Carceri italiane, un “buco nero” di cui la politica non parla più di Rossella Guadagnini repubblica.it, 4 maggio 2019 Delle carceri in Italia non si parla quasi più. Un “buco nero”, lo definisce il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà, Mauro Palma, perché sugli istituti di pena e chi vi sta dentro la politica tace. Al di là di pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, che visione abbiamo del carcere e della pena? Le segrete medievali del Nome della Rosa, della Santa Inquisizione e di altri capitoli di storia più bui fanno davvero parte del passato? La “precrimine” del film (e del romanzo) Minority Report è solo una distopia fantascientifica? Il carcere serve veramente oppure no? E il reinserimento sociale e lavorativo è possibile? Mentre qualcosa si muove sul piano delle iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica - tra manifestazioni e incontri dentro e fuori le mura circondariali, libri e festival (l’VIII Premio di scrittura per detenuti, intitolato alla scrittrice siciliana Goliarda Sapienza, si conclude al Salone del libro di Torino il 9 maggio con Edoardo Albinati, Erri De Luca e Patrizio Gonnella, presidente di Antigone) - proviamo a farci un’idea dello stato delle patrie galere. Al primo posto tra le criticità denunciate nella relazione tenuta al Parlamento dal Garante nazionale il 27 marzo scorso, c’è l’aumento del numero dei suicidi (64 nel 2018 rispetto ai 50 dell’anno precedente). L’età media delle persone detenute che si sono uccise è di 37 anni (la persona più giovane, che si è data la morte nella Casa circondariale di Udine, ne aveva 18, quella più anziana, nella Casa circondariale di Grosseto, 66). Dei detenuti suicidi 32 erano italiani (30 uomini e 2 donne) e 32 stranieri (30 uomini e 2 donne). Nell’anno in corso le cose non vanno meglio: nei primi tre mesi sono già 10 le persone che si sono tolte la vita, circa una a settimana. Preoccupa poi il sovraffollamento, questione su cui tiene alta l’attenzione il mondo dell’associazionismo (Antigone e Luca Coscioni in testa), oltre che i Radicali italiani che effettuano ispezioni periodiche tra le mura degli istituti di pena. Malgrado “l’inevitabile disagio che ne discende”, la crescita dei suicidi non è però ad esso correlata: la causa, a detta di Palma, va ricercata “in un clima generale che nega la soggettività alle persone detenute, diffondendo un senso di sfiducia nel riconoscimento dell’appartenenza al contesto sociale”. All’inizio dello scorso anno i carcerati erano circa 58.500, mentre ora sono quasi 60mila (di cui circa diecimila in attesa di giudizio), a fronte di una capienza di poco più di 50.500 posti. Nello stesso periodo, tuttavia, il numero di persone finite in cella è diminuito: sono 887 in meno. L’aumento non è quindi ascrivibile ai maggiori ingressi, bensì a una minore possibilità di uscita. Un dato che, spiega Palma, “deve far riflettere perché può essere determinato da più fattori: l’accentuata debolezza sociale delle persone detenute che non le rende in grado di accedere a misure alternative alla detenzione, per scarsa conoscenza o difficile supporto legale; la mancanza soggettiva di quelle connotazioni che rassicurino il magistrato nell’adozione di tali misure; o, infine, un’attenuazione della cultura che vedeva proprio nel graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento”. Le pene alternative (come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e il lavoro volontario di pubblica utilità) non devono peraltro essere intese come un mero escamotage per alleggerire il numero dei detenuti tra le mura (e di conseguenza i costi per i contribuenti, che per ogni carcerato sostengono una spesa pari a circa 136 euro al giorno, secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone), ma piuttosto come uno strumento per preparare il rientro alla vita sociale. Tra le persone che hanno avuto accesso a pene alternative, infatti, la recidiva una volta fuori dal carcere è ben più bassa che tra coloro che non vi hanno avuto accesso (rispettivamente 19 e 70 per cento). E a chi invoca la costruzione di nuovi penitenziari è bene ricordare un particolare: edificare un carcere da circa 200-250 posti, ossia di media grandezza, richiede una spesa compresa tra i 25 e i 35 milioni di euro. Tra le emergenze, oltre alla cronica mancanza di personale penitenziario, c’è anche carenza di quello medico tanto che, a fronte di un aumento dei detenuti, è difficile assicurare un servizio di assistenza sanitaria adeguato, come denuncia Franco Alberti, coordinatore nazionale di Fimmg Medicina Penitenziaria: “I medici che lavorano nelle carceri sono costretti a turni continuativi, con tutti i rischi connessi alla situazione di stress legata all’ambiente di lavoro. Tutto ciò a scapito della salute dei detenuti”. Preoccupazione è stata espressa anche dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, per i processi di radicalizzazione estremista in ambito carcerario, un focus su cui è rivolta l’attenzione degli apparati di sicurezza. Nel Report Terrorismo, criminalità e contrabbando della Fondazione Icsa, Gabrielli sostiene che sia “per il terrorismo endogeno, che per quello internazionale di matrice religiosa, l’habitat penitenziario si sta dimostrando un incubatore”. Ciò significa che i detenuti più esposti ai condizionamenti possono divenire terreno fertile per lo jihadismo. La situazione carceraria italiana, del resto, è stata definita “drammatica” dallo stesso ministro Bonafede, che ha segnalato 3.808 eventi critici (tra cui rivolte, aggressioni, colluttazioni). Mentre il Garante, da parte sua, ha precisato come in alcune sezioni di 41 bis (il carcere duro) le condizioni materiali siano inaccettabili. In Italia, sono sottoposti a questo regime 738 uomini, dieci donne e cinque internati in Case di Lavoro: a gennaio scorso solo 363 di loro e appena quattro delle 10 donne avevano una posizione giuridica definitiva. Una condizione allarmante certificata anche a livello internazionale: il Rapporto Space, diffuso il 2 aprile scorso, fotografa la situazione del sistema penitenziario negli Stati membri del Consiglio d’Europa al 31 gennaio del 2018. Dal documento risulta che in Italia ci sono troppi detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva (il 34,5% contro una media europea del 22,4%), le nostre carceri sono tra le più affollate del continente e il nostro Paese è tra quelli con la più alta percentuale di persone condannate per reati legati alla droga: 31,1 % rispetto a una media europea del 16,8 %. Dai dati Space emerge inoltre che per ogni 100 posti disponibili nelle carceri italiane ci sono 115 detenuti e che tra il 2016 e il 2018 la popolazione carceraria italiana è aumentata del 7,5%. Tra gli otto Stati con carceri sovraffollate, l’Italia è al quarto posto, dopo la Francia (116,3 detenuti per ogni 100 posti), la Romania (120,3) e la Macedonia del Nord (122,3). “La cella è lunga quattro passi e larga un paio di braccia tese. Se mi alzo in punta di piedi tocco il soffitto. È uno spazio a misura d’uomo. A misura mia”. Così Maurizio Torchio nel romanzo Cattivi (Einaudi, 2015), in cui racconta la storia di un ergastolano. Comunque le si voglia chiamare - segrete, galere, gattabuie, bagni penali, penitenziari - le carceri sono carceri, ossia spazi di solitudine ben delimitati, dove si sperimenta una restrizione fisica, sociale, economica e psicologica. Elevare le condizioni di vita negli istituti di pena, come ha dichiarato il presidente della Camera Roberto Fico, in occasione della relazione di Garante, “non è un atto di indulgenza verso chi ha commesso reati, ma serve a restituire alla società una persona migliore rispetto a quella che ha fatto il suo ingresso in carcere, un antidoto per prevenire che torni a delinquere”. Oltretutto circa 450 minori sono reclusi negli Istituti Penitenziari (IPM) d’Italia in attesa di uscirne. Sul divieto di tortura e dei trattamenti degradanti il nostro Paese non ha neppure ottemperato pienamente gli obblighi costituzionali e internazionali: la Corte di Giustizia Europea, infatti, aveva condannato l’Italia per violazione dei diritti umani dopo la sentenza Torreggiani (8 gennaio 2013). Perfino Papa Bergoglio ha sottolineato come “per la società i detenuti sono individui scomodi, uno scarto, un peso”. Ne fanno esperienza quotidiana i cappellani nelle carceri. In definitiva si tratta di mettere in pratica l’articolo 27 della nostra Costituzione che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per restare uomini e donne al di qua e al di là delle sbarre. “Dal carcere si evade con un libro. La scrittura non deve lasciare alla pena l’ultima parola” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 4 maggio 2019 Lo scrittore Erri De Luca si racconta in vista della finale del Premio Goliarda Sapienza, il concorso letterario nato nel 2011 e rivolto ai detenuti: “In carcere l’attività lavorativa dovrebbe essere consentita a chiunque lo desideri, come anche un accesso normale agli studi. Sono beni preziosi che infondono dignità e responsabilità” Leggere è libertà. “Una persona in prigione, quando si mette un libro davanti agli occhi, cancella le sbarre e le porte blindate, tutta la cella intorno, riesce a far superare gli ostacoli, a far “evadere”, una parola altrimenti impronunciabile in prigione perché a senso unico e senza virgolette. La lettura in carcere è uno strumento che riesce a sospendere - per un momento - la pena, e far raccontare e scrivere, ai più “coraggiosi”, anche dei torti commessi o subiti, delle proprie vicende personali e anche delle ingiustizie”. Così Erri De Luca, anche quest’anno tra i relatori della premiazione del Goliarda Sapienza (promossa e organizzato da InVerso Onlus con il sostegno di Siae - Società Italiana degli Autori ed Editori, e curata dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, qui intervistata lo scorso anno), che si tiene il 9 maggio a Torino, racconta al Corriere della Sera il valore della scrittura per i detenuti. Madrina, anche quest’anno, Dacia Maraini. Una manifestazione nata nel 2001, l’unico concorso in Italia dedicato alla popolazione detenuta che affianca ai finalisti grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor, alla quale lo scrittore napoletano partecipa ormai da diversi anni. “Apprezzo la possibilità di provare vicinanza veloce e profonda per uomini di pazienza e di coraggio, virtù scarse all’esterno”, spiega l’autore. In carcere scrivere “è una forma di evasione legale. Per un prigioniero riguarda le lettere, che dalla prigionia e dai campi di concentramento (per i quali consiglia la lettura di I racconti della Kolimà di Varlan Shalamov che “trasmettono tenacia”) sono stati una potente forma letteraria del Novecento”, continua De Luca. “Si può scrivere per dare uno sfogo alla pressione interna, ma nei racconti scritti nelle varie edizioni del premio ho potuto leggere di più, la tensione verso una forma narrativa, perché il premio ha stimolato il racconto di storie vere ed estreme, che parlano della nostra narrativa e nella nostra vita”. Quando le persone in carcere scrivono, “scrivono di loro, della loro esperienza, di quel che hanno conosciuto. Per questo hanno una presa diretta sul lettore molto più forte, almeno per me lettore, di quella di chi inventa storie, elaborando personaggi e trame”. Per questa edizione speciale dal titolo “Malafollia” è stata costituita una factory creativa formata da alcuni degli autori (detenuti e qualche ex detenuto) che si sono distinti nel corso delle precedenti edizioni del concorso e che qui si sono cimentati nella scrittura di racconti sul tema della follia in carcere, ispirandosi alle proprie esperienze personali. Ne sono emerse storie spiazzanti, di grande forza comunicativa, che trasportano il lettore nei luoghi più misteriosi della mente umana. I racconti saranno pubblicati in un libro dall’omonimo titolo “Malafollia - Racconti dal carcere”, edito da Giulio Perrone Editore, i cui proventi contribuiranno alla realizzazione di progetti in favore della cultura della legalità. Queste iniziative fanno circolare nuovo ossigeno dentro le mura: “Per molti detenuti la scrittura è anche un atto di isolamento. Molti di quelli conosciuti rinunciavano all’aria e al cortile per poter restare soli a scrivere. Certo - chiarisce l’autore - è un atto rischioso, specie dentro una comunità forzata perché taglia la comunicazione. Un atto individuale che può essere malinteso dagli altri compagni di pena, perché il carcere non è una scuola di scrittura. Ma la scrittura ha il compito di non lasciare alla pena l’ultima parola”, ha chiarito. Quello che manca - forse - “sono racconti al femminile. Le donne in prigione cercano di conservare gesti domestici, curano la cella, si danno una mano e si isolano meno degli uomini”. E parlando del futuro della politica carceraria, fa sue la parole cantate da Joan Baez nel 1972 per i detenuti del carcere di Sing Sing : “We gonna raze, raze the prisons to the ground”, “Noi raderemo, raderemo le prigioni al suolo”. Parole che “ci ricordano che il carcere è una segregazione, e a lungo è stata una segregazione da tutto il resto della società. Attività come questo premio hanno reso più porose le mura della prigione, più permeabili a quello che accade fuori, facendo conoscere quello che succede dentro”. Uno dei fini del carcere dovrebbe essere quello rieducativo (come previsto dall’articolo 27 comma 3 della Costituzione “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, ndr), dovrebbe prevedere un percorso di reinserimento, ma in alcuni casi si rivela essere una punizione che non produce cambiamento. Come adempiere a questa missione? “In carcere l’attività lavorativa dovrebbe essere consentita a chiunque lo desideri, come anche un accesso normale agli studi. Sono beni preziosi che infondono dignità e responsabilità in chi sconta una pena”, conclude De Luca E rispetto alle nuove generazioni e al rispetto che hanno per l’altro, inteso anche come povero, detenuto, migrante in cerca di una nuova vita, “credo nella gioventù del mondo: dove essa brulica, s’infervora, dilaga. Da noi i giovani sono demograficamente in inferiorità numerica e psicologica nei confronti di adulti e anziani. Credo in una gioventù Europea”. Dietro le sbarre si recita Dante di Fulvio Fulvi Avvenire, 4 maggio 2019 L’Inferno di Dante e la torre di Babele come pretesto per raccontare su un palcoscenico storie che, dietro i testi rappresentati, parlano del dolore quotidiano ma anche della speranza di chi è costretto a vivere dietro le sbarre per scontare una pena. Vite “ristrette” che attraverso il teatro si dilatano oltre le spesse mura di un carcere alla ricerca del loro vero valore, umano e spirituale. La libertà oltre la colpa. Corpi e anime che si muovono in uno spazio limitato per proiettarsi nell’infinito. Gesti e parole che richiamano un’esperienza di riscatto sociale. È questo il senso degli eventi teatrali compresi nel programma del Festival Biblico che vedono protagonisti i reclusi. Primo appuntamento, ieri sera, con Ne la città dolente, dentro il carcere, ripercorrendo l’Inferno di Dante Alighieri, dalla “selva oscura” alla Giudecca del Nono Cerchio. La compagnia teatrale di detenuti del penitenziario di Montorio e una decina di studenti delle scuole secondarie veronesi sono i protagonisti con gli spettatori di uno spettacolo itinerante nei gironi della detenzione. Stasera la replica della piéce, alle ore 19. Il progetto “Teatro del Montorio” nasce nel 2014 su iniziativa della direzione della Casa circondariale di Verona di via San Michele, guidato da Alessandro Anderloni e realizzato dalla compagnia teatrale Le Falìe con il sostegno della Fondazione San Zeno Onlus. Ne la città dolente (sottotitolo, “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”), testo e regia di Anderloni, è il primo dei tre capitoli dedicati alla “Divina commedia” in vista dell’anniversario dei 700 anni dalla morte del sommo poeta, che cadrà nel 2021: a gruppi di cento, gli spettatori camminano lungo gli spazi della reclusione dando vita a uno spettacolo in forma itinerante tra corridoi, aule rieducative, ambienti comuni del carcere. Titolo del secondo spettacolo, in cartellone il 13 maggio nell’Auditorium della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova (ore 13.30) è “Babele: another brick in the wall”, per la regia di Maria Cinzia Zanellato. “La Torre di Babele, che ci arrocca in posizione difensiva verso l’altro e l’ignoto, è dentro ognuno di noi” commenta Ciro, giovane detenuto del laboratorio teatrale del carcere Due Palazzi di Padova, uno dei componenti della piccola comunità teatrale dell’istituto penitenziario patavino, costituita di persone di età, provenienza geografica e sociale diversa. L’evento nasce all’interno del progetto “Teatrocarcere Due Palazzi” attivo dal 2005 con la direzione artistica di Maria Cinzia Zanellato e dal 2015 in collaborazione con Adele Trocino. Si tratta di laboratori di formazione pedagogica artistica e realizzazione di eventi culturali. Lo scopo è favorire la relazione e il percorso di dialogo e inclusione tra carcere e città. L’associazione Agape nasce nel gennaio 2019 con l’intento di ideare e realizzare progettualità che coniugano etica ed estetica, con attenzione alle situazioni sociali e culturali che richiedono particolare cura. Una maggioranza divisa tra moralismo e presunzione di colpevolezza di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 4 maggio 2019 La questione giustizia si interseca con i problemi della politica e il presidente del consiglio ha voluto mettersi in una posizione da lui ritenuta mediana. Le dichiarazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Per principio non sono né per il giustizialismo né per il garantismo che riflettono visioni manichee” non è una frase dal sen fuggita. Dà conto della natura del governo. Tutto quello che è stato prodotto in materia di giustizia dal governo e dalla maggioranza del Parlamento pare risentire della concezione per cui prevale il sospetto, e che la presunzione di colpevolezza possa essere usata per fini politici. La questione giustizia come sempre da un trentennio si interseca con i problemi della politica - basta pensare alla vicenda del sottosegretario Siri - il presidente del Consiglio ha voluto mettersi in una posizione da lui ritenuta mediana per rappresentare il suo popolo che per metà è giustizialista (Cinque stelle) e per metà garantista (la Lega soltanto in questo ultimo periodo). Il popolo che Conte vuol difendere da quando ha assunto la carica non è il popolo nel suo complesso ma è quello che ha votato i due partiti della maggioranza quindi egli pensa di collocarsi nel mezzo, equidistante. In questo caso però l’ equidistanza è negativa e lo rende succube perché minaccia di compromettere alcuni principi giuridici e costituzionali. Il risultato paradossale è l’esistenza di un governo giustizialista e di uno governo garantista che non convivono serenamente ma gettano una luce funesta su tutta la legislazione e su tutta l’attività governativa. In sostanza il presidente del Consiglio consente che si approvi una legge che rende eterna la prescrizione: un’altra che considera legittima ogni difesa personale; vari provvedimenti che aumentano le pene indiscriminatamente senza criterio; che modifica il 41b in materia di scambio di voti senza che vi sia il dolo soggettivo da parte del protagonista del reato; che millantando un provvedimento per la sicurezza del Paese stabilisce che lo straniero è nemico e che non va aiutato se scappa dalla guerra o dalla fame. Dall’altra parte il giustizialismo dei Cinque stelle si infrange e sparisce nella negazione della autorizzazione a procedere sottraendo Salvini dal processo e nell’avere accettato come membro del governo un condannato per patteggiamento per bancarotta. Quella sentenza avrebbe impedito per motivi e opportunità di nominare sottosegretario il senatore Siri e non la semplice comunicazione giudiziaria che è l’atto iniziale delle indagini del pubblico ministero e che non dovrebbe essere il presupposto automatico per intaccare la politica. Nessuno può ignorare che secondo la Costituzione il pubblico ministero è una parte del processo che dovrebbe avere (come è in tutti gli Stati democratici) lo stesso valore della difesa. A distanza di circa un anno, dunque, dalla sua costituzione, il governo può essere valutato nella sua consistenza e nella sua funzionalità, cercando di formulare un giudizio meditato. I sondaggi che ormai regolano la nostra vita attribuiscono un consenso consistente al governo da parte della opinione pubblica e una valutazione negativa di gran parte della stampa nazionale ed europea, della classe dirigente quella silente e nascosta, dei rappresentanti della cultura e delle professioni. Come è spiegabile questa diametrale differenza, che non ha precedenti nella storia del nostro paese? La distanza abissale tra il popolo e quello che storicamente indichiamo come classe dirigente determina questo contrasto che peserà per molto tempo sulle istituzioni e sulle decisioni che i governi adotteranno. Vediamo perché. La fine della solidarietà sociale tra le classi sociali e tra cittadini, che ha caratterizzato il nostro paese nel periodo del dopoguerra fino a qualche anno fa, è stata determinata da una accentuata crisi culturale e politica aggravata da una crisi economica persistente che spinge i cittadini a protestare contro i “responsabili” che sono sempre quelli che hanno governato prima. Fino a che i nuovi rappresentanti del governo praticheranno sia le funzioni della maggioranza che dovrebbe governare e al tempo stesso della minoranza che deve contestare e protestare, avremo questa diversa valutazione sulle azioni o meglio soprattutto sulle “dichiarazioni” del governo che porterà a conclusioni pericolose per le sorti del nostro paese. I due movimenti che hanno dato vita al governo hanno come principale compito quello di individuare ogni giorno un nemico, di provocare reazioni, di sollecitare emozioni che creano immediati consensi e come compito molto secondario quello di governare. Alimentare lo scontro sociale e la competizione selvaggia tra gli stessi cittadini significa approfondire quel solco tra base e istituzioni con la delegittimazione di tutto che poi si rifletterà più tardi su chi ha seminato zizzania e rancori. Sono tra quelli che ritengono i nostri rappresentanti al Parlamento al di sotto delle necessità, ma non sono portato a sottovalutare, come alcuni fanno, i loro comportamenti che sono ispirati e guidati da un’intelligenza nascosta che ha un piano preciso di modifica delle nostre istituzioni democratiche e repubblicane. In conclusione, siccome non possiamo far torto all’avvocato Conte (non “all’avvocato del popolo”) di non conoscere fino in fondo il significato della parola giustizialismo e della parola garantismo dobbiamo avere seri preoccupazioni per una funzione del governo in tutti suoi aspetti dall’economia alla giustizia che minaccia di diventare molto pericolosa per il Paese. Questo governo vuole ottenere l’isolamento dell’Italia attraverso un sovranismo strumentalmente portato avanti dalla Lega ma praticato dai Cinque Stelle, senza una competizione che faccia diventare protagonista l’Italia. L’opposizione tanto invocata dovrebbe avere chiaro questo quadro e portare avanti azioni conseguenti. È arrivata l’ora di mobilitare le coscienze più vigili per reagire in fretta e sollecitare la responsabilità di tutti gli individui e soprattutto dei giovani, che dalla vecchia classe dirigente debbono ricevere impulso ed esempio, per superare una apatia generalizzata e una diffusa acquiescenza. La quale fu colpevole alla vigilia dell’avvento del fascismo, per aver sottovaluto la situazione. Certamente il fascismo va collocato in una prospettiva storico ma le forme di dittatura sono tante e possono esprimersi in maniere molto diverse tra loro. I giudici smontano il decreto sicurezza. Salvini: “Fanno politica” di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 maggio 2019 Il secondo stop al decreto Sicurezza del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, arriva dal tribunale di Bologna, dopo quello di Firenze. Il giudice civile, infatti, ha accolto il ricorso presentato da due richiedenti asilo, a cui era stata negata l’iscrizione all’anagrafe come previsto dal decreto sicurezza, in quanto “la mancata iscrizione ai registri anagrafici impedisce l’esercizio di diritti di rilievo costituzionale ad essa connessi, tra i quali rientrano ad esempio quello all’istruzione e al lavoro”. Per fare qualche esempio, senza un documento di identità i richiedenti asilo si trovano in difficoltà ad avere un medico di base, prendere la patente, iscriversi a un corso e anche avere un conto in banca su cui far versare lo stipendio. Non solo, il tribunale ha anche evidenziato come la norma voluta dal Viminale “non contiene un divieto esplicito di iscrizione per i richiedenti asilo, bensì evidenzia come il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per l’iscrizione all’anagrafe”. Dunque, il giudice non ha concesso il permesso di soggiorno ma ha ritenuto che, in attesa di quella decisione, il richiedente asilo possa soggiornare per un tempo sufficiente ad ottenere l’iscrizione all’anagrafe. “Questa interpretazione - ha scritto la giudice Matilde Betti nella sentenza - offre una lettura della norma coerente col quadro normativo costituzionale e comunitario, altrimenti di dubbia tenuta”. In sostanza. La decisione ha ritenuto che l’articolo 13 del decreto voluto dal ministro Salvini abbia eliminato unicamente l’automatismo che permetteva di richiedere l’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo da parte dei centri di accoglienza, ma non impedisca di farlo. Di grande soddisfazione le reazioni degli avvocati difensori, Nazzarena Zorzella e Antonio Mumolo: “In un momento di estremo imbarbarimento in cui si vuole dividere in cittadini di serie A e di serie B, ecco una sentenza che dà certezza ai valori garantiti dalla nostra costituzione”. Opposte le reazioni, sui fronti politici. Da una parte il sindaco di Bologna, il dem Virginio Merola, ha commentato con soddisfazione la decisione, facendo sapere che “il Comune la applicherà senza opporsi” e ha attaccato il ministro dell’Interno: “La norma è illegittima e la magistratura è indipendente. Un ministro fa ricorso ma non minaccia i giudici di essere di parte”. Salvini, invece, ha manifestato tutto il suo disappunto con un tweet furioso: “Sentenza vergognosa. Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il Tribunale e si candidi con la sinistra. Ovviamente faremo ricorso contro la sentenza, invito tutti i sindaci a rispettare la Legge”. Immediata la risposta dell’Associazione nazionale magistrati i quali fanno sapere che le dichiarazioni del ministro Salvini “delegittimano la magistratura in quanto, in maniera del tutto infondata, alludono al fatto che le sentenze possano essere influenzate da valutazioni politiche e che nella scelta sull’applicazione delle misure cautelari, basata esclusivamente sulla verifica della ricorrenza dei presupposti previsti dalla legge, incida una incomprensibile tendenza dei giudici a scarcerare i presunti autori dei reati”. Per quel che riguarda la sentenza, affinché faccia stato nomofilattico sarà necessario aspettare il pronunciamento eventuale della Corte di Cassazione (nel caso in cui il giudizio arrivi fino al grado di legittimità) o - per intaccare la legge su un eventuale fronte di incostituzionalità - che si arrivi a un giudizio davanti alla Corte Costituzionale, ma le sentenze di primo grado prima del tribunale di Firenze e ieri di quello di Bologna aprono comunque un fronte significativo sul piano giurisprudenziale. I giudici toscani, infatti, avevano ritenuto che “Ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale deve intendersi comunque regolarmente soggiornante, in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di asilo”. In caso contrario, il diniego risulterebbe discriminatorio. Il giudizio di primo grado fa stato solamente per i casi esaminati, ma potrebbero essere altri tribunali ad allinearsi a questa lettura della norma voluta da Salvini, di fatto bloccando uno degli effetti espressamente voluti dal ministro. Il tema del trattamento giuridico dei migranti, dunque, rimane questione aperta. In merito, proprio ieri, la Cassazione ha assunto una decisione discordante rispetto alla sua stessa giurisprudenza, ritenendo che la nuova normativa sui permessi di soggiorno per i migranti, abbia “applicazione immediata”: una nozione che “è connaturata al principio di imperatività della legge”, che altrimenti finirebbe “per applicarsi solo ai rapporti nuovi” e “mai a quelli in corso al momento della decisione”. Un’altra sentenza, questa, che riapre il tema della irretroattività della norma sulla sicurezza e i migranti. Grasso (Anm): “Non facciamo politica, applichiamo la legge” di Paolo Colonnello La Stampa, 4 maggio 2019 “Il vicepremier sopra le righe, noi toghe garanti di tutti”. Ci risiamo: quando una sentenza non piace, un’inchiesta disturba, un provvedimento punge, puntuale torna lo spettro delle “toghe rosse” di berlusconiana memoria. E Matteo Salvini non fa eccezione, visto come si è scagliato contro i giudici di Bologna che hanno concesso l’iscrizione all’anagrafe di due richiedenti asilo. Confermando come, una volta al potere, i politici mal sopportino gli altri poteri di controllo dello Stato. Il nuovo presidente dell’Anm, Pasquale Grasso, magistrato genovese, eletto per la corrente di Magistratura Indipendente, quella considerata più a destra tra le toghe, sospira. Dunque, ci sono ancora le “toghe rosse” dottor Grasso? “Lo sta dicendo lei, io conosco solo toghe di colore nero, quelle che indossano normalmente i magistrati. Ma soprattutto non intendo entrare in polemica”. Ma Salvini lo ha detto chiaro e tondo: giudici, non vi piacciono le nostre leggi? Fatevi eleggere nella sinistra e cambiatele. “I giudici non fanno politica ma applicano la legge. Quello di Salvini è il tono tipico dell’ambiente politico, ma è sopra le righe rispetto a una sentenza che è pur sempre un provvedimento tecnico e soprattutto si può impugnare, ma con gli strumenti dovuti”. Secondo il Ministro in questo caso è stata disapplicata una legge del Parlamento. Un grimaldello politico? “Le sentenze è giusto e legittimo che si possano criticare ma con la dovuta continenza dei toni. Contesto che le decisioni dei giudici possano essere influenzate da motivi politici, perché un giudice applica semplicemente la legge. Poi può accadere che vi sia una formulazione che forse lascia spazio non tanto a una volontà di disapplicazione o a interpretazioni non conformi alle dichiarate volontà politiche ma semplicemente impongono al giudice di svolgere un’attività di interpretazione che poi è il nostro lavoro”. Non ha l’impressione che a volte le leggi di questo governo siano un po’ sul filo del rasoio costituzionale? Vedi la lettera del presidente Mattarella per la legge sulla legittima difesa… “Ho già avuto modo di evidenziare che la lettera del Capo dello Stato conteneva nei suoi passaggi un chiaro riferimento che per noi tecnici è evidente: il principio di tassatività. In soldoni vuol dire che innanzitutto le leggi vanno scritte in maniera chiara. Lo sto dicendo in astratto, rispetto al testo specifico non mi voglio lanciare a mia volta in interpretazioni perché non intendo commentare la specifica decisione”. Certo che è curioso: quando serve, i giudici sono utilissimi, come nel caso Siri. Quando infastidiscono diventano toghe rosse, come nel caso di Bologna. Vince sempre la convenienza? “Purtroppo bisogna anche dire che siamo in campagna elettorale, condizione che in Italia si protrae quasi ininterrottamente tranne che per brevi periodi. Bisogna capire che i giudici non sono assolutamente qualcosa di diverso dagli altri cittadini e dallo Stato, ne sono una parte. Criticarli violentemente è autolesionistico. Rifiuto questa interpretazione dei giudici come nemici, non siamo né saremo mai un partito politico. Noi siamo i garanti di tutti”. Compresi gli extracomunitari? “Compresi tutti i soggetti che vengono a interfacciarsi con una decisione giudiziaria. Nel caso, qualsiasi soggetto, anche non italiano, ove l’ordinamento gli attribuisca un diritto. E se il legislatore ritiene legittimamente d’individuare un diritto per tutti è chiaro che il soggetto che ritiene di essere destinatario di questo diritto possa far ricorso legittimamente a un giudice per farlo valere”. Politica e magistratura: sarà sempre un inevitabile scontro? “Guardi, credo che il confronto risalga agli albori del tempo. Già nel 1400 la giustizia veniva dipinta come una dea bendata per raffigurarla come folle. Questo per dire che lo scontro è connaturato alle dinamiche sociali. Quello che non va bene è che lo scontro debordi e che i giudici vengano visti come nemici. È un concetto che rifiuto. Dopodiché ognuno di noi come privato cittadino può immaginare ciò che vuole, ma io, come giudice, non mi posso far condizionare”. Manduria: l’orrore la morte e il linciaggio di Angela Azzaro Il Dubbio, 4 maggio 2019 È proprio in casi come questi, in cui non si può minimizzare la gravità di quanto è accaduto, che è ancora più importante ricordare il valore della presunzione di innocenza. Ma ormai il circo mediatico risponde a qualsiasi evento sostituendosi al giudice e decidendo la condanna. Ma se per una volta ci chiedessimo non come punire, ma che cosa è accaduto, come aiutare quei ragazzi, a prescindere da quanto stabilirà il tribunale? Nonostante colpiscano le terribili immagini delle violenze compiute dai ragazzi, l’indifferenza assordante che sembra circondarle e la solitudine disperata del pensionato morto a Manduria, è un articolo che non vuole rinunciare alla presunzione di innocenza e alla convinzione che i fatti debbano essere valutati da un tribunale e non dai giudici improvvisati (e crudeli) del circo mediatico. Nessuna giustificazione, ma la volontà di capire e mantenere ferma la barra del diritto. In questi giorni, sui media e sui social, si è invece fatto a gara a chi per primo scagliava la prima pietra, a chi puntava il dito contro questi ragazzi considerati non persone ma mostri, dei predestinati al crimine, dei reietti da rinchiudere in un carcere e buttare la chiave. Per sempre. Si risponde alla violenza con altra violenza, senza porsi nessuna domanda, senza voler capire, senza voler andare al di là della richiesta di punizione. Ma se l’opinione pubblica pensa queste cose, se il pensiero dominante ha una idea del carcere che niente ha a che fare con l’articolo 27 della Costituzione, come pensiamo di costruire un mondo migliore, un mondo dove queste cose non avvengano mai più o avvengano sempre di meno? Viene in mente il film Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Una gang di giovanissimi semina terrore in una città del futuro per provare emozioni forti. Il loro leader viene catturato e sottoposto alla cura Ludovico: non si cerca di convincere Alex che la violenza sia sbagliata, a capire il male che ha fatto, ma lo si induce attraverso scene di violenza a sviluppare una sorta di fastidio, un riflesso condizionato che non ha niente a che vedere con la consapevolezza. Finito il programma di “rieducazione” torna nella società ma nessuno lo ha perdonato e viene a sua volta maltrattato. L’unico che lo accoglie è lo scrittore diventato paralitico per colpa sua, il quale capito chi è si vendica con altrettanta brutalità. Alex entra in coma e quando riprende conoscenza accetta di entrare a far parte delle forze dell’ordine. A quel punto può riprendere liberamente a coltivare e praticare la sua aspirazione alla violenza. Con i ragazzi di Manduria ci stiamo comportando allo stesso modo. Non ci interroghiamo sulle nostre responsabilità, non cerchiamo di capire cosa sia successo, perché sia successo, non contempliamo l’idea che possano essere innocenti o che se condannati possano rifarsi una vita. Abbiamo deciso: sono colpevoli e lo saranno per tutta la vita. Pensiamo a linciarli, a mostrare la nostra indignazione, costruiamo l’immagine del mostro perché così ce ne laviamo le mani: quell’orrore non ci tocca, non riguarda la società di cui tutti facciamo parte. Ma, come in Arancia meccanica, se alla violenza rispondiamo con la violenza, se impediamo a colui che ha sbagliato - al di là del codice penale - di rifarsi una vita, generiamo a nostra volta violenza e creiamo un circolo vizioso che è difficile interrompere. Fëdor Dostoevskij in Delitto e castigo racconta di un giovane che organizza e compie l’omicidio di una vecchia usuraia, a cui segue l’assassinio della sorella più piccola della vittima. Il grande scrittore russo, che pochi sanno ma si ispira a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ci fa entrare nella testa dell’assassino, nel suo travaglio e ci racconta il perdono che una giovane donna compie nei suoi confronti restituendogli la possibilità di salvarsi. La prima edizione è del 1866, eppure ancora oggi quei temi restano centrali, più che mai centrali. Perché sempre più si pone la questione di come la civiltà si definisca rispondendo ai crimini non con la vendetta, ma con il diritto, non con la legge dell’occhio per occhio, ma con la possibilità di perdonare, di mettere l’altro nelle condizioni che cambi. Ai giudici che hanno deciso che i ragazzi restino in carcere, perché le famiglie non li sanno educare, oltre ai forti dubbi su questo uso della custodia cautelare, verrebbe da chiedere se davvero sono convinti che il carcere, questo carcere possa essere una risposta. La città insicura che non riesce a proteggere i più piccoli di Marco Demarco Corriere del Mezzogiorno, 4 maggio 2019 Nessuna città è un paradiso in terra. Neanche Napoli lo è. Se anche le città portate a modello si scoprono all’improvviso vulnerabili, tanto più vulnerabile lo è Napoli, specialmente quando una bambina finisce grave in ospedale perché un proiettile, non certo indirizzato a lei, le perfora un polmone. Dovunque si addensano moltitudini si scatenano istinti bestiali. La cosa è talmente ovvia che non ci sarebbe ragione per ricordarlo. Ma nel caso di Napoli vale la pena farla questa sottolineatura; vale cioè la pena ribadire la non eccezionalità della città, perché una certa retorica locale, spesso veicolata dai tweet o comunque dai messaggi del sindaco di turno, prova sempre, nei momenti di tregua, quando le tensioni si allentano, ad accreditare l’idea di una realtà pacificata, governata dall’amore e dalla concordia, nonché baciata dalla benevolenza di un turismo generoso e crescente. Quella stessa retorica tende però a trasformare il paradiso in inferno quando i fatti precipitano, e quando il cerchio delle responsabilità può più facilmente essere allargato fino a comprendere tutti, in primo luogo lo Stato. È allora, nel momento in cui il quadretto a tenue tinte pastello si chiazza di nero e di sangue, che dall’orizzonte sparisce ogni isola felice. Bisognerebbe, piuttosto, trovare un equilibrio nel giudizio sullo stato delle cose e riconoscere che Napoli ha - e non da oggi - un drammatico bisogno di sicurezza. Del resto, come negarlo? Al Comune c’è oggi una giovane assessora che venti anni fa vide morire sua madre. Ancona: progetti di nuova vita per i detenuti, Sportello informativo nel carcere Il Resto del Carlino, 4 maggio 2019 Uno sportello informativo e orientativo nell’istituto di pena di Montacuto ad Ancona, in coordinamento con l’area trattamentale, per attivare e rafforzare le forme possibili di socializzazione, formazione, accompagnamento e assistenza, in grado di offrire ai detenuti, in prossimità di scarcerazione, una prospettiva futura di vita. E un progetto pilota già attivo promosso dal Garante dei diritti delle Marche, Andrea Nobili. L’intento è stabilire un rapporto organico di collaborazione e sinergia con i servizi territoriali che seguono questa specifica utenza. In caso di esito positivo di questa prima esperienza in fase sperimentale, l’iniziativa potrebbe essere incentivata con specifici protocolli d’intesa e allargata agli