio ai reati di corruzione, anche con le tecnologie più moderne, della cui invasività ci accorgiamo ogni giorno di più. Io comunque, ben prima delle modifiche legislative, ho invitato colleghi e polizia giudiziaria a essere particolarmente rigorosi nella selezione delle intercettazioni da utilizzare. Così come ho introdotto criteri più stringenti per l’iscrizione degli indagati la cui notizia, di per sé sola, è spesso causa di discredito e danni sociali”. Confermando la fama di magistrato prudente, che però non le è bastata ad evitare le accuse di influenzare la politica attraverso le inchieste. “Io ho cercato di essere prudente nel senso della virtù cardinale di cui parla Papa Francesco, “non per stare fermo ma per portare avanti le cose, che inclina a ponderare con serenità le ragioni di diritto e di fatto che devono stare alla base del giudizio”. Una virtù da esercitare prescindendo da vedute personali e dai propri convincimenti ideologici. Per usare le parole di Falcone al Csm quando fu accusato di tenere le prove nei cassetti: “Non si può ragionare: io contesto il reato e poi si vede”. Naturalmente questo è l’obiettivo, non sta a me dire quanto sia riuscito a raggiungerlo. Però dev’essere chiaro che noi abbiamo il dovere di perseguire i reati facendo tutte le indagini necessarie. Quanto alle critiche vanno accettate, specie da chi esercita un potere: a volte forniscono utili spunti di riflessione, a volte servono per esercitare la virtù della pazienza; quelle che lei indica, mi sembra rientrino nella seconda categoria”. Ha ragione chi sostiene che pure i magistrati devono avere attenzione agli “equilibri istituzionali”? “Penso che tutte le istituzioni e i loro rappresentanti meritino rispetto, così come lo chiediamo noi magistrati. Per questo vanno evitati l’esasperazione dei contrasti e ciò che serve solo a produrre discredito, cercando invece di collaborare, come ad esempio credo sia avvenuto nel caso Regeni. Fermo restando, ripeto, che quando sono emersi reati anche in ambiti istituzionali li abbiamo perseguiti come nei confronti di chiunque, e che la responsabilità penale è personale”. Ma i familiari di Regeni riusciranno mai a avere giustizia? “Alcuni risultati li abbiamo ottenuti, sventando depistaggi e calunnie. E com’è avvenuto con l’ultima rogatoria inoltrata, la Procura continua a cercare la verità e a sollecitare indagini, che però solo gli inquirenti egiziani possono svolgere”. Avete messo tre sindaci sotto processo e condotto inchieste che hanno fatto molto rumore, da Consip al progetto del nuovo stadio, fino a Siri; sono il sintomo di un potere inaffidabile a prescindere dall’identità politica di chi lo esercita? “I casi citati sono molto eterogenei e non bastano per formulare conclusioni. Se ne potrebbero prendere in considerazione molti altri, ma io credo che alla fine tutto dipenda dalla singola persona e dalle sue scelte”. Prima del suo arrivo la Procura di Roma era considerata un “porto delle nebbie”. “Non so se fosse una definizione giustificata. So di avere trovato un ufficio consapevole della necessità di profondi cambiamenti, e molti colleghi di grande qualità professionale, tanti addirittura eccezionale, che molto soffrivano quella nomea; hanno rapidamente condiviso le mie convinzioni, frutto delle mie esperienze, sull’importanza del lavoro di squadra; sulla condivisione di conoscenze e professionalità diverse; sulle indagini condotte, per i fatti più importanti, seguendo strategie investigative di largo respiro e non limitate ai singoli episodi; sull’assenza di pregiudizi positivi o negativi: non ci sono santuari intoccabili, ma nemmeno colpevoli a priori. E anche le forze di polizia hanno accettato e lealmente attuato questo programma di lavoro”. Uno dei processi-simbolo della sua gestione è stato quello a “Mafia capitale”, foriero di tante polemiche. Ha mai pensato di aver esagerato con l’accusa di associazione mafiosa? “Sinceramente no. Molte sentenze, alcune già definitive, riconoscono la natura mafiosa di un’associazione quando si prova il ricorso al metodo mafioso. La Cassazione le ha definite “piccole mafie”; fermo restando che, come ho sempre detto, Roma non è una città mafiosa nel senso che è dominata dalle mafie. E poi mi lasci dire: noi non giochiamo con la libertà e i diritti fondamentali dei cittadini e qualcuno finge di dimenticare che il pubblico ministero può fare richieste ma sono i giudici che in totale indipendenza decidono intercettazioni, misure cautelari e condanne”. Come ha vissuto l’inchiesta e il processo a carico di alcuni carabinieri per la morte di Stefano Cucchi, e la scoperta dei depistaggi? “Anche in altri casi abbiamo dimostrato che lo Stato è capace di indagare su se stesso, e non è superfluo dire che queste sono le indagini che non vorremmo mai dover fare, e che a volte ci fanno personalmente soffrire. In questo caso credo incida nell’opinione pubblica anche un sentimento di straordinaria solidarietà umana per la vittima e i suoi familiari, anche per il loro comportamento in tutti questi anni; il fatto che per proteggere i reali colpevoli siano state a lungo accusate persone del tutto innocenti, e infine che i responsabili siano - se le accuse saranno provate - militari, e anche ufficiali, dell’Arma dei carabinieri, una istituzione verso cui gli italiani hanno sempre avuto, con ragione, fiducia e rispetto. Noi per primi siamo stati sorpresi di alcuni esiti delle indagini, condotte anche in questa vicenda gravissima con il massimo impegno e senza pregiudizi di alcun genere”. Prima di approdare a Roma lei ha trascorso gran parte della carriera in Sicilia, la sua terra, attraversando stagioni drammatiche segnate da guerre di mafia, delitti eccellenti e stragi. Quali sentimenti e ricordi si porta dietro, di quel periodo? “In questo momento voglio solo ricordare i moltissimi, di tutte le categorie sociali, che nei momenti più terribili hanno continuato a lavorare chiedendosi se non sarebbero stati proprio loro i prossimi a cadere. E i familiari di tante, troppe vittime venuti a chiederci giustizia per i loro cari con disperazione, con dignità, con fiducia, con rabbia, a volte insultandoci. Quando, non sempre, siamo riusciti a dare loro risposta, è stato un bel giorno”. Che bilancio fa della sua lunga attività di pubblico ministero, nel momento di lasciare la toga ? “È impossibile farlo in poche battute. Ho vissuto esperienze umane e professionali straordinarie e, come altri, ho pagato prezzi personali e familiari non indifferenti. Ne è valsa la pena nella misura in cui, insieme a tanti altri, siamo stati utili alla collettività, in tempi e contesti estremamente difficili. E voglio sottolineare che risultati importanti sono per un pm non solo arresti e condanne, ma anche assoluzioni e archiviazioni, anche se proprio queste a volte sono oggetto di critiche violente quanto infondate”. Mafia: alle sezioni Unite il contrasto sulle organizzazioni delocalizzate di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2019 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 10 aprile 2019 n. 15768. Va rimessa alle sezioni Unite, sussistendo contrasto di giurisprudenza, la questione se sia o no configurabile il reato di cui all’articolo 416-bis del Cp con riguardo a una articolazione periferica (cosiddetta “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, anche in difetto di esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento. Questa la decisione della sezione I penale della Cassazione con la sentenza 10 aprile 2019 n. 15768. Le mafie cosiddette delocalizzate - In tema di mafie cosiddette “delocalizzate”, operanti in territori diversi da quelli tradizionali delle associazioni di riferimento (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia) è in effetti controverso il tema se, per la configurabilità della fattispecie associativa ex articolo 416-bis del codice penale nei confronti dell’articolazione periferica (“locale”), sia o no necessaria la verifica in positivo dell’effettivo svolgimento in quel territorio di una attività metodologicamente mafiosa: ossia, se sia necessario o meno che l’organizzazione periferica, per vedersi attribuito il reato associativo, debba in positivo avere sviluppato nel territorio gli elementi previsti quali l’intimidazione, l’assoggettamento e l’omertà. Ciò ha giustificato la rimessione alle sezioni Unite. Il primo orientamento - Vi è infatti un orientamento secondo cui il reato associativo di tipo mafioso è configurabile - con riferimento a una nuova articolazione periferica (“locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza - anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, e il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico. Secondo tale tesi non solo non sarebbe necessaria la verifica sull’eventuale commissione dei reati-fine, ma sarebbe sufficiente la dimostrazione del collegamento con l’associazione originaria, circostanza già di per sé idonea a fondare un giudizio di pericolosità mafiosa, anche in assenza di un’effettiva manifestazione all’esterno, sul territorio di insediamento, della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e dalle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano (cfr., tra le altre, sezione V, 3 marzo 2015, Bandiera e altri, nonché sezione V, 24 ottobre 2018, parte civile Regione Emilia Romagna ed altri in proc. Battaglia ed altri, in una fattispecie relativa a associazione ‘ndranghetista operante in Emilia, in cui la Corte, in motivazione, ha peraltro rilevato come il giudice di merito avesse comunque dato atto di come il sodalizio avesse in ogni caso fatto effettivamente uso del metodo mafioso all’esterno ed al suo interno, siccome dimostrato dal numero consistente di estorsioni consumate in danno di imprenditori calabresi e non, operanti in territorio