Carcere e malattia mentale, perché è una svolta culturale la cura fuori le mura di Massimo Ponti Left, 3 maggio 2019 È una sentenza importantissima per il diritto alla salute dei detenuti quella depositata il 19 aprile (n. 99) dalla Corte costituzionale in cui si stabilisce - detto in estrema sintesi - che le persone con gravi patologie mentali si possono curare fuori dal carcere. Finalmente con questa sentenza la Consulta permette al giudice di valutare se la malattia psichica sopravvenuta durante la detenzione sia compatibile con la permanenza in carcere oppure si possono prevedere possibilità di cura al di fuori, anche se la pena residua è superiore ai quattro anni. Naturalmente il detenuto dovrà essere trasferito in luoghi pubblici di assistenza ed accoglienza con modalità che garantiscono sia il percorso di cura e sia la sicurezza. La cura fuori dal carcere era prevista fino adesso solo per le malattie fisiche con la formula della detenzione domiciliare “umanitaria”, adesso si è finalmente arrivati all’equiparazione della malattia psichica con quella fisica. C’è da L’autore chiedersi dove nasce questo vuoto legislativo? Noi siamo legati purtroppo al vecchio e anacronistico sistema legislativo del Codice Rocco del 1930, che prevede un sistema a Doppio Binario, cioè da una parte l’imputabilità e la pena e dall’altra la pericolosità sociale e le misure di sicurezza. Cioè la condanna a pene detentive si affianca un sistema di misure di sicurezza volte a proteggere la società dai soggetti socialmente pericolosi. Perfino Marco Aurelio era contrario alle punizioni con il concetto di discernimento, egli affermava che non si può punire il soggetto perché è egli stesso punito a sufficienza dalla stessa pazzia. Ma vorrei sottolineare che oltre al vuoto legislativo esiste anche un vuoto che è culturale e, come rilevava lo psichiatra Massimo Fagioli, “essere malati significa essere cattivi”. La malattia mentale è stata vista sempre come incurabile, inguaribile e pericolosa, e la psichiatria nell’affrontarla non è poi cambiata tanto da quel “trattamento morale” che si prefiggeva nell’Ottocento Esquirol, per poi arrivare fino a noi con il solo abbattere i muri dei manicomi di Basaglia con la legge 180, lasciando il malato solo nella sua drammatica disperazione d’incurabilità. Nei casi di malati autori di reo la psichiatria ha sempre delegato la magistratura nella gestione del problema in base a quella millenaria ideologia che la violenza è propria della natura umana. Ci voleva una ricerca nuova sulla realtà mentale umana, una ricerca su quella dimensione non cosciente che aprisse una possibilità di cura e di guarigione. Tornando alla Consulta, questa conquista rispecchia le condizioni già presenti con il decreto ministeriale del 1 aprile del 2008 quando viene affidata al Servizio sanitario nazionale l’intera gestione della sanità degli istituti di pena, fino a quel momento gestita dall’amministrazione penitenziaria. Poi con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e la nascita delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza la situazione psichiatrica sembrava potesse cambiare ma non è stato così. Si è molto alleggerita ma a tutt’oggi sono aumentati di molto i suicidi in carcere: nel 2018 sono stati 64, e 1.197 i tentativi, senza contare i casi di autolesionismo ecc. Indubbiamente la questione psichiatrica non può essere gestita a livello custodialistico semplicemente perché è un problema medico e tale deve essere affrontato con tanto di protocollo medico, diagnosi e percorso curativo. All’interno del carcere purtroppo la delega del problema e il trattamento rischia di essere spesso unicamente di tipo farmacologico. Sappiamo però ormai che la psichiatria ha una sua identità medica quando è anche psicoterapia e senza disdegnare l’apporto psicofarmacologico il messaggio latente espresso in questa decisione della Consulta va in questa direzione. E cioè il carcere lasciamolo a chi deve fare un percorso di rieducazione, lavoro non da poco neanche quello. La malattia mentale invece va curata osservando tre condizioni basilari per la sua efficacia: setting, transfert, interpretazione. Solo affrontando il pensiero non cosciente si possono aiutare anche pazienti autori di reo. La fuga dei giudici verso la pensione: “Delusi dal sistema” di Errico Novi Il Dubbio, 3 maggio 2019 Lepre, togato Csm: “qualità del lavoro ai minimi”. Doveva pur esserci un motivo, dietro il successo riportato da Antonio Lepre alle ultime elezioni per il Csm. E il motivo è evidentemente nella sua ostinata attenzione per le condizioni di lavoro dei magistrati. Non che si tratti di un’emergenza sconosciuta, per chi si candida all’autogoverno o all’Anm. Ma Lepre - fino a pochi mesi fa in servizio come pm alla Procura di Paola e ora consigliere per Magistratura indipendente affronta il tema della “sostenibilità” in modo scientifico: “Serve metodo, ossia l’elemento spesso venuto meno nei tentativi di migliorare l’amministrazione della giustizia”. In nome del metodo, e in qualità di presidente della quarta commissione, il togato di “Mi” si è messo a studiare i dati sulle richieste di prepensionamento. Ossia sui colleghi che fanno domanda per lasciare la magistratura prima di raggiungere la soglia anagrafica massima, scesa peraltro a 70 anni. Ebbene, le statistiche dicono che negli ultimi due anni si è assistito a una vera e propria “fuga dalla giurisdizione”: molti magistrati, “soprattutto delle Corti superiori”, hanno chiesto al Csm di essere congedati non appena varcata la soglia dell’anzianità funzionale, ossia i 40 anni di servizio. Come riportato due giorni fa in un ampio articolo dal Mattino, sono 232 le domande evase solo nell’ultimo anno e mezzo, un’altra trentina di “prepensionandi” attende la delibera del Consiglio. “Fa impressione anche la qualità dei magistrati ansiosi di andarsene”, osserva Lepre, “spesso fior di colleghi: solo a Napoli si va dal presidente del Tribunale Ettore Ferrara alla presidente della prima sezione della Corte d’appello Maria Cultrera”. Già i dati inquietano. Inquieta ancor di più la lettura che ne dà Lepre: “C’è sfiducia nella possibilità di vedere risolti i problemi. I nodi della giustizia si cronicizzano anziché sciogliersi. E il male ormai divenuto un incubo è nel carico smisurato, nell’abnorme domanda di giustizia che impedisce letteralmente al magistrato di lavorare sulla qualità della decisione. Si è costretti a seguire solo la logica della massima quantità. Che appunto è criterio inconciliabile con l’idea di rendere sul serio giustizia”. Non che dal Csm non fossero arrivate, già in passato, denunce simili. “Ma questa consiliatura”, avverte Lepre, “non farà passare sotto silenzio la questione della qualità e della sua compressione, divenuta ormai inevitabile”. Con simili premesse pare destinata a consolidarsi la consonanza fra magistratura e avvocatura: il rischio di schiacciare la qualità della giurisdizione sotto il peso della sempre maggiore ansia da arretrato è stato denunciato tante volte dal presidente del Cnf Andrea Mascherin. Lepre nota come “le richieste di prepensionamento incidano in modo più pesante nelle Corti d’appello e in Cassazione, ossia proprio lì dove ci si aspetterebbe di poter svolgere un’attività di pensiero, di analisi dei problemi giuridici. Anche la Suprema corte invece trasfigura ormai in sentenzificio”. Colpisce anche come la generazione in fuga “sia in particolare quella che è stata protagonista in un’epoca importante come Tangentopoli”. Lo stridore fra la stagione del primato della giustizia e l’attuale delusione è ancor più insostenibile. Ma ci sarebbero due direttrici seguite dall’attuale guardasigilli, Alfonso Bonafede, che parrebbero venire incontro proprio al disagio scoperchiato da Lepre: la riforma mirata a minimizzare i cosiddetti tempi morti, sia nel processo civile che nel penale, e l’aumento di 600 unità dell’organico dei magistrati. Non basta? “Faccio una premessa: tutte le forze politiche”, argomenta Lepre, “hanno sempre trasferito alla magistratura una e una sola ben precisa aspettativa: conta la quantità delle decisioni, non la qualità. Fate processi veloci e smaltite l’arretrato, punto. Ora, sa cosa succede? Che i nostri colleghi tedeschi e francesi si spanciano dalle risate, quando scoprono qual è il numero incredibile di sentenze prodotte mediamente in un anno da un giudice italiani. Siamo ai vertici delle statistiche europee. Ma più decisioni produci meno qualità c’è, inevitabilmente, in quelle decisioni, e più il cittadino ne esce deluso. Perciò in tanti fanno appello”. Col risultato che l’appello è ormai un motore ingolfato dal sovraccarico di cause. “E come ha risposto finora il legislatore? Con costi d’accesso alla giustizia sempre più alti. Risultato: abbiamo ormai un sistema plutocratico, in cui ha giustizia solo chi ha soldi. L’impiegato da 1500 euro al mese non accede al patrocinio di Stato: rinuncia alla causa, amen”. Quadro da brividi. Vie d’uscita? “Ha mai sentito parlare di un’analisi seria, scientifica, sulle ragioni metagiuridiche, socio-economiche della smisurata domanda di giustizia nel nostro Paese? Si parta da quella”, chiede Lepre, “e se ne traggano le conseguenze. Serve, certo, anche un intervento sul breve termine per smaltire l’arretrato. E a proposito dell’aumento di organico voluto dall’attuale ministro di Giustizia, le dico che vi scorgo un’indiscutibile buona volontà: aggiungo però che anche 600 magistrati in più rischiano di disperdersi, se non vengono distribuiti in modo razionale. Ci sono uffici giudiziari con un organico eccessivo e altri, soffocati dal carico, nettamente sottodimensionati”. Si faccia presto o la situazione precipita: è questo il messaggio. “Altrimenti saranno sempre più i magistrati di spessore che se ne scappano. Chi fa il nostro mestiere conserva un io, forse ingenuo, che aspira non solo a produrre decisioni ma a rendere giustizia. E per una simile ambizione, questo è davvero un momento terribile”. La visione della giustizia che separa i due alleati di Carlo Nordio Il Messaggero, 3 maggio 2019 La decisione del premier Conte di estromettere - perché di estromissione si tratta - il sottosegretario Armando Siri dal governo, è di difficile interpretazione, perché non sembra ubbidire a una valutazione razionale. È vero che la politica