Ornella Favero confermata alla guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 5 maggio 2019 Ornella Favero confermata alla guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. A Roma ieri si sono svolte le elezioni della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Padovana, Ornella Favero è la fondatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, alla guida della CNVG è al suo II mandato. La Conferenza Nazionale è il coordinamento che rappresenta enti, associazioni e gruppi impegnati nel volontariato nell’ambito della giustizia, all’interno degli istituti penitenziari e sul territorio, nell’area penale esterna. In un momento in cui la società è sempre più spaventata e impaurita, la Conferenza intende impegnarsi non soltanto per seguire le persone detenute nel loro reinserimento, ma anche in una attività costante e qualificata di sensibilizzazione e informazione della popolazione, con progetti come “A scuola di libertà”, tesi a fare prevenzione tra le giovani generazioni. Ma anche ad affermare con forza che non si crea sicurezza facendo “marcire in galera” chi commette reati, ma accompagnandolo in un percorso di assunzione di responsabilità. Ileana Montagnini e Vincenza Ruggiero sono state elette vicepresidenti e affiancheranno nel direttivo Ornella Favero. Nel direttivo anche Maurizio Mazzi, Elisabetta Burla, Guido Chiaretti, Gabriele Sorrenti e Alessandro Pedrotti. Fondata nel 1998 e con sede a Roma, la C.N.V.G. rappresenta Enti, Associazioni e Gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia, all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. Ad oggi è strutturata sul territorio con 18 Conferenze Regionali (che riuniscono circa 200 Associazioni), e con l’adesione di numerosi Organismi del Terzo Settore: A.I.C.S., Antigone, A.R.C.I., Caritas Italiana, C.N.C.A. - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Comunità Papa Giovanni XXIII, CSI Centro Sportivo Italiano, Forum Salute in Carcere, J.S.N. - Jesuit Social Network Italia Onlus, Libera, S.E.A.C. Complessivamente i volontari che afferiscono alla C.N.V.G. sono oltre 10 mila. Sicurezza, la strategia del Viminale: città blindate di Alessandro Farruggia Il Giorno, 5 maggio 2019 Far West Napoli. “Ora ci sono una super questura e 600 agenti in più”. Per uno come lui, che si è fatto strada puntando quasi tutto sulla sicurezza, sulle paure degli italiani come accusa l’opposizione, le accuse di inefficienza colpiscono dove fa più male. E, dice Matteo Salvini ai suoi, ingiuste: “A Napoli e nel resto d’Italia vogliamo far parlare i numeri, i fatti”. E la nota che fa diffondere al Viminale, li enumera. “A Napoli - si osserva - nell’ultimo anno sono arrivati 137 poliziotti in più e il piano di riorganizzazione prevede una super questura: passerà dagli attuali 3.740 agenti a 4.332 con un incremento di 592 unità”, un incremento che avverrà nel giro di alcuni mesi, nell’ambito del piano di riorganizzazione delle questure italiane. A questo si aggiunge il potenziamento degli organici. Con la Legge di Bilancio 2019 gli organici delle forze di polizia, tra il 2019 e 2023, dovrebbero salire di 6.150 unità (di cui 1.043 nel 2019 e 1.320 nel 2020). Questo piano di assunzioni straordinarie si aggiunge a quello previsto dalla Legge di Bilancio 2018 con la quale erano già state previste assunzioni su base quinquennale, con scadenza quindi nel 2022, per un totale di 7.394 uomini tra forze di polizia e vigili del fuoco. Certo, Napoli e le altre aree di crisi hanno bisogno ora, ma le fonti del Viminale sottolineano che non c’è solo il rafforzamento degli organici della polizia. Ricordano che militari impegnati per ‘Strade Sicurè a Napoli sono 690, di cui 100 per la Terra dei Fuochi. Con i fondi del Decreto Sicurezza, Napoli ha poi avuto 1,4 milioni e con questi il Comune ha assunto 53 agenti della polizia municipale grazie ai fondi della sicurezza urbana (altri 6,7 milioni di euro). Come dire, si sta investendo per cercare di cambiare le cose. “Napoli - disse il 10 aprile il capo della polizia, Franco Gabrielli, dopo l’omicidio di San Giovanni a Teduccio - deve diventare una questione nazionale e se non investiamo anche in termini sperimentali su quella realtà ogni altro successo reale o ipotetico verrà offuscato. E noi ci stiamo lavorando”. In termini investigativi i risultati peraltro si vedono, a partire proprio da quell’omicidio, per il quale sono scattati una raffica di arresti in una operazione coordinata dalla Dda. Di segnale tangibile ha parlato il questore della città, Antonio De Iesu: “Abbiamo fermato 5 più 7 killer che erano liberi, e che rappresentavano cellule sanguinarie e abbiamo certamente destrutturato i clan”. Il questore rimarca l’esigenza di aumentare il numero delle forze dell’ordine: “Servono più uomini, le risorse ci sono, e gli uomini arriveranno. Ma la risposta dello Stato comunque già c’è ed è forte”. Salvini plaude: “Complimenti alle forze dell’ordine per i velocissimi arresti di questi camorristi che hanno sparato per le vie di Napoli”. “È una risposta concreta: lo Stato c’è - commenta il ministro - si fa sentire, non dà tregua ai boss. Ed episodi come quello di ieri non resteranno impuniti. Vinceremo noi”. “Salvini - replicano fonti Pd - non si prenda meriti che sono degli organi inquirenti, delle forze di polizia. Che svolgono il proprio compito, loro si, all’altezza delle istituzioni che rappresentano”. La “sicurezza mediatica” del ministro nella bufera di Adriana Pollice Il Manifesto, 5 maggio 2019 Scontro politico dopo l’agguato di camorra in strada a Napoli. In gravi condizioni la bambina colpita da un proiettile. “Estremamente critiche”, così i medici del Santobono di Napoli hanno descritto ieri le condizioni della bambina di 4 anni, vittima innocente di un agguato camorristico venerdì pomeriggio a piazza Nazionale. Noemi era in strada con la nonna, un proiettile full metal jacket esploso da una 9 millimetri le ha perforato i polmoni, incastrandosi nel torace. Nella notte l’intervento per rimuoverlo d’urgenza, ieri mattina era in coma farmacologico indotto. Anche la nonna è stata colpita ma di striscio. Il killer, ripreso dalle telecamere della zona, è arrivato in moto davanti al bar Elite, l’obiettivo era Salvatore Nurcaro: originario del rione Villa nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, precedenti per riciclaggio, è ritenuto vicino al clan Rinaldi, alleato dei Contini che controllano le zone del Vasto e dell’Arenaccia, dove è avvenuto l’agguato. Ricoverato al Loreto Mare, la pioggia di colpi alla gola e al torace l’ha ridotto in fin di vita. L’esecuzione sembrerebbe legata all’omicidio di Luigi Mignano, meno di un mese fa, al rione Villa: i killer entrarono in azione mentre l’uomo portava a scuola il nipote di 3 anni e mezzo, rimasto miracolosamente illeso. Anche Mignano era legato ai Rinaldi, così la pista porta ai rivali Mazzarella - D’Amico. Venerdì notte la questura ha eseguito sette fermi proprio nelle fila dei due clan. Mentre la criminalità continua a sparare, il ministro dell’Interno Matteo Salvini è in campagna elettorale permanente. Venerdì non ha trovato tempo neppure per un tweet. “Serve più sicurezza, più uomini. Più prevenzione, che passa anche per un forte sostegno al sociale”, ha scritto sui social Luigi Di Maio. Più esplicito il presidente 5S della commissione Antimafia, Nicola Morra: “Piuttosto che terrorizzare sui migranti o visitare muri, il titolare del Viminale si occupasse di contrasto alla mafia”. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha invece invitato a lavorare su “un piano ragionato, con obiettivi chiari”. In serata sul Blog delle stelle è comparso il post: “Con i fatti di Napoli, Torino, Roma e San Donato milanese, non capiamo dove il Viminale trovi il tempo per occuparsi di tweet. Forse farebbe meglio a occuparsi della sicurezza del paese”. Dopo 24 ore di silenzio, Salvini ieri ai 5S ha replicato “in dieci mesi abbiamo fatto quello che la sinistra non ha fatto in tanti anni” per poi snocciolare i numeri: 137 poliziotti in più a Napoli e la creazione di una super questura, che avrà a regime 592 unità aggiuntive. Per adesso i rinforzi non bastano a compensare le carenze accumulate per il blocco del turn over. Il leader leghista è in affanno: per tre volte è andato a passeggiare al Vasto arringando le folle contro i migranti. La camorra veniva fuori solo nei discorsi in prefettura per la stampa. Salvo poi invocare il regionalismo differenziato con altri tagli alla scuola al Sud, in modo da assicurare nuova manodopera ai clan. Nicola Fratoianni de la Sinistra l’ha definito “il ministro del disordine” mentre il Pd ha lanciato l’hashtag #Salvinidimettiti. Il segretario dem Nicola Zingaretti fa l’elenco: “Una ragazza stuprata e un commerciate ucciso a Viterbo, una sparatoria a Napoli. A Ostia un attentato in un negozio. Per cortesia, almeno un’ora al giorno, fai il ministro dell’Interno”. E Paolo Gentiloni: “Ostia, Napoli, Viterbo, Manduria, Brescia: allarme sicurezza ma Salvini non c’è. Auto e voli blu per la tournée infinita, alla faccia di chi fa i turni nelle volanti”. Il senatore Bruno Astorre conia il soprannome Selfie-Salvini, il collega Andrea Marcucci l’invita cambiare mestiere dandosi alla carriera di influencer, come i Ferragnez. Sicurezza, Salvini sotto accusa rilancia la castrazione chimica di Simone Canettieri e Cristiana Mangani Il Messaggero, 5 maggio 2019 Si apre il fronte sicurezza per il ministro dell’Interno. Dopo la sparatoria di Napoli i 5 Stelle lo attaccano sul suo core business. La bimba di 4 anni ferita a Napoli spinge Luigi Di Maio a scrivere: “Prego per lei. Una cosa è certa: serve più sicurezza, più uomini sul terreno, più controlli, più prevenzione”. A dare manforte al leader pentastellato, c’è anche il presidente della Camera Roberto Fico che invoca “un cambio di passo” del Viminale affinché ci sia un “piano ragionato contro la camorra di tutte le istituzioni al di là degli schieramenti”. Salvini mastica amaro perché si trova al centro di un attacco concentrico. Il Pd con Nicola Zingaretti parla di “governo allo sbando” e invita il titolare dell’Interno a occuparsi più della criminalità e meno dei selfie. “Conte riferisca - dice il segretario dem - in Parlamento”. Il leader della Lega esce dall’angolo - su Twitter le sue dimissioni sono l’argomento più discusso - e rilancia sulla castrazione chimica per pedofili e stupratori, ennesimo tema divisivo all’interno dello schieramento gialloverde. Dalla Lega fanno notare che la raccolta firme ha già raccolto 50mila adesioni. E che, secondo un sondaggio Swg diffuso dal Carroccio, “il 58% degli italiani è favorevole all’introduzione di una legge che preveda la castrazione chimica per i pedofili e gli stupratori recidivi”. Analizzando l’appartenenza politica degli intervistati, emerge che l’inasprimento delle pene in materia di reati sessuali riscontra il via libera non solo degli elettori del centrodestra, ma anche di quelli del M5S. Ma rimane sul fronte sicurezza il vero scontro: prima lo stupro di Viterbo, poi l’omicidio di un commerciante sempre nella cittadina laziale e in contemporanea la sparatoria di Napoli. I grillini capiscono che si tratta di un nervo scoperto e vanno all’attacco. Dal Viminale, oltre a respingere le accuse, rinnovano l’impegno per il capoluogo partenopeo, ripescando anche vecchie intenzioni. Un piano sicurezza illustrato nelle ultime emergenze campane, ormai all’ordine del giorno. La guerra alla camorra, come la vede il vicepremier leghista: più agenti, più confische di beni, l’inasprimento delle pene per reati commessi dalla criminalità organizzata. Un intervento che dagli uffici del ministero dicono di aver già avviato, in attesa della riorganizzazione da fare sul territorio con la creazione di una super questura. Nell’ultimo anno - affermano - sono arrivati 137 poliziotti in più e così il numero di presenze passerà dagli attuali 3.740 agenti a 4.332 con un incremento di 592 unità. I militari impegnati per Strade Sicure sono 690, e di questi 100 per la Terra dei Fuochi. Con i fondi del Decreto sicurezza, poi, la città ha avuto 1,4 milioni. Il Comune ha assunto 53 agenti della Polizia municipale grazie al denaro della Sicurezza urbana (altri 6,7 milioni di euro). E ancora, Scuole sicure, campagna per la quale sono stati stanziati altri 243mi1a euro, che si sommano alle risorse contro la dispersione scolastica. A questi fondi vanno aggiunti quelli per i Comuni della provincia: 150mila euro nel 2018 per Spiagge sicure (tre Comuni coinvolti), diventati 294mi1a euro quest’anno (sette Comuni coinvolti). E ancora: per la messa in sicurezza di scuole e strade nei piccoli comuni campani sono arrivati 4,21 milioni. Qualcosa che permette al ministro di insistere con il suo slogan preferito: “Faremo sempre di più e sempre meglio. A Napoli e nel resto d’Italia vogliamo far parlare i numeri e i fatti”. Sondaggio Swg: “Il 60% degli italiani favorevole alla castrazione chimica” di Flavia Amabile La Stampa, 5 maggio 2019 Nel primo dei due giorni la Lega ha raccolto 50 mila firme. I tavoli sono presenti nelle piazze, ma soprattutto nelle periferie di tutta Italia, dove il partito sa di avere il massimo dei consensi. Quasi il 60% degli italiani sono favorevoli alla castrazione chimica nei confronti di pedofili e stupratori. Il Parlamento non può ignorarlo, avverte Matteo Salvini riferendosi a un sondaggio Swg e alla campagna di raccolta di firme per sostenere la proposta di legge del partito. Per tutto il fine settimana i tavoli della Lega sono in piazza soprattutto nelle periferie di tutt’Italia dove il consenso verso le parole di Matteo Salvini è altissimo. Nella prima giornata di sottoscrizione sono state oltre 50 mila le firme raccolte. Lo rendono noto gli organizzatori. La raccolta prosegue anche domenica. Qualche problema a Roma dove il forte temporale del mattino ha costretto a rinviare o a spostare al chiuso una parte dei tavoli. Ma il popolo di Salvini è pronto. A Tor Bella Monaca l’appuntamento è tra un supermercato dai prezzi super-scontati e un mercato di oggetti e vestiti di provenienza mista: qualcosa è legale, la gran parte no. Manca il tavolo delle firme. Piove troppo. C’è però il popolo della Lega che si scatena quando sente parlare di castrazione lasciando capire che in alcuni quartieri sull’argomento il 60% è una percentuale largamente sottostimata. “No la castrazione chimica, la castrazione totale ci vuole!”, secondo Alessandro, pensionato. In realtà lui dice circoncisione, evidentemente non ha ben chiara la differenza tra i due concetti e finisce per sovrapporli per questioni