emiliano, e degli atti di intimidazione consumati in pregiudizio dei congiunti di un soggetto accusato di essersi appropriato di una somma di denaro consegnatagli per essere investita). Un orientamento opposto - Vi è però un opposto orientamento secondo cui, invece, è necessaria, per fondare la fattispecie ex articolo 416-bis del codice penale nei confronti della locale operante in territorio diverso da quello “madre”, la manifestazione di una capacità di intimidazione non solo potenziale, ma attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i componenti dell’organizzazione. In altri termini, secondo tale orientamento, ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione, costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva e obiettivamente riscontrabile, per cui non potrebbe qualificarsi come mafiosa l’organizzazione periferica, in assenza di prova dell’esternazione in loco della metodologia mafiosa, sulla base soltanto del collegamento degli imputati con esponenti della associazione madre (cfr., tra le altre, sezione I, 17 giugno 2016, Pesce; sezione VI, 13 giugno 2017, Vicedomini). Questa tesi valorizza, a supporto, anche la lettera dell’articolo 416-bis del codice penale, laddove - nel comma 3- si utilizza l’espressione “si avvalgono”, che renderebbe esplicita, ai fini della consumazione del reato, la necessità che l’ente faccia un uso effettivo del metodo mafioso. Reati contro la persona: la configurabilità di atti persecutori. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2019 Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Atti persecutori - Dolo generico - Prova. Nel reato di atti persecutori, la prova del dolo generico, che lo contraddistingue, può desumersi dalle insistite e pervicaci condotte intrusive nell’altrui perimetro esistenziale, che dimostrano la volontà del soggetto agente di porle in essere nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 18 aprile 2019 n. 17150. Reati contro la persona - Atti persecutori - Articolo 612 bis del codice penale -Configurabilità - Presenza di due episodi - Sufficienza. Il delitto di atti persecutori di cui all’articolo 612bis del codice penale è da ritenersi integrato anche in presenza di due sole condotte di lesioni, minacce e molestie, consumate in un breve arco temporale, tale da far derivare comunque un perdurante stato di ansia nella vittima. Non è dunque necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 14 marzo 2019 n. 11450. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - In genere - Atti persecutori - Eventi del reato - Prova - Descrizione precisa dell’evento da parte della persona offesa - Necessità - Esclusione - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che il grave stato d’ansia provocato alla vittima dall’imputato si ricavasse inequivocabilmente dal complesso probatorio risultante ai giudici, al di là della descrizione di esso fornita dalla persona offesa). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 28 dicembre 2017 n. 57704. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - In genere - Atti persecutori commessi dopo la presentazione della querela - Efficacia della querela - Ragioni. Il carattere del delitto di atti persecutori quale reato abituale improprio rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che nell’ipotesi in cui la reiterazione concerna anche condotte poste in essere dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende a queste ultime, le quali, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l’elemento oggettivo del reato. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 12 luglio 2018 n. 31996. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - In genere - Atti persecutori - Accertamento di uno stato patologico - Necessità - Esclusione - Ragioni. Ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.) non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori - e nella specie costituiti da minacce, pedinamenti e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti - abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 14 aprile 2017 n. 18646. Quei ricordi che danno luce alla mia vita di Ciro Bruno* Vita Nuova - Settimanale della Diocesi di Parma, 6 maggio 2019 Pasqua. Un ergastolano ci racconta i giorni di festa. I simboli, in carcere tra solitudine e bilanci difficili. Le festività in carcere sono molto faticose; ci sono i ricordi e più dolorose si fanno sentire le assenze. Forse è anche il momento dei bilanci difficili: trenta, venti anni di carcere, venti, trenta giornate di Pasqua trascorse dietro le sbarre. Difficile comprendere; si può solo stare accanto. Se poi viene a mancare anche la salute, il passo si fa più pesante e, ai nostri occhi, la sofferenza diventa quasi palpabile. Qui sotto una breve testimonianza con cui desideriamo ricordare alla città di Parma che ci siamo anche noi. Buona Pasqua. -------------------------------------------------------- Sono un ergastolano ostativo. Ero dunque in carcere il 17 maggio 2017 quando sono stato informato che dentro di me c’era un “intruso”, che poi ho definito “mostro maligno”. Dopodiché sono stato dichiarato incompatibile con il regime carcerario. Non ho detto niente a nessuno, ho continuato a fare le solite cose. Tra cui l’apicoltura di cui mi occupavo nel carcere di Sulmona. Il mattino, quando potevo, frequentavo anche la scuola del carcere. Ma sentivo che la mia vita era stata sconvolta. Grazie ai miei familiari e agli avvocati, ma soprattutto grazie al Magistrato di sorveglianza de L’Aquila, che ha avuto il coraggio umano e professionale di applicare la legge, disponendo, il 13 giugno 2017 l’immediata scarcerazione e concedendomi la detenzione domiciliare, il 14 giugno sono uscito dal carcere e mi hanno preso in consegna i miei cari. Mio figlio Vincenzo, sua moglie Luciana, il piccolo Francesco e mia moglie. Nonostante qualche imprevisto, nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno siamo arrivati in un paese vicino Bari. Di comune accordo abbiamo scelto di non andare a vivere a casa nostra per poter stare più vicini all’ospedale nel quale avrei dovuto fare l’intervento ed essere curato. Mi operarono il 17 settembre 2017. Andò tutto bene. O quasi. Le complicazioni che intervennero non sono state poche; ho perso il conto di quante visite ho dovuto effettuare nei vari ospedali della Puglia. Il Magistrato mi autorizzava ogni volta, con l’obbligo di avvisare i carabinieri del posto, all’arrivo; e poi, al rientro, mi ripresentavo con la certificazione sanitaria che rilasciavano. Ho effettuato trentasette sedute di radioterapia. Inoltre mi seguiva un laboratorio specializzato per la riabilitazione. E come se non bastasse sono caduto in una depressione reattiva e venivo curato anche per questa. Il 24 maggio 2018, alla richiesta dei miei avvocati di prorogare di altri sei mesi la misura della detenzione domiciliare per i motivi di salute e per la cura ormonale che avevo iniziato a fare, il Tribunale di sorveglianza di competenza, nonostante i certificati del medico e del perito, ha risposto che potevo essere curato anche in un centro clinico penitenziario. Tanto avveniva contro il parere di medici e periti. Il 24 fummo informati dagli avvocati e il 28 vennero a casa i carabinieri a notificarmi il provvedimento di ritorno in carcere. Io avevo già mandato mio figlio dagli stessi carabinieri per far sapere loro che mi volevo consegnare al carcere di Sulmona, da dove ero stato scarcerato. Ma loro mi risposero che non potevo, che prima dovevo aspettare il provvedimento definitivo, come da prassi. Questa attesa, quasi un’agonia, durò fino al 13 giugno 2018, quando venni “catapultato” in un istituto pugliese, in isolamento totale per un mese e mezzo perché non c’era la struttura adatta per detenermi. Non nascondo che mi sono sentito “azzerare”, come fossi un cane, con tutto il rispetto per i cani. L’idea di dover essere curato in carcere è diventata per me un chiodo fisso, che ha pregiudicato ancora di più il mio stato psico-fisico. Ma, grazie all’aiuto dei miei cari, pian piano ne sono venuto fuori. Oggi sono di nuovo rinchiuso a Parma nel centro clinico e cerco di vivere alla luce dei ricordi. *Redazione di Ristretti Orizzonti - Parma Napoli: “DisarmiAMO Napoli”, la città scende in piazza per dire no alla camorra di Conchita Sannino La Repubblica, 6 maggio 2019 Centinaia di cittadini in corteo in piazza Nazionale, dove è stata ferita la piccola N. Con la rabbia di chi è stanco e una sola domanda: ma da domani, cambia qualcosa? Ore 11 in piazza Nazionale, parola d’ordine “DisarmiAMO Napoli”, tre giorni dopo l’agguato di camorra con tre feriti in una zona popolare e in pieno pomeriggio - oltre al pregiudicato Salvatore Nurcaro, in gravissime condizioni, le pallore vaganti colpiscono le due innocenti, la bimba di 4 anni che lotta per la vita al Santonono e sua nonna di 50 anni. È una partecipazione massiccia, spontanea e trasversale, quella che risponde alla manifestazione ufficialmente senza firme di alcun partito, ma sorta da un appello della terza municipalità che fa capo a esponenti della maggioranza del sindaco de Magistris. C’è chi chiede “una risposta eccezionale e catture”, chi condanna le troppe garanzie che vanificano “la certezza della pena”, chi invece qui ed oggi ce l’ha con le forze dell’ordine: “perché non é possibile che dopo tante sparatorie, dopo non solo i morti ma anche i tanti feriti innocenti non ci sia un presidio del territorio degno di un Paese civile. Sparano alle cinque del pomeriggio tra i giardinetti e i bar, un mese dopo che aveva sparato davanti a un asilo. Che altro deve succedere?”