ha spesso delle ragioni che la Ragione non conosce; ma allora, come ha detto il ministro Salvini, bisogna spiegarle agli italiani. E non crediamo sia un compito facile, per tre motivi. Primo. Conte ha premesso che rispetta la presunzione di innocenza, che non intende condannare nessuno, e che in fondo il suo è un giudizio di opportunità politica e non di valutazione giuridica. Ma questo è un “jeux de mots”, perché i due aspetti coincidono. L’inopportunità politica che dovrebbe impedire la permanenza in carica del sottosegretario leghista altro non è - infatti - che il riflesso dell’indagine in corso. Un’indagine, si badi, dove non solo Siri non è nemmeno imputato, ma dove gli indizi sembrano poggiare su intercettazioni di cui nessuno ha sentito la trascrizione fonetica, e che per di più riguarderebbero altri due signori che parlano di lui. Si tratta di un’ambiguità che chiunque abbia esperienza di processi rileva immediatamente, perché quando Tizio e Caio parlano di una terza persona possono dire quello che vogliono, e il malcapitato coinvolto rimane senza difesa. Per questo motivo la richiesta di Siri di essere prima ascoltato è perfettamente legittima, perché lo mette in condizione di conoscere le contestazioni. Cosa, che, al momento, nemmeno Conte sa né può o deve sapere. Secondo. Neanche il codice etico della verginità giudiziaria può essere invocato dal primo ministro. Siri ha già avuto una condanna per un reato importante, e quindi, per coerenza, non sarebbe nemmeno dovuto entrare nel governo. Perché adesso questa improvvisa e severa intransigenza? Perché si dice, si parla di corruzione e addirittura di mafia. Ma qui torniamo all’ipotesi precedente. Non c’è, allo stato, il minimo indizio che Siri sia coinvolto in vicende mafiose. Se ci fosse, considerando l’interpretazione estensiva che la giurisprudenza dà del concorso esterno, si può star certi che gli sarebbe stato recapitato un avviso corrispondente. E quindi la domanda si ripropone. Perché ora, e in modo così ultimativo? Terzo. Le vicende giudiziarie dimostrano che la gran parte di queste indagini si risolvono con un’archiviazione o un proscioglimento. E questo è normale, perché, come non si ripeterà mai abbastanza, l’informazione di garanzia è un atto dovuto a favore dell’indagato, non costituisce un anticipo di condanna, e nemmeno una valutazione di colpa, come del resto ha ripetuto lo stesso primo ministro. Il caso Raggi - giustamente rimasta al suo posto anche in corso di processo - ci aveva fatto sperare che M5S avesse finalmente compreso e rispettato il principio costituzionale di presunzione di innocenza, che peraltro, in questi casi, coincide con l’affermazione dell’autonomia della politica rispetto alle iniziative dei magistrati. Ora rischiamo di ritornare ai tempi bui del giacobinismo più cupo, reso più odioso dalle oscillazioni sospette degli attuali protagonisti e dalla disparità di trattamento inflitta ai loro avversari. Infine, una considerazione. Questa uscita di Conte, adesiva alla predicazione grillina, e in aperto contrasto con le dichiarazioni di sostegno a Siri sempre fatte da Salvini, dimostra da un lato le differenze ontologiche dei due soci di governo in tema di garantismo, e dall’altro una preferenza del garante verso uno dei contraenti. Orbene, la Lega già ha subìto, senza essere interpellata, la revoca delle deleghe a Siri da parte di Toninelli. È possibile che anche adesso accetti questo diktat senza reagire? In questo caso, se le spiegazioni chieste a Conte da Salvini non dovessero essere esaustive, sarebbe Salvini a dover fornire spiegazioni ai suoi perplessi elettori. E sarebbero spiegazioni ancor più difficili di quelle rese dal primo ministro. Baby gang Italia di Mattia Feltri La Stampa, 3 maggio 2019 A Manduria (Taranto) i ragazzi hanno detto sì, siamo stati noi, abbiamo ripetutamente irriso e terrorizzato e malmenato Antonio Stano. Era un pensionato di 66 anni e probabilmente è morto anche per le conseguenze delle botte. A Viterbo due ventenni hanno picchiato e stuprato una donna. I due negano, sebbene le immagini dei loro stessi telefonini, dicono i magistrati, non danno margine di interpretazione. Anche a Manduria i ragazzi si erano filmati, e quando si sono rivisti hanno dovuto confessare. Si fa così, da qualche tempo: ci si riprende col tramonto alle spalle o la vittima a terra per essere i protagonisti del kolossal della propria vita. Uno dei ragazzi di Manduria aveva mostrato il video a una professoressa: guardi sono io, proprio io. E siccome lei stentava a credere, ne ha tirato fuori un altro, e così la professoressa ha avvisato la madre del ragazzo e presto a Manduria sapevano tutti, e tutti tacevano. A Viterbo, i due ventenni hanno condiviso la clip della loro ferocia con gli amici e coi genitori, e il consiglio di un padre è stato di gettare il telefono prima che arrivasse la polizia. Ecco, questa sembra una novità già più interessante: si combinano disastri, persino di tale portata, e l’esigenza non è di tenerli nascosti per la vergogna e l’impunità, ma di confidarli all’autorità, familiare o statale, senza vergogna e confidando nell’impunità, che in effetti viene garantita. Piccole società feroci e infantili proteggono sé, i cuccioli e i compari, nessuna vittima ha più diritti di loro; e a Manduria e a Viterbo emerge in modo solo più eclatante la baby gang che è diventato questo Paese. Manduria e Viterbo, il vuoto morale di famiglie inesistenti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 3 maggio 2019 Agiscono come chi non si rende conto delle enormità commesse dai loro figli. Ma che padre è quello di uno degli stupratori di Viterbo che esortava perentoriamente il suo figlio sciagurato, prima che fosse scoperto, a liberarsi dal video atroce che lui stesso (in compagnia del complice) aveva girato per vantarsi di aver seviziato una donna? E i genitori degli aguzzini di Manduria, quella banda di mascalzoni che martirizzava nei modi più atroci un povero sventurato, non si vergognano neppure un po’ per aver coperto le gesta di quei figli teppisti, frutto della desolazione di famiglie inesistenti, prigioniere dell’ignoranza, nel vuoto pneumatico privo di ogni cultura, di ogni sensibilità, di ogni decenza? Nessuno ha insegnato loro il Male - Difficile immaginare cosa sarebbe uscito di diverso da padri complici di ogni efferatezza, responsabili della ferocia che ha anestetizzato, svuotandola, la mente di figli che probabilmente non sanno cosa sia il Male, perché nessuno ha insegnato loro cosa fosse, il Male. Perché non è la pietas paterna o materna, del capo branco che vuole proteggere il cucciolo, ad aver suggerito quell’esortazione a cancellare le prove di una crudeltà spregevole. Non è l’affetto, l’istinto primitivo a difendere un figlio pur sempre amato, a cercare goffamente di metterlo in salvo e sottrarlo ai rigori della legge violata: sentimento comprensibile, non giustificabile, ma comprensibile in chi forse ha il cuore spezzato per le malefatte del figlio ma è straziato dall’idea di una sua punizione troppo severa. No, nel caso di Viterbo, è stato il complice di una banda a parlare, non un padre che vuole proteggere un figlio. Uno che nemmeno si rende conto dell’enormità commessa da suo figlio. “Riccardo, butta il cellulare subito” è la frase di chi sa cosa c’è in quel video, conosce l’orrore vissuto da una donna martoriata dal figlio e da un altro cialtrone suo pari, ha sentito le urla di paura e di dolore. Non dice: figlio che hai fatto? - E non dice: “Figlio mio che hai fatto? Che ho fatto io per aver cresciuto un farabutto come te? Vorrei prenderti a schiaffoni prima che le forze dell’ordine vengano ad acchiapparti. L’unica cosa che posso fare è di trovarti un buon avvocato”. Non dice questo: cerca solo disperatamente una strada perché lo stupratore la faccia franca e non si renda conto mai dell’orrore di cui si è reso responsabile. Che padre è, un padre così? E tutti noi padri come ci comporteremmo, in questo o in un altro modo? Cosa siamo diventati, tutti noi, nessuno escluso? Il nostro Antonio Polito scrisse una volta che i padri oramai sono spesso diventati i “sindacalisti” dei loro figli. Ma qui si è oltre il sindacalismo di chi difende e malamente i figli da un professore che si è permesso di dare un brutto voto a scuola, per una rissa con i coetanei, dal troppo peso dei compiti a casa. A Manduria si è andati oltre, ma molto oltre. Quella banda di bulli feroci si rallegrava su You Tube di torturare una persona debole e indifesa. Lo faceva perché era consapevole del senso di impunità che le famiglie avevano trasmesso. La povera vittima invocava in modo straziante le forze dell’ordine perché lo difendessero. Ingenuamente ancora pensava che qualcuno dello Stato dovesse difenderlo da quella muta di bestie crudeli. Niente. E noi? - E niente dalle famiglie, che assistevano intontite alle gesta disgustose di rampolli decerebrati che sghignazzavamo mentre colpivano un poveretto fragile e inerme. E noi, che leggiamo, come ci saremmo comportati? L’atroce impressione è che quei padri complici, quelle famiglie corresponsabili del bullismo dei loro figli vigliacchi, possano essere lo specchio deformato di una malattia diffusa, di padri inesistenti, non assenti, inesistenti, di famiglie che si limitano a fare il palo mentre i loro figli si abbandonano all’ordinaria follia della prepotenza impunita. Ma che sono diventati quei genitori di Manduria? Che cosa ha anestetizzato ogni senso morale nel padre dello stupratore di Viterbo? Domande che riguardano loro, ma tutti gli altri padri, le famiglie che si incontrano ogni giorno. Con molta pena. E molta rabbia. Puglia: ok in giunta alla terza Rems, il “carcere psichiatrico” ad Accadia Gazzetta del Mezzogiorno, 3 maggio 2019 Il commissariamento disposto da Palazzo Chigi nel 2016 non ha risolto l’emergenza per le Rems, le strutture nate per soppiantare gli Opg cioè gli eredi dei manicomi criminali: la Puglia, anche per colpa delle tattiche dilatorie dei comuni che dovrebbero ospitare le nuove Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ha a disposizione appena 38 posti. Pochi, troppo pochi, a fronte di almeno altre 40 richieste per i trattamenti di condannati affetti da disturbi psichiatrici, quasi sempre socialmente pericolosi, che restano così nelle carceri comuni o peggio