di taglio. È proprio il taglio infatti quello che tutti evocano da queste parti. E non serve a nulla provare a chiedere le alternative o parlare della necessità di intervenire sulla cultura delle persone. “Glielo devono proprio tajà!”, chiede Claudio. “Castrazione, sì”, conferma Antonella. Non è una maggioranza, è un plebiscito. L’ultima domanda è la più personale. Se suo figlio fosse l’autore di una violenza sarebbe a favore della castrazione comunque? Breve attimo di esitazione. “Sì, certo”, risponde Alessandro. “Sì, certo”, risponde Daniela. “Ma per fortuna non è così”, aggiunge. Reati in calo, ma meno delitti puniti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 maggio 2019 La lotta alla criminalità si indebolisce, cresce la percezione generale di insicurezza. I dati del Viminale sui primi quattro mesi dell’anno. Dal 2014 è un calo costante. Una curva discendente cominciata con il governo Renzi quando al Viminale sedeva Angelino Alfano, proseguita prima con Marco Minniti e ora con Matteo Salvini. In Italia si delinque di meno. Le cifre della Direzione centrale della polizia criminale descrivono un Paese che non ha mai più toccato il record di reati del 2013 ma gli agghiaccianti fatti di violenza degli ultimi giorni, da Manduria a Viterbo a Napoli raccontano un’altra storia e rilanciano la generale percezione di insicurezza che sembra stonare con quell’ancora parziale e tuttavia significativo -15 per cento di delitti commessi (relativo ai primi quattro mesi dell’anno). Salvini ieri ha twittato senza soluzione di continuità dalle 8 del mattino: “Napoli, dodici arresti contro i clan. È la risposta concreta dello Stato, vinceremo noi”. “Napoli, 137 nuovi poliziotti e super-questura, 690 militari, più di 8 milioni per la sicurezza”. “Viterbo, fermato il presunto assassino del commerciante. Chi delinque ha le ore contate”. Questa volta la risposta dello Stato è stata immediata ma ad essere punito è un delitto su quattro e anche questo ha il suo peso sulla reale sicurezza dei territori. Perché diminuiscono i crimini ma diminuisce anche l’azione di contrasto da parte delle forze dell’ordine che nei primi mesi del 2019 fa segnare una percentuale in rosso a due cifre che si discosta abbastanza dalle impercettibili variazioni degli anni precedenti: meno 11,4 per cento di delitti scoperti e meno 12,7 per cento di persone denunciate e arrestate. Dati non consolidati, sottolineano al Viminale, ma pur sempre indicativi. L’invio di nuovi uomini delle forze dell’ordine per far fronte ai vuoti in organico è uno dei punti centrali della strategia comunicativa del Viminale. Anche qui numeri a valanga: 2200 agenti in più, il 70 per cento dei quali destinati alle questure ed equamente distribuiti tra nord, centro e sud. Ma sono rinforzi reali o solo previsti? “Io dei 200 annunciati per Napoli non ne ho visti - ha denunciato qualche settimana fa De Magistris - ad ogni riunione del Comitato ordine e sicurezza pubblica sento sempre dire che la coperta è corta”. Gli omicidi innanzitutto: sono stati 98 dall’inizio dell’anno (24,5 al mese, 12 in meno del 2018) ma la criminalità organizzata continua a regolare i suoi conti sparando. Qui il trend è più o meno stabile: 12 omicidi di mafie nel 2018, 11 quest’anno. L’azione di repressione non basta, la percentuale degli arresti in relazione ai delitti fa segnare un altro numero in rosso, -4,9 per cento. E, con buona pace di Salvini, il numero di arresti di stranieri, negli ultimi anni sempre in aumento, fa segnare un - 14, 1 per cento. Diminuiscono invece, e anche in modo sensibile, tutta una serie di altre voci relative a delitti classici della criminalità organizzata: dalle rapine (-20,9 per cento, con un picco del -24,2 per cento di quelle in banca) alle estorsioni (-16 per cento che spicca sul + 14,7 per cento dell’anno scorso), dall’usura (-37,2 per cento) al traffico di stupefacenti (-9.9 per cento, anche questo in controtendenza rispetto al + 9,6 per cento del 2017 e al + 0,7 per cento del 2018). Nonostante l’emozione scatenata dall’agghiacciante stupro di Viterbo anche le violenze sessuali, un altro dei delitti che negli ultimi anni è sempre stato in crescita e che desta maggiore allarme sociale, fanno segnare una diminuzione per la prima volta negli ultimi tre anni con un - 32,1 per cento. Sicurezza, M5S: “Salvini invece di terrorizzare i migranti contrasti la mafia” La Repubblica, 5 maggio 2019 Morra, presidente grillino dell’Antimafia invita il ministro ad occuparsi di più della criminalità. Anche Zingaretti incalza il titolare del Viminale: “Faccia il suo lavoro almeno un’ora al giorno”. Candiani e Molteni: “Non accettiamo lezioni da nessuno”. Il tema della sicurezza è sempre più al centro dello scontro politico. E il Movimento Cinque Stelle parte all’attacco di Matteo Salvini. “Napoli: bimba di 4 anni con polmoni perforati per sparo in piazza. Un morto davanti una scuola tempo fa. Brutalità di camorra vigliacca. Piuttosto che terrorizzare sui migranti o visitare muri il titolare del Viminale si occupasse di contrasto alla mafia”, twitta Nicola Morra, il presidente grillino della commissione Antimafia. Il capo politici del Movimento Luigi Di Maio aggiunge il suo affondo e dice: “Questa notte è stata operata la bambina di 4 anni ferita venerdì pomeriggio in una sparatoria nel centro di Napoli. I medici dicono che è molto grave. Prego per lei, prego per questa creatura perché ce la faccia. Una cosa è certa: serve più sicurezza, servono più uomini sul terreno. Più controlli, più prevenzione, che passa anche per un forte sostegno a chi è impegnato nel sociale per salvare i ragazzi dalle famiglie di camorra e dai quartieri in difficoltà. È ingiusto. Che colpa può avere una bambina a 4 anni? Napoli è la bambina colpita, non l’assassino che ha sparato!”. Il tema sicurezza, con forti accenti di critica a Salvini, è affrontato anche da Nicola Zingaretti. “Dico al ministro dell’Interno - dice il segretario del Pd - che quattro giorni fa una ragazza è stata stuprata a Viterbo, ieri un commerciante è stato ucciso a Viterbo, ieri una sparatoria nelle vie di Napoli, questa mattina ad Ostia un atro attentato dentro un negozio. Per cortesia, almeno un’ora al giorno: meno comizi e fai il ministro dell’Interno. Siamo a noi a dire che l’Italia pretende sicurezza e non leggi come la legittima difesa che sono leggi di Ponzio Pilato e dicono agli italiani ‘pensateci voi a difendervi da soli”. La replica è affidata ai sottosegretari all’Interno Stefano Candiani e Nicola Molteni. “Gli attacchi al Viminale non gli portano bene: il presidente dell’Antimafia Morra aveva appena finito di twittare contro il ministro, che subito è rimbalzata la notizia dei 12 camorristi arrestati. Un pò come quando se la prese col Viminale sul caso Montante, senza sapere che la costituzione di parte civile era stata stoppata da Palazzo Chigi e non dal ministero dell’Interno. Piuttosto che attaccare Salvini, Morra si dovrebbe informare di più - dicono - Non prendiamo lezioni di contrasto alla mafia da nessuno e sorprende che il presidente della Commissione Antimafia si lasci andare ad attacchi così scomposti, che peraltro sembrano ignorare i risultati ottenuti da questo governo di cui fanno parte anche i 5 Stelle. Nel decreto Salvini la parte più importante è quella relativa al contrasto, senza se e senza ma, alla criminalità organizzata. Diamo la caccia alle mafie italiane e straniere non con le chiacchiere ma sostenendo il lavoro di forze dell’ordine e magistratura e potenziando gli strumenti per il sequestro e la confisca dei patrimoni mafiosi. Abbiamo rafforzato gli organici dell’Agenzia e previsto il potenzialmente di 4 sedi periferiche: martedì il ministro Salvini inaugurerà la nuova sede a Milano. All’Antimafia delle parole sosteniamo l’Antimafia dei fatti concreti, giorno per giorno”. Cafiero de Raho: “Scene da Medioevo, per la politica la camorra non è una priorità” di Conchita Sannino La Repubblica, 5 maggio 2019 Il Procuratore nazionale antimafia: “Queste sono scene da Medioevo. Chi vive a Napoli non può accettare il rischio di essere colpito così, o peggio, di veder cadere a questo modo una figlia, un figlio, i più indifesi esposti alle pallottole di una camorra senza freni, disposta a sparare in pieno centro. Quelli di Napoli sono cittadini italiani a cui dobbiamo una risposta più forte. Che meritano un intervento dello Stato centrale: un investimento più radicale e costante sulla sicurezza nella capitale del Sud”. Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, 67 anni, Cafiero de Raho è il magistrato partenopeo che ha indagato le piaghe più infette delle cosche: istruì i primi processi contro il gotha dei Casalesi, ha ottenuto l’ergastolo per l’ala stragista del cartello; poi, procuratore a Reggio Calabria, ha svelato traffici e connivenze della ‘ndrangheta. Procuratore Federico Cafiero de Raho, il ministro Salvini garantisce più uomini, ricorda che “a Napoli sono arrivati 137 poliziotti in più”. Lei sta dicendo che i rinforzi non bastano? “È così. Vanno bene, ma non bastano, non sono la risposta. Mi pare evidente”. Lei a Napoli ha attraversato drammi analoghi a quella della piccola N. Un magistrato combatte, ma un cittadino? “Queste storie ci accompagnano. Fabio De Pandi aveva solo 11 anni, era il 1991: un colpo di pistola, la guerra tra Perrella e Puccinelli. Silvia Ruotolo, una giovane madre, uccisa nel 1997, e poi Annalisa Durante nel 2004, aveva 14 anni: cadute sempre per le pallottole vaganti. Potrei continuare. La Campania ha il record di vittime innocenti. E l’agguato di venerdì è avvenuto in piazza Nazionale, in mezzo a centinaia di case ed esercizi commerciali. Soprattutto: a 300 metri dalla cittadella giudiziaria, dal carcere di Poggioreale. Lo si dovrebbe considerare un luogo particolarmente presidiato, dove è impensabile esporsi al rischio di una cattura in flagranza. Invece è il segno di un ulteriore sconfinamento. Ma siamo nel 2019, terzo millennio. Non si può tornare indietro di 20 o 30 anni”. E invece se questa Spoon River degli innocenti rischia di allungarsi ogni volta, procuratore, significa che la risposta è insufficiente. “Significa che la risposta deve arrivare dagli organi centrali”. “L’investimento radicale”. “Mi lasci precisare: a Napoli vi è una scuola di investigatori e magistrati di assoluta qualità, vertici di grande competenza guidano polizia, carabinieri, Finanza. I provvedimenti di fermo scattati nelle ultime ore, a un mese dal raid di sangue consumato davanti a un asilo, col bambino che assiste all’assassinio di suo nonno, stanno a dimostrare tutto il lavoro che si fa”. Tuttavia: lo Stato deve alzare il tiro. Non un questore: ma l’Interno, il governo? “Ecco: se nonostante tutti gli sforzi, il crimine assume a Napoli forme così violente - o con un agguato in cui finisce ferita una bimba, o con il fenomeno delle scorrerie armate che chiamano “stese “ - significa che i mezzi non sono sufficienti. Allora il governo assuma e istituzionalizzi questo fronte. A Napoli ci sono poco meno di 90 gruppi criminali: molti, instabili. Un tavolo nazionale, il comitato per la sicurezza. Ogni mese: Ministro dell’Interno, capo della polizia, comandante generale dell’Arma e della Finanza, i livelli giudiziari. Piano di prevenzione e repressione, ma dispiegando tutta la “strumentazione” che la nostra legislazione antimafia, la migliore al mondo, ci offre”. Lei pensa al “modello Caserta”, con cui rispondeste all’offensiva dei casalesi, con Maroni e Manganelli? “Quel modello funzionò. Ci si vedeva periodicamente: per registrare i passi avanti, valutare i risultati, modulare le risorse. Prevenzione e repressione se ne avvantaggiano: per innalzare l’azione di contrasto, occorre siano correlati al massimo l’impegno di chi controlla e si fa vedere in strada e il lavoro di chi indaga e scava”. Quindi: maggiori risorse a tutto campo, controlli a tappeto, più pressione investigativa? “Significa andare nei quartieri: ogni giorno, per giorni. Controlli in strada e mega perquisizioni degli isolati, casa per casa, piazza per piazza. Scardinare nella sua arroganza la presenza criminale. Mentre, intanto, continua il lavoro d’intelligence. Le due direzioni: con risorse adeguate”. Procuratore, non manca qualcosa nei Comitati? Il lavoro sul “prima”. Le politiche sociali. La sinergia con la giustizia minorile. Le famiglie. “Sono d’accordo. Il ministro delle Politiche sociali, certo. Ma anche lì occorre agire su due versanti: da un lato seguire quelle famiglie senza lavoro e senza strumenti che perdono di vista i loro ragazzi, nuclei per i quali il crimine è un approdo della disperazione. Dall’altro, nei clan in cui la tradizione criminale è invece culto familiare da decenni, immaginare anche i temporanei allontanamenti di figli: altrimenti condannati a ripercorrere quelle gesta. E aggiungo anche, i nostri beni confiscati, le imprese sottratte ai clan: quanto potrebbero aiutare questi processi, innescare un’economia positiva, se impiegati e gestiti e con intelligenza?”. Altro tasto dolente. Lo Stato è sempre indietro su questo. “Purtroppo dobbiamo riconoscere che bisogna migliorare su questi fronti. E ancora non c’è una svolta”. Procuratore, continua a pensare che l’azione di contrasto alle mafie non sia la priorità? “Penso che la politica in generale, a parte pochissime eccezioni, non la consideri tale e non eserciti già al suo interno quella selezione e capacità di filtro indispensabile per il contrasto non solo giudiziario ma civile alla penetrazione delle mafie. E sia chiaro: non penso che esista solo una borghesia mafiosa, pure diffusissima. Dovrebbe esserci, anche dalla politica e dal ceto dirigente, il dialogo virtuoso con la borghesia del fare, quella che coltiva la solidarietà, l’accoglienza. Ieri mi hanno positivamente colpito a Napoli quei 10mila in marcia che invocavano: Prima le persone”. Non sembra un tempo che ispiri accoglienza, solidarietà. “Proprio per questo, dobbiamo richiamarne il valore”. “Giustizia è Libertà”, a Fabriano tre giorni di convegni con MicroMega di Karim El Sadi antimafiaduemila.com, 5 maggio 2019 Da quasi 200 anni l’Italia fa i conti con la mafia, ovvero il primo “problema di condizionamento reale della libertà e democrazia”. Diversi giudici, giornalisti, avvocati, semplici cittadini, e politici hanno deciso di dedicare le proprie energie per occuparsi del contrasto a questo fenomeno che da circa due secoli “ancora persiste”. Una domanda, allora, sorge spontanea: “Perché ancora la mafia?”