. Parla anche Libera, con la voce di Fabio Giuliani. “Allo Stato chiediamo risposte e sicurezza: subito, visibile, netta. Sono un operatore sociale : chiaro che non basti la repressione e basta. Ma ora qui occorre soprattutto presenza dello Stato, che si riprenda il monopolio dell’ordine della forza. Una risposta forte rigorosa senza se e senza ma, proprio come ha chiesto il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho su Repubblica”. Giuliani aggiunge: “E al killer diciamo : Costituisciti. Non c’è vita non c’è futuro non può esserci altro per te dopo quello che hai fatto. Costituisciti, racconta tutto, cambia vita. E paga alla giustizia per quello che hai fatto; solo così potrai tornare a essere persona”. È in piazza anche il vicesindaco Enrico Panini, che dice a Repubblica : “Condividiamo parola per parola l’analisi severa del procuratore Cafiero. Ha ragione il vertice della Dna: vengano a Napoli ogni mese il ministro dell’Interno, i vertici delle forze dell’ordine. A rendicontare alle cittadine e ai cittadini sugli impegni assunti, i fatti accaduti e i risultati conseguiti”. Napoli: il figlio del boss “Amo mio padre ma lo rinnego, mi ha reso la vita impossibile” di Conchita Sannino La Repubblica, 6 maggio 2019 “Sì, lo confermo. Sono figlio di camorrista, ma mi fa schifo quella subcultura”. Antonio, suo padre è il boss Rosario Piccirillo, accuse per associazione mafiosa, estorsioni. “Sì, non ha condanne definitive, ma certo ne ha avuto di titoli come capoclan, è considerato promotore. E io lo confermo: la camorra è da buttare e schiacciare, anche se mio padre è stato uno di loro. E ora è in carcere, da anni”. E quindi? Lei, che fa? “E quindi io gli voglio bene, ma non lo stimo. Non sarà mai un amore totale. Lui lo sa. Ha capito. Dice anzi che solo questa mia svolta ha dato un senso alla sua vita buttata”. Antonio Piccirillo ha 23 anni, gli occhi chiari, uno sguardo magnetico. Sembra finto, ma non lo è: “Sì, il mio amico Pietro Ioia, che guida un’associazione di ex detenuti e mi ha dato una mano per cambiare vita, mi dice che potevo fare l’attore. Ma io campo tranquillo con il B&B”. Ieri, in piazza, contro la camorra, c’era anche lui. Testimonianza col megafono. A viso aperto. Perché è andato in piazza? “Perché non voglio che altri facciano questa fine, non voglio più che altri si rovinino come tanti ragazzi. Ma la gente non sa, tantissimi ragazzi non sanno la vita che si fa davvero. Io mio padre l’ho visto da tento tempo con gli occhi spenti, con la morte dentro. E pensi che manco i soldi per andarlo a trovare mi lasciato. Si chiamano tutti boss, ma alcuni si arricchiscono e comunque fanno una vita di merda, mentre altri i soldi li bruciano per avvocati, latitanze, casini”. Perché ha deciso di parlare? “Perché ho letto, ho scoperto i libri, ho capito quello che diceva Oriana Fallaci e anche altri. In certi momenti tacere è colpevole, e parlare è un dovere. È l’unica modo per sentirsi essere umani, e non pedine, non animali, non bestie”. Antonio, ha studiato? “Come un idiota, non ho completato la scuola superiore. Sto facendo un corso serale, il mio sogno è iscrivermi all’Università, magari Sociologia, non lo so se ci riuscirò mai. Per ora, sono felice di accogliere i turisti, vedere che arrivano in questa città, che apprezzano tutto il bello che c’è”. Cosa direbbe agli altri figli di boss? “Amate sempre i vostri padri, ma dissociatevi dal loro stile di vita, fate come me, non cercate di dire balle, io ho cominciato a vergognarmi di me, a sentirmi un fesso uno sfigato che si arrampicava a mille bugie pur di non dirsi la verità e non guardare in faccia chi era mio padre che cos’era il nostro stile di vita. Ma quelli sono stili di vita che non pagano, non danno nulla” Perché si vergognava, cosa diceva e faceva? “Perché dicevo che mio padre era un grande costruttore, un imprenditore, cazzate del genere. Tutti soldi guadagnati illecitamente. E io non capivo, io non volevo vedere ma non mi commisero, ho fatto i miei errori”. Cosa vuole raccontare agli altri che spacciano e sparano? “Se noi figli non faremo passi avanti, se non cambiamo noi, rimarremo fossilizzati in questa cultura, priva di etica e di valori. C’è chi pensa che la camorra, cinquanta anni fa, era meglio di come è oggi. Ma ha sempre fatto schifo, dico io. È sempre stata ignobile, non ha mai pagato. Le persone perbene sono quelle che rispettano gli altri”. Suo padre cosa dice? “Che questa mia decisione ha dato un significato alle cazzate che ha fatto”. Reggio Calabria: “Io, figlio di ‘ndrangheta salvato da un sacerdote” di Davide Imeneo Avvenire, 6 maggio 2019 In carcere a soli 17 anni, il ragazzo ha scelto di allontanarsi dalla famiglia collusa con le cosche. Decisivo l’incontro con don Calabrò e il programma “Liberi di scegliere” sostenuto dall’8Xmille. “Io sono Giosuè, sono nato e cresciuto in una famiglia di ‘ndrangheta”. Si presenta così, mentre si appresta a raccontare la sua storia, colui che è a tutti gli effetti uno dei precursori del Protocollo “Liberi di scegliere”, la rete di associazioni e istituzioni, finanziata coi fondi dell’8Xmille, che permette ai figli dei mafiosi a cui è stata sospesa la responsabilità genitoriale, di costruirsi un futuro senza ‘ndrangheta. Il “padre”, di questo modello è Roberto Di Bella, attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ma Giosuè fu il primo dei minori allontanato dalla propria famiglia di mafia. Infatti, cresciuto in un paese della Piana di Gioia Tauro, nel 1988, a soli 17 anni Giosué finisce nel carcere minorile di Reggio. Lì fa un incontro che gli cambierà la vita. Quello con don Italo Calabrò, allora vicario generale della chiesa Reggina. Giosuè, cosa ricordi di quegli anni? Sono cresciuto in una famiglia mafiosa e in un ambiente mafioso. Quando ero piccolo sono stato in collegio, lì ho conosciuto tanti ragazzini che oggi hanno cognomi “importanti”, che poi ho ritrovato sui giornali. Lì c’era un disagio sociale forte, sono nato in una realtà dura. Quando avevo 15 anni cominciavo a capire e a entrare nel meccanismo. A 17 anni sono finito prima davanti al Tribunale e poi in carcere minorile. Lì ho cominciato a maturare una riflessione, avendo tutto il tempo per riflettere (ride, ndr) ho deciso di fare qualcosa per cambiare il mio destino. Che reato hai commesso? Diciamo che finii trascinato in quella storia perché commisi degli errori ma non commisi direttamente il fatto. Però avevo dei “doveri”, non potevo fare nomi, perciò finii in galera. In carcere ho conosciuto don Italo Calabrò, venne in visita. Anche le assistenti sociali mi hanno aiutato tanto. Uscii col condono di pena e fui affidato ai servizi sociali. Forse il carcere fa “punteggio” in certi ambienti... Sì sì, quando sono uscito, per la mia famiglia era come se avessi preso la laurea. Se fossi tornato, l’avrei fatto da “uomo”, da persona che ha mantenuto l’onore, non ha parlato. Avevo superato la prova con 30 e lode. Ho guadagnato rispetto, saluti da gente che non mi considerava. Queste sono le “virtù” della ‘ndrangheta. Un’anti-educazione. Questo pesa molto su un ragazzo, vale ancora oggi? Su un ragazzino di 17 anni che ha bisogno di sentirsi forte e protetto, questo può dare una pericolosa falsa sicurezza. È per questo che, quando sono uscito, don Italo venne a prendermi. Fosti tu a cercare lui? Io ho maturato la scelta di non tornare a casa, dovevo fare qualcosa per me, cercare un’altra strada. Altrimenti quello che mi aspettava era fare “carriera” in quella famiglia, rischiare la vita, rischiare il carcere. Quindi come è avvenuto l’incontro con don Italo? Furono le assistenti sociali del Tribunale per i minorenni a metterci in contatto. Lui era una persona che parlava all’altro come se fosse il suo migliore amico. Quando lo vedevi sapevi che se avessi bussato alla porta avrebbe aperto. Anche se era un prete “importante” non si dimenticava di nessuno. Qual è la cosa che ti ha detto che ti è rimasta più impressa? Non è tanto ciò che diceva, ma ciò che faceva ad aver fatto la differenza per me. Voleva che partecipassi alle riunioni dell’Agape (associazione di solidarietà da lui fondata), che sentissi parole diverse, parole d’amore: erano riunioni molto diverse da quelle a cui ero abituato, qui si progettava come aiutare il prossimo. Mi portava ai convegni in cui si parlava di contrasto alla mafia. Non c’è stata una cosa singola, particolare. Quando è morto, forse. In quel momento, io andai da lui assieme a un grande amico, Francesco. Don Italo era in un pessimo stato fisico ma gli disse: “Ti affido Giosuè”. Si preoccupò di me anche sul letto di morte. Cosa hai trovato dopo esserti allontanato dalla tua famiglia? Ho trovato una moralità diversa, ho trovato affetto da persone che mi hanno insegnato i veri valori della vita, come quello del rispetto per l’altro. La mia vita è cambiata per sempre, come se fossi rinato. Avellino: carcere di Bellizzi “sanità insufficiente, manca il lavoro” ottopagine.it, 6 maggio 2019 La denuncia dei Radicali dopo la visita al penitenziario irpino. Lo scorso 2 maggio i Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno visitato il penitenziario di Bellizzi Irpino nell’ambito di un ciclo di ingressi in carcere che ha riguardato anche Benevento e Sant’Angelo dei Lombardi. Il carcere di Bellizzi Irpino, diretto da Paolo Pastena, ospita al momento 582 detenuti su una capienza complessiva di 501. Di questi 32 sono donne, 376 sono definitivi, 102 in attesa di giudizio e 55 con posizione giuridica mista. Inoltre, 33 sono i protetti, mentre sono 101 quelli in regime di alta sicurezza. I detenuti i cui reati rientrano nella normativa di cui all’art. 73 (produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti) del testo unico in materia di stupefacenti Dpr 309/1990 sono in tutto 184 mentre ammontano a 91 coloro i quali si trovano in istituto per reati rientranti nell’art. 74 dello stesso testo legislativo (associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti). Ad inizio