altri istituti penitenziari regionali. Due i settori principali d’intervento allo sportello, gestito da Martina Carducci, collaboratrice esterna del carcere: uno rivolto al compimento degli studi accademici di studenti reclusi, l’altro il sostegno in prossimità delle dimissioni. Andria (Bat): “Senza sbarre”, una masseria e un pastificio per l’inclusione dei detenuti di Antonio Rubino agensir.it, 4 maggio 2019 Il progetto “Senza Sbarre” è partito a dicembre 2017. A settembre 2018 è stata avviata la comunità semi residenziale, che vede oggi presenti 12 persone, alcune delle quali la sera rientrano in carcere. Gli altri hanno l’obbligo di dimora o sono agli arresti domiciliari. Si inaugurano oggi ad Andria la Masseria “San Vittore” ed il pastificio “A mano libera”, che rientrano nel progetto della diocesi di Andria “Senza sbarre” per l’inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti. Interverranno, tra gli altri, il vescovo di Andria, Luigi Mansi, che benedirà gli ambienti, il Procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, e il presidente del Tribunale di sorveglianza di Bari, Giuseppina D’Addetta. Alla realizzazione del progetto hanno contribuito, oltre alla diocesi pugliese, la Conferenza episcopale italiana - con i fondi 8xmille e Caritas nazionale - “Rotary International, l’associazione di imprenditori andriesi ‘Amici per la vita’, un imprenditore della pasta della vicina Barletta e tanti altri benefattori”, dice don Riccardo Agresti, anima del progetto insieme con un altro sacerdote della diocesi di Andria, don Vincenzo Giannelli. “L’idea centrale di questo progetto diocesano è di occuparsi di eseguire la misura alternativa al carcere in comunità attraverso l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti”, ai quali si aggiungono gli ex detenuti che vogliono da subito rifarsi una vita, spiega don Riccardo Agresti. Il progetto “Senza Sbarre” è partito a dicembre 2017. “A settembre 2018 - continua - è stata avviata la comunità semi residenziale, che vede oggi presenti 12 persone, alcune delle quali la sera rientrano in carcere. Gli altri hanno l’obbligo di dimora o sono agli arresti domiciliari”. Funziona così: i magistrati del Tribunale di sorveglianza e l’area educativa del carcere, “se matura la possibilità di una misura alternativa- spiega don Agresti - ci invitano a prendere in considerazione il caso; se la persona vuole veramente cambiare vita, diamo la nostra disponibilità: questo significa quanto sia importante fare rete”. “Quasi tutti gli ospiti arrivano al mattino in masseria, accompagnati dai volontari”, aggiunge. Dopo la preghiera, tutti al lavoro: dalla pulizia della stalla, ai lavori di giardinaggio, alla cura dei 7 ettari di terra con un uliveto e campi a seminativo intorno alla masseria. Inoltre, “alcuni imprenditori ci fanno completare lavori avviati in aziende vicine”. Il prossimo obiettivo è quello di arrivare ad una ventina di ospiti, “e, già da giugno, attraverso la misura alternativa di comunità residenziale, permettere ad almeno 5 o 6 di loro di dormire nella masseria e non in carcere”. La struttura è dotata di un laboratorio per la produzione di pasta, che “adesso è utilizzata per il fabbisogno della comunità e distribuita attraverso le parrocchie di Andria”, prosegue. L’auspicio è di commercializzarla col marchio “A mano libera” già da questo mese “nei punti vendita di prodotti del commercio equo e solidale, e successivamente, di venderla nei supermercati”. “Il pastificio sarà un canale di autonomia” per rendere la comunità indipendente “e dare lavoro a ragazzi che ieri si procuravano i soldi in modo facile”. Ora, invece, “i soldi devono sudarseli, anche questo fa parte del ‘sogno’ del Vangelo”. L’ospitalità non termina con la fine della pena: “Se un ospite che ha scontato la pena si trova bene, continua a stare nella comunità”. “Il volontariato sarà l’anima del progetto, perché non crediamo negli uomini soli o ad uno solo uomo al comando, ma crediamo nel noi”, scandisce don Agresti. L’equipe, che oggi è composta dal vescovo, da un manager professionista che aiuta nelle strategie di produzione, dai due sacerdoti andriesi e da due volontari, a breve sarà arricchita da assistenti sociali e psicologi. “Il Vangelo, che vogliamo applicare quotidianamente, ha portato don Vincenzo e me ad incontrare da parroci i detenuti del carcere di Trani già dal 2007?, ricorda don Agresti. Lì “abbiamo toccato lo stigma e abbiamo fatto i pellegrini mendicanti del capire e dell’agire. Abbiamo “sognato” con il Vangelo, che è missione, azione, testimonianza, incisività da vivere nella ferialità, e non con gesti straordinari che durano soltanto un giorno”. La svolta del progetto, continua don Agresti, l’ha data il vescovo Mansi che ha apprezzato l’idea. “C’è bisogno di una azione comunitaria”, ha detto monsignor Mansi, ricorda don Agresti. E così il sogno di due sacerdoti è diventato della intera diocesi. “Siamo arrivati a realizzare questo progetto perché abbiamo fatto un progetto di inclusione dei carcerati nelle nostre comunità, che ora non si fanno problemi a ricevere carcerati”. “Dio dice: ‘Io ti amo’, e questo bisogna tradurlo praticamente. Se una persona si sente amata, può cambiare”, spiega. Tante persone guardano al carcere “ma sono poche quelle che si rimboccano le maniche e svolgono un’azione incisiva su un sistema che oggi è immobilizzato”, conclude don Agresti, che evidenzia: “l’istituto educativo in carcere è insufficiente”. Palermo: trenta detenuti al lavoro per la bonifica del fiume Oreto di Marta Occhipinti La Repubblica, 4 maggio 2019 Il Comune vara un finanziamento di sei milioni di euro. Dopo la mobilitazione dei comitati cittadini per sua bonifica e la semi-vittoria, al secondo posto del podio, come luogo del cuore del Fondo per l’ambiente italiano (Fai), il Fiume Oreto ha un istituto che fa rete tra amministrazione pubblica e associazioni ambientaliste per la sua riqualifica. È stato firmato lo scorso novembre, dai tre comuni di Palermo, Altofonte e Monreale, un contratto di fiume per l’Oreto, con la supervisione della Regione Sicilia e in testa l’assessore al Territorio Salvatore Cordaro. Un protocollo d’intesa che sarà definito entro la fine di maggio, assieme alle associazioni ambientaliste, tra cui Legambiente Sicilia, e che prevedrà un programma di attività da parte dei singoli comuni per la riqualifica del fiume cittadino. E in attesa dell’arrivo dei 65mila euro dal Fai, il Comune di Palermo ha già approvato 6milioni e 700mila euro di fondi da destinare alla bonifica e al recupero dell’Oreto, nell’intero tratto che va dal Ponte Corleone alla foce. Tra le prime iniziative proposte dal comune, in accordo con il ministero della Giustizia, l’impiego di trenta detenuti dell’Ucciardone per la bonifica del fiume, divenuto ormai una discarica a cielo aperto. “Dopo l’attenzione mediatica del Fai si è creata una consapevolezza - dice Paolo Caracausi, presidente della commissione Ambiente del Comune - stiamo lavorando da mesi per arrivare a una progettazione condivisa e che abbia effetti reali. Il contratto, ancora una bozza preliminare, è stato firmato dalle amministrazioni comunali, ma entro la fine del mese definiremo i dettagli con tutti i soggetti, prime fra tutte le associazioni. Vogliamo finire prima dell’arrivo degli esperti del Fai, previsto per fine maggio”. “L’Oreto ha animato in tutti questi anni un movimento dal basso che è anche segno di cittadinanza partecipativa - dice Francesco Liotti, di Legambiente - siamo felici di aderire a questo nuovo istituto che speriamo si concretizzi presto”. Catania: al Riesame ritrova la giudice che gli aveva negato i domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2019 Un detenuto a rischio ictus, ha querelato il magistrato che ha presenziato all’udienza, nonostante le rimostranze della difesa. Un detenuto, a rischio ictus, che si è visto rigettare la richiesta di domiciliari, denuncia un magistrato. L’uomo, difeso dal suo legale, l’avvocato Giuseppe Lipera, è imputato nell’ambito di un procedimento penale pendente davanti al tribunale di Siracusa. La denuncia è per abuso d’ufficio ed è destinata ad un magistrato oggi in carica al Tribunale delle Libertà di Catania. Il querelante è un detenuto in custodia cautelare. La vicenda oggetto della querela è quella di un magistrato che da giudicante, rigetta un’istanza in materia cautelare, e, passata nelle more all’ufficio del Tribunale della Libertà di Catania, viene dal ricorrente ritrovata in aula seduta accanto al Collegio del Tribunale del Riesame, chiamato a decidere sul rinvio della Cassazione che aveva rispedito al mittente proprio il suo rigetto. Era il 5 ottobre quando Francesco Calì chiedeva di sostituire la custodia in carcere con gli arresti domiciliari, per gravi problemi di salute dovuti ad una malformazione artero-venosa in regione cerebrale che, rendendolo a rischio di ictus, giustificava la sua incompatibilità con il carcere. L’istanza, presentata al Tribunale Collegiale, veniva rigettata dalla Presidente, Livia Rollo, che riteneva compatibili le condizioni di salute con il carcere, cosi come il rigetto veniva confermato dal Tribunale del Riesame di Catania. Di diverso avviso, invece, la Corte di Cassazione Quarta Sezione, che con sentenza il successivo 30 gennaio ha annullato il rigetto, rinviando per una nuova decisione al Tribunale del Riesame. “L’inadeguatezza delle cure fino ad allora espletate in carcere, anche considerata la eccepita tardività degli accertamenti sanitari programmati e l’esigenza di ulteriori esami clinici descritti nella consulenza medica prodotta dall’imputato”. Questo il motivo dell’annullamento del provvedimento del Tribunale delle Libertà di Catania, che non aveva tenuto conto “del mancato espletamento o del ritardo degli esami clinici urgenti e dell’incidenza di tali fattori sulla compatibilità delle condizioni di salute del Calì con la detenzione carceraria (…)”. In effetti, la Cassazione indicava la carenza di un “approfondimento anche sulla questione relativa alla mancata nomina di perito d’ufficio richiesta dall’imputato con formale ed espressa istanza”. È proprio in occasione dell’udienza di rinvio al Tribunale del Riesame di Catania che, in aula nel collegio, Francesco Calì ritrova anche Livia Rollo, il giudice che aveva rigettato la sua prima richiesta di arresti domiciliari, quando era assegnata al Collegio del suo processo avanti il Tribunale di Siracusa. In effetti pare che il difensore abbia richiesto che il magistrato venisse allontanata dall’aula, in quanto estensore del provvedimento originario oggetto dell’impugnazione, ma è stata sufficiente una rassicurazione che la stessa non avrebbe partecipato alla deliberazione. Le sorprese per la difesa però non sono terminate, perché in corso di udienza si fece cenno a una perizia che il giorno prima era pervenuta, senza alcuna richiesta da parte del Collegio del Riesame, con pec della cancelleria del Tribunale di Siracusa, quello stesso a cui Livia Rollo era assegnata prima di passare al Tribunale del Riesame di Catania. È per queste ragioni che il Calì ha proposto personalmente la sua querela, depositandola alla Procura di Messina: tra gli altri documenti ha allegato la pec della cancelleria dibattimentale siracusana, che trasmette la perizia “all’attenzione della dottoressa Livia Rollo” sull’indirizzo pec del Tribunale del Riesame. Firenze: Sollicciano si svuota, per le elezioni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 maggio 2019 65 agenti candidati, un mese di permesso pagato. Il direttore: carcere in difficoltà. Improvvisa oppure no, la passione politica è scoppiata nel carcere di Sollicciano. Tanto che sono ben 65 su circa 480 totali, gli agenti della polizia penitenziaria che, usufruendo di un permesso retribuito di 30 giorni, hanno deciso di correre alle elezioni amministrative nei loro Comuni di appartenenza. Le candidature sono divise su tre regioni: Toscana, Lazio e Campania. Il direttore: “Questa situazione ci mette in difficoltà”. Il legittimo impegno politico però ha un risvolto pratico tutt’altro che trascurabile: da qualche giorno il già sofferente carcere di Sollicciano ha 65 agenti in meno in servizio. Secondo quanto previsto dalla legge, infatti, qualunque lavoratore che sia candidato alle elezioni amministrative ha diritto di assentarsi dal lavoro per 30 giorni, con un permesso retribuito, per svolgere le proprie mansioni elettorali. Una scelta ovviamente lecita, quella fatta dai 65 agenti in servizio tra le mura di Sollicciano, che però - visto che gli assenti non vengono sostituiti - rischia di creare più di un disagio ulteriore a un carcere già in difficoltà, sia per il sovraffollamento che per la cronica carenza di personale. A confermarlo è il direttore stesso dell’istituto penitenziario, Fabio Prestopino: “Queste assenze così massicce ci creano alcune difficoltà, ad esempio ci saranno alcuni servizi in meno all’interno del nostro carcere, anche se ci auguriamo che possano non incidere più di tanto visto il numero di agenti a nostra disposizione”. Complessivamente si aggira intorno alle 480 unità il numero di agenti penitenziari a Sollicciano, ma tra ferie e turnazioni quotidiane, queste 65 assenze non sono poche. “Certamente pesano” ammette Prestopino. I trenta giorni di permesso speciale sono appena cominciati e già mancano alcuni servizi che prima erano