. È questo il grande punto interrogativo che ha dato il nome al primo incontro della tre gorni che si svolge a Fabriano, nel cuore delle Marche, intitolata “Giustizia è Liberta” e organizzata dalla rivista MicroMega. Il primo a rispondere al quesito è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Nino Di Matteo il quale ha consegnato la propria “fotografia” sul fenomeno mafioso, frutto della sua esperienza come magistrato in Sicilia prima a Caltanissetta e poi a Palermo, al pubblico in sala. Per il sostituto procuratore la risposta risiede in una questione tanto semplice quanto inquietante: senza il connubio della politica con la mafia quest’ultima non esisterebbe, in quanto senza la ricerca del potere politico, imprenditoriale e finanziario, la mafia, per citare Totò Riina, sarebbe stata una banda di “semplici sciacalli” e come tale, ha affermato Di Matteo,”sarebbe stata facilmente debellabile con una ordinaria azione di repressione criminale”. Ed è proprio in questa chiave di lettura che si spiegano i motivi della longevità mafiosa. Una longevità che potrebbe essere interrotta da un serio sforzo anzitutto politico, oltre che repressivo delle forze dell’ordine e della magistratura insieme a quello di “respiro culturale”. “Finora il perseguimento dell’obiettivo di recidere per sempre ogni rapporto tra mafia e potere è stato sciaguratamente affidato, in Italia, solo alla repressione giudiziaria dei magistrati - ha affermato il pm - La politica per decenni, con governi di diverso colore, ha completamente abdicato al suo ruolo, non è stata in grado di far valere nelle sue sedi quella responsabilità di tipo politico che dovrebbe conseguire a certi comportamenti, a prescindere dalla eventuale responsabilità penale”. Per una volta però, e ne abbiamo dato atto qualche giorno fa proprio su queste colonne, la politica pare aver deciso finalmente di compiere quel passo in avanti utile a dar un segnale forte alla criminalità organizzata (che di segnali si nutre da sempre per intavolare le proprie strategie e compiere le proprie attività illecite), con la decisione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di dimettere il sottosegretario leghista del Ministero dei Trasporti Armando Siri, accusato di corruzione. Una decisione “coraggiosa” condivisa anche dal pm Nino Di Matteo, il quale, premettendo di non poter entrare nel merito della questione ha comunque detto di aver “apprezzato” quella scelta in quanto si è verificato “quello che ho sempre invocato e cioè una capacità, laddove ne esistano i presupposti, della politica di operare delle valutazioni che prescindano dall’accertamento in sede giudiziaria a proposito dell’esistenza di un reato”. Secondo Di Matteo “il problema, che non affronto con riferimento al caso specifico del sottosegretario Amando Siri che non conosco, è un problema di carattere generale. Il problema del gravissimo errore, spesso voluto, di sovrapporre due piani diversi. Il piano della responsabilità penale, con tutto quello che comporta giustamente anche con la presunzione di innocenza dell’imputato fino al passaggio in giudicato della sentenza, e il piano della valutazione ‘politica’ di certi comportamenti che nel momento in cui sono accertati, devono essere oggetto di valutazione diversa anche da quella del giudice penale”. Per il pm del processo Trattativa Stato-mafia “nell’attualità la scelta del presidente del consiglio Giuseppe Conte di procedere ad una valutazione politica di certe condotte, a prescindere dall’eventuale rilievo penale, può segnare una inversione di tendenza che spero possa consolidarsi”. Inversione di quella tendenza alla quale “siamo abituati ogni qualvolta che c’è un indagine sui rapporti tra mafia e politica” da cui scaturiscono due reazioni; “una prima reazione che è quella di chi grida al complotto giudiziario, che di solito sono gli amici o i colleghi di coalizione del soggetto che viene indagato. Ed una seconda reazione che solo apparentemente è più ‘corretta’ ma più pericolosa, che è quella di chi dice ‘aspettiamo la sentenza definitiva dei magistrati’”. “Questo è un alibi - ha affermato Di Matteo - per non schierarsi e prendere decisioni e delegare soltanto sulle spalle dei magistrati la lotta alla mafia e dei connubi tra essa e il potere”. Per questo motivo “io auspico da cittadino una politica che sia in prima linea nella lotta alla mafia”, come quella condotta dal segretario del PCI Pio La Torre, di cui qualche giorno fa, lo scorso 30 aprile si è ricordato il 37esimo anniversario della sua scomparsa. L’intervento di Nino Di Matteo si è poi incentrato su quanto emerso dai 5 lunghi anni di dibattimento del processo trattativa Stato-mafia di cui è stato protagonista come parte dell’accusa. “Cosa nostra può ancora ricattare lo Stato?” ha chiesto la giornalista Raffaella Guadagnini che ha moderato la serata. “Fino a quando Cosa nostra sarà custode di conoscenze e di segreti su quella terribile stagione sarà sempre in grado di ricattare le istituzioni o parte di esse”, ha risposto Di Matteo. Un’affermazione amara frutto di una altrettanto amara consapevolezza. “Fin quando sarà in libertà anche uno solo dei mafiosi o non mafiosi che concepirono quelle stragi questo è un grandissimo affronto, non soltanto per le vittime di quei delitti, ma un grandissimo pericolo per la nostra democrazia”. Il pm si riferiva al superlatitante Matteo Messina Denaro, uno dei “protagonisti delle stragi del 1993”, nonché depositario dei segreti del Capo dei Capi secondo alcuni collaboratori di giustizia, che ancora è in circolazione. “Io non credo che con la professionalità che oggi hanno dimostrato le nostre forze di polizia e magistrati, 26 anni di latitanza di Messina Denaro, hanno a che vedere con l’abilità del fuggiasco. Ma si debbono evidentemente giustificare con una rete di coperture esterne a Cosa nostra e probabilmente anche istituzionali di cui il latitante ha goduto, come certamente ha goduto Bernardo Provenzano che è stato latitante per 43 anni”. Sempre sulla trattativa Stato-mafia Di Matteo ha parlato delle reticenze di certi teste, anche appartenenti alle istituzioni, chiamati a testimoniare al processo di Palermo. “Uno Stato serio non può consentire che ci siano buchi e ombre su quello che accadde in quel terribile periodo delle stragi, che ci siano ancora segreti misteri, reticenze. Ci sono persone, che non sono della mafia, che sono in grado di riferire circostanze che possono essere utili a capire se e chi insieme a Cosa Nostra a fatto le stragi” ha affermato il magistrato. “I pentiti di mafia sono arrivati fino a un certo livello, il contributo ulteriore potrebbe derivare dalle conoscenze di persone che non erano inserite nella mafia ma che con la mafia in quel momento hanno avuto rapporti di vario tipo”. Di Matteo ha concluso il proprio intervento confessando di infastidirsi “quando viene detto che non si sa nulla sulle stragi”. “Non è vero, ci sono condanne definitive per decine e decine di appartenenti alla mafia ma in quei processi siamo rimasti in pochi forse a conoscere gli atti e le sentenze, e viene fuori da quei processi che quella verità importante che è stata ricostruita indica un percorso da completare”. “Vengono fuori - ha sottolineato il sostituto procuratore - elementi che impongono un approfondimento ulteriore perché ci sono elementi che inducono a ritenere che la mafia è stata in qualche modo ispirata e accompagnata e coadiuvata nella fase organizzativa ed esecutiva, da personaggi che non erano mafiosi, questa verità deve essere pretesa da tutti altrimenti le commemorazioni si riveleranno mero esercizio retorico assolutamente inutile”. Altro magistrato intervenuto ieri sera al Teatro Gentile di Fabriano è Sergio Sottani, Procuratore Generale della Corte di Appello di Ancona. Sottani che ha operato in Umbria, nelle Marche ed in Emilia Romagna, ha descritto queste regioni come “refrattarie al fenomeno mafioso”. “Il pericolo delle regioni refrattarie - ha spiegato il pg - è l’incapacità di avere quegli anticorpi che forse al sud, in situazioni enormemente più drammatiche non paragonabili, hanno, in cui c’è un tessuto sociale che in qualche modo si è formato, in cui forse c’è anche la capacità di distinguere bene tra chi ci si può fidare e chi no. In regioni come le nostre (del Centro nord, ndr) invece è molto più difficile ci vuole lo sforzo di tutti, anche della società civile. Bisogna sempre tenere alta la barra della legalità perché solo con essa si possono evitare le infiltrazioni in modo che il tessuto sociale sia un tessuto sano”. Sottani ha poi parlato del traffico di droga nella regione Marche. “In questa regione c’è un aumento preoccupante della richiesta di sostanze stupefacenti soprattutto tra i giovani e questo è un segnale pericoloso perché significa che c’è una domanda del prodotto alle organizzazioni criminali”. In conclusione il Procuratore Generale della Corte di Appello di Ancona si è espresso sull’omicidio Bruzzese a Pesaro avvenuto nella notte di Natale dello scorso anno. Quel fatto di sangue “dimostra che l’attenzione di chi deve tutelare deve essere molto più alta che in altri territori, per tutelarli abbiamo bisogno di una professionalità che dobbiamo acquisire tutti altrimenti rischiamo di essere indifesi rispetto a fenomeni che non siamo in grado di controllare”. Gli altri due ospiti della serata sono stati la giornalista tedesca Petra Reski e il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Petra Reski ha parlato delle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel nord Europa e in particolare in Germania. “In Germania della mafia, e in particolare della ‘ndrangheta, non si parlava affatto ma tutto è cambiato nel 2007 con la strage di Duisburg”. In quell’occasione, ha raccontato la Reski “un editore mi aveva chiesto di fare un libro su questa storia e così ho descritto le attività della ‘Ndrangheta in Germania e ho citato i rapporti del BKA, la polizia tedesca, e di altri magistrati”. Dopo aver scritto su Berlusconi e Dell’Utri “volevo togliere l’illusione ai tedeschi che la mafia fosse solo un problema italiano e ho fatto esempi di politici tedeschi coinvolti con la ‘ndrangheta. Quando lo feci mi hanno fatto tutti causa”. Da quel momento in poi la Reski è stata oggetto di denunce e pesante minacce. “Con me hanno voluto stabilire un esempio in Germania per gli altri giornalisti, e ha funzionato benissimo. Ho scritto un articolo su come fosse impossibile scrivere di mafia in Germania in cui ho citato, da una sentenza pubblica, il nome di quello che aveva fatto la querela a una televisione che aveva fatto un film sugli fatti aggiornati di cui avevo scritto io in precedenza. E quella volta sono stata nuovamente condannata perdendo di nuovo. Ora nessuno scrive più sulla mafia, nessun giornalista ha il coraggio tant’è vero che nessuno ha più parlato di mafia in Germania”. La Reski ha affermato che in Germania parlare di mafia è assai complicato poiché “esiste il reato di associazione a delinquere ma non esiste il reato di associazione alla mafia, la sola appartenenza mafiosa non è un reato in Germania, è praticamente impossibile intercettare”. Per non parlare della “legislazione sul diritto di privacy che nel Paese è molto vasto”. Infine è intervenuto anche Lirio Abbate, giornalista siciliano che ha raccontato le vicende dell’inchiesta che segue da alcuni anni su Mafia Capitale, un sistema di affari illeciti, considerato un’associazione mafiosa, ideato e realizzato dal “ras delle coop”, Salvatore Buzzi, e dall’ex Nar Massimo Carminati, entrambi condannati in appello per mafia rispettivamente a 18 anni e 4 mesi e 14 anni e 6 mesi. Anche il giornalista ha raccontato episodi di censura e ostacolamento durante il dibattimento. “Il processo di Carminati è stato veloce la sentenza è arrivata quasi subito. - ha affermato Abbate - Quando poi la stampa ne parlò pubblicando i virgolettati delle ordinanze e dei documenti che tutti conoscevano, per la prima volta la camera penale di Roma fece un esposto contro 60 giornalisti dicendo che non dovevano pubblicarli”. Per concludere il giornalista dell’Espresso si è chiesto il motivo per il quale il ministro degli Interni Matteo Salvini parla di mafia nella Capitale solo per quanto concerne il clan dei Casamonica e affini. “Io non ho mai sentito additare questo Ministro dell’Interno contro Carminati e il suo clan”, ha detto con tono deciso il saggista. “Come mai non si parla di Casapound e di Massimo Carminati che è condannato per associazione mafiosa mentre i Casamonica no?”. Probabilmente, come ha poi affermato lo stesso Abbate, “perché è facile finché si parla di criminalità ordinaria ma quando uno tiene stretto alcuni politici viene difficile andargli contro”. “Giustizia è libertà”, intervista a Gian Carlo Caselli di Saverio Spadavecchia qdmnotizie.it, 5 maggio 2019 Un viaggio nella storia italiana, un percorso segnato dal pool antimafia e dalla lotta per sconfiggere la criminalità organizzata. Una strada illuminata da Gian Carlo Caselli durante il secondo giorno di “Giustizia è Liberta”, manifestazione organizzata dalla Associazione Giuridica “Carlo Galli” di Fabriano. Caselli, ex magistrato, dalla metà degli anni settanta fino alla metà degli anni ottanta affrontò il terrorismo delle brigate rosse e prima linea a Torino, per poi diventare (a seguito della sua richiesta di trasferimento) Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo dopo le stragi di Capaci e Via d’Amelio. Attentati che uccisero - in una manciata di mesi - Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. L’intervista nella giornata dedicata ai ragazzi delle scuole superiori di Fabriano, quarte e quinte classi, che hanno riempito la platea del “Gentile”. Dottor Caselli, perché parlare ai ragazzi delle scuole di Fabriano raccontando la storia di un periodo storico italiano così drammatico? La storia di Falcone, Borsellino e del Pool Antimafia creato da Rocco Chinnici e Nino Caponnetto è una storia paradigmatica per quanto riguarda il contrasto alla mafia. Se ci si organizza, ed il Pool era estremamente ben organizzato, i risultai arrivano. Il maxiprocesso è stato un capolavoro investigativo e giudiziario, con il risultato che per la prima volta i mafiosi vennero portati alla sbarra, processati e condannati. Prima i processi erano molto pochi e quei pochi finivano con assoluzioni per insufficienza di prove. Fino a quando gli obbiettivi erano i mafiosi di strada non c’erano problemi, ma quando le indagini hanno iniziato ad intaccare i rapporti tra mafia e politica, mafia ed economia e mafia ed economia ecco la tempesta di calunnie, l’eliminazione del pool e la cacciata di Falcone dalla Sicilia. Perché tutto questo? Perché i nostri ragazzi devono