anno si è assistito ad un incremento del numero di detenuti ma va tuttavia sottolineato che la struttura garantisce celle da 10 metri quadri (con letto a castello per due) e celle da 24 metri quadri (pensate per 4 detenuti ma molto spesso ne ospitano 5 o 6). Tali stanze, pur non avendo un tasso di sovraffollamento drammatico, comportano i maggiori disagi abitativi soprattutto per la presenza di un unico servizio igienico. Per quanto concerne la pianta organica della Polizia Penitenziaria, essa al momento vede 253 agenti in servizio su 297 assegnati. Ciò nonostante, in struttura sono effettivamente impiegati 198 agenti, poiché parte di essi lavora per il nucleo provinciale di traduzione. Inoltre, l’età media degli agenti è molto elevata, quindi sono frequenti le assenze per malattia e molti sono prossimi al pensionamento. Altro punto dolente è quello relativo alla magistratura di sorveglianza: i magistrati di sorveglianza infatti non si recano spesso in carcere e anch’essi hanno subito una brusca riduzione nel novembre del 2018. Dal punto di vista sanitario, alla delegazione radicale guidata dall’avvocato Raffaele Minieri, è stato spiegato come in un certo senso l’Asl consideri la sanità penitenziaria come un peso, un compito scomodo da svolgere. Arrivano molte lamentele da parte dei detenuti. Il problema vero è che spesso non vengono inviati gli specialisti che invece sarebbero necessari in struttura, ha sottolineato il direttore. Al momento in struttura mancano uno psichiatra fisso, un ortopedico (sebbene ci sia un gabinetto per la fisioterapia molto attrezzato) mancano anche un infettivologo, un radiologo ed un diabetologo. La situazione era migliore quando il sistema era gestito direttamente dal dipartimento. Durante la visita in infermeria i Radicali hanno avuto modo di confrontarsi con due dottoresse operative nella struttura. Queste hanno evidenziato che, avendo la sanità penitenziaria come punto di riferimento l’Asl che ha competenza in quel determinato territorio, inevitabilmente si risente poi di tutte le problematiche riguardanti quell’Asl, un esempio per tutti: le lista d’attesa interminabili. Le dottoresse auspicano la creazione di canali di assistenza diretta: la medicina penitenziaria dovrebbe essere considerata un settore a sé stante, una branca specialistica del percorso ordinario. I medici si scontrano spesso con i detenuti proprio perché questi vorrebbero usufruire di trattamenti immediati. Il reparto infermieristico della struttura si presenta molto ben fornito e attrezzato con macchinari per effettuare radiologie e sala d’ortopedia. Il problema è che mancano gli specialisti di tali discipline mediche. C’è il tecnico e c’è anche la sala ma manca lo specialista. La ragione per cui mancano gli specialisti risiede nel fatto che le convocazioni in realtà ci sono e gli incarichi non mancano, il problema è che molti rinunciano perché la medicina in carcere è vissuta come un peso, quasi come una punizione. Solo per pochi (e le dottoresse presenti a Bellizzi rientrano tra questi) questo lavoro è vissuto come una passione e una missione. Le patologie più frequenti in carcere sono certamente quelle di natura psichiatrica. Sul fronte strutturale, il carcere di Bellizzi Irpino ospita al piano terra la sezione ex. Art.32 R.E. destinata a detenuti (spesso provenienti da altri istituti per motivi di ordine e sicurezza) con recenti precedenti disciplinari; sempre al piano terra (lato sinistro) sono poi presenti i giudicabili. Al primo piano troviamo le due sezioni maschili di media sicurezza (i cosiddetti “comuni”) caratterizzate dalla presenza di detenuti con fine pena non particolarmente alto e comunque generalmente contenuto entro i cinque anni. Le due sezioni dell’alta sicurezza si trovano al secondo piano. In un corpo separato ci sono le due sezioni di reclusione del Reparto penale. Il nuovo padiglione detentivo, il Padiglione De Vivo a sorveglianza dinamica e custodia aperta, è anch’esso ospitato in un corpo separato. La sorveglianza dinamica è caratterizzata da una minore presenza degli agenti in reparto, la sorveglianza diretta dell’agente viene in parte sostituita da un sistema di videosorveglianza gestito e controllato dagli stessi agenti. Questo sistema non fa altro che rendere da un lato il detenuto più libero di spostarsi in reparto e meno vincolato, dall’altro va a facilitare il lavoro degli agenti. La sezione protetti ospita invece detenuti che hanno avuto problemi di compatibilità con altri ristretti. La sezione femminile ha una presenza media di 25/30 unità, con una sezione nido, attualmente quasi mai occupata da madri, poiché queste vengono di norma trasferite presso il carcere di Lauro. Ci sono poi la sezione infermeria e la sezione isolamento. Nel corso del 2018 l’opera di ristrutturazione delle sezioni detentive ha portato alla realizzazione di interventi migliorativi presso le due sezioni del piano terra. Sono attualmente in previsione interventi di ristrutturazione nelle due sezioni dell’Alta Sicurezza, le quali presentavano qualche problema di umidità nelle stanze e nei bagni. In questa sezione i detenuti sono ancora in attesa della doccia in camera. Le attività scolastiche previste sono quelle di alfabetizzazione per stranieri, percorso di 200 ore per licenza elementare, percorso d’istruzione di primo livello (scuola media), Istituto tecnico per geometri e liceo artistico. Sotto il profilo delle attività lavorative invece, nello scorso anno vi è stata una sostanziale diminuzione delle possibilità occupazionali poiché l’incremento delle retribuzioni ha comportato la necessità di ridurre il numero di ore complessivamente a disposizione dei detenuti. Al 31.12.2018 erano in servizio complessivamente 134 detenuti che prestavano attività lavorativa nell’istituto oltre ai 19 impegnati nelle lavorazioni. Tra i laboratori figurano la lavorazione del legno, il laboratorio di pelletteria e sartoria e quello teatrale. La struttura presenta anche numerose salette adibite a palestra, anche se servirebbero i fondi per acquistare nuovi macchinari e attrezzi, poiché molti di questi sono fuori uso. In generale le grandi problematiche della struttura sembrano essere quelle comuni a tutte le strutture penitenziarie che i Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno visitato fino ad oggi: gestione della medicina penitenziaria da parte dell’Asl meno che sufficiente oltre a un’offerta lavorativa per i detenuti non pienamente soddisfacente. I detenuti auspicano, qui come altrove, maggiori opportunità di crescita personale e lavorativa, possibilità di mettersi in gioco e di trovare un proprio posto nel mondo. Napoli: detenuto a Poggioreale in attesa di trapianto al cuore cronachedellacampania.it, 6 maggio 2019 I familiari: “Non lasciatelo morire in carcere”. “Non diciamo che deve tornare in libertà ma che almeno non sia lasciato morire in carcere”. I familiari di Francesco Maglione, 59 anni di Villaricca detenuto dallo scorso anno nel reparto San Paolo del carcere di Poggioreale, lanciano l’allarme sulle condizioni di salute del loro congiunto. Secondo una perizia medica firmata dal dottor Piermario Oliviero e datata 24 aprile scorso il detenuto “Non è compatibile con la detenzione per le sue gravi condizioni di salute” essendo affetto da una cardiomiopatia dilatativa. È in attesa di trapianto cardiaco e le sue condizioni di salute peggiorano giorno dopo giorno. Secondo la perizia “la massiva e sostenuta terapia farmacologica che è costretto ad assumere, ivi compresa la terapia anticoagulante con il delicato management e gestione, della necessità di eseguire esami strumentali specialistici ravvicinati anche invasivi e degli eventuali ulteriori interventi chirurgici a cui potrebbe doversi sottoporre… mettono seriamente in pericolo la vita del paziente. Inoltre altra condizione altamente condizionante risulta essere la gestione della sua condizione di portatore di defibrillatore automatico. Infine la gestione nella lista dei trapianti con i conseguenti e relativi controlli e la possibilità di diritto di scegliere le strutture e gli operatori che dovranno eseguire le procedure invasive e gli interventi cardiaci rappresentano un ulteriore controindicazione alla condizione di detenzione carceraria ordinaria anche in considerazione della possibilità di poter avere la vicinanza dei familiari in momenti così tragici e delicati”. Il detenuto, ex casalese ed ex clan Ferrara, parente della moglie, è una personaggio noto alle cronache giudiziarie. Era stato arrestato per usura lo scorso anno insieme con un complice perché coinvolto nell’inchiesta che portò al suicidio di un imprenditore di Giugliano stritolato dal vortice usuraio di Maglione del complice. Lo scorso mese aveva attuato una sorta di “sciopero del farmaco” in carcere rifiutando di prendere i medicinali salva-vita per protestare contro il trattamento che sta avendo in carcere e contro i ritardi nelle cure. Ora però le sue condizioni di salute sarebbero peggiorate ulteriormente e i familiari chiedono che qualcuno lo aiuti. Catania: il Csve conferma il suo impegno tra i detenuti anche per il 2019 csvetneo.org, 6 maggio 2019 Proseguirà anche nel 2019 l’azione “volontariato nell’area penale” del Centro di servizio per il volontariato etneo, che conferma così la sua azione a sostegno delle organizzazioni che operano nell’area penale: non solo le iniziative nelle carceri, ma anche le collaborazioni con l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) e Ussm (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni). Il primo appuntamento del nuovo progetto annuale si è svolto mercoledì 2 Gennaio, in virtù di un’iniziativa di solidarietà organizzata dal Csve all’interno dell’Istituto Penitenziario Minorile di Bicocca, che ha visto la partecipazione di volontari