garantiti. Non tanto servizi sul fronte della sicurezza e custodia, quanto invece sulle attività sociali e ricreative dei reclusi, alcune delle quali diventeranno più frammentate, come ad esempio le uscite straordinarie dalle celle o le attività educative. I permessi elettorali retribuiti sono un diritto tutelato dalla legge, quindi spettano a tutti i lavoratori a tempo determinato e indeterminato candidati alle elezioni e anche a quelli impegnati a svolgere funzioni elettorali presso i seggi per le Europee, le Comunali e così via; a chi lavora nei seggi la legge riconosce il diritto di assentarsi dal lavoro per la durata delle operazioni di voto e scrutinio, a chi è candidato invece spetta un mese di permesso. Svariati i partiti politici che schierano gli agenti nelle loro liste elettorali, anche se la maggioranza sembra in corsa con il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Torino: un ciclo di incontri per parlare di legalità di Giuliano Adaglio La Stampa, 4 maggio 2019 Quattro appuntamenti per parlare di legalità, attraverso l’analisi di altrettanti testi che abbiano affrontato l’argomento: è l’obiettivo di “Giocando ai limiti della legalità”, ciclo di incontri organizzato nell’ambito del Salone Off dalla Commissione legalità insieme al Garante dei detenuti. Le presentazioni saranno seguite da aperitivi a cura della Caffetteria del Tribunale - gestita da una cooperativa di carcerati - e di Freedhome, concept store che commercializza prodotti provenienti da diverse case circondariali. Il primo incontro è in programma sabato 4 maggio alle 11 alla caffetteria del Tribunale, in corso Vittorio Emanuele II 130: nell’occasione, Ennio Tomaselli presenterà il suo primo romanzo, “Messa alla prova” (Manni editore, 2018), scritto dopo anni di esperienza come magistrato del Tribunale di Torino, soprattutto in ambito minorile. Il libro ruota attorno a tre figure principali, accomunate da un desiderio insoddisfatto di giustizia: un cancelliere di tribunale, un giudice minorile e un ragazzo con alle spalle un’adozione fallita. L’autore ne parlerà con Domenico Arena e con Francesco Tresso, vice presidente della Commissione legalità. Il secondo appuntamento, previsto per martedì 14 maggio alle 17,30 nella sala grande del Polo del ‘900 (via del Carmine 14), sarà incentrato sul volume “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (il Saggiatore, 2015). A condurre il dibattito sarà padre Guido Bertagna, uno dei curatori del volume con Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato. Con Carlotta Tevere e Davide Petrini, interverranno due testimoni dell’incontro tra vittime e responsabili della lotta armata: Ernesto Balducchi, figlio di un maresciallo ucciso dal brigatista Alasia, ed Ernesto Balducchi, ex Prima Linea che consegnò le armi al cardinal Martini. Negli ultimi anni alcuni ex appartenenti alla lotta armata degli anni Settanta, vittime e familiari delle vittime, si sono incontrati per intraprendere uno straordinario percorso, alla ricerca comune di una ricomposizione possibile. “Il libro dell’incontro” è il resoconto finale di quest’avventura sommersa: una testimonianza di giustizia riparativa viva e autentica, epica e rivoluzionaria. Ad ospitare il terzo incontro del ciclo, in programma venerdì 17 maggio alle 18, sarà l’ex carcere Le Nuove, in via Paolo Borsellino 3. Nel corso della serata Pietro Buffa, introdotto da Monica C. Gallo e stimolato dalle domande di Paolo Borgna, Michele Miravalle e Bruno Mellano, presenterà il suo libro “La galera ha i confini dei vostri cervelli”. Buffa, ex direttore dei penitenziari di Asti, di Alessandria, di Saluzzo e di Torino, è tra i massimi conoscitori del “sistema carcere” in Italia: nel volume, recentemente pubblicato da Itaca Edizioni, raccoglie gli episodi che più lo hanno segnato nel corso della sua lunga carriera. A chiudere il ciclo, sabato 18 maggio alle 18 alla Curia Maxima, in via Corte d’Appello 16, sarà l’incontro con Alberto Gaino, autore del volume “Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione” (Edizioni Gruppo Abele, 2017). Un libro toccante, nel quale Gaino, giornalista specializzato in cronaca giudiziaria, raccoglie le testimonianze di chi ha passato la propria infanzia dentro i manicomi, ricostruendo il racconto di quello che avveniva fra gli anni 60 e 70, prima della Legge Basaglia, senza tuttavia trascurare il presente e il futuro del disagio psichico. Il dibattito, al quale parteciperanno Davide Petrini e Barbara Bosi, sarà accompagnato dalle letture di Claudio Montagna e dalle musiche di Andrea Scapola, violinista studente del Conservatorio di Torino. Bologna: con il Coro Papageno la musica unisce e trasporta oltre le sbarre di Anna Bandettini La Repubblica, 4 maggio 2019 La prima formazione corale in Italia di detenuti, maschi e femmine della Casa Circondariale Rocco d’Amato di Bologna domani si esibisce con il celebre jazzista Uri Caine. È una commozione difficile da spiegare, racconta il Maestro Michele Napolitano, che da molti anni li segue, insegna loro la musica e li dirige. “Posso solo dire che nei due concerti della stagione che abbiamo fatto, uno interno al carcere per i detenuti e uno aperto al pubblico sempre in carcere, dove la gente entra pagando, su alcuni brani i coristi si tenevano abbracciati, emozionati, come uniti da un sentimento che finalmente era vivo e vero”. L’esperienza, così toccante, è quella del Coro Papageno, un nome mozartiano per la prima formazione corale in Italia di detenuti, maschi e femmine (e anche questa è una originalità perché in genere fanno attività separati) della Casa Circondariale Rocco d’Amato di Bologna, uniti in un coro polifonico, sotto l’egida dell’Associazione Mozart 14, ma nato nel 2011 sotto la stella di Claudio Abbado, perché il celebre direttore era convinto che la musica fosse un efficace strumento di riscatto sociale. Oggi è la figlia Alessandra a portare avanti quel suo progetto e il Coro Papageno, via via cresciuto artisticamente, è diventato un ensemble applaudito e ora aggiunge al suo carnet di successi, un altro appuntamento importante e curioso: domani alle 17, sempre diretto da Michele Napolitano, si esibirà per la prima volta a Bologna, la città che lo ha visto nascere, fuori dal carcere, al Teatro Auditorium Manzoni (ore 17) e per di più insieme al trio di Uri Caine, uno dei grandi del jazz americano contemporaneo, oltre che un artista sensibile ai diritti civili. Il concerto si intitola Change!, come un brano di Uri Caine, scritto proprio per celebrare Octavious Catto, attivista dei diritti civili e fautore dell’integrazione della popolazione nera nell’America post guerra civile. “La musica è sempre politica, e deve affrontare i problemi che ci attendono in quest’epoca”, dice Uri Caine. “Un pezzo molto bello e molto complesso - spiega Napolitano - impossibile eseguirlo per il coro: ci sarebbe voluto un lungo tempo di preparazione. Così sarà Uri Caine in trio con Clarence Penn e Mark Helias a presentarlo. Noi del Coro Papageno faremo meglio le cose su cui abbiamo lavorato tutto l’anno, il nostro repertorio consueto. Faremo, perciò, un viaggio in varie culture di tutto il mondo, dall’est Europa all’Africa e al mondo arabo. Sarà un viaggio che unirà varie componenti culturali del coro stesso e vari brani del nostro repertorio a cappella, per poi intrecciarci al ritmo di Uri Caine, e del Quartetto Mirus che ci accompagnerà”. Già apprezzato nel concerto in Senato in occasione dell’anno Europeo della musica 2016, in Vaticano per il Giubileo dei Carcerati sempre nel 2016 e nello show tv di Mika Stasera a casa di Mika, il Coro Papageno è la prova del potere della musica nel cancellare barriere e pregiudizi e nell’insegnare l’ascolto reciproco, la collaborazione e la condivisione, utile per cantare bene ma anche per vivere insieme, per il rispetto degli altri, per costrire legami e relazioni fra le persone, “favorendo l’integrazione e la convivenza civile”, sottolinea Napolitano. “La cosa bella è che alcuni dei detenuti cantano per la prima volta nella loro vita, ma è la forza del gruppo che ti fa crescere musicalmente e non solo -continua- Io li guido, ma non conosco il loro passato; è meglio, mi facilita in un rapporto puro non contaminato da giudizi pregiudizi magari naturali. E questo mi permette di costruire relazioni forti. Noi stiamo molto assieme. Facciamo prove quotidiane, separatamente, con i maschi prima e poi con le femmine. Collaborano con noi Stefania Martin, il pianista Claudio Napolitano e una volta al mese un gruppo di volontari che cantano nei cori in città, per guidare la sezione dei bassi, dei tenori... E mi sembra un fatto bello e interessante che delle persone si prendono cura dei detenuti. Io consiglierei a tutti di cantare in coro. È ormai anche scientificamente dimostrato il benessere che dà mettere in relazione la propria voce con quella di altri, è un benessere psicofisico. E poi porta lontano perché fa emozionare ci mette in contatto col nostro interno ma anche ci abitua ad ascoltare gli altri. Cantando insieme, le persone entrano in relazione e costruiscono nuovi legami”. Roma: “Braccio 5”, progetto radiofonico con i detenuti del carcere Regina Coeli siecom.org, 4 maggio 2019 Il 21 e 22 maggio al Museo Macro Asilo, in via Nizza 138 a Roma, la Cooperativa Pid Onlus Pronto Intervento Disagio e Ilde Sonora presentano “Braccio 5” segnali radio dal carcere di Regina Coeli. Frutto di un laboratorio di creazione radiofonica realizzato all’interno del penitenziario, Braccio 5 è un percorso sonoro tra i corridoi e le celle di Regina Coeli, in cui a fare da guida è un gruppo di detenuti. Il risultato è una narrazione collettiva di quanto avviene in uno dei luoghi meno raccontati di Roma: un percorso in cui i detenuti, che hanno rigorosamente nomi inventati, orientano gli ascoltatori tra ricette, racconti e le tante cose che “non si finisce mai di imparare”. Per la prima volta l’esperienza viene proposta, attraverso un ascolto in cuffia collettivo, all’interno del Museo Macro di Via Nizza a Roma, in un appuntamento aperto alle scuole. Un’occasione diversa per confrontarsi con il mondo del carcere; per immergersi, attraverso le voci e i racconti dei detenuti, nella vita quotidiana di questo cono d’ombra al centro della città. Gli autori si sono incontrati ogni settimana, la scorsa primavera, nella sala multimediale del carcere, situata sotto la sezione 5. Hanno condotto finte dirette (non essendo possibile effettuare una vera trasmissione), realizzato interviste immaginarie, (non avendo il permesso di avere ospiti dall’esterno), dato voce a sceneggiati sonori di fantascienza e a racconti reali. Il risultato è un’intensa narrazione collettiva di quanto avviene in uno dei penitenziari meno raccontati di Roma: un percorso in cui i detenuti, che hanno rigorosamente nomi inventati, orientano gli ascoltatori tra ricordi, lezioni di vita, e le tante cose che non si finisce mai di imparare. “Braccio 5” è il frutto del progetto REC realizzato da PID, Pronto Intervento Disagio e Ilde Sonora con il contributo dell’Otto per mille della Chiesa Valdese. Nel 2018 è stato trasmesso da Radio Rai Tre, per il programma Tre Soldi. Per info e prenotazioni cell. 3486418038 mail: ildesonora@gmail.com. Tagli e bavagli: i giornalisti protestano contro il governo di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 4 maggio 2019 Beppe Giulietti (Fnsi): “Se la Lega non è d’accordo con i tagli dei Cinque stelle e con Crimi voti l’emendamento per Radio Radicale e il pluralismo nell’editoria”. Di Maio risponde al Consiglio d’Europa: “La libertà di informazione non è a rischio”. Domani in piazza a Roma una maratona oratoria a sostegno di Radio Radicale che rischia la chiusura il 20 maggio. Nel corso della 26esima giornata mondiale della libertà di stampa Luigi Di Maio ieri ha sostenuto di “non sentirsi sotto accusa” e di “rispettare l’opinione del Consiglio d’Europa” che nel rapporto sulla libertà di espressione nel 2018 ha considerato l’Italia insieme a paesi come la Turchia guidata da Recep Tayyip Erdogan che “emette decreti che ordinano la chiusura di giornali, televisioni, ma anche associazioni”. In Italia esponenti dei Cinque Stelle hanno definito “sciacalli” i giornalisti, hanno chiesto alle aziende statali di non pubblicare pubblicità sui giornali, il loro governo sta riducendo i contributi (poco più di 50 milioni di euro) del fondo per il pluralismo e l’innovazione a partire dal 2019 fino all’esaurimento nel 2022. “Se dài i fondi pubblici solo ad alcuni giornali poi dipendono troppo dalla politica - ha detto Di Maio. Quello che abbiamo fatto è abbassare i finanziamenti pubblici per permettere ai giornali di finanziarsi da soli”. I fatti sono diversi. Il fondo di cui gode anche un editore puro come la cooperativa di giornalisti e poligrafici Il Manifesto, resterà a disposizione di Palazzo Chigi e, dunque, della politica. Il governo sceglierà di destinarlo come meglio crede. In questa vicenda esiste inoltre una confusione tra “politica” e legge dello Stato. Nella mentalità populista i due termini si confondono in un autoritarismo. In uno stato costituzionale di diritto, invece, una legge garantisce dagli arbitri dei politici. Tanto più se il suo oggetto è la libertà di espressione garantita dalla Costituzione che impedisce di ridurre a merce l’informazione e tutela il giornalismo in un mercato in crisi dominato