conoscere la loro storia senza dimenticarla. Quindi il rischio potrebbe essere quello di una commemorazione sterile? Fare memoria non è celebrare un rito, ma vuol dire capire quello che è successo. Significa fare in modo che quando vengono analizzati dei lati negativi, questi non accadano mai più. Ma cos’è davvero il sistema del malaffare in Italia secondo la sua esperienza? La corruzione è una declinazione della illegalità economica che comprende l’evasione fiscale e la mafia. Queste tre parti producono un business di 330 / 350 milioni di euro l’anno di ricchezza sottratta a tutti, anche ai ragazzi in platea a teatro. Una quantità spaventosa di ricchezza che ci viene rapinata, una montagna di risorse rubate ed una ricaduta perfida sulla qualità della nostra vita e dei ragazzi in un futuro non troppo distante. Ecco perché dobbiamo parlare agli studenti della corruzione, perché blocca lo sviluppo del paese e le loro possibilità future. Non è un problema di “guardie o ladri”, ma è un problema di sistema. Un problema che in una regione considerata “refrattaria” al fenomeno mafioso come le Marche, deve essere però attenzionato con maggiore forza? I ragazzi devono partecipare, devono farsi coinvolgere e non rimanere alla finestra. Devono essere sentile e non devono delegare perché la legalità e la giustizia sono cose che riguardano la qualità della nostra vita. Il mio invito ai ragazzi di Fabriano è quello di “Darci dentro, tirarsi su le maniche e partecipare”. Giudici di pace, nuovo sciopero. “Tempo scaduto, la riforma dov’è?” di Rita Bartolomei La Nazione, 5 maggio 2019 Protesta delle toghe onorarie. I giudici di pace incrociano le braccia da lunedì 6 maggio al 17; Got e Vpo dal 13 al 17. Il sottosegretario Morrone: “Sorpreso, ho fatto la mia parte. Ora tocca al ministro”. Tornano a scioperare i precari della giustizia. Tempo scaduto, avvisano i rappresentanti delle 5mila toghe onorarie. Da lunedì 6 maggio al 17 inutile bussare agli uffici dei giudici di pace; dal 13 al 17 si asterranno dal lavoro Got e Vpo (giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari). Attaccano le associazioni: “A quasi due mesi dall’incontro con il ministro Bonafede e il sottosegretario Morrone, a un mese esatto dalla promessa di quest’ultimo di predisporre e offrire alla conoscenza dei diretti interessati il progetto definitivo di controriforma, il silenzio regna sovrano”. Invece c’è “l’urgente necessità di intervenire” per “scongiurare i pieni effetti devastanti della legge Orlando sul sistema giustizia”. Segue un elenco di richieste, al primo posto “la previsione del raggiungimento del limite di età in linea con quello previsto per la professione forense, che attualmente è di 70 anni”. Poi - denuncia messa per ultimo ma non ultima - “i livelli retributivi sono al limite dell’accettabilità”. Il sottosegretario si dice sorpreso dalla protesta. “Ho lavorato alla controriforma dieci mesi, ho incontrato rappresentanti politici e tecnici. Ho l’articolato pronto, ho fatto tre plichi e l’ho già consegnato a Bonafede, per fare il decreto legge. La mia parte l’ho fatta. Ora dipende dal Consiglio dei ministri... Non comprendo lo sciopero, ho accolto tutte le richieste di buonsenso. Chiaro, non potevo dire sì alla stabilizzazione, quello andava contro legge. Ma garantiamo il lavoro fino a 68 anni. Riduciamo la base imponibile della previdenza del 40%, quindi pagheranno le tasse solo sul 60%, prima era il 100%. I pagamenti da trimestrali diventeranno bimestrali”. Amareggiato Luigi Vingiani, segretario nazionale della Confederazione giudici di pace. “Ho firmato uno schema riassuntivo dei punti salienti da trasporre in proposta di legge. Poi, ho sottoscritto l’accordo accogliendo l’invito a fare presto proprio per accelerare la presentazione del decreto. Il sottosegretario Morrone aveva chiesto massimo un mese per formalizzare il testo. Perché non viene presentato in Cdm e formalizzato? Delle due l’una: o non c’è copertura o non c’è condivisione. Ho sottoscritto l’intesa per primo e per questo sono stato attaccato, mi hanno dato del filo-governativo. Mi sono esposto non poco e ho subito attacchi da ogni parte”. Alla fine la proposta di Morrone è stata condivisa da 14 associazioni su 17. E su tutto ora incombono le incognite sul destino del governo. “Regeni l’abbiamo sequestrato noi”: la confessione dell’agente egiziano di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 maggio 2019 Il dialogo ascoltato da un testimone: “Credevamo fosse una spia inglese”. Le dichiarazioni acquisite dalla Procura di Roma che invia una rogatoria al Cairo. Oltre agli indizi, ora c’è una confessione, sia pure indiretta. Uno dei funzionari della National security egiziana sospettati del sequestro di Giulio Regeni ha raccontato di aver partecipato al “prelevamento” del giovane ricercatore italiano rapito al Cairo la sera del 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere una settimana più tardi: “Credevamo che fosse una spia inglese, lo abbiamo preso, io sono andato e dopo averlo caricato in macchina abbiamo dovuto picchiarlo. Io l’ho colpito al volto”. È la sintesi di ciò che l’agente della sicurezza egiziana ha confidato a un collega straniero nel corso di una riunione di poliziotti africani, avvenuta in un Paese di quel continente nell’estate 2017. A rivelare l’episodio - che può rappresentare una svolta nell’inchiesta condotta dalla Procura di Roma sulla fine di Giulio - è una persona che ha assistito alla conversazione tra il funzionario del Cairo e il suo interlocutore. Testimone per caso - Un testimone occasionale, presente a un momento conviviale d’incontro, che ha potuto ascoltare e comprendere ciò che diceva l’egiziano perché conosce la lingua araba. Ora questa persona ha deciso di raccontare tutto ai legali e consulenti della famiglia Regeni, coordinati dall’avvocato Alessandra Ballerini che assiste i genitori di Giulio, i quali hanno messo queste dichiarazioni a disposizione dei magistrati romani. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco considerano la testimonianza attendibile, logica e congruente con altri elementi acquisiti nell’indagine, per questo nei giorni scorsi hanno inoltrato al Cairo una nuova rogatoria in cui chiedono informazioni che potrebbero fornire ulteriori riscontri. È l’atto di cui ha parlato ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rivelando di aver avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente egiziano Al Sisi: “C’è una rogatoria da perorare oltre che un aggiornamento della situazione libica”. Per i magistrati italiani, che insieme agli investigatori del Ros dei carabinieri e dello Sco della polizia stanno cercando da oltre tre anni di raccogliere ogni elemento utile a scoprire la verità sul sequestro, le torture e l’omicidio di Regeni, con un’inchiesta parallela a quella della Procura generale del Cairo, le nuove dichiarazioni del testimone sono molto importanti. I cinque indagati - Il funzionario indicato dal testimone, infatti, è uno dei cinque che la Procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di sequestro di persona. Se infatti per gli inquirenti egiziani non ci sono elementi utili ad avviare un processo, secondo quelli italiani ci sono indizi sufficienti a ipotizzare il coinvolgimento del generale Sabir Tareq, del colonnello Uhsam Helmy, del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, dell’assistente Mahmoud Najem (tutti in forza alla Ns) e del colonnello Ather Kamal, all’epoca capo della polizia investigativa del Cairo e coinvolto anche nel depistaggio con cui si voleva chiudere il caso addossando ogni responsabilità a una banda di criminali comuni, uccisi in un presunto conflitto a fuoco. Finora ci si era basati essenzialmente sull’elaborazione dei tabulati telefonici e le testimonianze raccolte in Egitto, a cominciare da quella del sindacalista Mohamed Abdallah, il finto amico di Regeni che l’ha denunciato alla polizia del Cairo. Ora si aggiunge una prova testimoniale - sebbene de relato - che arricchisce la stessa ipotesi investigativa. Anche sul movente del sequestro. La persona che ha ascoltato la confessione ha indicato nome e cognome del funzionario perché l’ha visto consegnare al collega straniero il proprio biglietto da visita. Probabilmente gli interlocutori non sapevano che il testimone conosceva l’arabo, e il discorso è caduto su Regeni nell’ambito di uno scambio di considerazioni sulla repressione degli scontri di piazza. In questo contesto l’indagato egiziano ha rivelato che a gennaio 2016 la sua struttura indagava su Regeni, rapito il giorno in cui al Cairo c’era il timore di manifestazioni anti-regime, perché ricorreva l’anniversario della rivolta di piazza Tahrir. La nuova rogatoria - Il protagonista - secondo quanto riferito dal testimone - s’è soffermato sulle modalità dell’operazione, aggiungendo che dopo il sequestro Giulio fu picchiato. Anche da lui. In quel colloquio l’uomo non avrebbe detto nulla sulle successive torture e sull’esecuzione di Giulio, trovato morto il 3 febbraio sul ciglio di una strada. Nella rogatoria inviata in Egitto la Procura romana chiede lumi su altri nominativi individuati attraverso i tabulati telefonici e ulteriori testimoni da ascoltare, ma la parte più importante sono i possibili riscontri alla confessione che conferma e arricchisce il quadro probatorio costruito fin qui. Napoli: detenuto disabile in coma, la Camera penale “sistema carcerario in crisi” di Viviana Lanza Il Mattino, 5 maggio 2019 Il quadro clinico di Giorgio Mancinelli, il detenuto 72enne ricoverato in condizioni disperate e finito in cella l’11 marzo per una condanna definitiva a 5 anni per bancarotta nonostante le conseguenze sul suo fisico di un herpes encefalico, diabete e Alzheimer, resta grave e stazionario. Intanto, il suo caso sta facendo discutere e apre riflessioni sulla giustizia, sui suoi tempi, sulla burocrazia e su come incide sulla eterna “emergenza carceri”. I numeri innanzitutto: nel carcere di Poggioreale si contano 2.351 detenuti a fronte di una capienza di 1.636 e in quello di Secondigliano 1.456 detenuti a fronte di 1.020. Con il sovraffollamento sembrano essersi riacuiti i problemi di gestione dei detenuti. “È una situazione a catena - dichiara l’avvocato Gaetano Balice, penalista e segretario della Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Ermanno Carnevale - il personale è insufficiente, i centri clinici non riescono a gestire la quotidianità dei detenuti ricoverati, le interlocuzioni con il Tribunale di Sorveglianza vengono appesantite dai numeri, le cancellerie non riescono a evadere le istruttorie e i fascicoli arrivano incompleti sul tavolo del giudice che non può decidere se mancano i dati necessari”. I temi della detenzione e del diritto di difesa sono da anni al centro dell’impegno e delle iniziative della Camera penale che ha adottato astensioni (anche quella più recente di fine marzo) e iniziative varie, anche protocolli con il Tribunale di Sorveglianza. Un nodo cruciale riguarda la comunicazione: “Esistono problemi di comunicazione tra Tribunale di sorveglianza, carcere e ospedale” spiega Balice. E forse anche di comunicazione con l’esterno se è vero, come nel caso in questione, che un imputato non sceglie di nominare un difensore. “La storia tragica del condannato ci richiama alle nostre responsabilità perché è evidente che non siamo stati in grado di raggiungere queste persone e informarle dei loro diritti quale quello dell’esistenza del sistema del gratuito patrocinio - spiega Balice - che garantisce a chi si trova in difficoltà economica di dotarsi di una competente difesa tecnica”. Andria (Bat): “Senza Sbarre”, ospitate 12 persone in misura alternativa al carcere di Sabino Liso andrialive.it, 5 maggio 2019 Il progetto diocesano “Senza Sbarre” è da oggi realtà. Quella che un tempo era la masseria che ospitava il progetto di comunità del recupero di tossico-dipendenti fondata da don Gelmini, torna a nuova vita, o meglio, ritorna ad essere una “comunità” sociale e rieducativa. Alla presenza di numerose autorità religiose, civili e militari si è tenuta la cerimonia di inaugurazione della struttura che attualmente ospita già 12 soggetti (persone in stato di detenzione e/o sottoposte a provvedimento di custodia attenuata, ex detenuti e/o persone il cui percorso carcerario, oltre ad avergli segnato la vita per sempre, gli ha precluso ogni possibilità di rientro e di integrazione sociale). L’inaugurazione del progetto “Senza Sbarre” Promotori del progetto sono don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli mentre tra i primi sostenitori vi è la diocesi di Andria: “Questa iniziativa - ha dichiarato S.E. Mons. Luigi Mansi - intende aiutare le persone che hanno fatto già esperienza carceraria e sono in via di conclusione oppure che hanno chiuso l’esperienza carcerario ma hanno bisogno di essere aiutati per il reinserimento lavorativo. Qui ricevono l’aiuto concreto per imparare un’arte. Imparano a rieducarsi al lavoro e ad avere quindi tutte le carte in regole per rientrare nella società”. “Ospitiamo già 12 persone che stanno credendo nella riparazione del danno che loro hanno commesso nei confronti della società e ogni giorno li accolgo con la preghiera per poi lasciarli alle varie attività presenti all’interno della Masseria San Vittore - ha commentato don Riccardo Agresti -. Adesso, però, c’è bisogno che la comunità non veda questi nostri fratelli come se fossero condannati a morte con la loro pena. Dietro c’è sempre la persona che varia rieducata. Possiamo imparare molto incontrandoli. Sappiamo bene che la pura attività di volontariato non basta per sostenere un progetto ambizioso che ha bisogno di essere supportato anche da valide professionalità, quali una equipe socio-psico-pedagogica, pertanto abbiamo chiesto a don Riccardo Agresti come intenda mantenere in vita il progetto Senza Sbarre: “Siamo mendicanti di Dio: noi chiediamo al signore quello che lui ha voluto che iniziasse. È, questa, l’unica comunità che abbraccia i carcerati. Certo, ci sono associazioni, ma non così com’è stata concepita e strutturata la masseria San Vittore. Lo Stato e quindi il governo centrale impiega circa € 200 al giorno per mantenere un detenuto in carcere mentre con la misura alternativa, individuando progettualità come la nostra, potrebbe dimezzare le spese. Oltretutto, permetteremmo la riqualificazione di tanti soggetti che verrebbero meglio reinseriti nella società”. È questa la vera sfida del progetto legato alla masseria San Vittore: il Governo dovrebbe considerare la possibilità di misure alternative al carcere come il progetto della comunità “Senza Sbarre” che, oltre a rieducare i soggetti, favorirebbe il reinserimento reale degli stessi nel contesto sociale e contribuirebbero a ridurre l’attuale spesa pubblica dal momento che “mantenere” in carcere un soggetto costa di più che rieducarlo. Bolzano: 144 persone in carico all’Ufficio Servizio Sociale Minorenni di Francesco Zorzi lavocedibolzano.it, 5 maggio 2019 Dove finiscono i giovani minorenni colpiti da provvedimenti penali e quanti sono? Una domanda che ci poniamo spesso per capire quali misure restrittive vengono utilizzate anche in alternativa al carcere. Infatti il giudice può applicare a seconda dei casi una serie di misure cautelari: permanenza in casa, collocamento in comunità, la custodia cautelare o prescrizioni. Nello specifico abbiamo i servizi minorili residenziali (Cpa), ovvero i centri prima accoglienza che accolgono temporaneamente i minorenni fermati, accompagnati o arrestati in flagranza di reato dalle forze dell’ordine su disposizione del Procuratore della Repubblica per i minorenni; le comunità, in misura alternativa alla detenzione (ministeriali e del privato sociale), l’Ipm (gli Istituti penali per i minorenni) in cui sono eseguite la misura della custodia cautelare e la pena detentiva, con tutte le attività di socio educative e con gli operatori di Polizia Penitenziaria formati ai rapporti con gli adolescenti. Con un Amministrazione che gestisce inoltre, i Centri diurni polifunzionali (CDP), Servizi minorili non residenziali per l’accoglienza diurna di minori e giovani adulti dell’area penale o in situazioni di disagio sociale e a rischio di devianza, anche se non sottoposti a procedimento penale. La criminalità minorile è connotata dalla prevalenza dei reati contro il patrimonio e, in particolare, dei reati di furto e rapina. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie. Un’utenza che è prevalentemente maschile con le ragazze provenienti la maggior parte dai paesi dell’ex Jugoslavia e Romania. Ma quanti sono i minori in carico all’USSM a livello nazionale? I soggetti minori sono ben 13.984 tra cui 1.494 ragazze con numeri “esigui” in reale detenzione carceraria, ma bensi in comunità ministeriali e private, in messa alla prova ecc. Considerato anche i soggetti che non sono minori, ma considerati “giovani adulti” (normalmente fino a 25 anni di età) raggiungiamo cifre anche di 16.322 tra cui di 4.291 stranieri divisi per vari paesi. I reati commessi risultano 46.782 con una prevalenza di reati contro il patrimonio, quindi rapina, estorsione, danni, truffa e ricettazione (21.082 reati) a susseguirsi il reato contro la persona, ovvero omicidio volontario/tentato, rissa, violenza privata, minaccia ecc. (11.842 reati) In Provincia di Bolzano com’è la situazione? Per citare un dato locale, quindi in Provincia di Bolzano abbiamo attualmente in carico dall’USSM (uffici di servizio sociale minorenni) per Bolzano 144 soggetti e per Trento 211, quindi rispetto al nazionale fortunatamente un numero abbastanza esiguo. In sostanza la maggior parte dei minori autori di reato è in carico agli USSM ed è sottoposta a misure da eseguire in area penale esterna; la detenzione, infatti, assume per i minori di età carattere di residualità, per lasciare spazio a percorsi sanzionatori alternativi. Negli ultimi anni si sta assistendo ad una sempre maggiore applicazione del collocamento in comunità, non solo quale misura cautelare, ma anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari, per la sua capacità di contemperare le esigenze educative con quelle contenitive di controllo. Olbia (Ss): “Niente acqua potabile nel carcere di Nuchis” La Nuova Sardegna, 5 maggio 2019 La segnalazione della Garante dei detenuti al seminario dell’Ordine dei giornalisti Non si può usare né per bere né per cucinare e in due sezioni manca quella calda. Niente acqua potabile che scende dai rubinetti, e quella potabile che viene riversata nelle cisterne diventa non potabile in seguito al passaggio attraverso le tubature a causa dei metalli rilasciati dal materiale utilizzato per l’impianto idrico. È uno dei problemi che gravano in maniera pesante sulle condizioni di vita dei detenuti della Casa di reclusione di Nuchis. A evidenziarlo nel suo intervento in occasione del seminario formativo per giornalisti dedicato alla realtà carceraria e alle misure alternative alla detenzione, l’avvocato Edvige Baldino, garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale nel comune di Tempio, che ha parlato del carcere di Nuchis. La struttura finita di costruire e aperta nel 2012, ospita attualmente 148 detenuti a fronte di una capienza massima di 168 posti. Il fenomeno del sovraffollamento che affligge la gran parte delle carceri italiane, non interessa, quindi, la Casa di reclusione. Afflitta, invece, da gravi problemi strutturali dovuti a difetti di costruzione (non imputabili all’amministrazione), che incidono pesantemente sulle condizioni di vita dei carcerati. “Non c’è acqua potabile - ha spiegato l’avvocato Baldino - E quella potabile che viene riversata nelle cisterne, in seguito al passaggio attraverso le tubature, diventa non potabile a causa dei metalli rilasciati dal materiale utilizzato nelle condotte. I detenuti non possono utilizzare l’acqua del rubinetto né per bere né per cucinare. L’Amministrazione ha cercato di ovviare al problema attraverso la fornitura di due litri di acqua minerale al giorno per ciascun detenuto. Una quantità ovviamente insufficiente. Inoltre due delle quattro sezioni dell’istituto, da circa due anni, non sono più servite dall’acqua calda. Questa gravosa situazione crea rilevanti problemi ai detenuti, pari quasi al 50% della popolazione, tenendo conto del fatto che la zona in cui si trova il carcere è particolarmente fredda per la maggior parte dell’anno”, ha rimarcato la relatrice. Che ha evidenziato anche gli aspetti positivi della Casa di reclusione: dalle dimensioni a norma delle celle alle numerose attività educative e scolastiche svolte all’interno del carcere. Il seminario, introdotto dal presidente dell’Ordine dei giornalisti Francesco Birocchi, ha fornito un quadro completo sulla realtà carceraria e sulle misure alternative alla detenzione: il magistrato di sorveglianza del tribunale di Sassari e presidente nazionale di Magistratura democratica Riccardo De Vito ha approfondito il tema relativo ai “Differenti modelli penitenziari e discrezionalità della magistratura di sorveglianza”, mentre l’avvocato Domenico Putzolu, componente della giunta nazionale dell’Unione delle camere penali, ha parlato di “Misure alternative alla detenzione e il ritorno a propulsioni meramente punitive e retributive della pena”. Foggia: “L’arte del riciclo”, laboratorio nel carcere foggiatoday.it, 5 maggio 2019 Bilancio positivo per il laboratorio dell’Ass. Misericordia di Foggia nella Sezione Femminile del Penitenziario foggiano. Un’altra possibilità per rifiuti e materiali di scarto o non utilizzati, trasformati in qualcosa di nuovamente utile, originale ed unico. Questo il senso del progetto “L’arte del riciclo” realizzato nelle scorse settimane dai volontari della Misericordia di Foggia nella sezione femminile della Casa Circondariale del capoluogo dauno. Un progetto rieducativo che ha coinvolto un gruppo di 10 detenute che, utilizzando materiali di recupero come bottiglie di plastica, calzini, carta, altrimenti destinati a smaltimento con duplice costo, economico e di sostenibilità ambientale, hanno realizzato graziosi oggetti e accessori. “Abbiamo voluto cambiare l’immaginario sui rifiuti nelle donne che hanno partecipato al corso. È stato un laboratorio, a tratti anche divertente, che ha consentito lo scambio di idee e confronto sulle diverse tecniche di riciclo creativo. Le detenute, non senza meraviglia, hanno sperimentato con le proprie mani come “il rifiuto” possa essere considerato una risorsa e con un po’ di fantasia possa diventare qualcosa di bello o addirittura di utile. Sono state davvero molto brave e attente, sempre partecipi”. Tutte le creazioni sono state realizzate con tecniche artigianali e assemblate all’interno del laboratorio della Casa Circondariale in modo insolito e creativo, con l’obiettivo di liberare il potenziale estetico e funzionale insito in ciascun materiale: piccole opere, dal grande valore sociale. Un progetto educativo, che valorizza il senso della seconda possibilità partendo dagli oggetti per arrivare alle persone che, grazie al laboratorio, hanno potuto tenersi occupate durante le giornate, acquisendo nuove conoscenze. Insomma, un progetto nato per aiutare i meno fortunati, ma che ha offerto anche un sistema di economia circolare, che rimette a nuovo ciò che era destinato a essere distrutto, con conseguenti danni per l’ambiente e spreco di nuove risorse. Il progetto “L’arte del riciclo” è stato finanziato dal CSV Foggia, nell’ambito del “Bando carcere 2018”, grazie al sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. In programma, per la sezione femminile del Carcere di Foggia ci sono altri due progetti, di altrettante associazioni di volontariato, che partiranno nelle prossime settimane. Torino: Matteo Baronetto insegna ai detenuti, in tavola i “dolci arresti” di Valentina Dirindin La Stampa, 5 maggio 2019 Sono passati ormai da due anni da quando lo chef del Ristorante Del Cambio di Torino, Matteo Baronetto, ha messo piede per la prima volta in carcere: nessuna infrazione alla legge, ma la partenza di un progetto per insegnare ai detenuti a cucinare. “Lo scopo è quello di insegnare ai detenuti un mestiere, ma anche di creare un’attività che gli faccia passare il tempo e sperare di crearsi un futuro nel momento in cui usciranno”, spiega lo chef una stella Michelin al quotidiano torinese La Stampa, a proposito del progetto Free Food, nato dalla collaborazione con Marco Rizzonato, fondatore della Onlus Outsider, che si occupa dell’integrazione nella società di persone con disabilità intellettiva e, appunto, di detenuti. Un impegno, quello di Matteo Baronetto con i carcerati, che oggi si concretizza ulteriormente, trasformandosi e dando vita ad altri due progetti. Il primo è un libro di ricette scritte con la sua consulenza. “Cosa bolle in cella?” sarà presentato l’11 maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino e contiene una serie di proposte di cucina che lo chef ha definito “eroiche”, divise in sezioni simpatiche come “secondini” o “dolci arresti”. Il secondo progetto prevede invece la realizzazione di una linea di produzione di pasticceria secca e salata da commercializzare all’esterno del carcere. Brescia: arte e rinascita, a San Luca le opere dei detenuti di Lilina Golia Corriere della Sera, 5 maggio 2019 Altri lavori degli ospiti di Verziano saranno esposti a S. Agata con Resurrexit. Dopo gli errori, anche i più gravi, viene il tempo di ritrovare se stessi. “Non esistono uomini sbagliati, ma comportamenti sbagliati”. È la convinzione della direttrice dei due istituti di pena cittadini, Paola Francesca Lucrezi che dal suo arrivo a Brescia lavora per “togliere le “etichette” dalle persone, già sottoposte al giudizio dei tribunali, e per far capire loro che ci si impegna per costruire un domani diverso”. Una resurrezione che a Verziano passa attraverso i laboratori che l’Accademia di Belle Arti Santa Giulia tiene per dare una possibilità in più ai detenuti. E il carcere è uno dei contesti del territorio in cui è stata preparata la rassegna di eventi “Resurrexit”, voluta dall’Ambito Cultura e Territorio dell’Unità pastorale del Centro Storico. Conferenze, viste guidate, mostre e spettacoli fino al 2 giugno (il programma completo è sulla pagina Facebook di Resurrexit), messi a punto con il contributo della parrocchia e dell’Associazione amici della Cattedrale e dell’ordine dei Frati Minori Conventuali. Oggi, dalle 16.30, nella chiesa di San Luca (via San Martino della Battaglia a Brescia) l’incontro su “La resurrezione oltre il muro. Testimonianze dal carcere”, con la direttrice Lucrezi, il direttore dell’accademia, Riccardo Romagnoli, e Agostino Ghilardi, docente di scultura alla Santa Giulia e nelle aule di Verziano. E proprio in San Luca saranno esposte alcune delle opere dei detenuti-artisti, presenti in sala. Due pannelli di terracotta che raffigurano due angeli. Altre opere, realizzate a Verziano, saranno visibili nella chiesa di Sant’Agata. Il tema di quest’anno punta alla valorizzazione della figura dell’angelo che annuncia per primo alle donne che Cristo è risorto. “Un tema difficile da affrontare - spiega monsignor Alfredo Scaratti, rettore della Cattedrale, soprattutto in un istituto di pena, in cui chi entra si sente un uomo morto, anche per la società. Ma c’è la possibilità di rinascere”. Un messaggio che si amplia attraverso la mostra diffusa di “Resurrexit” che propone opere di Fabio Tavelli, don Renato Laffranchi, Lino Sanzeni, Daniele Boi, Franco Faglia, Alessandro Maganza, Dino Coffani, Alfred Kedhi e Cristina Mora, tra Duomo vecchio, Duomo Nuovo, chiostro di San Francesco, chiesa di San Faustino e Giovita, Santa Maria della Carità e Santi Nazaro e Celso. “Attraverso l’arte si dialoga in maniera universale”, spiega il professor Ghilardi che nelle sue lezioni a Verziano coinvolge una quindicina di detenuti, ma anche studenti dell’Accademia - “c’è una ragazza che sta preparando la tesi sull’arte in carcere” - ed ex detenuti che dell’arte hanno fatto una ragione di vita. Tre anni di lavoro per preparare le sculture di Resurrexit - “non si poteva fare di più con 3 ore di laboratorio a settimana” - che si sono trasformati nella ricerca di un nuovo senso della vita. “Gli ospiti di Verziano - la parola “detenuti” non mi piace - spiega Ghilardi, imparano da me e io imparo da loro”. Perché non ci sono un luogo, una circostanza o un ruolo precisi per imparare la dignità. Ma “c’è un tempo di impegno, fede e fiducia e la speranza - sottolinea la direttrice Lucrezi - è il punto focale della nostra attività”. La collaborazione tra la Santa Giulia e il carcere è partita 14 anni fa. “È iniziata quando è stato chiesto il nostro intervento per restaurare la cappella di Canton Mombello - ricorda il direttore Romagnoli - e da allora abbiamo sempre lavorato con i detenuti in un percorso di riscoperta della coscienza, secondo la vera forza cristiana, e con l’arte abbiamo fatto entrare il bene in un luogo di sofferenza, trasformato in un luogo di speranza”, spiega Romagnoli, citando l’arcangelo Michele che sconfigge Lucifero. Bologna: concerto al teatro Manzoni del coro della Dozza di Massimo Marino Corriere di Bologna, 5 maggio 2019 “Gute Nacht, du