ancora in libertà. Per questo ieri, a quasi quattro anni dalla chiusura degli Opg, la giunta regionale ha rivisto il Piano per le Rems cancellando definitivamente le sedi originariamente previste fin dal 2013. La novità principale è l’ok definitivo alla realizzazione della terza nuova struttura, che sorgerà in provincia di Foggia, ad Accadia, nella vecchia sede del carcere mandamentale, con un progetto da 4,7 milioni di euro affidato alla Asl per creare una residenza da 20 posti. Ma i tempi non saranno brevi, almeno tre anni, anche piccolo centro dauno abbia già provveduto a cedere l’immobile in favore della Regione: dovrà essere demolito e ricostruito. L’altra novità è il trasloco della Rems di Spinazzola, che è stata al centro di un lungo contenzioso con il Comune. La struttura (20 posti) dovrà infatti abbandonare la sede attuale che occupa da fine 2015 (un’ala del vecchio ospedale), sede giudicata inidonea dal commissario in quanto mancano gli spazi esterni. La Rems definitiva verrà realizzata in una ex scuola, anche questa da demolire, che la Asl Bat ha ottenuto dal Comune in cambio di altri immobili: serviranno altri 4,7 milioni di euro. Ma la situazione più paradossale è quella della Rems di Carovigno. Nel 2016 l’amministrazione comunale ha alzato le barricate, bloccando il progetto predisposto dalla Asl e impedendo così l’avvio dei lavori nella sede del Centro di salute mentale. Dietro la spinta del commissario, la Regione è stata così costretta a far aprire una struttura provvisoria da 18 posti, affidata a una cooperativa. Anche questa destinata a chiudere, perché la Rems definitiva verrà realizzata a San Pietro Vernotico, nella sede del “Melli”: il progetto esecutivo è già stato approvato e prevede una spesa di 4,1 milioni a fronte di una struttura per altri 20 posti letto. Il nuovo Piano non andrà a regime prima del 2022, nel frattempo la situazione dei condannati psichiatrici rimarrà di emergenza. Napoli: sos dall’Osservatorio Anticamorra “fare di più per recuperare ex detenuti” anteprima24.it, 3 maggio 2019 L’Osservatorio Anticamorra e per la Legalità di Scampia, presieduto dall’ex procuratore capo di Napoli, Giovandomenico Lepore, lancia un sos alle istituzioni: “bisogna fare di più ed investire per il reinserimento sociale degli ex detenuti altrimenti questi ultimi ricascano immediatamente in cattive tentazioni, trovandosi emarginati dalla società una volta liberi”. A tal proposito l’organo in seno all’8^ Municipalità ha ospitato durante una riunione e sentito un detenuto del carcere di Arienzo (diretto da Annalaura De Fusco), su autorizzazione del magistrato di sorveglianza Oriana Iuliano, che sta per finire di scontare la pena per un reato contro il patrimonio, dopo aver svolto nel penitenziario un corso di legalità tenuto dalla giornalista-volontaria Emanuela Belcuore. L’Osservatorio, in realtà, aveva chiesto di avere almeno cinque detenuti che avevano fatto il percorso di legalità, ma per tre di loro non è giunta risposta mentre per un altro la richiesta è stata rigettata. Presente pure il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, il quale ha confermato che la Regione stanzia poco per gli ex detenuti, appena 3 milioni di euro ed i comuni non partecipano affatto ai progetti, l’educatrice carceraria Francesca Pacelli e l’insegnante Anna Carfora. Napoli: detenuto suicida a Poggioreale, il Gip “si indaghi per omicidio colposo” cronachedellacampania.it, 3 maggio 2019 Il Gip del Tribunale di Napoli, Paola Piccirillo (30esima sezione) ha respinto l’istanza di archiviazione in merito all’indagine sul suicidio in carcere di Vito Esposito, il giovane napoletano, che lo scorso 7 agosto si tolse la vita impiccandosi con un lenzuolo legato alla grata del bagno della sua cella. Il giudice ha chiesto agli inquirenti un supplemento di indagini ma non ipotizzando il reato di istigazione al suicidio bensì ipotizzando l’omicidio colposo per verificare l’eventuale sussistenza di profili omissivi nella condotta di chi era deputato a vigilare e cioè lo psichiatra, il medico di reparto e il personale dell’amministrazione. Esposito venne arrestato il 4 giugno del 2017 e poi condannato a 10 anni di reclusione per avere tentato di uccidere la moglie. Per i medici giunse in carcere depresso, in uno stato confusionale a sfondo suicidario. Già dopo le prime ore manifestò atti autolesionistici. Il giorno dopo l’arresto si provocò un trauma cranico sbattendo la testa contro le grate e si rese necessario il trasporto nel Pronto Soccorso del Cardarelli. Rifiutava la terapia farmacologica e manifestava anche allucinazioni uditive. Per un primo periodo Esposito venne tenuto in regime di grande sorveglianza successivamente non ritenuta più necessaria. Qualche mese dopo Esposito decise di uccidersi. I legali della famiglia Esposito, gli avvocati Sergio e Angelo Pisani, ritengono che “la verità sulla cause della morte di Vito Esposito ora potranno venire a galla”. Napoli: disabile 72enne in coma, ma per il giudice resta agli arresti di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 3 maggio 2019 L’uomo piantonato in ospedale. La moglie: “Possiamo vederlo un’ora”. È in condizioni gravissime, Giorgio Mancinelli. Il 72enne condannato per bancarotta fraudolenta e spedito in carcere nonostante l’età, ma soprattutto il grave stato di salute, è ormai incosciente, in coma. I familiari: “Il nostro appello ignorato dal Tribunale di Sorveglianza”. È in condizioni gravissime, quasi disperate, Giorgio Mancinelli. Il 72enne condannato per bancarotta fraudolenta e spedito in carcere senza se e senza ma nonostante l’età, ma soprattutto il grave stato di salute - è ormai incosciente, in coma. Il suo calvario rischia di concludersi per sempre in un letto dell’Ospedale del Mare, dove è stato ricoverato d’urgenza il 27 aprile scorso. E adesso la moglie e i suoi familiari denunciano: “Avevamo chiesto che finisse i suoi giorni a casa, ma il Tribunale di Sorveglianza ci ha negato anche questo, nonostante vi fosse un parere favorevole del pubblico ministero”. A spiegare lo stato di salute di Giorgio Mancinelli, napoletano di San Giovanni a Teduccio, sposato e padre di una figlia che soffre di una grave disabilità invalidante, non servono giudici né avvocati. Basta leggere la sua cartella clinica: epilessia, diabete mellito di secondo tipo, encefalite posterpetica e decadimento cognitivo di grado severo (Alzheimer grave), trapianto della cornea ed altro ancora. Ora Mancinelli è in fin di vita. Lo attestano gli ultimi referti medici stilati all’Ospedale del Mare, dove - peraltro - i suoi ricoveri da Pasqua a oggi sono stati ben due. In tutto questo drammatico quadro non bisogna perdere di vista un dato: la moglie dell’uomo - che sta vivendo sulla propria pelle, da sola, una situazione ai limiti del sostenibile - aveva chiesto tramite i suoi legali alla Sorveglianza di rivedere quella decisione che insisteva per la detenzione carceraria, senza accogliere la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari. Il magistrato competente si era riservata di valutare la domanda, fissando tuttavia l’udienza al prossimo 16 maggio. Forse però per quella data il 72enne non ci sarà più. Ma procediamo con ordine, ricostruendo gli ultimi episodi. Mancinelli è stato condannato con sentenza passata in giudicato a cinque anni di reclusione per un reato grave: bancarotta fraudolenta. Tenendo sempre tutto nascosto a moglie e famiglia, ha avuto un ruolo - facendo peraltro da “prestanome” - in un caso di sottrazione patrimoniale alle pretese dei creditori. Moglie e figli non hanno mai saputo nulla del processo (al quale, colpevolmente, l’uomo si era sottratto decidendo peraltro di non nominare un difensore di fiducia), se non quando è fioccata la condanna. Divenuta esecutiva la sentenza, in conseguenza della nuova legge “spazza-corrotti”, l’anziano infermo è finito a Poggioreale. Nonostante l’avanzata età e - soprattutto - il carico di malattie che negli anni lo avevano reso alla fine un tronco umano. Mancinelli non vedeva più, e a malapena riconosceva i suoi cari solo dalla voce e dal tatto. Ma la legge, per quanto dura, è legge e deve fare il suo corso. Sempre. Il quadro tuttavia cambia rapidamente. Il 22 aprile Mancinelli - ricoverato in un letto del padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale - subisce una crisi epilettica. Ha le convulsioni, e viene disposto il suo ricovero in ospedale. “Il giorno successivo - dice con gli occhi lucidi la moglie Sofia - vado a fargli visita e lo trovo in condizioni drammatiche: non parlava, non dava segni vitali e aveva la maglietta intima sporca di vomito ormai rinsecchito: mi venne impedito anche di cambiargli il pigiama”. Ma è solo l’inizio di un nuovo dramma. Nel pomeriggio del 23 l’uomo viene dimesso, torna in carcere. Ma meno di 24 ore dopo, in conseguenza di una crisi respiratoria, si decide di riportarlo all’Ospedale del Mare, in stato di piantonamento. Nuove cure, alle quali Mancinelli pare reagire positivamente. Poi, però, la situazione degenera, e il 27 aprile il 72enne va in arresto cardiaco. “Per poterlo vedere - prosegue la signora Sofia - ho dovuto attendere due giorni, il lunedì successivo. Dall’encefalogramma cui venne sottoposto si riscontrava un’attività cerebrale ormai minima. Da quel momento non ci ha più nemmeno riconosciuti. Contro di lui è proseguito un accanimento: e io sapevo che nel momento in cui sarebbe stato portato in carcere Giorgio sarebbe morto... Oggi mi chiedo se questa in Italia sia la giustizia”. Latina: progetto “Senza Porte”, percorso teatrale nel carcere farodiroma.it, 3 maggio 2019 Venerdì 24 maggio si conclude la seconda annualità del progetto Senza Porte realizzato da King Kong Teatro con il contributo della Regione Lazio per Officine di Teatro Sociale 2018/2019. Il progetto biennale ha realizzato in due anni 100 incontri di laboratorio nel carcere di Latina e nel carcere di Velletri durante i quali i detenuti hanno sperimentato un percorso di training e pratica teatrale, dove il teatro è inteso come strumento di apprendimento informale e mezzo privilegiato di socializzazione e integrazione. Al termine dei laboratori sono state prodotte due performance lo scorso anno dedicate a Shakespeare e due quest’anno che invece prendono spunto dal tema del viaggio. Martedì 21 maggio alle ore 