appartenenti alle associazioni Amici di Librino, Clown Senza Frontiere, Fondazione Cirino La Rosa, Mani Tese Sicilia, Metacometa, Mettiamoci in Gioco. Nel corso della mattinata, gli operatori del Csve hanno messo a disposizione della Direzione del Carcere due completini da calcio che potranno essere utilizzati dai giovani detenuti e dai volontari delle Associazioni che periodicamente organizzano le partite nella struttura. Dopo la consegna, volontari e detenuti hanno indossato i completini e giocato una partita inframmezzata delle divertenti “incursioni” dei Clown Senza Frontiere. L’incontro ha anche offerto l’occasione alle associazioni per concordare con la direttrice del carcere, Maria Randazzo, i prossimi appuntamenti, costituiti da partite di calcio, laboratori di educazione ambientale, attività di animazione per i figli dei detenuti e spettacoli teatrali. “La partita è un’occasione di incontro iniziale nell’ambito di un’iniziativa che rientra nel progetto annuale previsto in continuità con gli anni passati - commenta il presidente del Csve, Salvo Raffa- a supporto di quelle associazioni che di fatto operano all’interno delle strutture carcerarie: anche nella programmazione il centro continuerà a mettere a disposizione risorse e mantenere come ambito privilegiato di collaborazione le reti di supporto che operano nelle carceri, attraverso quelle convenzioni relative alle pene alternative quali la messa alla prova e l’esecuzione penale esterna. Si tratta così - prosegue- di dare ai detenuti una possibilità di riscatto e reinserimento che come mondo del volontariato vogliamo continuare ad assicurare tanto all’interno quanto all’esterno delle strutture carcerarie per proseguire nella strada della giustizia di comunità”. Siena: un giorno in carcere; false notizie e censure, sale sul palco la stampa di Pino Di Blasio La Nazione, 6 maggio 2019 “Quest’anno si diplomeranno tre reclusi. Lo stesso numero di quelli ospitati a Rebibbia”. Più che una lezione sulla libertà di stampa, è stata una discussione sulla libertà come profumo, come spirito, come sensazione. E anche se sei rinchiuso in pochi metri quadrati di spazio, sei ospite in una cella che per decenni ha ospitato suore e frati, e che è cambiata poco ora che è diventata pezzo di una casa circondariale, puoi respirare quel profumo e provare quella sensazione, parlando in libertà di quello che pensi. È stato questo il segreto della giornata passata ieri nel carcere di Santo Spirito: chiamato dal direttore della casa circondariale, Sergio La Montagna, e dal professor Michele Campanini, animatore di tutti gli incontri culturali, gli spettacoli e gli eventi, che riempiono un pezzo delle giornate dei detenuti. Già, i detenuti: ce ne sono 70 in questo ex convento, a ridosso delle mura medievali di Siena. Con 35 agenti di polizia a controllarli e cinque operatori culturali a farsi venire idee per dar senso alla riabilitazione e a una pena da scontare in maniera produttiva. Una bella rappresentanza dei detenuti era nella sala teatro, dove l’attore Altero Borghi mette in scena ogni anno i suoi spettacoli, per confrontarsi con chi scrive sull’esistenza o meno della libertà di stampa, sui pregi e difetti del mondo dell’informazione, su storie e problemi di un mondo che ha perso da tempo le sue bussole per orientarsi. Dal Sudafrica di Mandela alla Svezia di Olaf Palme, dal Giappone alla Brexit e alle primavere arabe, dalle fake news al peso sempre più preponderante della rete, il dialogo è stato serrato tra detenuti e ospite. Soprattutto quando si è toccato il tema di un indulto, che qualche anno fa sembrava a portata di mano. E poi è svanito, proprio come il profumo di libertà, perché il vento della politica aveva cambiato direzione. Quando si varca il cancello di Santo Spirito, si entra in un mondo solo apparentemente sospeso. Certo, ci sono le sbarre, c’è la stanza per i prelievi del Dna, ci sono portoni, chiavistelli, pesi e tapis roulant in una palestra a cielo aperto. Ma ci sono anche altre nicchie dove la mente può superare le mura, a cominciare dalla biblioteca. E il fatto che a Santo Spirito i libri siano un ‘pasto quotidiano’ per molti degli ospiti della casa circondariale, è diventato evidente proprio durante il confronto. “Quest’anno - ha rivelato il direttore Sergio La Montagna alla fine del confronto a teatro - ci saranno due o tre detenuti che si diplomeranno qui, grazie al rapporto con l’Istituto Caselli. Per un carcere così piccolo è un primato nazionale. Me lo ha confermato Edoardo Albinati, scrittore che insegna anche al carcere di Rebibbia. Lì ci sono oltre 700 detenuti, quest’anno ci saranno tre diplomati. Proprio come da noi, dove gli ospiti son solo 70”. Un altro fiore all’occhiello, assieme al giornale “Spirito in libertà”, ai corsi di teatro e agli spettacoli, alle visite di attori, scrittori e registi. A conferma che la libertà sta nello spirito. Anche se non è santo. Milano: i sapori, le storie e le pietanze delle carceri arrivano in tavola con Taste of Freedom mi-lorenteggio.com, 6 maggio 2019 Con Taste of Freedom le case circondariali di Milano sono protagoniste a Milano Food City. Sei imperdibili serate in cinque diversi ristoranti della città durante le quali verrà sperimentato un format unico nel suo genere, un inatteso e imprevedibile incontro di storie, prodotti e sapori “made in carcere”. Sei appuntamenti in cui rendere concreta e tangibile la fusion tra il mondo del cibo e l’arcipelago penale, dove poter assaporare il gusto della libertà, passando dall’interpretazione delle materie prime coltivate direttamente in carcere al racconto di chi, nelle case circondariali, ha trovato nella ristorazione un’occasione di riscatto. Taste of Freedom è un progetto ideato da Il Consorzio Viale dei Mille, nato nel 2015 su idea del Comune di Milano, e che raccoglie le più significative esperienze di lavoro in carcere promosso da imprese sociali in molti istituti di pena italiani, da Milano fino a Palermo, passando per Torino, Terni, e molti altri ancora. Taste of Freedom nasce dalla volontà di raccontare, attraverso il cibo, la dimensione creativa ed economica del carcere, a chi poco o nulla conosce di questa realtà. Ogni serata si svolgerà secondo un format rodato: una proposta culinaria preparata con i prodotti dell’economia carceraria (dalle confetture provenienti dalla cooperativa il Gabbiano, al pane e ai grissini del carcere di Milano Opera, alla pasta dall’Ucciardone di Palermo, ai sughi del carcere di Cremona, passando per le verdure e gli ortaggi, fino ai biscotti prodotti nel carcere di Verbania, al vino e alla birra artigianale di Saluzzo); tra una portata e l’altra si avrà la possibilità di conoscere la storia dei prodotti, raccontata direttamente da chi li realizza e chi, attraverso il lavoro durante la detenzione, ha visto cambiare la propria vita. Un’esperienza tra gusto e racconto che si potrà scoprire giovedì 9 maggio alle ore 20 al ristorante/bistrot Tutto bene, in via Luigi Cagnola. Sabato 4 maggio, ore 20, al ristorante In Galera, in via Cristina Belgioioso 120, presso la II Casa di reclusione di Milano - Bollate. Martedì 7 maggio alle ore 19.30 aperitivo al ristorante/bistrot Gattò, in via Castel Morrone 10. Mercoledì 8 maggio, alle ore 19.30, aperitivo a buffet alla Bottiglieria Bulloni, in piazza Aquileia. Lunedì 13 maggio, alle ore 20.00, cena alla Cooperativa La Liberazione, in via Lomellina 14. Roma: il rugby “libera” Mirko, fuori dal carcere per giocare di Paolo Ricci Bitti Il Messaggero, 6 maggio 2019 Le ali della libertà gliele ha ridate il rugby: Mirko si è fermato stupito, senza respiro, gli occhi lucidi, quando si è trovato davanti a quel prato verde adagiato lungo il Tevere. Mirko, il carcerato, non stava sognando: tra lui e quel tappeto smeraldo non c’erano un’inferriata e una serratura da aprire con le chiavi di ottone che fanno il sinistro “clack clack” impossibile da dimenticare. Mirko ha 35 anni e gli ultimi 11 li ha passati in carcere a Rebibbia: è dura stare chiusi in cella a metà dei vent’anni, anche se si è accettato di pagare per gli errori commessi. Lui, romano, è uno da “buona condotta”, ma poi in galera ogni giorno devi aggrapparti a qualcosa per continuare l’impercettibile conto alla rovescia fino al termine della pena. E a strappare più in fretta i fogli dal calendario è stata la palla ovale rimbalzata l’anno scorso davanti ai suoi piedi sul brecciolino del campetto interno a Rebibbia: e adesso Mirko è diventato il primo recluso italiano che torna libero grazie allo sport, grazie al rugby. Quattro ore la settimana, dalle 19 alle 23 del mercoledì, Mirko si allena con i Bisonti a Tor di Quinto: corre, placca, fa meta, lui così rapido quasi come quando da ragazzo giocava a calcio. E poi sente il profumo leggero del prato: buono tanto quanto l’odore forte degli spogliatoi, prima un po’ ambulatori con quelle pomate scaldamuscoli, poi un po’ stalla e un po’ sauna quando la “mandria” dei giocatori infangati si butta esausta sulle panche prima di fare la doccia. “Quando ha visto per la prima volta il campo - racconta Germana De Angelis, presidente della società dei Bisonti, serie C2, la più bassa, dilettantismo puro - Mirko si è impietrito. Era una sera magnifica, al tramonto: me l’avevano affidato mezz’ora prima a Rebibbia con l’impegno di riportarlo alle 23 e, certo, un po’ di ansia me la sentivo addosso: la responsabilità è sempre la responsabilità. Ma non avrei immaginato di provare ancora più emozione di quella toccata a lui per il “permesso premio” legato, come non era mai accaduto, al rugby. Gli ho dato una pacca sulle spalle e lui è partito, in mezzo agli altri, lui unico detenuto, lui il più felice del mondo”. È il 17 aprile 2019 la data da cerchiare sul progetto “Oltre le sbarre” della Federugby che permette ai