da oligopoli mediatici e dalle piattaforme digitali pubblicitarie come Google o Facebook. Questo è il ragionamento fatto dal governo canadese che ha stanziato 595 milioni di dollari canadesi (400 milioni di euro) in 5 anni per sostenere la stampa. È la stessa idea che ispira il sostegno statale alla cultura, in tutte le sue forme, la ricerca o l’istruzione. Una visione del mondo che manca in Italia dove il mercato è usato per giustificare le decisioni della politica. Di Maio ha aggiunto in un’intervista a Sky che il problema “non è la libertà di informazione” ma “il conflitto di interessi”. Il tema rientra nel pacchetto di proposte per un rilancio dell’alleanza giallo-verde dopo le Europee. In attesa di scoprire in cosa consiste la nuova legge, il governo colpisce gli editori puri, rischia di creare una crisi occupazionale che graverà anche sul contribuente e, in nome del “mercato”, sta creando un’emergenza democratica. Il presidente della Camera Roberto Fico (M5S) ieri ha detto di non “potere garantire per il governo”, ma si è detto “convinto che nel nostro paese c’è e ci sarà sempre la libertà di stampa, pensiero e espressione”. Reporters sans frontières ha classificato l’Italia al 43° posto (su 180) per la libertà di stampa. L’anno prossimo il posizionamento potrebbe essere peggiore a causa degli atti del governo. In questo quadro si inserisce l’attacco a Radio Radicale alla quale il ministero dello sviluppo guidato da Di Maio taglierà il 20 maggio la convenzione del Ministero dello sviluppo con Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari, considerata un servizio pubblico. L’altra fonte di finanziamento è il sostegno all’editoria, anch’esso tagliato. Domani in piazza Mattei a Roma dalle 19 è prevista una maratona oratoria a sostegno della radio alla quale parteciperanno tra gli altri il sindacato dei giornalisti Fnsi e Stampa Romana, la Comunità Ebraica di Roma, Cgil, Cisl e Uil, scrittori e giornalisti. “Non si possono fare leggi per chiudere le voci delle differenze, nel mondo della comunicazione la libertà è aggiungere voci” ha detto Beppe Giulietti, presidente della Fnsi in un sit-in in piazza Santi Apostoli a Roma e poi in una presentazione ieri a Roma della “Carta di Assisi” un manifesto contro i “muri mediatici” firmato anche dai rappresentanti delle tre fedi monoteiste. “Se la Lega non è d’accordo con i Cinque stelle e con Crimi lo dica - ha aggiunto Giulietti - Voti l’emendamento che sarà presentato nei prossimi giorni e impedirà la morte di Radio Radicale e di centinaia di radio e di giornali. Difendere la libertà significa difendere anche le voci più distanti da te”. Il presidente della Repubblica Mattarella ha chiesto di “non lasciare soli i giornalisti minacciati” e ha rinnovato la sua solidarietà ai cronisti e ai familiari delle vittime. La presidente del Senato Elisabetta Casellati ha definito il giornalismo un “rigoroso baluardo di democrazia e legalità”. Radio Radicale non deve chiudere! Il Manifesto, 4 maggio 2019 Appello. Quali Professori di Diritto penale, esprimiamo grave preoccupazione per la prospettiva dell’imminente chiusura di Radio radicale. Infatti - ben lungi da qualunque presa di posizione nell’agone politico ed al di là di qualsiasi appartenenza partitica - non può essere disconosciuto il ruolo fondamentale di servizio pubblico che tale Radio ha svolto da decenni e svolge nell’informazione diretta, libera, pluralistica, anche e proprio in ordine a temi penalistici. Essa alimenta un dibattito democratico assolutamente indispensabile circa iniziative e discussioni parlamentari, processi penali di particolare rilievo pubblico, convegni giuridici su temi fondamentali di interesse penalistico, tenendo, non da ultimo, viva l’attenzione della collettività sulle condizioni carcerarie, dalle quali, da sempre, si misura il tasso di (in)civiltà di un Paese. Sottoscrivono: Paolo Aldrovandi, Alberto Alessandri, Giuseppe Amarelli, Enrico Mario Ambrosetti, Maristella Amisano, Elio Belfiore, Filippo Bellagamba, Roberto Bartoli, Fabio Basile, Alessandro Bernardi, Alessandro Bondi, Sergio Bonini, Filippo Bottalico, Alberto Cadoppi, Stefano Canestrari, Giovanni Caruso, Donato Castronuovo, Mauro Catenacci, Mario Caterini, Antonio Cavaliere, Cristiano Cupelli, Francesca Curi, Giovannangelo De Francesco, Cristina de Maglie, Giulio De Simone, Alberto De Vita, Angela Della Bella, Ombretta Di Giovine, Andrea Di Landro, Alberto di Martino, Emilio Dolcini, Massimo Donini, Andreana Esposito, Giovanni Fiandaca, Carlo Fiore, Stefano Fiore, Giovanni Flora, Luigi Foffani, Gabriele Fornasari, Gabrio Forti, Francesco Forzati, Marcello Gallo, Marco Gambardella, Alberto Gargani, Gian Luigi Gatta, Gianluca Gentile, Ciro Grandi, Giovanni Grasso, Roberto Guerrini, Gaetano Insolera, Silvia Larizza, Giorgio Licci, Carlo Longobardo, Giuseppe Losappio, Maria Beatrice Magro, Vincenzo Maiello, Stefano Manacorda, Vittorio Manes, Angelo Mangione, Adelmo Manna, Adriano Martini, Valentina Masarone, Luca Masera, Antonella Massaro, Anna Maria Maugeri, Leonardo Mazza, Alessandro Melchionda, Chantal Meloni, Antonella Merli, Vincenzo Militello, Sergio Moccia, Lucio Monaco, Vincenzo Mongillo, Gaetana Morgante, Francesco Mucciarelli, Tullio Padovani, Francesco Carlo Palazzo, Paolo Patrono, Marco Pelissero, Davide Petrini, Lorenzo Picotti, Carlo Piergallini, Paolo Pittaro, Stefano Preziosi, Domenico Pulitanò, Silvio Riondato, Lucia Risicato, Maurizio Riverditi, Bartolomeo Romano, Alessandra Rossi, Carlo Ruga Riva, Giandomenico Salcuni, Francesco Schiaffo, Marco Scoletta, Nicola Selvaggi, Sergio Seminara, Antonino Sessa, Rosaria Sicurella, Carlo Sotis, Alessandro Spena, Alfonso M. Stile, Luigi Stortoni, Kolis Summerer, Silvia Tordini Cagli, Valeria Torre, Antonio Vallini, Costantino Visconti, Roberto Zannotti. Il grido dell’Ucciardone in difesa di Radio Radicale Miriam Di Peri meridionews.it, 4 maggio 2019 “Non chiudete la nostra unica finestra sul mondo”. Intervista alla ex parlamentare Rita Bernardini, in visita ieri nel noto penitenziario di Palermo. L’esponente radicale racconta le grandi difficoltà che si vivono all’interno della struttura, ma anche la voglia di riscatto che riecheggia tra i padiglioni dell’istituto. Questa mattina, per Rita Bernardini, inizierà il suo 25esimo giorno di digiuno. La ragione è nota: se da Roma non cambieranno le cose, il prossimo 21 maggio sarà l’ultimo giorno di trasmissioni per Radio Radicale. Così ieri, ancora una volta, è stato rinnovato l’appello affinché la sua voce non venga spezzata. Un appello partito da Palermo, nella giornata mondiale per la libertà di stampa, e all’indomani della mozione approvata all’unanimità dall’Assemblea regionale siciliana in favore di Radio Radicale. La visita della ex parlamentare nell’Isola non si è limitata alla conferenza stampa. Al contrario, nel pomeriggio gli esponenti del Partito radicale hanno visitato il carcere Ucciardone di Palermo, a partire dal padiglione in cui si trovano le celle di isolamento. “Sono due piani - racconta Bernardini a Meridionews. Al piano terra si trovano i detenuti in isolamento diurno, che spesso arrivano lì per punizione. E poi c’è il primo piano, dedicato invece ai detenuti provenienti da altri istituti penitenziari. Definire le celle di isolamento fatiscenti - commenta - è assolutamente riduttivo. In un caso abbiamo persino trovato due detenuti nella stessa angusta cella. Senza contare che non c’è un solo scarico che funzioni e anche le docce sono in condizioni, diciamo così, che lasciano molto a desiderare”. Non va meglio guardando invece all’ora d’aria di chi - si potrebbe ritenere dall’esterno - dopo intere giornate tra quattro mura non vedrà l’ora di uscire all’aperto. “Non è così - replica ancora Bernardini - perché per il padiglione d’isolamento l’ora d’aria è rappresentata da una passeggiata in un corridoio angusto e fatiscente, con una rete sopra la testa. La maggior parte rinuncia alla propria ora e preferisce restare in cella. Purtroppo abbiamo registrato un grande disagio in quest’ala del penitenziario”. Diversa è invece la situazione nella parte recentemente ammodernata del penitenziario. “Lì le docce funzionano e le condizioni tutto sommato sono più vivibili - prosegue Bernardini -. I problemi in questo caso non sono strutturali, ma sociali. A partire dal fatto che dei 385 detenuti della struttura, appena un centinaio ha un lavoro, che spesso è proprio un servizio di utilità al penitenziario, mentre saranno una decina le persone che lavorano al pastificio. Per questa gente il lavoro è fondamentale - prosegue - è un modo per contribuire alle spese delle proprie famiglie o, semplicemente, di non gravare sui propri nuclei familiari. Sembrano funzionare le cose, invece, con gli educatori. Certo, dovrebbero essere 11 e al momento sono 10, però lavorano bene coi detenuti, organizzano loro attività. L’ultima che si sono inventati? Stanno restaurando e ridipingendo i vecchi sgabelli, ne vengono fuori delle vere e proprie opere d’arte”. E poi è un modo, insomma, per non dare di matto tra le mura di un carcere. “Sul fronte del diritto alla salute ci sarebbe tantissimo da fare, a cominciare dalle visite specialistiche da fare all’esterno o dagli esami. I tempi sono biblici e arrivare a una diagnosi - spiega - è molto complicato. Così si finisce per curare il dolore con gli antidolorifici, senza indagarne le cause. E poi ci sono tantissimi casi di persone con problemi psichici o vittime di tossicodipendenze”. “Eppure - ammette ancora l’esponente radicale - l’accoglienza dei detenuti dell’Ucciardone è sempre calorosa. Mi hanno chiesto della mia salute, si preoccupavano del mio sciopero della fame. E poi una cosa, con forza, hanno chiesto di riportare all’esterno: anche da loro, forse con più forza, giunge l’appello per tenere in vita Radio Radicale, l’unica realtà che dà voce ai loro problemi”. “Sì a una pubblica gara, ma non si chiuda la voce delle istituzioni” di Angelo Picariello Avvenire, 4 maggio 2019 Intervista al direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio. “Anche in Italia si verifica un alto numero di intimidazioni e atti ostili nei confronti dei giornalisti che esercitano la loro fondamentale funzione. Le istituzioni della Repubblica e la società civile hanno il dovere di sostenerli e non lasciarli soli”. Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio all’Unione cronisti. Ieri si celebrava la Giornata della Libertà di stampa, che quest’anno coincide in Italia con le scelte del governo in carica, che rischiano di far chiudere Radio Radicale tra 17 giorni e di mettere in difficoltà decine di testate giornalistiche, tra le quali Avvenire e Il Manifesto. Il Partito Radicale, con Rita Bernardini e Maurizio Turco, ha tenuto una conferenza stampa a Palermo. Mentre a Roma la Federazione della Stampa ha promosso un sit-in per richiamare l’attenzione sull’importanza dell’informazione libera. Siamo la voce delle istituzioni e siamo ancora fiduciosi che le istituzioni vogliano dare una risposta per la proroga del nostro servizio”. Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale non si rassegna alla chiusura. Ma il tempo stringe: “Siamo a meno di 20 giorni dal termine della convenzione per questo servizio che ininterrottamente esercitiamo, dalla gara vinta nel 1994 e prima ancora dal 1976. Ma non si è mai rifatta la gara. Non per scelta nostra, che abbiamo sempre continuato a chiederla. I diversi governi hanno optato per la proroga. Ci sono novità? L’Autorità per le comunicazioni la settimana scorsa ha fatto una segnalazione urgente al governo in cui parla di “servizio di interesse generale” che, anche se va messo a gara, in attesa dell’espletamento - si dice - non può essere interrotto, e chiede quindi la proroga dal ministero dello Sviluppo economico. Il nostro augurio è che il governo voglia prenderla in considerazione. C’è chi ha da ridire sulla qualità del servizio? C’è la quasi totalità dei gruppi di opposizione a nostro sostegno, ma ci sono anche nella maggioranza, ad esempio, 6 senatori del M5s che hanno sottoscritto la mozione di Loredana De Petris e 24 deputati della Lega che hanno sottoscritto la mozione di Giuseppe Basini, che è - appunto - un deputato leghista. Primo Di Nicola, vicepresidente della Vigilanza Rai, del M5s aveva anticipato tutti, sostenendo la stessa tesi che l’Authority avrebbe fatto sua. C’è anche il patrimonio dell’archivio. Proprio in questi giorni abbiamo scongiurato con successo il rischio del bug del milionesimo documento registrato. Nel governo vedi spiragli? Dopo dichiarazioni molto negative, due giorni fa abbiamo registrato su Raidue un’importante presa di posizione di Di Maio che ha assicurato che verrà trovata una soluzione, e anche da Salvini ci è parso di cogliere un’apertura verso la proroga. E ai cittadini che potrebbero vederci un’operazione della “casta”, che cosa si può dire? Che siamo il contrario della casta. Siamo le istituzioni che arrivano nella casa di tutti i cittadini, e non è un bene interrompere questo servizio. C’è la storia del Paese: incontri, processi, momenti di vita vera, accessibili a tutti senza filtri. Che effetto fa avere anche la solidarietà di Avvenire? Pur nella diversità, abbiamo punti in comune. Noi, come Avvenire, ci ritroviamo a raccontare le cose che non tutti raccontano. E il nostro è un servizio per tutti: l’ultimo discorso di Aldo Moro ai