11.30, presso la Casa Circondariale di Latina sarà presentato così “Terramare” a cura di Maria Sandrelli e Valentina Lamorgese con i detenuti della sezione maschile, mentre venerdì 24 maggio alle ore 14.00 presso la Casa Circondariale di Velletri, sarà la volta di “Un’invisibile Città” a cura di Caterina Galloni con Iris Basilicata e con i detenuti della sezione maschile protetta. Le performance, ideate come quadri con testi di autori diversi da Omero a Calvino passando per Ingeborg Bachmann e Antonia Pozzi, non vogliono farsi spettacolo in quanto esibizione, ma piuttosto condivisione di un percorso esperienziale incentrato sul concetto di autenticità e di presenza. Chieti: “Dalle sbarre alle stelle”, detenuti in scena per il Tsa con Flavio Insinna abruzzoweb.it, 3 maggio 2019 Il Teatro Stabile d’Abruzzo presenta sabato 4 maggio, alle 16, presso il Teatro della Casa Circondariale di Chieti, “Dalle sbarre alle stelle”, tratto dal libro Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle di Attilio Frasca e Fabio Masi (Itaca Edizioni), adattamento teatrale di Ariele Vincenti e Fabio Masi, regia di Ariele Vincenti, con dieci detenuti della Casa Circondariale di Pescara e con la partecipazione di Flavio Insinna. “Dalle sbarre alle stelle” è il risultato di un percorso teatrale sostenuto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la direzione artistica di Simone Cristicchi, durato sette mesi e tenuto dal regista Ariele Vincenti, in collaborazione con il giornalista-regista Fabio Masi, in sinergia con il direttore Franco Pettinelli, le assistenti sociali e le psicologhe della Casa circondariale di Pescara. “Come il libro Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle scritto dallo stesso Masi e dal detenuto Attilio Frasca - spiega il regista Ariele Vincenti - lo spettacolo racconta la vita criminale di quest’ultimo, dai primi reati alla lunga carcerazione. Tutta la vicenda è intervallata dalle sue lettere e da quelle scritte da due suoi amici fraterni, anch’essi reclusi, che da vari carceri italiani arrivano a casa di un altro loro amico, Massimo, interpretato da Flavio Insinna”. “Pur rimanendo fedele alla storia dell’autore narrante in prima persona - aggiunge - il lavoro teatrale ha voluto universalizzarla, facendola diventare la voce narrante degli altri detenuti in scena. Il delirio di onnipotenza, la solitudine e la redenzione descritti nel libro, nello spettacolo vengono tradotti scenicamente da 10 attori detenuti, sempre in scena come un corpo unico, attraverso emozioni forti e intime che solo chi conosce la vita carceraria può arrivare a esprimere. Dalla spensieratezza dei bambini che giocano sui prati di borgata alle prime marachelle, dalla violenza allo stadio, ai reati di strada e non solo, fino all’inevitabile carcerazione, con tutto ciò che ne consegue”. “Per fortuna che c’è il teatro come metafora di qualcosa a cui aggrapparsi per una rinascita oggettiva e spirituale, esorcizzando i problemi che vive giornalmente un detenuto e facendogli rivivere, anche solo per un’ora, la sensazione di sentirsi libero. Fanno da corollario coreografie ballate, scene di delirio e violenza collettiva, ma anche numerose situazioni ilari e grottesche. Tutto accompagnato dall’uso scenico delle canzoni di Emilio Stella, cantautore romano. Infine ringraziamo l’attuale direttrice della casa circondariale di Pescara, la dottoressa Lucia Di Feliciantonio per la preziosa collaborazione”, conclude. Milano: “Poetry Slam”, l’1 giugno 2019 nella Casa di reclusione di Opera alberinube.wordpress.com, 3 maggio 2019 Carcere e poesia. Parrebbe un inconciliabile binomio; invece non lo è. Come da anni dimostrano l’esistenza e l’opera in quel di Opera (perdonate l’apparente ripetizione/bisticcio di parole), il più grande carcere italiano e uno degli istituti di pena più grandi d’Europa, del Laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo, per l’appunto, da venticinque anni in tale casa di reclusione. Fondato cinque lustri fa dall’insegnante Silvana Ceruti e da lei condotto insieme con un folto gruppo di volontari, ciascuno dei quali porta in seno allo stesso le proprie varie e specifiche competenze, il Laboratorio di lettura e scrittura creativa è stato di recente ospitato da Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, potendo là dialogare con numerose classi dell’istituto scolastico Pentasuglia, con le persone detenute all’interno del carcere materano e con la cittadinanza nel corso di un convegno conclusivo. Il Laboratorio è tuttavia proiettato verso sempre nuove iniziative e proposte, fra cui rientra l’organizzazione, in collaborazione con la Lips (Lega Italiana Poetry Slam) della quarta edizione della Poetry Slam all’interno della Casa di reclusione di Opera. Che cosa è, innanzi tutto, la Poetry Slam? Una competizione poetica, un confronto fra autori che si sfidano a colpi di versi avendo a disposizione non più di 3’ a testa per ogni turno di recitazione (due-tre) e sottoponendo i propri testi al giudizio del pubblico, nell’ambito del quale viene scelta la giuria. Quindi i poeti in cimento si sottopongono a un vero e proprio verdetto popolare. In definitiva la fruizione estetica convive con un meccanismo di giudizio altamente democratico. E la Poetry Slam “spacca”, come si suole dire oggi; colma cuori e menti, divertendo. Ludico e impegnato che vanno a nozze. Sarà, come detto, il teatro della Casa di reclusione di Opera, a ospitarne la quarta edizione, nella quale, come di consueto, si affronteranno all’ultimo verso quattro poeti esterni - Ciccio Rigoli, Francesca Pels, Liliana Redaelli e Salvino Sagone - e cinque poeti del Laboratorio di lettura e scrittura creativa. Un incrocio fecondo, per combattere pregiudizi, per abbattere (almeno idealmente) artificiosi muri di separazione, in un anelito di comune amore per la poesia, l’arte, l’umanità. Rotte esistenziali e stili poetici diversi confluiranno nella costruzione di un mosaico di bellezza, con un pubblico sempre partecipe, estremamente attento, spessissimo commosso e toccato dall’ascolto. A completare il quadro come ospite giungerà dalla Liguria Andrea Fabiani e Maestri di cerimonia saranno chi scrive e Silvana Ceruti. Ultima notazione: la gara poetica dell’1 giugno 2019 (ore 9-13) è una tappa del Campionato italiano di Poetry Slam 2019-2020 indetto dalla LIPS. È possibile accreditarsi - grazie anche alla sensibilità e all’intelligenza dell’Ente che ospita la manifestazione - per partecipare, come pubblico, all’evento, secondo le seguenti modalità: registrarsi scrivendo entro domenica 10 maggio a poetryslam2019.operacreativa@gmail.com e indicando nella mail tipo di documento, data di rilascio e di scadenza, Ente che l’ha rilasciato, nome e cognome, luogo e data di nascita, dati di residenza. Presentarsi almeno mezz’ora prima al blocco d’ingresso (via Camporgnago 40, Milano). Catania: alla Sala Randone “Sole a strisce” e l’umanità sconfitta dietro le sbarre di Elisa Guccione newsicilia.it, 3 maggio 2019 Dopo tre anni di tournée in giro per l’Italia sabato 4 maggio, alle ore 21, e domenica 5 maggio, alle ore 19, alla Sala Randone di Mascalucia (Ct) andrà in scena per la prima volta a in Sicilia la pièce “Sole a strisce” scritta, diretta e interpretata da Gianluca Barbagallo con Nicola Diodati e Marco Lombardo, per una produzione “The urban company theater”. “Dentro la cella di una galera dovrebbe avvenire il pentimento - dichiara Gianluca Barbagallo - diverse le colpe da scontare dei vari detenuti e anche nell’animo dell’assassino più crudele, esempio di un’umanità sconfitta, c’è il desiderio di un riscatto”. “Sole a strisce” è un inno alla vita, una sinfonia speciale dedicata a quel gioco magico che scava negli angoli più bui dell’animo umano, raccontando la storia di tre uomini reietti e differenti da cui emerge un’umanità vera e disarmante, capace di abbattere il confine tra palco e platea e porre l’accento sul vero concetto di libertà e sulle tante, troppe quotidiane prigioni invisibili dove l’uomo moderno è costretto a vivere e convivere. “Lo spettacolo - continua l’attore e regista apprezzato dalla critica per l’ottima pièce “Paolo e Giovanni” dedicata ai giudici Falcone e Borsellino - punta ad analizzare l’individuo prima del reo, l’umanità prima della colpa, con l’obiettivo di sottolineare che, spesso, le prigioni più dolorose da cui è quasi impossibile poter uscire e liberarsi non sono quelle con le sbarre ma le tante troppe false chimere decantate da una società ipocrita e falsamente perbenista”. Una messa in scena cruda e immediata che come un vero pugno nello stomaco innesca un particolare processo di revisione dei fatti e della storia del mondo delle carceri per un testo dalla forte valenza sociale e psicologica, che racconta attraverso la funzione catartica del teatro quella sofferenza dell’anima di chi spera in un futuro che difficilmente riesce a vedere. Agrigento: legalità e umanità, corso di pittura presso il carcere siciliaonpress.com, 3 maggio 2019 Oggi è iniziato presso la sezione di Alta sicurezza della Casa Circondariale di Agrigento il corso di disegno base, tenuto a titolo gratuito e volontario dal Maestro Vincenzo Patti, patrocinato dal Centro Culturale “R. Guttuso” di cui è presidente Lina Gucciardino, che si è fatta carico dell’acquisto del materiale occorrente per 20 corsisti. Il corso prevede 10 lezioni con una cadenza di due appuntamenti a settimana e con orario di svolgimento dalle 15.00 alle 17.00. La prima lezione di oggi è stata seguita con entusiasmo. È un evento unico, trattandosi di detenuti dell’alta sicurezza, esempio che comincia a farsi strada l’idea che non serve “buttare le chiavi” ma piuttosto trovare “le chiavi per far girare le vite”. Non si può pensare ad un mondo migliore se la società non fa la sua parte per la rieducazione di chi ha sbagliato e si è reso colpevole di un reato. Tutti abbiamo diritto ad una seconda chance. “Grazie di cuore, non mi sento di aggiungere altro a quanto così delicatamente sviluppato - ci dice Gaetano Scorsone promotore della Festa della Legalità di Favara - se non i dovuti ringraziamenti a quanti hanno collaborato, ciascuno con precise competenze e responsabilità, a che il Progetto di cui sopra raggiungesse la sua virtuosa operatività: il Direttore della Casa Circondariale, Dott. Valerio Pappalardo; la