falsche Welt”, buona notte, falso mondo. Papageno, l’uomo di natura del “Flauto magico” di Mozart, sta per impiccarsi perché non ritrova l’amore. E si sente il richiamo della sua Papagena, e lui risponde, ed è lieto fine in gioia, come sempre nelle favole. Un uomo che credeva nel potere trasformatore della musica, Claudio Abbado, pensò che un po’ di felicità fosse giusto donarla a chi la vita aveva segnato, segregato, ferito. Nel luogo più buio dell’isolamento e della punizione, quello che dimentichiamo ogni giorno come se non ci riguardasse, il carcere, creò un coro di detenuti e detenute. E quell’ensemble, sostenuto da volontari esterni, è diventato un’altra delle belle storie dell’arte in carcere. Lo chiamò Papageno, come l’uomo uccello, verde come le foglie, salvato dalla sua Papagena. Ieri al teatro Manzoni i coristi invece indossavano magliette azzurre come certi cieli della pittura toscana. E azzurri erano gli ospiti d’onore, Uri Caine, jazzista grandissimo, capace di scompaginare i linguaggi ereditati e di rivitalizzarli in inediti orizzonti sonori, il maestro del coro Michele Napolitano, i comsuo del quartetto Mirus, la percussionista Diana Paiva Cruz che svariava sui ritmi sudamericani, irresistibili nella preghiera a Oxala, una dolce invocazione di protezione al dio padre del candomblé afro-brasiliano. Il concerto - “Change!”, cambia! - era fuori dal carcere per la prima volta a Bologna, e la città ha abbracciato Papaponenti geno. La sala era gremita di volti noti e non; parecchi parenti dei detenuti con bambini occupavano le prime file e riprendevano e salutavano. Una festa. Inizia Uri Caine col trio, Mark Helias contrabbasso, Clarence Penn batteria. Una cascata, un volo di note del piano, e poi gli altri sostengono, e diventa ritmo, fuga, avventura in cerca di aria. Poi, sulle note ritmate di “Hallo django” entra il coro: capigliature rosse, biondi abbaglianti, volti chiari o colorati, bellezza multicolore unificata in azzurro speranza. Qualche saluto, la direttrice del carcere, la madrina Dori Ghezzi, Alessandra Abbado ricordano l’impegno che c’è dietro la festa. Inizia il viaggio nelle musiche del mondo, un canto popolare macedone, il richiamo ai loro uomini delle mogli dei pescatori svedesi, la più sinuosa delle danze rom, spiritual, le note pulviscolari di “Siren” di Caine, l’accompagnamento secco del Trio al discorso dell’attivista nero Octavius Catto, pronunciato nel 1866, affidato alla voce penetrante di Stefania Martin. Pioggia, vento, tempeste e poi dolcezze che corteggiano la pace, perfino il silenzio. Caine suona poco. Forse è come avere una Ferrari per portare gli sposi da casa alla chiesa. Ma gli sposi non dimenticheranno mai quel giorno e neppure gli invitati. Certo, mancano gli stridori ereditati dalle ferite del Novecento e da quelle della vita. Oggi qui, in coro, si cerca la gioia. “Ancora un giro di chiave”. Emma D’Aquino e la morale senza morale del carcere di Maria Cristina Giongo Avvenire, 5 maggio 2019 È possibile provare un sentimento di pietà nei confronti di un criminale, al di là dell’atto del perdono? Questa è la domanda più coinvolgente sottintesa nel libro della giornalista televisiva Emma D’Aquino, “Ancora un giro di chiave. Nino Marano. Una vita fra le sbarre”, (Baldini e Castoldi, pagine 184, euro 17,00) imperniato sulla vita di Nino Marano: il detenuto più longevo d’Italia per reati commessi in carcere, dove è rimasto 49 anni. Accusato di due omicidi e due tentati omicidi, per un totale di due condanne all’ergastolo. L’interlocutrice è Emma D’Aquino, forse in una delle più lunghe interviste della sua carriera, iniziata in Rai nel 1997. Uno di fronte all’altra. Fra loro lo spettro di quelle sbarre, chiuse e riaperte parecchie volte. A cominciare da quel lontano 31 gennaio del 1965 quando in cella entrò per aver rubato melanzane e peperoni, la ruota di un’Ape e una bicicletta. L’infanzia di Marano è segnata dalla povertà, dalla fame: “È la fame di un bambino è la più dura, la più feroce”. Infatti quando a soli 7 anni ruba quella bicicletta lo considera soltanto l’appropriazione di un mezzo indispensabile per andare a lavorare e portare qualche spicciolo in quella triste casa dove il padre perpetra ripetute violenze nei confronti della mamma: a cui un giorno si ribella cercando di proteggerla. Allora in un impeto d’ira lo afferra per il collo e lo stringe forte. Quando molla la presa lui, che aveva una zappa in mano, gliela tira contro una gamba, provocandogli una profonda ferita. “Oggi guardo quella carne ricresciuta male sotto la cicatrice e mi consolo all’idea di portare addosso anch’io una parte della sofferenza che fu di mia madre”, racconta Marano. In seguito diventa, come lui stesso si definisce, “un delinquente per conto proprio”, senza affiliazioni a clan mafiosi, passando da un penitenziario all’altro. Fra quelle mura diventa un assassino, assetato di vendetta, come quella attuata contro il malvivente che aveva accusato ingiustamente suo fratello di un’aggressione. Una volta, per difendere un giovane violentato da due detenuti ne accoltella uno. Lo mettono in isolamento. Ad Emma D’Aquino dice: “Ho difeso un ragazzino da un pervertito”. Questa è la sua morale, senza morale. Basata sul “male necessario,” che assurdamente considera come un’arma di “legittima” difesa contro una società ingiusta e crudele. A questo punto l’autrice si chiede: Marmo è diventato un uomo violento in carcere, o lo era anche prima? Lo sarebbe stato se nato e vissuto in un diverso ambiente familiare e sociale? Un libro interessante, che procede con lo stesso ritmo di un film d’azione, soprattutto nel racconto dei suoi tentativi di fuga. Spietato in alcune descrizioni, misericordioso verso la moglie Sarina che lo ama incrollabile danna vita, lo segue nei suoi trasferimenti da una prigione all’altra, a volte anche con i bambini. Sempre più stanca, curva sotto il peso di una vita fatta di tanto lavoro e sofferenze, scandita dalla speranza nella scarcerazione del marito, in un ultimo definitivo giro di chiave. “Pensieri doppi”. Patrizia, che anche in carcere cercava l’amore della madre di Monica Coviello vanityfair.it, 5 maggio 2019 Il racconto della sua vita fa parte del libro “Racconti dal carcere”, che sarà presentato al Salone del Libro di Torino. L’abbiamo intervistata. Aveva tredici anni quando è finita per strada la prima volta: sentiva di essere legata a quel mondo, quello a cui appartenevano i suoi genitori biologici, che avevano problemi di droga e questioni in sospeso con la giustizia. Oggi Patrizia Durantini, romana, ha 23 anni e ha narrato la sua storia nel racconto “Pensieri doppi”, che fa parte del libro Malafollia. Racconti dal carcere, edito da Giulio Perrone Editore. È un progetto speciale del Premio letterario Goliarda Sapienza, primo concorso letterario italiano ed europeo rivolto alle persone detenute, organizzato da Inverso Onlus con il sostegno di Siae (Società Italiana degli Autori ed Editori), ideato e curato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera. Il 9 maggio, alle 15,30, a Torino, nella Sala Rossa del Salone internazionale del Libro, sarà presentato il volume, durante un incontro che si aprirà con un reading. Quella di Patrizia è la storia di una bambina abbandonata dalla mamma, alla stazione Termini di Roma, subito dopo la nascita, e adottata da una famiglia a cui non ha mai sentito davvero di appartenere. Di un’adolescenza inquieta che l’ha portata a seguire le orme dell’uomo e della donna che l’hanno messa al mondo, pur senza conoscerli. A sbagliare e a pagare tutti gli errori. Chi ti ha raccontato la verità su tua madre? “I miei genitori adottivi sono stati sempre molto sinceri e mi hanno parlato fin da piccola della mia vera madre. Quando avevo più o meno cinque anni l’ho incontrata per la prima volta, a casa, in presenza dei miei genitori adottivi. Non ricordo se avesse chiesto lei di vedermi, ma io mi spaventai e mi nascosi dietro la gamba di mio padre. Oggi sono dispiaciuta per la mia reazione, ma credo fosse dovuta al suo aspetto. I bambini sono lo specchio della verità, e purtroppo mia madre era evidentemente distrutta dalle droghe di cui faceva uso”. Che cosa sai di lei? “Abitava nel tristemente noto residence di Bravetta, dove sono nata anche io e dove ho passato i miei primi mesi di vita, prima che mia madre mi lasciasse in braccio a una donna alla Stazione Termini. Questa signora chiamò le guardie che mi portarono via, al sicuro. Avevo cinque mesi ed ero in astinenza di eroina. Un’eredità pesante. Eppure io voglio bene alla mia vera madre. Anche i miei fratelli mi hanno detto che non era una cattiva madre, che non avrebbe mai voluto il nostro male. Ha avuto anche lei una vita molto difficile: a sofferto, forse più di me. Morì di overdose nel 2001: credo non avesse neanche cinquant’anni. Poco dopo è morto anche il mio vero padre, di cirrosi epatica”. Che cosa ti ha spinto a trasgredire la prima volta? “Forse la curiosità, forse la sensazione di essere legata al mondo della strada. Nonostante avessi vissuto fin da quando avevo pochi mesi con la mia famiglia adottiva, ottime persone, sapevo dei miei genitori biologici, ed era come se volessi seguire il loro esempio. Conoscevo i miei fratellastri, tutti più grandi di me: nessuno di loro ha avuto una vita regolarissima, ma io ho fatto peggio di tutti”. Quando hai cominciato a sentirti un’estranea in casa? “Già dai sette, otto anni non sentivo di essere nella mia famiglia. Dicevo sempre ai miei genitori adottivi che non c’entravo niente con loro: ero un’ingrata. È vero che mio padre era un po’ rigido, anche se oggi so che lo faceva a fin di bene, ma io non volevo sottostare a nessuna regola. Sapevo quello che era stata mia madre ed era come se volessi diventare come lei. All’inizio la odiavo per avermi abbandonata, ma dopo i dieci anni ho iniziato a voler seguire le sue orme e a odiare i miei genitori adottivi”. Perché c’era così tanta rabbia in te? “Perché ero infelice. Ero infelice perché non mi accettavo, ero un grumo di contraddizioni: ero convinta di voler fare quello che facevo, ma non ero appagata. La galera mi ha fermato. Avrei voluto morire, ma questo pensiero adesso non ce l’ho più. E anche la rabbia riesco a gestirla meglio”. Che cosa è mancato nella tua vita? “L’amore. L’affetto. Non per colpa dei miei genitori adottivi, che mi hanno dato tutto ciò che potevano. Ma io non sono mai stata una bambina come gli altri: sono cresciuta con la paura dell’abbandono. Credo che sia partito tutto da lì, dall’abbandono della mia vera madre. Quando litigavo con i miei genitori glielo dicevo sempre: “Tanto a voi non frega niente di me!”. Capisco adesso che non è vero”. E non riuscivi a innamorarti. Perché? “Ancora questo non lo so. Di storie ne ho avute due. Con il primo, con cui sono stata dai tredici ai sedici anni, ho avuto la mia prima volta; il secondo era matto: siamo stati insieme quando avevo diciassette anni, usciva ed entrava dalle cliniche psichiatriche. Credo di essermi un po’ innamorata in carcere di un amico di amici con cui, fuori, non ci eravamo mai frequentati. Mentre eravamo dentro (io al femminile e lui al maschile) ci siamo scritti per quasi due anni. Non era il mio fidanzato, ma una persona che mi stava molto vicina. Continuiamo a scriverci anche adesso”. In un certo senso, sei grata al carcere. È un’istituzione che può funzionare? “Dipende. Ognuno fa il proprio percorso. La maggior parte della gente diventa più cattiva, e chi si arrabbia di più arriva a fare anche peggio. Altri si spaventano e poi non escono neanche più di casa, una volta fuori. A me ha fatto bene. Alcune amiche mi dicevano che ero matta, perché io dentro stavo benissimo, mi sentivo protetta, e anche gli orari che scandivano la nostra vita lì mi davano sicurezza”. Sembra un controsenso, dal momento che avevi sempre rifiutato le regole. “Eppure non lo è del tutto: dentro non c’è possibilità di scegliere, mentre fuori sì, e io sceglievo sempre di stare dalla parte sbagliata”. Quale era la tua idea di dignità? È cambiata? “Per me la dignità prima non era un problema: era un valore che non conoscevo, non me ne fregava niente. Da quando mi hanno arrestata sono cambiata. Ho fatto un percorso e adesso sento di dover portare rispetto a me stessa. È come se fossi cresciuta: non farei mai più certe cose. Ad esempio, qualche sera fa sono uscita con gli amici. Siamo andati a una sagra e ho bevuto un po’, per divertirmi. A un certo punto ho chiamato mia madre e le ho chiesto di venirmi a prendere. Ho litigato con i miei amici che volevano rimanere ancora in giro ed esagerare, ma io ho detto no, per me stessa e per rispetto a mia madre, che mi stava aspettando. Forse, per la prima volta, ho onorato la mia famiglia”. Che cosa desideri per il tuo futuro? “Sogno la tranquillità. Una vita normale, una famiglia. Voglio innamorarmi, sposarmi, avere cinque, sei, otto bambini: quello che non ho avuto, o meglio, quello che avrei voluto fin dall’inizio, e che penso avrebbe voluto anche mia madre. Fra quarant’anni mi immagino stanca, ma felice. Stanca di aver vissuto, ma felice di averlo fatto”. “In mare non esistono taxi”. I sommersi, i salvati e noi di Roberto Saviano La Repubblica, 5 maggio 2019 Hanno infangato le Ong, hanno chiuso i porti, dicono: aiutiamoli a casa loro. Ma quale casa? Il libro testimonianza di Roberto Saviano: “In mare aperto non c’è nessuno e non c’è nessun taxi da chiamare”. In mare aperto ti viene detto di andare sempre dritto e che lì troverai l’Italia, ma l’orizzonte muta e quell’andare dritto potrebbe non esistere. In mare aperto non c’è nessuno e non c’è nessun taxi da chiamare. Taxi è un sistema di comunicazione e di trasporto comodo, veloce, metropolitano e non ha nulla a che fare con i soccorsi in mare. Immaginate persone che rischiano la vita, che stanno annegando; immaginate ora persone in un palazzo che prende fuoco, qualcuno chiama i vigili del fuoco che portano in salvo persone, che non hanno appiccato l’incendio per poterlo poi spegnere e guadagnare spegnendolo. Allo stesso modo le Ong non sono taxi del mare perché vanno in soccorso, ma non creano la tragedia. Le Ong vengono definite “taxi del mare” per una ragione precisa, grottesca ed elementare: bisogna eliminare il “problema” migranti e l’unico modo per farlo è eliminare prima di tutto i testimoni oculari delle condizioni disumane in cui i migranti si trovano quando raggiungono le coste libiche e prendono il mare verso l’Europa. Oltre a trarre in salvo migliaia di esseri umani, le Ong, infatti, sono anche in grado di testimoniare sulle loro condizioni. Ecco quindi che eliminare