gruppi parlamentari è stato donato da Gero Grassi a noi, nella convinzione che fosse il luogo giusto per mettere un pezzo di storia a disposizione di tutti. Il razzismo: né regressione all’istinto, né odio e paura, ma strumento del potere di Annamaria Rivera repubblica.it, 4 maggio 2019, 4 maggio 2019 È da almeno trent’anni che studiosi/e italiani/e, avendo posto il tema del razzismo al centro del proprio impegno intellettuale e politico, onde contrastarlo, lo analizzano e ne scrivono come di un fenomeno eminentemente storico, sociale, politico. Per meglio dire, come una costruzione storica peculiare che, nata in Europa in età moderna, ricompare e/o si riattiva in contesti e situazioni determinati. È da altrettanto tempo che essi/e ne individuano il meccanismo centrale nella tendenza a etologizzare il sociale e il culturale, a razzizzare le differenze reali, presunte o del tutto immaginarie di coloro che sono considerati altri: il razzismo antiebraico, quello antislavo e l’antialbanese costituiscono altrettanti esempi del fatto che esso non ha necessariamente come bersagli i differenti, bensì coloro che sono considerati, rappresentati e trattati come tali. Questa scuola di pensiero, che deve molto a correnti francesi, ma anche alla teoria critica francofortese, ha cercato di sottrarre l’analisi del razzismo alle pseudo-teorie che lo interpretavano nella chiave dell’innatismo: cioè come effetto della “naturale” aggressività della specie umana, soprattutto verso i non-appartenenti al proprio gruppo. Ed ecco che il 16 aprile scorso, sulle pagine del Manifesto, appare un editoriale dal titolo inequivocabile: “Come uscire dagli spiriti animali per restare umani”. L’autore, il giornalista e scrittore Guido Rampoldi afferma - citando il primatologo Robert M. Sapolsky ed echeggiando, forse inconsapevolmente, tesi alla Konrad Lorenz - che coloro i quali sono “soliti attribuire queste animosità a cause economiche e sociali”, sbagliano clamorosamente: il razzismo è “regressione nelle strutture più antiche del Noi/Loro”, lo abbiamo ereditato dai primati, in particolare dai macachi, i quali sarebbero assai aggressivi verso i simili non appartenenti al proprio gruppo. Sicché al Calderoli che osò insultare come orango la ministra Cécile Kienge si sarebbe dovuto obiettare che “in lui c’è molto del macaco”, scrive Rampoldi. In tal modo egli rovescia, paradossalmente e forse inconsapevolmente, il famoso aforisma di Theodor W. Adorno (Minima moralia, 68): “L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom”. Oltre tutto, se ciò che il giornalista asserisce avesse qualche fondatezza, come conciliarlo con l’abusata esortazione a “restare umani”? Non sarebbe più coerente con il luogo comune della nostra innata aggressività verso gli altri affermare che dovremmo trascendere gli istinti ereditati dai primati? L’autore dell’articolo se la cava banalmente con “la nostra inarrivabile capacità di correggere l’istinto con i processi cognitivi”. Così si chiude il cerchio del biologismo e dell’innatismo, ma anche dello specismo; e non troppo brillantemente. Anche perché il Nostro sembra ignorare che “i processi cognitivi” non sono dote esclusiva dell’ homo sapiens. Oltre tutto, sorvola su un’altra categoria di ominidi (purtroppo a rischio di estinzione per causa degli umani), che avrebbe smentito la sua tesi sommaria. Alludo ai bonobo, prevalentemente vegetariani, la cui società - secondo Frans de Waal e alcuni altri primatologi - è caratterizzata perlopiù dalla convivenza pacifica, dall’uguaglianza fra maschi e femmine, se non dal matriarcato, da un’esuberante attività sessuale, anche omosessuale, che contribuisce a mitigare tensioni e conflitti all’interno del gruppo, nonché dall’empatia verso gli altri, pure di specie diverse. Dunque, se proprio fossimo alla ricerca di qualche slogan originale da gridare nei cortei, potremmo coniare qualcosa come “Diventiamo bonobo”. La proposta - si sarà capito - è una boutade. Assai seria, invece, è la questione del perché mai nelle manifestazioni antirazziste italiane (soprattutto in quelle contro la strage di profughi nel Mediterraneo) dilaghino cartelli e striscioni che esortano a restare umani, echeggiando la frase del povero Vittorio Arrigoni, pronunciata in tutt’altro contesto. Eppure la nostra specie è probabilmente la sola capace di programmare e attuare deliberatamente torture ed eccidi di massa, stragi e genocidi. È da osservare anche come in buona parte del discorso antirazzista corrente (che sia strutturato o spontaneo, pronunciato da taluni dotti o trasposto in slogan) tendano a predominare categorie etiche, per meglio dire moraleggianti, in luogo di quelle politiche: affermare che il razzismo sarebbe frutto dell’odio o della paura suscitati dagli altri appartiene a questa tendenza. All’opposto, categorie politiche quali classismo, neoliberalismo, capitalismo, neocolonialismo, imperialismo, neofascismo, se non sono abbandonate, comunque assai poco si rispecchiano in parole d’ordine. Ed è anche per questa ragione che perlopiù si è incapaci di comprendere la matrice di aggressioni e pogrom verso rom e persone immigrate o rifugiate che si consumano in quartieri popolari urbani, il più delle volte istigati da formazioni di estrema destra. A provocarli non sono già la paura e l’odio, semmai l’incapacità o l’impossibilità di agire il conflitto di classe, anche per responsabilità di una sinistra politica che ha abbandonato quel che un tempo si diceva lavoro di massa. In tal modo, frustrazione e rancore suscitati dalle condizioni sociali che si vivono sono deviati (come ho scritto troppe volte) verso capri espiatori, i più vulnerabili. Per concludere. Al tempo del governo fascio-stellato, che ha fatto del razzismo e dell’autocrazia le sue bandiere, ben altro ci vorrebbe per tentare di arrestare una deriva che ormai sembra volgere verso la catastrofe. Etologizzare o moraleggiare intorno a ciò che è squisitamente politico, oltre che sociale e culturale, non è un gran contributo a frenarla. Migranti. Le mani sull’accoglienza: le multinazionali fiutano l’affare di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 maggio 2019 “Le bugie di Salvini vengono al pettine. Adesso è chiaro che il “decreto sicurezza”, voluto dalla Lega e trasformato in legge con i voti del Movimento 5 Stelle, apre la gestione dell’accoglienza alle grandi società che della vita dei migranti hanno fatto un business”. Francesco interviene dal microfono nel mezzo di un presidio contro Ors, multinazionale specializzata nel settore che da qualche mese ha una sede anche in Italia, nel quartiere Trieste di Roma. A pochi passi dai suoi uffici, gli attivisti di Restiamo Umani espongono alcuni cartelli e un grande striscione: “Salvini vergogna. Porti chiusi, ma porte aperte agli sciacalli della finanza”. “Restiamo umani è una rete che unisce associazioni, comitati, centri sociali e studenti per agire contro il razzismo dilagante - dice Marco - Nei mesi scorsi ci siamo mobilitati contro le politiche che hanno riempito il Mediterraneo di morti. Oggi denunciamo gli interessi economici nascosti dietro le politiche di questo governo, che sta mettendo l’accoglienza nelle mani di grandi società straniere come la Ors”. Il ragionamento è semplice: con i tagli lineari ai fondi destinati a garantire vitto, alloggio e servizi fondamentali a richiedenti asilo e rifugiati gli unici soggetti competitivi saranno quelli capaci di ridurre i costi grazie a economie di scala. Tradotto? Chiuderanno, e sta già accadendo, tutte le piccole esperienze virtuose che redistribuivano sul territorio gli introiti. Proprio quelle che davano lavoro a operatori sociali, mediatori, insegnanti e psicologi e garantivano percorsi di integrazione finalizzati alla progressiva autonomia dei migranti. Rimarranno sul mercato, invece, le multinazionali che dispongono dei capitali necessari ad aprire mega-centri e gestire su grandi numeri servizi improntati più alla compressione delle spese che alla qualità dell’offerta. Tra questi si colloca Ors. Lo ha denunciato “Valori”, testata giornalistica promossa da Banca Etica, in un dossier di gennaio 2019 presentato alla Camera dei deputati e intitolato: “Migranti, gli sciacalli della finanza brindano a Salvini”. Le informazioni raccolte descrivono una multinazionale dell’accoglienza con affari in Svizzera, Austria e Germania, consiglieri provenienti dai recenti esecutivi svizzeri e austriaci e un’intricata rete di finanziatori che coinvolge capitali sauditi, società londinesi e fondi pensione statunitensi. Il 25 luglio scorso Ors Italia Srl si è iscritta al registro imprese della Camera di commercio di Roma. Un mese dopo ha dichiarato che avrebbe partecipato “a bandi di gara nei settori dell’alloggiamento, assistenza, consulenza sociale e integrazione per profughi e richiedenti asilo”. Jürg Rötheli, Ceo del gruppo, ha confermato che “l’Italia rappresenta un primo importante passo per l’espansione nel Mediterraneo”. “Abbiamo contestato anche l’accoglienza del centro-sinistra - conclude un altro attivista - ma qui siamo davvero all’assurdo: dicono di voler tagliare il business ma lo consegnano nelle mani di grandi investitori, parlano di sovranismo ma aprono le porte alle multinazionali”. Stati Uniti. La guerra di Letitia a oppiacei e armi, a New York tremano le lobby di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 4 maggio 2019 La super procuratrice nel giro di quattro mesi ha messo sotto accusa la Pharma Purdue e la National Rifle Association. Ora sta indagando sulla Trump Organization e Foundation. Nel giro di quattro mesi Letitia James ha già messo sotto accusa un’industria potente come la Pharma Purdue della famiglia Sackler e la lobby più influente del Paese, la National Rifle Association. Non basta. La Procuratrice dello Stato di New York sta indagando sulla Trump Organization e sulla Trump Foundation, cioè sugli affari e le relazioni private del presidente. Letitia James, 60 anni, è la prima donna e la prima afroamericana a raggiungere questo incarico, potenzialmente uno dei più importanti nel sistema giudiziario americano. Nella sua giurisdizione ricadono le banche e le finanziarie di Wall Street; le grandi corporation; gli intrecci tra politica e affari che storicamente fanno di New York una metropoli ad alto tasso di corruzione. Letitia conosce da sempre il territorio. È nata a Brooklyn, non lontano dal quartiere “black” di Fort Greene (la base del regista Spike Lee). Frequenta le superiori in una scuola pubblica. Poi il padre le propone di sposare un idraulico. Letitia, invece, si iscrive alla Howard University School of Law a Washington. Quando torna a casa, comincia a lavorare come avvocato e a fare politica con il partito democratico, su posizioni radicali. Competenza giuridica e spirito militante. Costituisce subito un’associazione di legali afroamericani, si occupa di cause promosse da consumatori o risparmiatori vessati. Alla fine degli anni Novanta, l’allora governatore Mario Cuomo la chiama nell’amministrazione dello Stato di New York. Ma nel 2001 decide di allontanarsi dai democratici e si presenta con un terzo partito, “The Working families party” alle elezioni comunali. Perde, ma ci riprova nel 2003 e questa volta conquista il seggio. Resta nel consiglio comunale fino al 2013, riavvicinandosi nel frattempo al partito democratico e trovando il tempo per ottenere un Master of public administration alla Columbia University di New York. Probabilmente tutto ciò sarebbe bastato per riempire la vita di molte persone. Ma oggi è facile osservare come per Letitia quelle esperienze siano state solo una preparazione a un ruolo di primo piano nel Paese. Negli Stati Uniti la carica di Procuratore generale è elettiva. E nel corso della campagna nell’autunno del 2018, James ha usato toni e promesso interventi come se fosse una leader di partito. Una volta eletta, è passata all’azione. Nel marzo scorso ha aperto un’inchiesta su alcuni componenti della famiglia Sackler, accusati di aver imboscato milioni di dollari nei paradisi fiscali per metterli al riparo dalle richieste di risarcimenti avanzate dalle vittime degli oppioidi. Ai Sackler fa capo la Purdue Pharma, produttrice dell’antidolorifico OxyContin, un farmaco che dà dipendenza e diventato nel tempo un sostituto delle droghe. Poi avanti con la National Rifle Association, l’organizzazione che raggruppa più circa cinque milioni di possessori o venditori di armi. Il 27 aprile la Procuratrice ha avviato un’indagine per verificare se davvero la Nra possa essere considerata un’associazione non profit e quindi esente dalla tassazione. In passato Letitia era stata brutale: “La Nra è un’organizzazione terroristica”. Le mosse della magistrata, come nota il sito “The Hill”, hanno suscitato la reazione furibonda della famiglia Sackler, hanno costretto alle dimissioni il presidente della Nra Oliver North e allarmato Donald Trump. È lui il prossimo della lista. Nasrin Sotoudeh: lettere ai miei figli da un carcere iraniano traduzione di Maria Sepa Corriere della Sera, 4 maggio 2019 Nasrin Sotoudeh è la più celebre avvocata dei diritti umani, è stata condannata a 38 anni e mezzo di carcere e 148 frustate per aver fatto il suo lavoro. Dalla cella scrive a Mehraveh e Nima: “Questo dolore non è inutile”. Ciao mio caro Nima, scriverti una lettera è molto difficile. Come posso dirti dove sono quando sei così innocente, e troppo giovane per capire il vero significato di parole come prigione, arresto, processo e ingiustizia? La settimana scorsa mi hai chiesto: “Mamma, vieni a casa con noi oggi?”