Responsabile dell’Area Trattamentale, Dott.ssa Maria Clotilde Faro; il Commissario della Polizia Penitenziaria Giuseppe Lo Faro; quanti altri avessero favorito e sostenuto con generosità, professionalità e, soprattutto, calda umanità questa originale ed importantissima opportunità”. Roma: “Vivicittà 2019”, il 5 e l’8 maggio si corre a Rebibbia corrieredellosport.it, 3 maggio 2019 Vivicittà, la corsa dei diritti e della solidarietà prosegue nelle carceri: il 5 e l’8 maggio appuntamento a Rebibbia. Anche quest’anno Vivicittà si conferma la corsa più grande del mondo: la manifestazione podistica organizzata dall’Uisp, dopo aver invaso le strade di tutta Italia, prosegue nelle carceri col suo messaggio di sport e solidarietà. A Roma si annuncia un doppio appuntamento nell’istituto penitenziario di Rebibbia: domenica 5 maggio si correrà nel Nuovo Complesso maschile e mercoledi 8 maggio in quello femminile. Inoltre l’8 maggio si correrà anche nel carcere di Reggio Emilia. Vivicittà nel Nuovo Complesso maschile di Rebibbia si terrà domenica 5 maggio (ingresso da via Raffaele Majetti, 70) e vedrà la partecipazione record di 150 detenuti, più un centinaio di atleti che parteciperanno dall’esterno, con il contributo del Gruppo delle Fiamme Azzurre di atletica leggera. Il via verrà dato alle ore 10 e i concorrenti saranno impegnati in due percorsi, uno competitivo di 12 chilometri e l’altro non competitivo di 4 chilometri. Saranno presenti, tra gli altri: Rosella Santoro, direttrice dell’Istituto penitenziario; Angelo Diario, presidente della Commissione Sport del Comune di Roma; Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma. Vivicittà nel carcere di Rebibbia femminile si terrà mercoledì 8 maggio, parteciperanno circa sessanta persone detenute e saranno divise in sei squadre ciascuna di dieci atlete, che daranno vita ad una staffetta. Ciascuna partecipante coprirà la distanza di Km. 1,1 e il via alla manifestazione podistica verrà dato alle ore 15. L’Uisp ha un rapporto molto proficuo con l’amministrazione della giustizia e realizza da decenni attività sportive all’interno degli istituti del nostro paese. La qualità della vita in carcere è un tema che passa anche attraverso la possibilità di praticare sport e da queste esperienze educative nascono progetti ponte tra dentro e fuori, per la riabilitazione e l’inclusione dei detenuti nella società civile. Magari passando per una palestra, una piscina, un campo da calcio. Vivicittà nelle carceri non si fermerà a Rebibbia. Questo è il calendario delle prossime corse previste: Reggio Emilia, Casa circondariale, 8 maggio. Alessandria, Casa di reclusione “San Michele”, 10 maggio. Genova: Casa circondariale di Genova “Marassi”, 15 maggio. Cremona: Casa circondariale di Cremona, 18 maggio. Parma, Istituto penitenziario di Parma 31 maggio. L’orgoglio di un Paese in bilico di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 3 maggio 2019 Se i nostri padri hanno saputo creare bellezza e coltivare il gusto del lavoro ben fatto, è perché avevano alle spalle quella cultura cristiana e umanista che è e sarà il vero motivo per cui l’Italia - nata non dai campi di battaglia, ma appunto dalla cultura - resta importante nel mondo. Ci voleva la visita di Mattarella a Parigi, a 500 anni dalla morte di Leonardo, per farci riflettere sul ruolo dell’Italia e degli italiani nel mondo. Che in un tempo veloce come il nostro, in cui nulla resta, un quadro dipinto oltre cinque secoli fa, di cui non si sa quasi niente - neppure con esattezza chi e cosa rappresenti -, sia diventato il più celebre, e che il suo artefice sia oggi forse l’uomo più famoso della storia, è una sorta di miracolo. Dovuto a un genio italiano per nascita, lingua, formazione, ma che non si era mai posto il problema delle frontiere - politiche, culturali, mentali -, e ha avuto come orizzonte il mondo e come tempo l’eternità. Infatti oggi tutti conoscono Leonardo. Ovunque e per sempre. Un genio però non è mai isolato. Non a caso, è possibile ignorare la Gioconda e camminare lungo la Grande Galerie - cuore del museo più visitato al mondo e dell’orgoglio francese -, fermarsi davanti a centinaia di opere di commovente bellezza, e realizzare che non ce n’è una, una sola, che non sia stata dipinta da un italiano. Poi i giudizi dei critici possono cambiare. Cent’anni fa la Madonna eterea a mani giunte di Guido Reni era considerata più bella di quella morente di Caravaggio, che le aveva dato i tratti di una prostituta affogata nel Tevere. L’importante è che Guido Reni - all’epoca chiamato soltanto Guido, o Il Divino - e Caravaggio, morto di febbri da solo su una spiaggia braccato da una condanna, possano stare insieme, come Apollo e Dioniso, l’armonia e il mistero. Si potrebbe dire lo stesso di ogni grande museo. Il direttore della National Gallery di Londra è un italiano, e custodisce una tavola che nella storia dell’arte è stata forse più importante della Gioconda, il Battesimo di Gesù di Piero della Francesca, che ispirò generazioni di pittori sino ai simbolisti e a Balthus. Il Prado ha affidato a una cineasta italiana, Valeria Parisi, il film sui suoi tesori - voce narrante Jeremy Irons -, forse anche perché la pinacoteca di Madrid è un’immensa costruzione fondata su Tiziano: sia Velázquez sia Rubens collezionavano e copiavano le sue tele, Goya passava ore davanti alla Gloria, che l’imperatore Carlo V portò con sé nel monastero dove si era recluso per gli ultimi giorni, e morì guardando se stesso ritratto accanto a Noè e Davide. Ma nei nostri giorni quello che più importa non è l’arte, e neppure la bellezza. L’espressione Belpaese è diventata stucchevole, c’è anche un formaggio che si chiama così. Lo sanno tutti all’estero che l’Italia è la terra delle cose belle e delle cose buone, e infatti le imitano e ne ricavano 60 miliardi di euro l’anno (solo di cibo, senza considerare moda, design, mobili, tessuti). Quello che più importa è l’orgoglio. Che non è una brutta parola. Non implica soddisfazione per il presente. Tanto meno rassegnazione. Anzi, esige indignazione per gli scandali, e forza morale per cambiare il molto che va cambiato. L’idea che si sta facendo strada, che essere italiani sia una sfortuna, è inaccettabile. Però essere italiani non è una fortuna in sé. Oggi significa nascere in un Paese profondamente ingiusto, povero non tanto di soldi quanto di opportunità, da cui troppi giovani se ne vanno senza tornare. Siamo tutti, non solo i politici, chiamati a un cambio di passo. Ma la premessa è essere consapevoli di noi stessi. Nel dopoguerra eravamo un Paese molto più povero, però relativamente grande in un mondo piccolo. Oggi siamo un Paese piccolo in un mondo immenso. Ma non siamo importanti solo per i quadri o per il cibo. Se i nostri padri hanno saputo creare bellezza e coltivare il gusto del lavoro ben fatto, è perché avevano alle spalle quella cultura cristiana e umanista che è e sarà il vero motivo per cui l’Italia - nata non dai campi di battaglia, ma appunto dalla cultura - resta importante nel mondo. Tutto è possibile, anche le cose che oggi ci sembrano velleità, integrare i nuovi arrivati di cui abbiamo così paura, rigenerare una vita pubblica inquinata dalle mafie e dalla corruzione, trasmettere valori a una generazione (dis)educata dalla rete, se ritroviamo la consapevolezza di quello che siamo. Di quello che abbiamo fatto e di quello che, come italiani, possiamo ancora fare. Dalle sentenze al cinema il dramma della tortura di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2019 “Sulla mia pelle”, “Zero dark thirty”, “Garage Olimpo” e “Strangers in paradise”. Sono i quattro film scelti per la rassegna “Diritto, cinema e tortura”, inserita nell’ambito del Bifest in programma a Bari fino a domani, 3 maggio. Partendo da fatti di cronaca, si vuole attirare l’attenzione dei giovani sul tema del rispetto dei diritti umani fuori e dentro “casa” nostra. L’invito a non abbassare la guardia sul rispetto dei diritti fondamentali arriva dall’ex procuratore capo di Torino Armando Spataro, per anni impegnato nella lotta al terrorismo. “Guido Galli è stato ucciso dai terroristi di Prima linea ed è caduto con il codice in mano - dice Spataro -. È così che si deve combattere per contrastare il terrorismo come la criminalità. E la tortura non è solo inumana ma inutile per lo scopo che si vuole raggiungere. Chi viene torturato non dice la verità ma ciò che il torturatore vuol sentirsi dire”. Una tesi dimostrata con il rapporto Feinstein, voluto dalla presidente della commissione sull’intelligence del Senato americano e pubblicato nel 2014, nel quale si ammette che l’uso di quelle tecniche di “interrogatorio”, sdoganate in nome della guerra al terrore, e usate dalla Cia per stanare Osama Bin Laden sono state una vergogna per lo stato americano e fallimentari dal punto di vista del risultato. Spataro ha partecipato all’evento barese, organizzato dal dipartimento di giurisprudenza dell’Università Aldo Moro, diretto da Roberto Voza, e frutto dell’idea dei docenti Marina Castellaneta e Ivan Ingravallo. L’ex magistrato ricorda: “Noi abbiamo sconfitto il terrorismo in Italia rispettando anche i diritti dei criminali. Lo abbiamo battuto nelle aule di giustizia e non negli stadi come disse il presidente Pertini, perché le risposte efficaci vanno cercate sempre nelle maglie del diritto”. Immigrati e tortura - Quando si parla di diritti è facile oggi pensare all’immigrazione. E Spataro, a margine dell’incontro, ricorda la sentenza del 26 aprile scorso con la quale la Corte di cassazione si è espressa sulla protezione internazionale nei confronti dei richiedenti stranieri, escludendo che il giudice possa “sbrigativamente” richiamare generiche fonti internazionali per negare i rischi in caso di rimpatrio dello straniero. “Mi sembra - dice Spataro - una sentenza corretta ed equilibrata, mi sono occupato a lungo di immigrazione formando gruppi specializzati sia a Milano sia a Torino e le mie direttive andavano proprio nella direzione indicata dalla Cassazione: chi chiede asilo può non essere in grado di spiegare quali sono le condizioni che legittimano la sua domanda. Spetta dunque al giudice usare tutte le fonti, compreso il web, per valutare il singolo caso, ma sempre con motivazione pertinente”. La tortura “leggera” - Ad insistere sulla necessità di sgombrare