detenuti di 18 case circondariali di fare meta. I primi passaggi (indietro, eh) in carcere a Torino (La Drola) nel 2011, poi la nascita dei Bisonti nell’istituto di massima sicurezza a Frosinone: la Fir dimostra ancora una volta l’inclusività del rugby ispirandosi anche alla storia argentina degli Espartanos, tenuti a battesimo dal sacerdote che diventerà Papa Francesco, orgoglioso di accogliere due anni fa in Vaticano quegli ex detenuti rugbysti. I Bisonti prosperano, diventano un esempio per il mondo carcerario italiano: giocano (solo in “casa”) quattro campionati, ma poi cala il sipario per colpa di un’evasione da Frosinone che pure non coinvolgeva alcuno di loro. “Per noi dirigenti e allenatori - continua la De Angelis - è stata una mazzata dopo tutti quei sacrifici, ma niente in confronto all’amarezza dei detenuti. Però non potevamo lasciare morire i Bisonti”. E allora la presidente ha chiamato a raccolta alcuni rugbysti romani e l’allenatore Stefano Scarsella, di Frosinone. Il “titolo sportivo” dei Bisonti è riapparso prima a Tor Bella Monaca e poi a Tor di Quinto, nei bei campi un tempo usati dal Cus. Un’attività su due scenari: i campi della C2 laziale con la squadra dei “liberi” che si allena a Tor di Quinto, la polvere del campetto di Rebibbia per gli allenamenti dei detenuti. Che festa nel giugno scorso quando il capitano azzurro Sergio Parisse ha fatto da porta-acqua a una loro partita “oltre le sbarre”. “Mirko si è così appassionato - continua la De Angelis - che con l’aiuto della Fir abbiamo tentato di fare una meta che pareva irraggiungibile”. Con un adattamento dell’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario - i detenuti possono essere assegnati al lavoro esterno - la Direzione di Rebibbia ha concesso a Mirko la possibilità di allenarsi a Tor di Quinto una volta la settimana sotto la responsabilità dei Bisonti. “È un risultato importantissimo - dice ancora la presidente - il nostro obiettivo è proprio quello dell’inclusione e del reinserimento attraverso lo sport. Valeva pena lavorare tanto: ora questa situazione potrà essere applicata anche in altre realtà carcerarie”. E non è finita: il prossimo passo è di permettere a Mirko di giocare anche “fuori”, in campionato: i Bisonti non si fanno fermare facilmente. “Il pianeta della musica”, di Franco Mussida recensione di Piero Negri La Stampa, 6 maggio 2019 Il suo progetto nelle carceri: “suonare mi ha dato tanto, ora mi dedico a restituire”. A 4 anni colpì per caso la cassa armonica di una chitarra. Il suono che ne uscì gli dette la sensazione di “stare nel cosmo: scoprii così - racconta Franco Mussida - un pianeta nuovo, vivo, in cui era bello vivere. Intuii che la musica poteva rendere felici le persone, una convinzione che mi porto ancora dentro e che è il nucleo di tutto ciò che faccio”. A 14 anni partì per la prima tournée, parte di un trio di ragazzini che suonava in Europa per i coetanei, e diede le prime lezioni di chitarra: “Il mio maestro mi chiese di aiutarlo, scoprii il rapporto con le persone, la bellezza di stare con la gente, non solo sul palcoscenico. E non ho più smesso”. Nel 2015, a 68 anni, dopo più di 40 anni di PFM, annunciò l’addio al gruppo per dedicarsi alla scuola di musica che ha fondato a Milano nel 1984, il CPM, e al progetto CO2, che porta la musica nelle carceri. “Per distaccarmi dal prima e dal dopo, compresi che avrei dovuto fare un gesto zen: per 31 giorni consecutivi mi impegnai a liberare alberi dalle edere e a raccogliere due quadrifogli nel tempo di un’ora, un gesto che ha poi dato vita a un libro e a una mostra. Se riesco a fare una cosa del genere - mi dissi - smetto di vivere dentro di me la nostalgia e dedico l’ultima parte della mia vita a restituire ciò che la musica mi ha dato. La musica mi ha curato, mi ha messo in crisi, in lei ho visto lo specchio della mia ignoranza e le possibilità di superarla”. Tutto questo si ritrova nel nuovo libro di Mussida, uscito da poco con Salani (pp. 282, euro 15,90), “Il pianeta della musica”, che affronta con piglio scientifico e con notevoli intuizioni basate sull’esperienza di una vita un tema affascinante: come la Musica (Mussida la scrive sempre così, maiuscola), dialoga con le nostre emozioni. Si tratta di “un territorio sacro che è stato poco analizzato - dice Mussida - perché la Musica appare come un generatore di piacere più che di sapere. Ma oggi più che mai abbiamo bisogno di conoscerci, dobbiamo imparare a stare insieme. E per imparare l’armonia non c’è niente di meglio che osservare la Musica, uno strumento straordinario, molto più che tante sedute con lo psicologo”. Il libro di Mussida si basa soprattutto sulle esperienze con CO2, il progetto nato con il sostegno della Siae oggi attivo in 12 carceri italiane (“Ma abbiamo altre richieste e ora il Ministero ci ha chiesto di pensare a un progetto specifico per le carceri minorili”), che fa nascere audioteche per i detenuti e che attraverso l’ascolto “emotivo consapevole” della Musica (solo strumentale, di ogni genere, dalla classica all’elettronica passando per il rock, ma niente canzoni) aiuta a “osservare la tua natura interiore, a conoscere le correnti emotive che sono dentro di te. Ma è anche un’attività intellettuale - precisa Mussida - con un ascolto consapevole l’intelletto si illumina e ti fa vivere l’esperienza pienamente, attiva la tua capacità di sentire gli altri”. Il libro ha belle pagine sul rapporto tra Musica e droghe (“Lo stupefacente è la musica”): “Lego la sostanza al codice musicale, serve a chi è vicino a un tossicodipendente, fa capire che cosa cerca davvero la persona che fa uso di droga. È un tema interessante e vasto, il mio editore mi ha chiesto di ampliarlo, bisognerebbe scrivere un libro solo su questo, ma non voglio smettere di fare il musicista”. Mussida sta infatti lavorando a uno spettacolo che porti le idee del libro sul palcoscenico, “con più Musica e meno parole: queste riflessioni per me sono la continuazione della mia storia. La nostra generazione diceva: la Musica cambierà il mondo. In senso artistico e in senso religioso, è andata proprio così. Ma il cambiamento non è finito”. Il Papa: abbiamo bisogno di un giornalismo libero di Roberta Gisotti articolo21.org, 6 maggio 2019 “Nessuna democrazia è completa senza accesso a informazioni trasparenti e affidabili”. Lo ricorda Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, nell’odierna Giornata mondiale della libertà di stampa 2019, mentre Papa Francesco invoca “un giornalismo libero, al servizio del vero, del bene, del giusto; un giornalismo che aiuti a costruire la cultura dell’incontro”. Giornalismo sempre più delegittimato - “Tutti gli Stati sono rafforzati dall’informazione e dal dibattito e dallo scambio di opinioni”, aggiunge Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco, esprimendo preoccupazione per la crescente “sfiducia” sul ruolo della stampa e la “delegittimazione” del giornalismo nell’era digitale. Da qui la scelta del tema per la 26 edizione della Giornata: “Media per la democrazia. Giornalismo ed elezioni in tempo di disinformazione”. Difendere l’indipendenza della stampa - Un appuntamento il 3 maggio atteso per celebrare i principi fondamentali della libertà di stampa, valutarne il rispetto in tutto il mondo e difendere i media dagli attacchi alla loro indipendenza e rendere infine omaggio agli operatori dell’informazione che hanno pagato con la vita il prezzo della verità. Ad Addis Abeba la celebrazione 2019 - La data ricorda l’approvazione della Dichiarazione di Windhoek - siglata in ambito Unesco nel 1991 - in chiusura di un Seminario organizzato in Namibia per promuovere l’indipendenza e il pluralismo della stampa africana, quale fondamento della democrazia e del rispetto dei diritti umani. E, quest’anno l’Africa torna in primo piano, ospitando la celebrazione ufficiale della Giornata nella sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba, in Etiopia. La scelta è caduta su questo Paese meritevole di avere, nell’ultimo anno, grandemente migliorato la libertà di stampa - grazie al primo ministro Abyy Ahmed, che ha scarcerato tutti i dissidenti politici, i giornalisti e gli attivisti contrari al governo precedente. Un passo importante per l’Etiopia, tra gli Stati, fino ad aprile 2018, con maggior numero di giornalisti detenuti. Dall’Etiopia appello a tutti i Paesi africani - Dall’Etiopia parte un appello a tutti i Paesi africani, che sono risultati tra i peggiori nell’ultimo rapporto sulla libertà d’informazione diffuso nell’aprile scorso dall’organizzazione Reporter senza frontiere. Ben 22, su 48 Stati inseriti nella lista nera della libertà di espressione, sono nell’Africa subsahariana. Tendenze aggressive e criminali - La situazione della stampa è comunque critica in gran parte del mondo se contiamo oltre 700 le vittime negli ultimi dieci anni. E la tendenza aggressiva e criminale non accenna a diminuire: 80 i giornalisti uccisi nel 2018, con in testa Afghanistan, Siria e Messico; 348 quelli imprigionati, oltre la metà in Cina, Iran, Arabia Saudita, Egitto e Turchia. “Una violenza senza precedenti”, denuncia Reporter senza frontiere, che vede le vittime in massima parte “prese di mira deliberatamente”. Cresce l’ostilità dei leader politici - Preoccupa grandemente anche la situazione di ostilità diffusa dei leader politici verso i giornalisti anche in consolidati contesti democratici in Europa e in America, dove il dibattito politico ha portato ad “un crescente incitamento di gravi e frequenti atti di violenza”, causando un clima di paura e pericolo per i giornalisti. “Mai come oggi - denuncia ancora Reporter senza frontiere - i giornalisti statunitensi sono stati soggetti a così tante minacce di morte o si sono rivolti così spesso ad aziende private per la propria protezione”. Mobilitazione