i testimoni significa avviarsi a una risoluzione non ortodossa del problema. Per farlo si dà spazio e credito a una galassia di mistificatori e complottisti che in Italia troveranno perfetta sintesi, il 21 aprile 2017, sulla pagina Facebook di Luigi Di Maio che condivide un articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: “Più di ottomila sbarchi in tre giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private”. Ma Di Maio ci mette del suo e introduce l’articolo con questo commento: “Chi paga questi taxi del Mediterraneo? E perché lo fa? Presenteremo un’interrogazione in Parlamento, andremo fino in fondo a questa storia e ci auguriamo che il ministro Minniti ci dica tutto quello che sa”. È in questo preciso momento che in Italia nasce la bufala delle Ong “taxi del mare”. Di Maio, incalzato sulla menzogna, risponderà di non aver inventato nulla, ma che quanto ha scritto era contenuto nel rapporto di Frontex “Analisi del rischio 2017”, che accusava i mezzi di soccorso delle Ong di funzionare come “taxi del mare”, inviati intenzionalmente verso le acque territoriali libiche per raccogliere i migranti e trasportarli in Italia. Ma ad analizzare il rapporto di Frontex, mai si parla di “taxi del mare”. A pagina 32 si fa riferimento a qualcosa di totalmente diverso e precisamente a presunte “conseguenze involontarie” che metterebbero in connessione le partenze dei barconi con le attività, nelle acque a ridosso della costa libica, di Eunavfor Med e delle Ong. Ma è un’ipotesi smentita dai fatti, perché che le Ong operino in mare o meno, i flussi non ne sono influenzati. Ecco la prova: a luglio 2017, quando la campagna di delegittimazione è appena iniziata e tutte le Ong sono ancora in mare, il clan Dabbashi di Sabratha decide di bloccare le partenze dalla Libia e ci riesce. Inoltre l’unico vero pull factor non è la possibilità di essere soccorsi in mare, ma l’Europa proprio lì: l’El Dorado a pochi chilometri di mare. Eppure l’espressione “taxi del mare” funziona e diventa virale. E dopo i “taxi del mare” di Luigi Di Maio, arriva il Codice di condotta voluto da Marco Minniti, secondo cui le Ong che vogliano continuare a fare salvataggi in mare devono sottoscrivere un documento che prevede, tra le altre norme, la presenza della polizia giudiziaria a bordo delle imbarcazioni con le armi di dotazione e il divieto di trasferire persone da una nave all’altra. La locomotiva si è messa in moto e non si arresterà; il Codice di Minniti è la risposta ai taxi del mare. Nessun cenno mai, sia in quel documento che nelle dichiarazioni dei politici coinvolti, all’importanza del principio di salvare vite in mare: come se ormai la guerra alle Ong si combattesse per altri fini. Minniti arriva a giustificare il cambio di passo con queste parole: “A un certo momento ho temuto che, davanti all’ondata migratoria e alle problematiche di gestione dei flussi avanzate dai sindaci, ci fosse un rischio per la tenuta democratica del Paese”. Nessun rischio può giustificare quanto è accaduto e non ho dubbi che, un giorno, il modo di procedere dell’Italia e dell’Unione Europea verrà considerato crimine contro l’umanità per il numero di vite umane considerate sacrificabili e per aver consapevolmente violato i diritti delle persone attualmente detenute in Libia. Tutte queste azioni hanno iniziato a farci considerare scontato, come rimedio al fallimento che ci circonda, un’Italia popolata da soli italiani, quando già milioni di persone di origini diverse vivono insieme perfettamente integrate. E questa retorica della difesa delle frontiere non ha solo causato la morte di migliaia di persone in mare, ma ha anche reso la vita difficilissima per centinaia di migliaia di stranieri che in Italia vivono da molti anni. Siamo preda di false informazioni: è la realtà capovolta in cui a essere creduto è il falso. E il vero? Il vero non è semplicemente ignorato o non creduto, sarebbe già qualcosa. Al vero tocca una sorte indegna: l’esser dileggiato. Ecco, vorrei fosse chiaro una volta per tutte che affrontare il tema migranti conviene. Sì esatto, conviene. Ma bisogna maneggiarlo utilizzando slogan - #primagliitaliani, #aiutiamoliacasaloro, #chiudiamoiporti. Se invece si prova a uscire dall’angusto perimetro del pensiero xenofobo, non conviene più, perché diventi in un attimo il ricco buonista che, invece di parlare di migranti, deve portarseli nel suo attico a Manhattan. Nessun ragionamento, solo l’insulto. Se diciamo: fermiamoci un attimo... ma cosa stiamo facendo? Siamo isolati, perché non c’è tempo per fermarsi e porsi domande. È tutta una rincorsa, una rincorsa a saturare ogni spazio disponibile e a farlo utilizzando le stesse argomentazioni. Se diciamo: “fermiamoci un attimo”, restiamo soli e restiamo indietro. Ma ci sono momenti in cui non dobbiamo aver paura a restare indietro. Non dobbiamo aver paura a far correre avanti gli altri perché se rallentiamo, abbiamo finalmente la possibilità di guardarci attorno, di guardarci in faccia, di capire chi cammina con noi e come renderci utili. In mare non esistono taxi nasce dalla volontà di rallentare e, con passo umano, riesci persino a guardare negli occhi i tuoi compagni di viaggio, li riconosci, ti confronti con loro, fai domande e ottieni risposte che la velocità non ti consentirebbe di ascoltare. Quando fermi l’attimo, quando lo fotografi, fai testimonianza. Ecco, questo libro vuole essere testimonianza. Testimonianza è raccogliere su di sé la conseguenza della propria decisione, rendere di carne la propria conoscenza, dilatare la propria presenza accanto alle cose. Testimonianza non è diffondere un dato, ma portare la prova con il proprio corpo di ciò che si sta dicendo. Ecco perché a essere allontanati per primi, imprigionati, condannati, accusati, vilipesi, screditati e soprattutto temuti sono coloro i quali hanno la possibilità di portare testimonianza. I primi a essere allontanati dai luoghi in cui si consumano tragedie sono proprio i testimoni. E testimoni scomodi sono stati, nel Mediterraneo, le Ong che con le loro imbarcazioni, per anni, hanno portato in salvo i migranti. Migliaia di uomini, donne e bambini, in loro assenza, sarebbero morti annegati. Quando tra cento anni - diceva Alessandro Leogrande, alla cui memoria e al cui lavoro ho dedicato questo libro - studieranno i fondali del Mediterraneo, trovando le decine di migliaia di cadaveri e di relitti, crederanno che si sia combattuta una guerra di cui le cronache non portano traccia, una guerra che, in effetti, si combatte ogni giorno senza che se ne abbia realmente consapevolezza. Ma cosa significa portare testimonianza? Significa riuscire a raccontare, fotografare, ritrarre, restituendo al soggetto della propria attenzione un valore aggiunto che lo sottrae al tempo presente. Significa riuscire a trasformare ciò che accade qui e ora in ciò che può accadere ovunque e in qualunque momento. Significa sottrarre all’oblio. Ma serve a cambiare il corso degli eventi? Serve a porre rimedio nel momento esatto in cui la tragedia sta accadendo? Forse no. Probabilmente no. E allora a cosa serve? Serve a riconoscere noi stessi; a dirci che nonostante tutto ciò che abbiamo fatto e che siamo capaci di fare, restiamo esseri umani. Questo libro nasce con il chiaro obiettivo di portare testimonianza perché, di fronte alle menzogne, lo strumento più efficace per provare a smontarle è fondato unicamente sulla testimonianza. Non attaccare, non confortare: testimoniare. Raccontare cosa accade in Africa nei luoghi dell’esodo, in Libia - destinazione per alcuni, luogo di transito per altri, prigione per tutti - e nel Mediterraneo è difficilissimo. Non basta che ci sia chi ha voglia di raccontare, ma serve soprattutto chi abbia voglia di ascoltare. Di ascoltare e di guardare. Guardare sì, perché raccontare ciò che accade in quell’inferno non basta, servono le prove, serve dire: ecco, vedete? Vedete che ciò che dico è verità? Ma verità è una parola diventata odiosa e che mentre la scrivo già emana balenii di manipolazione, ha il gusto rancido delle pietanze prodotte in serie che sei costretto a mangiare perché non c’è altro. Come recuperare il suo suono di grazia e rispetto? Come ritrovare una verità che sia strada di ascolto, di ricerca e non cibo premasticato, predigerito da dare in pasto a lettori e telespettatori (considerati, in fin dei conti, solo elettori) verso i quali non si nutre alcuna stima? Per farlo non bisogna parlare di verità, non basta. Non basta più nemmeno la prova: l’unica cosa che può fare la differenza è il tempo. La verità istantanea è un sasso in bocca che ti sazia e trasforma i tuoi vuoti in pieni. La verità nel tempo è ricerca e il tempo è l’unico rimedio perché si acquisisca consapevolezza. E quindi la testimonianza che valore ha? Da sola, nessuno. Testimonianza e denuncia devono incontrarsi con il tempo, che non è solo il procedere dei minuti, ma è anche e soprattutto lo spazio in cui una verità può radicarsi. Non basta che oggi un’immagine diventi virale per poter agire sul presente, ma deve trovare la sua dimensione per essere letta. Ecco perché il racconto dell’inferno necessitava di prove e la fotografia è testimonianza e prova regina nel processo che si sta celebrando e che vede alla sbarra chi si occupa e si preoccupa degli altri. Partendo dall’etimologia, scaviamo nel Dna della parola testimonianza per scoprire che forse non ne avevamo compreso il significato fino in fondo. Testis-Monium. Testis ha, tra i suoi diversi significati, anche quello di “prova”. Il suffisso monium viene da munere e cioè “dovere”, “compito”. Quindi etimologicamente “testimoniare” indica il compito di dare e di essere prova. Ecco, questo è esattamente ciò che la fotografia e i loro creatori sono: il dovere della prova. Una prova non è una formula chimica, non è data, non la trovi meccanicamente, ma quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, devi diventare tu stesso prova. La fotografia è ciò che resta, per sempre, del compito che la prova si è data. Ho intervistato Olmo Calvo, Paolo Pellegrin, Giulio Piscitelli e Carlos Spottorno, le loro fotografie e le loro parole - insieme a tutte le altre fotografie contenute in questo libro - hanno aggiunto diottrie al mio sguardo e ne aggiungeranno al vostro. Li ho intervistati per comprendere quale fosse l’elemento che rende le loro fotografie testimonianza e in che misura avessero consapevolmente deciso di testimoniare la tragedia del proprio tempo. Li ho intervistati perché le loro fotografie e le loro parole sono l’unica arma che abbiamo per contrastare le menzogne. E poi ho intervistato una donna minuta ma gigante: Irene Paola Martino, infermiera di Medici senza frontiere. Le ho chiesto cosa l’avesse spinta a imbarcarsi sulla nave di una Ong per salvare e assistere persone in mare. Ecco cosa mi ha risposto: “Appurato che non avevo i superpoteri per cambiare il mondo, ho pensato di cercare di rendere qualche angolo di questo mondo un posto migliore per alcune persone, agendo attraverso le mie nursing skills, ovvero l’arte di prendersi cura degli altri. In realtà non so se ci sia riuscita, ma mi ostino a continuare a provarci. Perché ho scelto la nave? Forse la nave e il mare hanno scelto me. Era arrivato il momento di capire quello che succedeva tutti i giorni non così lontano da casa mia. Mare, terra, aria, deserto, foresta... Io vado dove ho la presunzione di essere utile. Non c’è un perché, ci sono cose che devono essere fatte e basta. O forse perché se fossi io a essere uno dei sommersi, vorrei essere salvata. \[...\] In mare dimentichi tutto quello che sai e ritorni a essere di nuovo umano, e ti volti di lato perché è meglio evitare che gli altri vedano le lacrime che non sempre riesci a cacciare indietro. Realizzi che dove nasci è solo questione di fortuna, che su quel gommone potevi esserci tu, ma invece ti è andata bene. Se sulla nave ritorni a essere umano, quando rientri a casa, nella tua città, ogni volta che incontri un migrante per strada ti scopri a pensare che tu sai cos’è il viaggio, ma non è pietà o buonismo, è solo conoscere per capire. Perché se si continua su questa strada del “noi” e del “loro”, non si andrà lontano”. Pedofilia, in Europa 18 milioni di vittime di abusi di Silvia Morosi Corriere della Sera, 5 maggio 2019 “Bisogna rompere il silenzio, andando oltre la vergogna”. In occasione della X Giornata nazionale di lotta al fenomeno, Telefono Azzurro ha diffuso un dossier che fotografa la situazione: 224 i casi segnalati ogni anno, uno ogni due giorni. Nel 60 per cento dei casi il responsabile è un genitore o un membro della famiglia. In crescita anche gli adescamenti in Rete In Europa, quasi 18 milioni di bambini sono vittime di abusi sessuali. Online, ogni 7 minuti, una pagina internet mostra le loro immagini. Nel 2017 sono stati individuate 78.589 url contenenti scatti di abusi su minori. Oltre la meta delle vittime, il 55 per cento, ha meno di 10 anni. Numeri in costante aumento, che mostrano uno scenario allarmante: a fotografare il fenomeno è stato Telefono Azzurro, all’interno del “Dossier Abuso sessuale e pedofilia”, diffuso in occasione della X Giornata nazionale per la lotta alla pedofilia e alla pedopornografia (5 maggio), istituita con la legge 41 del 2009. La onlus - nata nel 1987 con lo scopo di difendere i diritti dell’infanzia, che sono stati riconosciuti con una Convenzione Onu due anni più tardi - ha raccolto dati e testimonianze attraverso i Servizi gestiti dall’associazione (i numeri 114 e 1.96.96, le chat e i social network). Internet e il mondo digitale più in generale hanno aumentato la complessità del fenomeno dell’abuso e dello sfruttamento sessuale di minori, figurandosi come terreno fertile per l’adescamento di bambini e adolescenti. Come evidenzia la ricerca, la pedofilia sempre più di frequente trova nella Rete nuove forme di espressione: il crescente aumento di invio di messaggi, immagini e video a sfondo sessuale rende questo materiale disponibile - ad esempio - alla condivisione, senza alcun controllo. Anche nel nostro Paese, fenomeni come il sexting, la sextortion e il revenge porn stanno prendendo sempre più piede. Un’indagine svolta nel 2018 da Doxa Kids e Telefono Azzurro ha spiegato che il rapporto tra gli adolescenti e il web è controverso. Un rapporto innanzi tutto di grande assiduità: il 60 per cento dei ragazzi fra i 12 e i 18 anni passa più di due ore al giorno su social e chat, mentre il 4 per cento è costantemente connesso. Solo il 35 per cento vi trascorre un’ora o meno al giorno. Tra gli “aspetti negativi” dei social, il 33 per cento ritiene che distraggano