il campo dall’equivoco che esista un tipo di tortura meno grave a seconda del fine e dell’intensità, è chiara Chiara Vitucci, docente di diritto internazionale nell’Università della Campania Luigi Vanvitelli: “Molti giuristi hanno tentato di allargare le maglie del concetto di tortura, parlando di “interrogatorio robusto”. In America, sono stati messi a punto dei memo nei quali è stato fissato un grado di dolore al di sotto del quale non si può parlare di tortura. La verità è che la tortura è vietata, una certa guerra al terrore è vietata. Sempre”. Il caso Cucchi - Ancora di tortura e diritto si è parlato dopo la proiezione del film “Sulla mia pelle”, che racconta la storia di Stefano Cucchi. Una vicenda in cui, secondo il cronista Carlo Bonini che l’ha seguita dall’inizio, ha pesato anche lo status sociale di Stefano, indicato come “il geometra”: una realtà piccolo borghese, una vita vissuta in periferia e la condizione di tossicodipendente. “Forse qualcuno avrebbe visto gli effetti del pestaggio sul corpo di Stefano - dice Bonini - se il suo indirizzo di residenza fosse stato diverso o il suo cognome noto”. A Stefano Cucchi non era stata garantita neppure una difesa effettiva. “Credo che nella vicenda di Stefano come in molte altre storie in cui vengono violati dei diritti - sia fondamentale il ruolo svolto dagli avvocati - afferma il vice presidente dell’Ordine degli avvocati Bari Serena Triggiani - un diritto ad essere rappresentato che lui stesso ha, inutilmente invocato, rifiutando anche le cure pur di ottenerlo”. Del film di Cremonini dedicato al giovane romano parla anche Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale all’Università cattolica di Milano. “Nella vicenda di Stefano Cucchi, come rappresentata nel film - sostiene De Sena - si manifestano gli effetti tragici della disumanizzazione delle azioni individuali, dovuta ai processi di burocratizzazione. Così può inquadrarsi l’incredibile serie di accadimenti che inesorabilmente conducono alla sua morte di certo evitabile. Cucchi, come uomo, scompare ben prima della sua morte fisica massacrato dalla macchina infernale in cui incappa”. I casi Regeni e Manduria - Una prova che l’attenzione sulla tortura e sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese non sia altissima è stata fornita di recente dalle presenze in aula, anzi dalle assenze, in occasione della prima seduta della Commissione di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni alla quale hanno partecipato solo 19 deputati. E del reato di tortura, introdotto nel nostro codice nel 2017, sono accusati otto giovani di Manduria, sei dei quali minorenni. Dal 2012 per “noia” hanno perseguitato e picchiato un 66enne, con problemi psichici. Una storia orribile iniziata e proseguita nell’indifferenza, o quasi, dei più. Perché la violazione dei diritti, quando si è più deboli, fa meno notizia. Poveri e teoremi della “colpa”. Alla radice dell’attacco alle reti solidali di Luigino Bruni Avvenire, 3 maggio 2019 Una delle più grandi novità morali dell’umanesimo cristiano ed europeo è l’aver liberato i poveri dalla colpa per la loro povertà. Il mondo antico ci aveva lasciato come eredità l’idea, molto radicata e diffusa, che la povertà non era altro che la maledizione divina meritata per qualche colpa commessa dalla persona o dai suoi avi. I poveri si ritrovavano così condannati due volte: dalla vita e dalla religione (il libro di Giobbe è una delle vette etiche dell’antichità proprio perché è una reazione contro l’idea della povertà come colpa), e i ricchi si sentivano tranquilli, giustificati e doppiamente benedetti. In Europa, però, non sono state le città e gli Stati con le loro istituzioni politiche a liberare i poveri dalla loro maledizione. Anzi, fin dai tempi dell’im pero romano e poi per tutto il Medioevo e l’Età moderna, gli statuti e le leggi cittadine erano molto attenti a individuare i cosiddetti poveri e mendicanti volontari e quindi colpevoli, per poi cacciarli fuori dalla mura cittadine. Non dobbiamo dimenticare che la storia politica delle città europee è anche (e a tratti soprattutto) una storia di esclusione di poveri, ebrei, migranti, eretici e vagabondi, perché non erano in possesso di quella “affidabilità” necessaria per entrare nel club dei mercati delle nuove città. Ma, grazie a Dio, le istituzioni europee non erano soltanto quelle politiche delle città borghesi e mercantili: c’erano anche le istituzioni nate dalla fede religiosa. Il cristianesimo aveva portato una grande innovazione in tema di povertà. Una religione fondata da un uomo non ricco e con molti apostoli e discepoli poveri, e che osava chiamare i poveri “beati”, in un contesto religioso e culturale che scartava e malediva i poveri. E che nella sua vita fece di tutto per mostrare che i malati e i poveri non erano colpevoli della loro malattia e/o povertà (si pensi al cieco nato, al paralitico, ai lebbrosi...). La Chiesa dei primi tempi ha continuato questa rivoluzione etica, e sant’Ambrogio poteva scrivere: “Non è vero che i poveri sono maledetti” (La vigna di Nabot). Lo doveva dire con forza, perché era ben cosciente di andare contro la mentalità corrente. Questa grande novità religiosa e sociale produsse, secoli dopo, Francesco e gli ordini mendicanti, che vissero e mostrarono un’idea di povertà come via di liberazione e di felicità che irrorò il secondo millennio. E quindi i tanti carismi sociali della modernità, che guardarono i poveri non come maledetti, ma come immagine del Cristo povero e sofferente. C’è questa cancellazione dello stigma di maledizione alla radice dei molti ospedali, scuole, orfanotrofi che hanno fondato il welfare europeo. E mentre i politici di ieri di oggi discutevano e discutono sulle varie categorie di poveri (volontari e involontari, meritevoli e immeritevoli...), quei carismi sociali ci dicevano e ci dicono che il povero è povero è basta, ed è la sua condizione oggettiva di bisogno che ce lo rende prossimo e in quanto tale meritevole di aiuto. Il samaritano non aiuta l’uomo vittima dei briganti perché era portatore di qualche merito, ma perché era una vittima ed era un uomo (“Un uomo scendeva...”). La colpa non è mai stata una buona chiave di lettura per capire e curare le povertà, perché ogni volta che iniziano le analisi delle colpe se ne trova sempre una per condannare un debole. Sono stati i carismi, non le istituzioni politiche delle città e poi degli Stati moderni, a superare la tremenda distinzione tra poveri buoni e poveri maledetti, a far chiudere quegli “ospedali” dove i poveri colpevoli erano rinchiusi e sottoposti ad autentici lavori forzati di reinserimento sociale, ben noti a molte città europee dei secoli passati. Senza lo sguardo diverso sulla povertà e sui poveri di centinaia e migliaia di sacerdoti, laici, suore e frati, l’Europa sarebbe stata diversa e certamente peggiore per i poveri - e quindi per tutti, perché la condizione dei più poveri e la loro considerazione sociale restano i primi indicatori della moralità di una civiltà. Da qualche anno questa diversa cultura europea della povertà è entrata profondamente in crisi. Le cause sono molte, ma certamente un fattore decisivo lo ha svolto e lo svolge la cultura del business, che ormai sta diventando la cultura dominante in ogni ambito di vita in comune. Una cultura economica, di matrice prevalentemente anglosassone, che in nome della meritocrazia sta reintroducendo ovunque l’arcaica tesi della povertà come maledizione e colpa. Perché? La logica economica è all’origine delle religioni antiche, che nascono attorno all’idea mercantile di scambio tra gli uomini e le loro divinità. Il primo homo oeconomicus è stato l’homo religiosus, che ha letto la fede come commercio, come dare e avere con il divino, come debiti e crediti da gestire tramite offerte e sacrifici. La Bibbia e poi il cristianesimo hanno lottato con tutte le loro forze per liberare gli uomini dall’idea economica di Dio. Oggi, con l’affievolimento culturale della religione ebraico-cristiana, nell’orizzonte secolarizzato si è riaffacciata l’antica idea del dio economico, e quindi delle colpe, dei meriti, dei demeriti, di nuovi sacrifici e nuovi idoli. Nel “crepuscolo degli dei” ci siamo risvegliati incatenati da una religione-idolatria che riporta con sé anche l’idea arcaica del povero come colpevole. Ma il suo colpo di genio più grande sta nel riuscire a presentarcela come una innovazione morale, come una forma più alta di giustizia, semplicemente chiamandola con un nome evocativo: meritocrazia. Non capiamo il recente attacco alle reti della solidarietà e al mondo del Terzo settore in Italia (è utile leggere o rileggere l’intervista a Zamagni qui pubblicata domenica 28 aprile) senza prendere molto sul serio il progetto ideologico della meritocrazia e della cultura del business che lo veicola. La meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della condanna morale del povero, che prima interpreta la mancanza di (alcuni tipi di) talento come colpa, poi condanna il povero come demeritevole e infine lo scarta insieme a chi si occupa di lui. Le libertà di stampa calpestate nel mondo Turchia record: 158 giornalisti in carcere di Antonella Napoli Il Dubbio, 3 maggio 2019 Un’onda giudiziaria che non risparmia nessuno quella che in Turchia continua a travolgere operatori dell’informazione che null’altra colpa hanno se non di fare il proprio mestiere. Nella 25esima edizione della Giornata internazionale della libertà di stampa, il primato di più grande prigione per giornalisti al mondo spetta alla terra ottomana da anni sotto il potere del presidente autoritario Recep Tayyip Erdogan. Sono almeno 158 i giornalisti attualmente in carcere. Alcuni già condannati, altri in attesa di giudizio. Come il rappresentante nel Paese di Reporters sans frontières Erol Önderogl, arrestato per aver assunto nel maggio del 2016 la direzione ‘ solidalè del quotidiano filo-curdo “Ozgur Gundem”, dopo che la redazione era stata dimezzata da una campagna repressiva del governo turco. Rilasciato per la scadenza dei termini della detenzione preventiva, a luglio di quest’anno comparirà davanti alla Corte che dovrà emettere la sentenza per lui e altri due imputati, lo scrittore Ahmet-Nesin e l’accademica e attivista per i diritti umani Sebnem Korur-Financi. Per tutti loro l’accusa è di “propaganda terroristica” per aver partecipato all’azione di solidarietà per il giornale nel mirino di Erdogan. Come testimonia un recente rapporto di Amnesty International, la prolungata e crescente repressione nel Paese dal fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016 ha pregiudicato il diritto a un’informazione libera, oltre al lavoro dei difensori dei diritti umani decimati dagli arresti favoriti dallo stato d’emergenza proclamato all’indomani del fallito golpe. Quella che una volta era una vibrante e indipendente società civile è stata ridotta pressoché al silenzio dopo mesi di assoluto terrore: bastava avere installato un’App di messaggistica ritenuta sospetta per finire in prigione. Anche oggi, nonostante l’apparente normalizzazione dopo le elezioni che hanno confermato Erdogan capo di Stato, continuano a susseguirsi arresti, intimidazioni e detenzioni arbitrarie. Dietro il paravento delle leggi anti terrorismo, le autorità turche limitano azioni e iniziative della società civile che non rispondano ai criteri imposti dal regime che finora ha decretato la chiusura di decine di organizzazioni e creato un soffocante clima di paura. Negli ultimi due anni e mezzo sono stati stroncati i diritti alla libertà d’espressione, alla sicurezza e all’equità dei processi e ha abbattuto l’ultimo baluardo tipico di una società in buona salute, ossia il lavoro dei difensori di diritti umani. Divieti assoluti di svolgere raduni pubblici hanno pregiudicato il diritto di riunione e di manifestazione. Più di 107.