contro tagli e bavagli in Europa - Uccisioni, minacce di morte, insulti, aggressioni, tagli di fondi pubblici ai media che garantiscono la trasparenza delle istituzioni, sono al centro di numerose mobilitazioni organizzate oggi in Europa”. In Italia, la Federazione nazionale della stampa (Fnsi), in collaborazione con diversi enti e organizzazioni non governative, anche del mondo cattolico, lancia in questa Giornata la campagna “Contro tagli e bavagli” per chiedere alle istituzioni europee di impegnarsi di più per la libertà di stampa e per dire no alle minacce e alle aggressioni contro i giornalisti. Nell’Europa che dovrebbe essere la culla dei diritti e della protezione dei più deboli - denuncia la Fnsi - discorsi di odio e false notizie riempiono i siti internet e i social, distorcendo la consapevolezza dei cittadini sulle realtà dei fatti. Giuristi e Google, confronto di idee per rendere reale il diritto all’oblio di Simone Bianchin La Repubblica, 6 maggio 2019 Realizzare il diritto all’oblio su Internet, con la cancellazione delle notizie dal maxi archivio globale. Su come farlo se ne discute stasera, dalle 20,30, in via Laghetto 2 all’Associazione ChiAmaMilano con Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Umberto Ambrosoli, Marta Staccioli che è consulente legale di Google, l’ex consigliere comunale Milko Pennisi e l’ex magistrato Gherardo Colombo che, nominato dal sindaco Sala, è il presidente del Comitato per la legalità, la trasparenza e l’efficienza amministrativa, organo indipendente, consultivo e di controllo. “Il diritto all’oblio non ha nulla a che fare col perdono- spiega Colombo. È il diritto a fare in modo che non vengano conservate delle notizie pregiudizievoli alla reputazione di una persona quando queste notizie, dopo tempo, non hanno più interesse pubblico”. Dovrebbe essere il Garante della privacy a stabilire quando? “Il Garante della privacy ha dei poteri molto ampi - dice Gherardo Colombo - di fatto però succede che tante notizie, sulla rete, non rispettano la privacy. Ed è molto difficile che le norme sulla protezione della privacy siano sempre rispettate”. Se la cancellazione dai motori di ricerca di Internet sembra un’operazione complessa, per Colombo “la protezione della privacy viene prima del diritto all’oblio. L’articolo 17 del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali regolamenta la cancellazione. Con il convegno vogliamo arrivare a trovare delle soluzioni insieme, e ringrazio Google che ha voluto partecipare”. Cannabis. Legalizzare con la ragione, in nome dell’illuminismo di Franco Corleone* La Repubblica, 6 maggio 2019 Sembra di ringiovanire. Tanti decenni fa i manifesti di una dissacrante campagna pubblicitaria di jeans, inventata a Milano, con lo slogan “Chi mi ama mi segua” suscitarono polemiche a non finire per il nome della casa produttrice e il motto evangelico. Ora a Milano, città dell’illuminismo dei Verri e di Beccaria, a causa di un manifesto murale (bella rivincita sui sociali) che proclama quello che Marco Pannella ribadiva ossessivamente che cioè la canapa era una non droga, si è scatenato un putiferio. La canapa industriale, per la produzione tessile e di carta non ha un potere drogante come dicono i giudici nelle sentenze e quindi l’affermazione della foglia incriminata “non sono una droga” esprime una pura verità. Il sindaco Sala ha usato una espressione inquietante per condannare l’uso di una frase che può apparire forte. Odioso è un aggettivo che va usato con parsimonia perché può provocare odio in una società che è ricca di intolleranza. Lo sa Sala che dal 1990 ad oggi sono stati segnalati ai prefetti oltre un milione e duecentomila giovani per il consumo di uno spinello, subendo sanzioni amministrative, (queste sì odiose) e uno stigma pericoloso? Lo sa che è occorso il giudizio della Corte costituzionale per cancellare la legge Fini-Giovanardi che equiparava tutte le sostanze, leggere e pesanti, con il risultato di riempire le galere di consumatori di sostanze stupefacenti? Nel 2005 presentai il cd prodotto da Ricky Gianco per le edizioni del Manifesto. Il titolo era “La battaglia di Canne” (da un’ idea di Gianni Mura). L’erba fa paura ai fanatici dello stato etico e il proibizionismo affonda nello spirito del fascismo. La war on drugs è finita in America. Che vogliamo fare? È tempo di legalizzare, con la ragione e senza anatemi. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, già Sottosegretario alla Giustizia Libia. Missione lampo di Serraj a Roma: “L’Italia ci aiuti contro l’invasore Haftar” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 6 maggio 2019 Oggi il presidente libico in Italia. L’Onu chiede una settimana di “tregua umanitaria”. Arriva oggi in Italia il presidente libico Fayez Serraj. Il leader del governo di Tripoli guiderà una delegazione di diplomatici e capi militari libici che verranno a chiedere maggior sostegno all’Italia nella loro battaglia contro la milizia di Khalifa Haftar. Serraj incontrerà il premier Giuseppe Conte, mentre la delegazione militare che lo accompagna avrà riunioni con i responsabili della Difesa italiana. Secondo una fonte vicina al Consiglio Presidenziale, “Serraj chiede che l’Italia si impegni molto di più e soprattutto in maniera più visibile per difendere le ragioni del governo sostenuto dalle Nazioni Unite ma abbandonato dalla comunità internazionale”. Per Serraj e secondo i leader di Tripoli, “Haftar è un invasore, il suo tentativo di sfondare ed entrare a Tripoli è ampiamente fallito, a questo punto bisogna fermarlo, bisogna punire una aggressione militare che è stata una follia e porterà solo altra divisione in Libia”. La visita avviene proprio mentre l’Onu ha chiesto una settimana di “tregua umanitaria” in coincidenza con l’inizio del mese di Ramadan islamico. Al contrario, il generale Haftar ha chiesto alle sue truppe di intensificare gli attacchi, di condurre una “guerra santa” contro i soldati di Tripoli. L’ufficiale che controlla la Cirenaica il 3 aprile ha lanciato un’operazione militare nel tentativo di entrare a Tripoli: ieri con un audio diffuso dai suoi portavoce ha chiesto alla sua milizia di combattere anche durante il Ramadan, “il mese di ramadan è un mese di jihad, di guerra santa”. Tornando alla visita di Serraj in Italia, a Roma il capo del consiglio presidenziale incontrerà innanzitutto Giuseppe Conte: il premier italiano farà pressioni su perché Serraj accetti la tregua chiesta dall’Onu. Ieri l’Unsmil ha fatto pubblicamente la richiesta di una settimana di tregua “umanitaria”, invitando il governo di Tripoli e la milizia del generale Khalifa Haftar a sospendere le operazioni. Fino ad oggi il governo di Tripoli è sembrato intenzionato ad andare avanti nelle operazioni militari, per respingere gli uomini di Haftar il più lontano possibile dalla Tripolitania. Con una serie di telefonate, il presidente del Consiglio Conte ha raddoppiato i suoi sforzi per arrivare il prima possibile a un cessate-il-fuoco generalizzato in Libia. Fonti del governo italiano sostengono che “Conte ha chiesto a Serraj di dare la sua disponibilità a interrompere le operazioni militari, e ha anche invitato il leader libico a consultare anche altri leader europei, come il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel”. Libia. “Noi, studenti di italiano di Bengasi dimenticati, amiamo la vostra lingua” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 6 maggio 2019 Nonostante la guerra, la mancanza di libri, di borse di studio e l’indifferenza di Roma, otto professori e cento studenti libici continuano a studiare al Dipartimento di Italianistica all’Università di Bengasi. Studiare italiano, nonostante tutto. Nonostante la guerra, nonostante la mancanza di libri, di borse di studio, nonostante l’indifferenza di Roma, nonostante le scarse se non nulle opportunità di lavoro e nonostante l’ombra del pregiudizio per cui le scelte della politica estera italiana sarebbero pro-Tripoli a scapito di Bengasi. “L’italiano non è come l’inglese. Quando ti presenti a un colloquio di lavoro non è una delle lingue richieste. E Roma non è come Parigi, che aiuta con fondi e mezzi chi impara francese. Ma noi amiamo la vostra lingua, che è una delle più ricche e musicali al mondo”, dicono praticamente all’unisono il centinaio di studenti e otto docenti al Dipartimento di Italianistica all’Università di Bengasi. Visitarla significa incontrare edifici ancora pesantemente danneggiati dai gravissimi scontri durati dal 2014 al 2017 tra le truppe di Khalifa Haftar e le milizie legate al fronte islamico e tutti coloro che si opposero con ogni mezzo alla sua avanzata sul capoluogo della Cirenaica. Molti dipartimenti sono abbandonati o trasferiti nel nuovo campus ancora in costruzione nelle vicinanze. Quello di Italianistica è formato da quattro aule e un ufficio semivuoto al secondo piano della facoltà di Lingue riparata alla bell’e meglio solo di recente: muri ricostruiti di fresco, segni di cannonate all’esterno, soffitti e corridoi puntellati da traversine e rinforzi in ferro. “Quando rivelo che insegno italiano sono in tanti qui in Cirenaica a dirmi che faccio male a propagandare la lingua dei nemici, degli alleati di Fayez Sarraj e della Tripolitania. Ma, a parte la politica, questo resta uno problema minore. Quelli più gravi sono relativi al fatto che noi siamo abbandonati a noi stessi. Speriamo che la riapertura del consolato italiano qui a Bengasi possa in qualche modo cambiare le cose. Perché sino ad ora è solo un miracolo che il nostro dipartimento sia ancora funzionante”, dice Mohammed Saadi, 33enne direttore dell’Istituto. Il suo racconto fa cadere le braccia e anche la vicenda del consolato resta incerta. Roma ha già scelto di inviare Andreas Ferrarese, un diplomatico d’esperienza, che avrebbe dovuto