. E sono stata costretta a risponderti, davanti agli agenti della sicurezza: “Il mio lavoro richiederà un po’ di tempo, quindi verrò a casa più tardi”. Hai allora annuito, come per dire che avevi capito, mi hai preso la mano e le hai dato un bacio dolce con le tue piccole labbra . Come posso spiegarti che nessun “lavoro” potrebbe mai tenermi così lontano da te? Mio caro Nima, negli ultimi sei mesi mi sono trovata a piangere senza controllo in due occasioni. La prima, quando è morto mio padre e non ho potuto partecipare al suo funerale. La seconda, quando mi hai chiesto di tornare a casa e non potevo farlo. Mio carissimo Nima, nei casi di affidamento dei minori e di diritto di visita dei genitori, i tribunali hanno più volte stabilito che un bambino di tre anni non può essere lasciato al padre per più di 24 ore, perché i tribunali credono che una separazione più lunga dalla madre comporti un danno psicologico a un bambino piccolo. Questo stesso sistema giudiziario sta ignorando i diritti di un bambino di tre anni con il pretesto che sua madre sta cercando di “agire contro la sicurezza nazionale” del Paese. Voglio che tu sappia che, come donna, sono onorata di aver difeso molti difensori dei diritti umani. Spero in giorni migliori. Mama Nasrin Alla mia cara Mehraveh, mia figlia, mio orgoglio e gioia, sono passati sei mesi da quando sono stata portata via dai miei amati figli. In questi sei mesi ci è stato consentito di vederci solo un paio di volte e, anche in quel caso, in presenza di agenti della sicurezza. Durante questo periodo non mi è mai stato permesso di scriverti, di ricevere una foto o di incontrarti liberamente senza restrizioni. Mia cara Mehraveh, tu, più di chiunque altro, capisci il dolore del mio cuore e le condizioni in cui ci è stato permesso di incontrarci. Ogni volta, dopo ogni visita e ogni singolo giorno, mi dibatto nel dubbio di aver abbastanza considerato e rispettato i diritti dei miei figli. Più di ogni altra cosa, ho bisogno di essere sicura che tu, mia amata figlia, nella cui saggezza credo molto, non mi abbia accusato di violare i diritti dei miei figli. Una volta ti ho detto: “Figlia mia, spero che non penserai mai che non abbia pensato a te o che le mie azioni meritassero una tale punizione... Tutto ciò che ho fatto è legale e condotto nell’ambito della legge”. Allora mi hai accarezzato amorevolmente il viso con le tue piccole mani e hai risposto: “Lo so, mamma … lo so...”. È in quel giorno che mi sono liberata dall’incubo di essere giudicata da mia figlia. È stato il desiderio di proteggere i diritti di molti, in particolare i diritti dei miei figli e il tuo futuro, a spingermi a rappresentare questi casi in tribunale. Credo che il dolore che la nostra famiglia e le famiglie dei miei clienti hanno dovuto sopportare negli ultimi anni non sia inutile. La giustizia arriva proprio quando la maggior parte delle persone hanno rinunciato alla speranza. Mi manchi carissima e ti mando cento baci. Maman Nasrin Ciao mio carissimo Nima, non so come iniziare questa lettera. Come posso dimenticare che quest’anno devi iniziare la scuola senza né me né tuo padre al tuo fianco, e dirti semplicemente che quest’anno è un anno normale, come ogni altro? Come posso chiederti di andare a scuola in orario, fare i compiti, studiare bene e fare il bravo bambino fino al nostro ritorno? Odio doverti dire queste cose come madre, perché so che nella tua giovane vita hai dovuto vivere il costante trauma delle visite in prigione, del divieto di venire a trovarmi e la paura dell’ingiustizia. Ti mando le mie lacrime d’amore, sperando che rendano l’ingiustizia del nostro tempo un po’ più tollerabile per te. Ti mando migliaia di baci perché non ti vedo da troppo tempo. Maman Nasrin Yemen. Sulla linea del fronte: cecchini, mortai e bambini mutilati di Giordano Stabile La Stampa, 4 maggio 2019 I ribelli Houthi tre anni è mezzo fa, aiutati dall’Iran, hanno lanciato l’attacco alla capitale Sana’a costringendo alla fuga il presidente Hadi. Appena la strada sterrata, ripida, s’interrompe, fra bossoli, rottami di razzi, antenne mezze abbattute, la valle appare giù in fondo, come un precipizio. La montagna, da quel lato, sembra tagliata da un coltello, in verticale. Sotto, mille metri più in basso, si vedono le case del villaggio di Al-Barran, le finestre vuote come gli occhi di un teschio. Da mesi non ci abita più nessuno. È la terra di mezzo fra il regno degli Houthi e le linee dell’esercito nazionale yemenita, che ha strappato il cucuzzolo ai guerriglieri sciiti dopo un’offensiva di mesi, estenuante, per snidare i cecchini, i mortai, le postazioni dei lanciarazzi dalle valli strette, pietrose, micidiali per le imboscate. L’ultima postazione è un muretto di pietre accatastate e una feritoia dove Abdul Hassan appoggia la mitragliatrice da 7.62. Come i compagni indossa una specie di divisa, e il turbante tradizionale che può essere sciolto per coprire il viso e ripararsi dalla polvere o dagli sguardi indiscreti. Sono miliziani riciclati nelle forze armate regolari, alcuni ancora con i sandali, gente del posto, gli unici che possono combattere fra queste vette che sfiorano i tremila metri. La trincea è un punto di osservazione, e non si può sostare a lungo perché è esposta al fuoco. Gli Houthi sono appostati dal lato opposto della valle e se notano movimenti tirano. “L’altro giorno - raccontano - un razzo ci ha mancato di poco”. Bisogna ripararsi poco sotto la vetta. “Sana’a si trova a 36 chilometri - spiega il generale Ahmed Hassan Joubran, responsabile del fronte nel distretto di Naham. È il punto più vicino alla capitale e gli Houthi si sono fortificati in modo incredibile, temono uno nostro blitz”. Riconquistare Sanaa è il principale obiettivo del governo di Abdrabbuh Mansur Hadi e della Coalizione a guida saudita che lo appoggia contro i ribelli sciiti, sostenuti dall’Iran. Lo Yemen, adesso ancor più della Siria, è il campo di battaglia nella sfida fra sauditi e iraniani per l’egemonia in Medio Oriente, ma i governativi sono bloccati in una guerra di posizione. “Quando arriveremo a Sanaa? Qariban, presto”, ribatte il generale. Poi aggiunge “inshallah, se Dio vuole”. Il che vuol dire fra mesi, forse anni. Nel febbraio 2015 gli Houthi hanno cacciato il presidente Hadi dalla capitale è si sono impadroniti di un terzo dello Yemen. Un blitz devastante con l’aiuto dell’ex raiss Ali Abdullah Saleh, che li ha fatti dilagare a Sud fino ad Aden, e a Est alle porte della cittadina di Marib, lo spartiacque fra lo Yemen delle montagne e del deserto. L’intervento della Coalizione sunnita, che comprende 10 Paesi, quelli del Golfo, l’Egitto, il Sudan, gli ha impedito di catturare Hadi, poi fuggito a Riad, e prendersi tutto il Paese. La controffensiva è cominciata due anni fa e adesso i governativi hanno in mano “dell’85 per cento del territorio yemenita”. Il difficile viene ora. La valle che scende verso Sanaa è “saturata da milioni di mine”. È incassata, una colonna in movimento sarebbe esposta ai tiri dei cecchini, dei missili anticarro. Un incubo. L’esercito yemenita è composto sulla carta da 300 mila uomini, contro i 70 mila stimati per gli Houthi. Ma per la composizione tribale dello Yemen, soltanto quelli che provengono dalla provincia di Sana’a sono davvero disposti ad avanzare. Gli altri sembrano un esercito nomade accampato sulle montagne. Ai lati della strada che sale da Marib le tende dei soldati crescono come una fungaia. Tendoni mimetici coprono i vecchi carri T-55, cannoni da 122 millimetri, mortai, qualche lanciarazzi Katiusha. Piccoli recinti custodiscono le capre, di rinforzo ai rifornimenti alimentari. Il grosso del lavoro è fatto da robusti pick-up Toyota, muli che si inerpicano su strade impossibili, fra le rocce che il sole implacabile che rende quasi bianche, fra pochi arbusti, acacie che sembrano anch’esse sofferenti, piegate da una natura troppo aspra. Solo a un tratto, fra un curva e l’altra, appare un torrente, color smeraldo, un miraggio. Dall’altro lato, raccontano i soldati fuggiti da Sana’a, che tirano avanti masticando tutto il giorno foglie di qat, una pianta stimolante, è “tutta un’altra cosa”, una valle verde, coltivata, irrigata dalle piogge estive, un “paradiso”. Molti hanno ancora le famiglie là. In un inferno. La “peggiore crisi umanitaria” del pianeta, come è stata definita dall’Onu, che ha appena aggiornato il bilancio di quattro anni di conflitto. Cento duemila morti nei combattimenti, 131 mila di fame e malattie, soprattutto il colera che ha fatto strame di bambini. Gli Houthi, dopo aver perso Aden, si sono asserragliati sulle montagne, in quello che era l’antico imamato, un regno di mille anni che si è aperto al mondo nel 1962, come repubblica nell’ex Yemen del Nord. Il nuovo regno degli Houthi è assediato, retto con pugno di ferro, ma senza quasi più cibo, con la principale via di sostentamento dal porto di Hodeidah, sul Mar Rosso, anch’esso circondato e salvo soltanto in virtù di una tregua imposta dall’Onu per permettere l’afflusso degli aiuti umanitari. È un rivolo insufficiente, tanto che le Nazioni Unite stimano in 13 milioni le persone “a rischio alimentare”, alla fame. Tutti quelli che possono, che hanno qualche soldo per corrompere le guardie ai posti di blocco, scappano, soprattutto verso Marib, la provincia confinante verso Est. Marib è passata da 140 mila abitanti a più di un milione. I profughi vivono in campi tutto attorno al centro abitato, che si allarga in una febbre di costruzioni. L’impressione è che la Coalizione voglia trasformarla in un centro logistico, perché la marcia su Sanaa sarà molto lenta. Una base saudita si è dotata di sistemi anti-missile Patriot, e presto avrà una pista per gli aerei. I profughi trovano lavoro soprattutto nell’edilizia. Nei loro racconti il regno degli Houthi è sempre più cupo. I miliziani sciiti, con risorse agli sgoccioli, prendono di mira le famiglie reputate poco “leali”, impongono tasse, costringono i genitori a inviare al fronte figli appena adolescenti. È il caso di Mohammad al-Foulay, 32 anni. Nella tenda con la moglie e i tre figli, vestito con l’abito tradizionale dalla larga cintura che accoglie il pugnale ricurvo, racconta di essere rimasto in un carcere, accusato di “tradimento”, per quasi due anni, picchiato, torturato con scosse elettriche. Mohammad si ritiene fortunato perché i figli “erano troppo piccoli per essere arruolati”. Secondo la Wethaq Foundation sono 12.433 i bambini soldati registrati nello Yemen, il 75 per cento nelle file degli Houthi, gli altri fra i governativi. A Marib un centro finanziato dal King Salman Humanitarian Aid and Relief Centre ne sta curando 242. L’edificio a due piani assomiglia a un collegio, le stanze per dormire linde e ordinate, piene di giocattoli e disegni. Nel centro ci sono una trentina di bambini, magri, gli sguardi diffidenti, spaventati, alcuni consunti dallo stress e dalle anfetamine che davano loro per spingerli all’attacco. Bashar, 14 anni, racconta di essere stato preso con la forza all’uscita dalla scuola, poi spedito al fronte, ferito, ricoverato in un ospedale da dove è riuscito a fuggire. Il direttore del centro, Abdul Rahman al-Qobati, racconta che la maggior parte dei bambini vengono raccolti per strada, e che non tutte le famiglie “li rivogliono indietro”. La riabilitazione dura 45 giorni, è condotta in primo luogo da uno psicologo. Alcuni hanno subito anche mutilazioni e sempre in città è stato istituito un centro per l’impianto di protesi. Il disastro umanitario in Yemen pesa nei rapporti fra l’Arabia Saudita e gli alleati occidentali. Riad reagisce con l’invio massiccio di aiuti, che ora assommano a 11,2 miliardi di dollari. Cibo, medicinali, concentrati però nella parte controllata dai governativi. Al comando della Coalizione, nel ministero della Difesa saudita a Raid, insistono che viene fatto tutto il possibile per evitare “danni collaterali”, vittime civili. “Ogni raid aereo richiede giorni di osservazioni - spiegano. Gli Houthi si mescolano ai civili. Ci sono 45 mila obiettivi che non possiamo colpire perché vicini a case, scuole, ospedali; prima di ogni attacco chiediamo il parere di un avvocato, che dice quasi sempre no”. I Paesi europei, inclusa l’Italia, sono sotto pressione per la fornitura di bombe e per convincerli della propria buona fede la Coalizione ha invitato esperti occidentali alla valutazione dei raid. Quella aerea è però l’unica arma che può permettere all’esercito yemenita di prevalere sui guerriglieri della montagna. I sauditi hanno duemila militari sul terreno, e una buona parte serve a valutare gli obiettivi. L’Arabia Saudita, spiega il portavoce della Coalizione, generale Turki al-Malki, non può permettersi “di avere un Hezbollah alle porte di casa, manovrato e armato fino ai denti dall’Iran, compresi i missili balistici che minacciano persino Riad”. La Coalizione è pronta un compresso, a un accordo politico che includa “anche gli Houthi, ma disarmati”. La fine della guerra, per via militare o politica, è lontana. Si profila una nuova offensiva, con lo scopo di “fare pressione e costringerli a sedersi a un tavolo, come è successo dopo l’attacco su Hodeidah”. In cima alla montagna aspettano soltanto l’ordine.