dallo studio e dalla vita reale, il 29 per cento sottolinea la mancanza di contatto personale e il 28 per cento ritiene che causino dipendenza. Il 22 per cento sostiene che i social facilitino il bullismo, il 20 per cento teme gli adescatori mentre per il 33 per cento il rischio è l’illusione di avere molti amici e l’avere una visione poco realistica della realtà. Per il 22 per cento il problema è la privacy. E ancora, incontrare online contenuti negativi succede al 66% dei ragazzi. Al 7 per cento è capitato di ricevere foto provocanti, l’11 per cento nel caso delle ragazze 15-18 anni. Ma non è tutto nero. Per i ragazzi i social aiutano a restare connessi con amici e famiglia, a trovare persone che nuove o che ci assomigliano, fanno sentire meno soli, connettono con abitudini e culture di tutto il mondo. Un effetto positivo rilevato dal 75 per cento degli intervistati, che diventa l’81 per cento se consideriamo solo le ragazze fra i 15 e i 18 anni. Il web consente anche di trovare informazioni e di imparare cose nuove (51 per cento), o di svolgere attività sociali (33 per cento) come confrontare opinioni o chiedere aiuto. Molto chiara è anche la richiesta di intervento da parte degli adulti per una maggiore sicurezza dei ragazzi online. Il 47 per cento del campione vorrebbero che i social bloccassero i contenuti pornografici o violenti, il 34 per cento che si potessero cancellare per sempre foto che possono rovinare la reputazione, il 29 per cento chiede filtri che blocchino l’accesso a certi contenuti secondo l’età. Pena di morte. Ancora una volta Arabia Saudita, Stati Uniti e Iran al centro della “scena” La Repubblica, 5 maggio 2019 Il report di Nessuno Tocchi Caino. Il regime di Riyad decapita in pubblico sciiti, sedicenni ed espone corpi crocifissi in piazza. Le iniezioni letali in Georgia. Le frustate e le impiccagioni in Iran. Un nuovo report di Nessuno Tocchi Caino - la lega internazionale di cittadini e parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, associazione fondata a Bruxelles nel 1993, costituente il Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito e riconosciuta dal Ministero degli Esteri come ONG abilitata alla Cooperazione allo sviluppo - fornisce il quadro complessivo e dettagliato dell’applicazione della pena capitale (o della sua trasformazione in altri provvedimenti sanzionatori) nei diversi Stati dove è ancora in vigore. Ancora una volta sono l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e l’Iran al centro della “scena”. Eccone dunque una rappresentazione aggiornata. Arabia Saudita - Prima 37 esecuzioni, poi un corpo crocifisso ed esposto in pubblico. Il corpo di un uomo giustiziato è stato crocifisso ed esposto in pubblico in Arabia Saudita, dopo le esecuzioni di 37 persone avvenute il 23 aprile scorso. Lo hanno riportato i media locali, assieme a dichiarazioni secondo cui i giustiziati avevano “adottato ideologie estremiste e formato cellule terroristiche allo scopo di diffondere il caos e provocare conflitti settari”. Le autorità saudite hanno detto che una persona è stata crocifissa dopo la sua esecuzione e il suo nome non è neanche stato reso noto dalle autorità. Il Middle East Eye ha poi riferito che il corpo è stato mostrato in pubblico. Decapitati sciiti e sedicenni, all’epoca del reato. Il responsabile dei diritti umani dell’Onu ha condannato le decapitazioni, sempre in Arabia Saudita, dicendo che i giustiziati sono per la maggior parte musulmani della minoranza sciita, inoltre non hanno ricevuto processi equi e almeno tre erano minorenni all’epoca della condanna. Due delle persone decapitate erano state arrestate quando avevano solo 16 e 17 anni. Il primo dei due giovani era pronto a iniziare una nuova vita negli Stati Uniti presso la Western Michigan University. Mujtaba al-Sweikat, allora diciassettenne, era stato duramente picchiato su tutto il corpo, anche sulla pianta dei piedi, prima di “confessare” i crimini, incluse le proteste. Nel 2017, docenti dell’università avevano detto che lo studente di lingua inglese e di pre-finanza costituiva una “grande promessa” e avevano chiesto il suo rilascio. Il secondo dei due giovani, Abdulkarim al-Hawaj, 21 anni, è stato decapitato in pubblico quattro anni dopo essere stato arrestato nella Provincia Orientale, a maggioranza sciita, per aver diffuso informazioni sulle proteste su WhatsApp quando aveva 16 anni. Prima dell’esecuzione lo hanno fatto strisciare mani e ginocchia per giorni. Un terzo uomo tra i 37 giustiziati, Munir al-Adam, aveva appena 23 anni quando fu arrestato a un posto di blocco nell’aprile 2012. Era stato picchiato sulle piante dei piedi e aveva dovuto strisciare sulle mani e sulle ginocchia per giorni. All’età di cinque anni aveva perso l’udito a un orecchio a seguito di un incidente, ma dopo le torture aveva perso l’udito anche all’altro orecchio, restando totalmente sordo. Aveva detto a un giudice di aver firmato una confessione perché era esausto per le torture. Liberate due indonesiane condannate a morte per stregoneria. Due lavoratrici domestiche indonesiane che erano state condannate a morte in Arabia Saudita per stregoneria sono tornate a casa il 24 aprile 2019, dopo la commutazione delle loro condanne, ha detto il ministero degli Esteri indonesiano. Sumartini e Warnah, entrambe con un solo nome, sono arrivate a Giacarta dopo aver scontato più di 10 anni in una prigione saudita, ha detto Lalu Muhammad Iqbal, un alto funzionario del ministero, all’Agence France-Presse. Le donne erano state condannate a morte da un tribunale di Riad nel 2009, ma la loro pena era stata ridotta all’inizio del 2019, dopo anni di negoziati tra Giacarta e Riad. “Dopo una dura trattativa, l’ambasciata è riuscita a convincere il governo saudita e le donne sono potute partire per la loro patria”, ha detto all’Afp l’ambasciatore indonesiano in Arabia Saudita, Agus Maftuh Abegebriel. Sumartini fu accusata di aver fatto svanire il figlio diciassettenne della sua datrice di lavoro usando la magia nera, anche se in seguito fu ritrovato vivo. Warnah, nel frattempo, era stata accusata di aver fatto un incantesimo contro la prima moglie del suo datore di lavoro che l’aveva fatta soffrire di malattie misteriose, secondo quanto riferito dai media indonesiani. IRAN - Due diciassettenni frustati e poi giustiziati in segreto. Le autorità iraniane hanno frustato e segretamente giustiziato il 25 aprile scorso due ragazzi di età inferiore ai 18 anni, ha appreso Amnesty International. Mehdi Sohrabifar e Amin Sedaghat, due cugini, sono stati messi a morte nella prigione di Adelabad a Shiraz, nella provincia di Fars, nel sud dell’Iran. Entrambi erano stati arrestati quando avevano 15 anni e condannati per accuse di stupro in un processo iniquo. Secondo le informazioni ricevute da Amnesty International, gli adolescenti non erano a conoscenza di essere stati condannati a morte fino a poco prima delle loro esecuzioni e portavano segni sui loro corpi, a indicare che sono stati fustigati prima dell’esecuzione. Le loro famiglie e gli avvocati non sono stati informati in anticipo delle esecuzioni e sono rimasti scioccati nell’apprendere la notizia. L’esecuzione senza preavviso. Mehdi Sohrabifar e Amin Sedaghat erano stati tenuti in un centro di correzione minorile a Shiraz dal 2017. Il 24 aprile, sono stati trasferiti nella prigione di Adelabad, senza conoscerne il motivo. Lo stesso giorno, le autorità hanno concesso alle loro famiglie di visitare i due ragazzi, senza però dire che era in preparazione delle esecuzioni. Il giorno seguente, il 25 aprile, le famiglie hanno ricevuto una chiamata dall’Organizzazione di Medicina Legale dell’Iran, un istituto forense statale, che li informava delle esecuzioni e chiedeva loro di riprendersi i corpi. Stati Uniti, Georgia - Giustiziato un uomo di 52 anni nero. Scotty Garnell Morrow, 52 anni, nero, è stato giustiziato l’altro ieri, il 2 maggio, con un’iniezione letale. Era accusato, ed aveva ammesso, di aver ucciso la fidanzata che lo aveva appena lasciato, Barbara Ann Young, e un’amica della donna, Tonya Woods, il 29 dicembre 1994. Aveva anche sparato ad un’altra amica della donna, LaToya Horne, che è sopravvissuta. Venne condannato a morte nella Hall County nel 1999. Nel 2011 un giudice statale aveva annullato la condanna a morte per inadeguata assistenza legale, ma pochi mesi dopo la Corte Suprema di Stato aveva annullato all’unanimità l’annullamento, sostenendo che, stanti i fatti una diversa difesa non avrebbe influito sull’esito finale. Nel 2018 un giudice federale, messo in minoranza in un voto collegiale, aveva sostenuto che sarebbe stato opportuno valutare come possibile circostanza attenuante il fatto che l’imputato, da giovane, fosse stato stuprato più volte. Morrow è il primo giustiziato di quest’anno in Georgia, il 73° da quando la Georgia ha ripreso le esecuzioni nel 1983, il 5° dell’anno negli Usa, e il n° 1495 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. Nigeria - Venti condanne a morte commutate. Non meno di 20 condannati a morte nel Lagos si sono salvati dal boia dal momento che il governo locale ha commutato le loro condanne a morte in ergastolo, liberando inoltre 14 detenuti che avevano trascorso 20 anni in prigione. Lo ha riportato This Day il 27 aprile scorso. Secondo il procuratore generale e commissario per la giustizia dello Stato, Adeniji Kazeem Kazeem, i detenuti sono stati considerati meritevoli della prerogativa della grazia dopo un accurato esame dei loro fascicoli, che ha rivelato come fossero cambiati e pronti per essere reintegrati nella società. Kazeem si è congratulato con i detenuti liberati consigliando loro di comportarsi bene fuori dal carcere. Inoltre, il presidente del consiglio consultivo, Oyelowo Oyewo, ha detto che accanto ai poteri conferiti dalla Costituzione, l’istituzione del Consiglio è servita anche come un modo per de-congestionare le prigioni. Spagna. Italiana bloccata da 3 anni a Lanzarote: è accusata di omicidio leggo.it, 5 maggio 2019 L’appello del padre: “È malata, fatela tornare”. Lara, 30 anni, da tre anni è bloccata all’isola di Lanzarote perché accusata di omicidio colposo. Ma Lara, italiana, è anoressica con un urgente bisogno di cure. A denunciare il caso all’Adnkronos è “Prigionieri del Silenzio”: la onlus, impegnata per la tutela dei diritti dei connazionali detenuti all’estero e il sostegno alle loro famiglie, si sta occupando della vicenda che ha risucchiato la 30enne nel 2016 e si sta battendo per farla tornare in Italia in modo che possa curarsi. A fine 2015, insieme all’allora fidanzato, Lara si trasferisce a Lanzarote con il sogno di una vita diversa. Fino alla sera del 2016 in cui, all’uscita da un locale, la coppia ha in auto un incidente stradale in cui muoiono due pedoni. Lara si assume la responsabilità. Le vengono tolti i documenti validi per l’espatrio. In seguito dirà che in realtà non era lei alla guida, ma che si è assunta la colpa perché il fidanzato non aveva la patente. Ritratta, ma non serve. Come non servono le successive ammissioni del fidanzato. Lara si ritrova sola in un tunnel del quale ancora non si vede via di uscita: in attesa della fine della vicenda giudiziaria, non può lasciare Lanzarote dove resta sola con la sua malattia, che preoccupa sempre più la sua famiglia. “Mia figlia ha grossi problemi psico-fisici legati a una forma di anoressia, è fortemente instabile e ha sbalzi umorali e mentali micidiali - racconta il papà della 30enne - Dopo oltre tre anni è bloccata lì, senza documenti e senza la possibilità di lavorare, senza cure mediche, con problemi economici. In passato ha tentato il suicidio, è ridotta una straccio, non si può trattare così un essere umano. Vogliamo che venga fatta tornare in Italia, vogliamo curarla”. Il padre è stato quattro mesi lì, fino a febbraio scorso, proprio per darle una mano: “Ma non è facile, ci sono momenti in cui si lascia aiutare, altri no. Qui si tratta di una questione di sopravvivenza fisica, psicologica, mentale ed economica”, continua. “L’ambasciata sta lavorando, Lara è assistita dai servizi sociali, ma non basta, ha bisogno di assistenza h24”, afferma l’avvocato Francesca Carnicelli, legale di “Prigionieri del Silenzio” che ha accettato di occuparsi del caso di Lara in pro bono. “Lo Stato italiano intervenga affinché questa ragazza possa rimpatriare per motivi umanitari”, sottolinea. “Noi chiediamo venga data la possibilità a questa ragazza di rientrare in Italia per curarsi perché ha bisogno di aiuto - aggiunge l’avvocato Carnicelli - Esiste un meccanismo per cui si può espiare la propria pena anche in un’altra nazione, stiamo parlando di Europa”. Il legale spiega di avere difficoltà anche a capire il reale andamento del processo. “Il suo legale spagnolo, un difensore di ufficio, non vuole avere contatti con me, neanche con l’autorizzazione di Lara - riferisce l’avvocato Carnicelli- L’incidente stradale è avvenuto nel 2016, lei si è assunta la responsabilità di essere al volante, salvo ritrattare e anche lo stesso fidanzato poi si è assunto la responsabilità. Ma per lo Stato spagnolo chi ha commesso il reato è lei ed è stata rinviata lei a giudizio”. Per assurdo “se avesse patteggiato sarebbe in Italia da un pezzo: è una persona che sta male, tenta di far valere i suoi diritti, ma si trova vincolata lì come se fosse la delinquente peggiore del mondo”. Quello di Lara è solo uno dei tanti drammatici casi che si ritrovano a vivere nostri connazionali nel mondo, come racconta la presidente di “Prigionieri del Silenzio” Katia Anedda nel suo libro “Prigionieri dimenticati - Italiani detenuti all’estero tra anomalie e diritti negati”. Tra le tragiche storie riportate quella dell’ex compagno di Anedda, Carlo Parlanti, manager informatico che fu vittima di una vicenda giudiziaria in Usa e costretto a scontare 9 anni di carcere. “Le ragioni che ci hanno indotto a dar vita all’associazione sono evidenti: spesso i detenuti italiani vengono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo e assolutamente non compatibili con l’obiettivo della riabilitazione cui la pena deve essere finalizzata - sottolinea Anedda - Mancano inoltre idonei strumenti di assistenza, con la conseguenza che sovente i detenuti all’estero non ricevono neppure le cure mediche del caso, né un’appropriata difesa legale. L’Italia non prevede, in questi casi, l’istituto del gratuito patrocinio e anche gli aiuti che possono essere concessi dai Consolati italiani sono solo facoltativi. Tutto ciò causa condizioni di detenzione inique e una tutela legale debole o inesistente che comporta in taluni casi condanne ingiuste”.