riavviare il consolato prima di Ramadan. Ma le frizioni con Haftar (non ultima la polemica sulla presenza dell’ospedale militare italiano di Misurata) ritardano il lavoro della squadra di agenti italiani già a Bengasi con l’incarico di trovare una sede sicura, visto che l’edificio del vecchio consolato è ridotto in macerie. “Questo Dipartimento venne aperto attorno al 2006, al tempo dei negoziati tra Gheddafi e Berlusconi per il trattato di amicizia italo-libico. Fu associato all’università di Palermo, che però ci mandò più che altro libri in dialetto siciliano e sulla storia del movimento separatista dell’isola dal resto della penisola. Volumi come “La sicilianità nel sangue”, oppure la biografia del Salvatore Turiddu, l’esaltazione del banditismo contro il governo centrale. Non disponiamo neppure di una grammatica italiana o di un vocabolario arabo-italiano”, ricorda. La questione venne poi drammaticamente superata dalle devastazioni della guerra. Gli incendi bruciarono gran parte della biblioteca universitaria, lasciando pochissimi volumi tra quelli in italiano. La ventina di studenti che sta sostenendo gli esami per l’ammissione al secondo anno spera in tempi migliori. “Amo la vostra cultura, la musicalità della lingua, la vostra cucina, fa parte della storia di noi libici, anche se ormai la parlano solo pochi anziani che andarono a scuola nel periodo coloniale. Mi auguro che il consolato presto ci faciliti i visti per il vostro Paese”, esclama Iman Mohammad, ragazza diciottenne che ha una parte della famiglia Roma e qui spera di poter diventare docente. Secondo il 33enne Issa Labbar, neo-laureato e assistente volontario, se l’Italia offrisse mezzi e fondi il numero degli studenti lieviterebbe facilmente. “Nonostante le contingenze della politica, l’Italia resta molto popolare anche in Cirenaica. Se il Dipartimento di Francese, ricco dei finanziamenti e delle facilitazioni di Parigi, oggi conta 300 studenti, quelli di italiano potrebbero superare velocemente i 500”. Medio Oriente. Tregua a Gaza tra Israele e Hamas di rolla scolari La Stampa, 6 maggio 2019 Accordo dopo l’escalation di violenze che ha causato 4 vittime tra gli israeliani e 16 tra i palestinesi. L’esercito israeliano ha annunciato “il ritorno alla normalità nelle retrovie israeliane” a partire dalle 7 (le 6 in Italia). La decisione dopo due giorni di violenze nell’area tra gruppi armati palestinesi ed esercito israeliano culminati con una pioggia di razzi contro Israele. La mossa dell’esercito rappresenta un’implicita conferma del raggiungimento di un’intesa per il cessate il fuoco a Gaza. In precedenza anche la televisione al-Aqsa di Hamas aveva annunciato un cessate il fuoco a partire dalle 4.30 locali. Il bilancio di Gerusalemme - I militari israeliani confermano di aver bombardato “350 obiettivi della Jihad islamica e di Hamas” nelle ultime 48 ore nella Striscia di Gaza. Su Twitter le forze di sicurezza israeliane (Idf) precisano di aver colpito tra l’altro siti per il lancio di razzi, centri di comando e addestramento, depositi di armi e siti militari. “Il terrore colpisce i civili, noi colpiamo il terrore”, si legge nel tweet. Gli stessi militari israeliani aggiungono che nelle ultime 48 ore “690 razzi sono stati lanciati da Gaza contro i civili israeliani”, 240 dei quali sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, con un bilancio di quattro civili uccisi. La garanzia di Onu ed Egitto - Non si hanno ancora molti particolari sull’intesa raggiunta, tuttavia la tv israeliana - citando fonti palestinesi - ha riferito che Israele si sarebbe impegnata a realizzare entro una settimana tutti gli impegni concernenti la tregua con Gaza e che in merito ci sono garanzie dell’Onu e dell’Egitto. Il cessate il fuoco - secondo quanto riporta Haaretz - sarà reciproco ed entrambe le parti si impegnano al rispetto dell’intesa. La Radio militare ha detto che l’accordo indiretto è stato raggiunto grazie all’intervento dell’inviato dell’Onu Nickolay Mladenov. Turchia. Appello dei giuristi contro l’isolamento di Abdullah Öcalan rifondazione.it, 6 maggio 2019 Abdullah Öcalan, leader del movimento nazionale kurdo, si trova in carcere in Turchia dal febbraio 1999. Le condizioni di detenzione e di isolamento sull’isola di Imrali a cui Ocalan è sottoposto dal momento della sua cattura violano palesemente il divieto di sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti, in palese contrasto innanzitutto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ocalan ha ricevuto l’ultima visita dei suoi difensori quasi otto anni fa, con privazione del diritto alla difesa, e - dall’interruzione dei colloqui tra il PKK ed il governo turco - si trova in condizione di isolamento totale. Dopo l’ultima visita di familiari avvenuta nel settembre del 2016, per la prima volta il 12 gennaio di quest’anno ha avuto un colloquio di un quarto d’ora con il fratello, nonostante il fatto che per la legislazione turca il detenuto ha diritto di ricevere regolarmente visite dei suoi familiari. Secondo la legislazione vigente Ocalan ha diritto di fare telefonate ai suoi familiari, e di inviare e ricevere lettere e telefax, di incontrare gli altri detenuti presenti sull’isola. Questi diritti non possono essere sospesi. Né può essere negato o limitato il diritto di guardare la televisione, ascoltare la radio, ricevere giornali, riviste e i libri che desidera, e di essere visitato da medici di fiducia. Dal 7 novembre 2018 la deputata al parlamento turco Leyla Güven è in sciopero della fame e chiede che cessino le condizioni di isolamento cui Ocalan è costretto, in modo che egli -leader riconosciuto del suo popolo - possa contribuire, quale attore indispensabile, ad una soluzione politica della questione kurda, necessaria per una prospettiva di pace e di democrazia nell’intera area del Medio Oriente. Allo sciopero della fame finora si sono unite migliaia di persone dentro e fuori dalle carceri turche, in Kurdistan, in Turchia, in Iraq e in diversi Paesi europei tra i quali l’Italia. Quindici detenuti nelle carceri turche hanno dato inizio allo sciopero della fame nella forma più estrema. Dal 20 marzo, in occasione della festività del Newroz (capodanno curdo), il giovane rifugiato politico curdo Erol Aydemir è entrato in sciopero della fame. Finora nessun governo e nessuna istituzione europea sono intervenuti in modo diretto ed efficace per far cessare la situazione denunziata dagli scioperanti. Noi, giuristi e persone che operano per la tutela dei diritti umani chiediamo ai governi nazionali, agli organismi dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, ed in particolare al Comitato per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani del Consiglio d’Europa, che ha la possibilità di accedere sull’isola-carcere di Imrali, di intervenire subito e con decisone nei confronti della Repubblica della Turchia affinché riprendano subito i colloqui del detenuto con i suoi difensori e familiari e cessi lo stato di isolamento al quale, senza alcuna giustificazione ed illegittimamente, è sottoposto Abdullah Ocalan. Sottoscrivono: Mauro Volpi, Professore di Diritto Costituzionale Università di Perugia; Paolo Maddalena, Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale; Domenico Gallo, Presidente di Sezione Corte di Cassazione; Luigi Saraceni, difensore di Ocalan in Italia, già magistrato e parlamentare; Leonardo Arnau, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Padova; Mario Antonio Angelelli, presidente di Progetto Diritti onlus; Arturo Salerni, presidente del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos; Roberto Lamacchia, presidente Giuristi Democratici; Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione; Emilio Robotti, avvocato - Genova; Gianluca Vitale, avvocato - Torino; Gaetano Pasqualino, avvocato - Palermo; Franco Russo - Forum Diritti Lavoro; Luca Santini, avvocato - Roma; Cesare Antetomaso, Coordinatore Giuristi Democratici di Roma; Maria Rosaria Damizia, avvocata - Roma; Vincenzo Vita, Presidente dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico; Claudio Giangiacomo, avvocato - Roma; Alfonso Gianni, già Sottosegretario allo Sviluppo Economico; Alfiero Grandi, già Sottosegretario all’Economia; Susanna Marietti - Coordinatrice nazionale di Antigone; Elena Fiorini, avvocato Genova; Giovanni Russo Spena, già parlamentare; Fanio Giannetto, Coordinamento per la Democrazia Costituzionale di Roma; Giampiero Filotico, Coordinamento per la Democrazia Costituzionale di Roma; Nino Caccioppo, avvocato - Palermo; Francesco Paolo De Arcangelis, associazione Articolo 24. Brunei. Il sultano del sospende la pena di morte per gli omosessuali La Repubblica, 6 maggio 2019 Dopo le pressioni della comunità internazionale e i boicottaggi, Hassanal Bolkiah ha annunciato una moratoria sulla pena capitale prevista per gay, adulteri e stupratori. Le pressioni della comunità internazionale, compreso il boicottaggio dei suoi hotel di lusso, hanno convinto Hassanal Bolkiah a fare una parziale retromarcia: domenica il sultano del Brunei ha parlato per la prima volta in pubblico della nuova legge basata sulla sharia dicendo che non estenderà la moratoria sulla pena di morte prevista per gli omosessuali, lo stupro e l’adulterio. Le nuove regole, annunciate il 3 aprile, avevano suscitato proteste e boicottaggi: le Nazioni Unite hanno chiesto al sultano di ritirare la nuova legge mentre celebrità come George Clooney e i gruppi per i diritti umani hanno lanciato il boicottaggio degli hotel di proprietà del sultano, tra cui il Dorchester di Londra e il Beverley Hills Hotel di Los Angeles. In Brunei la pena di morte è prevista per alcuni crimini, ma nessuna pena capitale è stata eseguita dal 1957. L’omosessualità era già illegale nel sultanato e punibile con 10 anni di carcere.