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati in modo sommario. Sono state aperte indagini penali nei confronti di oltre 100.000 persone e almeno 50.000 sono i detenuti in attesa di processo, centinaia già condannati, molti all’ergastolo. Tra questi un numero impressionante di giornalisti, alcuni volti autorevoli come lo scrittore di fama internazionale Ahmet Altan e la veterana della stampa turca Nazli Ilicak: entrambi stanno scontando il carcere a vita con l’accusa di “tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale”. In realtà erano semplicemente voci scomode, malgradite a Erdogan. Altri quattro giornalisti, Demokras, Mustafa Armagan, Ismail Avci, Bünyamin Aldi e Abdullah Dirican redattori del quotidiano di sinistra libertaria e filocurda Özgürlükçü, rischiano la stessa pena. Emblematico anche il caso di Ahmet Keskin, un avvocato per i diritti umani e editorialista per il giornale filo-curdo Özgür Gündem, chiuso sulla base del decreto governativo sullo stato di emergenza. Una corte locale del distretto di Istanbul ha condannato Keskin a sei mesi di prigione per “aver insultato le istituzioni della Repubblica di Turchia” parlando di “deriva vergognosa” commentando in un suo articolo le violazioni da parte del governo. Ancora più gravi e paradossali le accuse rivolte a Esra Baysal, collaboratrice del portale T24, incriminata per “incitamento all’odio” dall’ufficio del procuratore capo di Diyarbakir per aver scritto in un tweet “I fascisti razzisti propagandano la guerra! Io sono contro la guerra, sono curda, sono una zingara, sono un’ebrea, sono un’araba, sono lgbt, sono armena, sono yazida... Insomma, io sono tutto quello che odi. Non seguirmi!”. Rischia un anno di carcere. La Turchia, dunque, si conferma il più grande carcere per giornalisti del mondo. I dati più recenti della piattaforma di giornalismo P24 e dell’International press institute parlano di almeno 158 giornalisti detenuti, di cui 26 già in detenzione prima del tentativo di colpo di stato. Migliaia di altri operatori dell’informazione sono invece disoccupati dopo la chiusura di oltre 170 testate. Non è la solita classifica sulla censura di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 maggio 2019 Per il Consiglio d’Europa il M5S è una minaccia alla libertà di espressione. Non ci sono mai piaciute le classifiche sulla libertà di stampa. Un po’ perché la realtà ha spesso mostrato la loro scarsa attendibilità (proprio sicuri che il Ghana sia più libero dell’Italia?). Un po’ perché piacevano tanto al M5s che le utilizzava a suo piacimento per fare propaganda contro i giornalisti “servi del potere”. Erano quelli i tempi in cui i grillini si divertivano a dare lezioni di libertà dall’opposizione. Oggi che sono al governo, però, è tutto più difficile. Non fosse altro perché, come ha sottolineato ieri il Rapporto sulla libertà d’espressione nel 2018 redatto dal Consiglio d’Europa, la prima minaccia alla libertà della stampa, nel nostro paese, è proprio il M5s. “In Italia - si legge nel rapporto - il vicepremier e leader del Movimento 5 stelle ha chiesto alle aziende statali di bloccare la pubblicità sui quotidiani e ha annunciato piani per `una riduzione dei contributi pubblici indiretti ai media-. Non solo, prosegue il documento, “nel novembre del 2018 ha pubblicato sui social un post contenente insulti verso i giornalisti e una richiesta di restrizioni legali nei confronti degli editori”. Il riferimento è a post sui social del 10 novembre 2018 by Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista in cui si dà ai giornalisti di “sciacalli infami” e “pennivendoli”. Per il Consiglio d’Europa si tratta di forme di pressione equiparabili a quelle portate avanti dal governo turco che, in maniera meno sofisticata, chiude giornali, radio e reti tv. Il ragionamento è semplice: usare la leva del denaro pubblico, sia in forma di pubblicità delle partecipate sia in forma di finanziamenti diretti o indiretti, costituisce una pressione verso i media affinché siano ammansiti. Un delitto perfetto che, come dimostra il caso di Radio Radicale, viene compiuto senza bisogno di sporcarsi troppo le mani. Oggi è la Giornata mondiale della libertà di stampa. Sono passati quasi sei mesi da quei post delle due star grilline. E dagli insulti siamo passati ai colpi bassi. Quanti migranti irregolari in Italia? Salvini dice 90.000, il capo dell’Istat: “sono 600 mila” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 maggio 2019 Blangiardo: “Erano 533 mila all’inizio del 2018, ecco perché sono cresciuti”. Per effetto del decreto Sicurezza aumenteranno di 137mila unità in due anni, a oltre 700 mila. Questo conto dei conti può cominciare dalla rumenta, la spazzatura, in genovese. Così due leghisti ingegnosi, l’assessore alla sicurezza Stefano Garassino e il presidente del municipio Centro-Est Andrea Carratù, spiegarono due anni fa alla Commissione periferie il calcolo dei migranti irregolari nei vicoli centrali di Genova: “Noi all’anagrafe abbiamo qui 20 mila iscritti; se la nostra municipalizzata, l’Amiu, qui raccoglie rumenta da 28 mila persone, ecco che ottomila ballano: quelli sono gli invisibili della zona”. Le affermazioni di Salvini - Gli invisibili sono difficili da vedere, va da sé. Ma allargando quel metodo ad altre città visitate, e incrociandolo con i dati delle mense Caritas e con quelli dell’Istat (che conta ovviamente solo i regolari) i commissari del Parlamento della scorsa legislatura scrissero nella loro relazione unitaria a dicembre 2017 il numero ormai famoso: 600 mila. “La Caritas fa monitoraggio dal 1992 ed è molto attendibile”, sostiene il forzista Andrea Causin, che di quella commissione è stato presidente. Su quel numero Matteo Salvini ha fatto campagna elettorale nel 2018, promettendo 600 mila rimpatri veloci. Vinte le elezioni, nel contratto di governo s’è tenuto più basso: 500 mila, che rendevano comunque necessaria una “rigorosa politica di rimpatri”. I rimpatri invece marciano a una media di 20 al giorno, occorrerebbero almeno 80 anni (l’alleato-competitor Di Maio cominciava a rinfacciarlo ai leghisti). Finché dal Viminale, alla vigilia della Liberazione, non è uscito un numero sorprendente. “Gli irregolari sono 90 mila!”, ha proclamato Salvini: “Gli altri giochino al lotto, ma i numeri dicono questo”. Subito contestato dagli esperti, il ministro ha ottenuto il singolare assenso di una parte della sinistra per ragioni a lui avverse ma complementari: se il problema dei clandestini è risolto, anzi non è mai esistito, (ri) accogliamoli tutti! Le cifre - E allora vediamo questi numeri. Salvini calcola, dal 2015, 478.683 migranti sbarcati, ne sottrae 268.839 che avrebbero raggiunto altri Paesi Ue, ne sottrae ancora 119.000 qui in accoglienza (i rimpatri, abbiamo visto, sono spiccioli): totale, 90.844. I problemi sono almeno tre. Il primo: il calcolo non può partire dal 2015, perché almeno dal 2011 inizia la fase più recente delle grandi migrazioni e, da allora, gli sbarchi sono 767.501 (di cui 170.100 solo nel 2013 e 2014). Il secondo: ci si limita a parlare di sbarchi, che non coincidono affatto con l’irregolarità (molti sbarcati, soprattutto in passato, hanno chiesto asilo e ottenuto protezione) e, per converso, molta irregolarità non viene dagli sbarchi ma dai “visa overstayers” e dai permessi di soggiorno scaduti: il calcolo, come si vede è assai più complesso e il metodo usato dal Viminale è suggestivo, legato all’immagine dei barconi. Terzo problema: persino assumendo che gli altri Paesi Ue ci comunichino che ben 300 mila nostri movimenti secondari sono arrivati da loro in questi 4 anni (Salvini ne dichiara un po’ meno), il sistema Eurodac va preso con le molle: non potendo essere detenuto, il migrante irregolare viene segnalato, gli si rilevano le impronte e poi lo si rimanda in giro, è impossibile stabilire quante volte venga ricontato negli anni. Perfino da tre confronti l’errore appare chiaro: è plausibile avere ottomila irregolari nel piccolo centro di Genova e solo 90 mila in tutta Italia? È verosimile avere, come accertato da uno studio di Welforum, 70-80 mila badanti senza permesso di soggiorno e avere in tutto appena 90 mila irregolari (non certo badanti)? È sensato immaginare che gli irregolari solo da noi siano l’1,5 per cento dei regolari (90 mila su 6 milioni) mentre in tutta Europa la percentuale è del 10 per cento e, secondo l’Oim, del 15 in tutto il mondo? Il metodo induttivo - Una delle fonti più attendibili in materia è la fondazione Ismu. Quando nel 2018 presentò il suo XXIV rapporto sulle migrazioni, il responsabile della demografia era Gian Carlo Blangiardo, un tecnico dalla reputazione così robusta da indurre Salvini a volerlo alla guida dell’Istat. In quel rapporto, Ismu certificò 533 mila irregolari, con tendenza in aumento: “La crescita è iniziata nel 2013, quando si sono esauriti gli effetti dell’ultima sanatoria, varata da Monti l’anno prima”. Il suo metodo induttivo è quello dei sondaggi nei centri di raccolta degli stranieri in tutta Italia: chiese, moschee, mense (come quelle Caritas, appunto); si contano i “sommersi” e poi si applicano al quadro generale; il metodo si è sempre rivelato assai attendibile in occasione di ogni sanatoria (il momento in cui almeno una buona parte del sommerso emerge). Fantasmi - Blangiardo ha ipotizzato che nella dichiarazione di Salvini manchi una locuzione: “In più”. Gli immigrati irregolari non sono 90 mila in tutto, ma 90 mila in più, ha detto il professore al Foglio: “Al 1° gennaio 2018 erano 533 mila, è inevitabile che siano aumentati”. Ovvio, con le frontiere chiuse e l’aumento dei dinieghi. La stima dei 600 mila invisibili appare del tutto corretta, dunque. Ma tanto questa quanto quella dei 90 mila “in più” potrebbero risultare ancora per difetto. L’Ispi, un centro studi di livello internazionale attivo da 90 anni, ha calcolato come per effetto del decreto Sicurezza di Salvini (ora legge) gli irregolari aumenteranno di 137 mila unità in due anni (superando quota 700 mila). Il ricercatore Matteo Villa ha contato, solo tra giugno 2018 a febbraio 2019, 48.406 dinieghi di protezione a fronte di 4.806 rimpatri, con un effetto di 43.600 irregolari in più: clandestini che, espulsi dai centri d’accoglienza ma non rimpatriati, andranno a rannicchiarsi nelle pieghe delle nostre periferie. L’ultima parola non toccherà ai numeri dei professori o agli spot di qualche politico, ma agli italiani che vivranno accanto a questi fantasmi. Migranti. Il tribunale di Bologna smentisce il decreto Salvini: residenza ai richiedenti asilo La Repubblica, 3 maggio 2019 Il sindaco Merola non si opporrà ed esulta: “La legge è più forte della propaganda”. Il Tribunale di Bologna ha dato ragione a due richiedenti asilo a cui il Comune aveva negato l’iscrizione anagrafica in base al decreto Salvini. Ora il municipio dovrà provvedere all’iscrizione su ordine della magistratura. Non si opporrà il sindaco Virginio Merola, che anzi saluta “questa sentenza con soddisfazione, il Comune la applicherà senza opporsi”. “Soddisfazione”, da parte del sindaco per la decisione della sezione civile del Tribunale della città emiliana che ha imposto al Comune di iscrivere nella propria anagrafe due richiedenti asilo che avevano fatto ricorso - uno presentato da Avvocati di Strada, l’altro dall’Asgi-Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione - contro il diniego stabilito sulla base del cosiddetto “decreto Salvini”. “Smentire la destra - scrive Merola raccontando il caso su Facebook - significa batterla usando la legge e la legalità democratica. Quando ho ridato l’acqua agli occupanti ho agito come autorità sanitaria e non come delegato del governo, che è invece il caso dell’anagrafe. Il ministro Salvini fa propaganda ma i fatti lo smentiscono, è ingiusto negare la residenza ai richiedenti asilo”. Cannabis light, una sentenza potrebbe mandare tutto in fumo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 maggio 2019 È attesa per il 30 maggio la decisione della Cassazione a Sezioni Unite. La Suprema Corte dovrà decidere se va applicata la legge del 2016 che legalizza la vendita di prodotti con un thc inferiore a 0,2 o il testo unico sugli stupefacenti. La legge è poco chiara e la prossima sentenza della Cassazione potrebbe far chiudere per sempre i negozi che vendono la canapa. Si tratta della legge del 2016 che legalizzò la vendita dei prodotti ricavati dalla canapa che abbiano un principio attivo stupefacente di Thc (deltatetraidrocannabinolo) inferiore a 0,2. Parliamo della cosiddetta cannabis light che viene commercializzata in diversi negozi nati proprio per questo, ma che hanno visto, in diversi casi, maxi sequestri da parte della polizia. Perché? Tutto nasce dalla normativa poco chiara sulla cosiddetta canapa legale e da un assunto fin da subito evidente ai più, ma che ha attirato l’attenzione degli inquirenti: la marijuana venduta dai vari negozi di “erba legale” viene fumata e non usata per l’uso ornamentale a cui sarebbe destinata secondo la legge vigente. Un esempio. A dicembre scorso gli agenti di polizia hanno notato che alcuni minorenni nel forlivese, in Emilia Romagna, acquistavano alcuni articoli da un distributore automatico di ‘ canapa light’ per poi fumarsela in strada. Una spia di un fenomeno su cui gli inquirenti hanno voluto vederci chiaro facendo scattare un’operazione ad ampio raggio che ha portato al censimento dei negozi di cannabis legale, spuntati come funghi negli ultimi due anni, uno dei quali proprio a fianco del portone della Questura di Forlì. La Squadra Mobile di Forlì ha così dato vita ad un’operazione che ha visto l’impiego di una cinquantina di poliziotti nel controllare 16 punti vendita di cannabis light della provincia di Forlì-Cesena e il sequestro di 73 chili di marijuana dal valore commerciale di circa 750 mila euro. Ma non è l’unico caso e non riguarda solo i negozi, ma anche gli agricoltori che coltivano la canapa. A fronte dell’alto numero di sequestri disposti da varie procure italiane ai danni di commercianti di infiorescenze ed estratti, la magistratura ha dato vita a orientamenti confliggenti, culminati in pronunce della Cassazione di diverso segno. Il nodo del dibattito giurisprudenziale riguarda la scriminante contenuta nell’art. 4 commi 5 e 7 l. 242/ 2016, a norma del quale è esclusa la responsabilità dell’agricoltore che, rispettando i requisiti di cui sopra, produca piante di canapa contenenti una quantità di principio attivo Thc rientrante nel limite del 0,6%. Inoltre, nel caso in cui, all’esito di un controllo, tale percentuale risulti maggiore dello 0,6% e l’agricoltore abbia rispettato detti requisiti, l’autorità giudiziaria potrà disporre il sequestro e la distruzione delle coltivazioni di canapa, escludendosi però ogni responsabilità da parte dello stesso. Nei confronti dello stesso non sarà dunque applicabile la normativa contro gli stupefacenti di cui al d. p. r. 309/ 90 (testo unico), e non sarà soggetto ad alcuna conseguenza di tipo penale o amministrativo. La giurisprudenza di merito e di legittimità si è interrogata circa l’estensibilità della causa di giustificazione appena citata al commerciante che venda infiorescenze e prodotti derivati ai consumatori finali. Un primo indirizzo interpretativo, nelle sentenze Cass. Sez. VI del 17.12.18 n. 56737 e Cass. Pen. Sez, VI, 10 ottobre 2018, n. 52003, ha fornito una risposta negativa al quesito, essendosi ritenuto come la normativa in esame disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa sativa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall’art. 1, comma 3. Secondo i giudici della Suprema Corte, tra i fini elencati dalla norma non rientrerebbe la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. I valori di tolleranza di Thc consentiti dall’art. 4, comma 5, I. n. 242 del 2016 (0,2- 0,6%) si riferirebbero solo al principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio. La detenzione e commercializzazione dei derivati della coltivazione disciplinata dalla predetta legge, costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish), rimarrebbero, conseguentemente, sottoposte alla disciplina del testo unico sulle sostanze stupefacenti. Secondo un contrario orientamento, confluito nella sentenza della Cass. Sez. VI n. 4920 del 31.1.2019, la commercializzazione dei prodotti derivati della canapa sativa tra cui le infiorescenze è un corollario logico giuridico della L. 242/ 2016. In altri termini, dalla liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/ 2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo Thc inferiore allo 0.6 %, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del testo unico sulle sostanze stupefacenti, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto testo. La fissazione del limite dello 0,6% di Thc rappresenterebbe, nell’ottica del legislatore, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. La percentuale dello 0,6% costituirebbe, infatti, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti. Ne deriverebbe che, ove sia incontroverso che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ex l. 242 del 2016, sarebbe esclusa la responsabilità penale sia dell’agricoltore che del commerciante, anche in caso di superamento del limite dello 0,6%, essendo quindi ammissibile soltanto un sequestro in via amministrativa, a norma dell’art. 4, comma 7, I. n. 242 del 2016 (Cass., Sez. 6, n. 4920 del 29- 11- 2018, dep. 2019, Castignani). A fronte della sentenza della sesta sezione penale della Cassazione, secondo la quale il commercio di cannabis light è lecito, c’è stata quindi un’altra pronuncia della sezione penale, che, volendo dire l’opposto, ha pensato che l’unica soluzione sia quella di far intervenire le sezioni unite della Cassazione. Il responso dovrebbe arrivare il 30 maggio e se negativo, le saracinesche dovrebbero abbassarsi per tutti. Se la politica non interviene attraverso una normativa ben precisa, andrà in fumo il volume di affari che gira intorno alla canapa sativa che in Italia supera i 7 miliardi di euro. Un duro colpo all’economia sempre più in crisi e con la conseguenza della perdita di numerosi posti di lavoro. Per questo ad aprile è nato il Consorzio Nazionale per la Tutela della Canapa per difendere la produzione della cannabis legale e rilasciare un certificato di garanzia. Oggi sono più di 3.000 gli ettari messi a produzione della canapa legale con un trend annuale in continua ascesa e sono ormai 15.000 i punti vendita in tutta Italia. Una realtà che però rischia di finire e quindi mettere in crisi l’intero settore. La politica, per ora, non vuole occuparsi di questo vuoto normativo che potrebbe essere colmato mettendo mano sul testo unico degli stupefacenti. Allo stato degli atti è davvero difficile prevedere quale dei due orientamenti (la legge sulla canapa light e il testo unico sugli stupefacenti) potrà prevalere a seguito dell’esame delle Sezioni Unite. Si auspica dunque che i giudici delle sezioni unite possano razionalizzare la confusa disciplina intorno alla cannabis “light”, tutelando il gran numero di imprenditori che nell’ultimo anno hanno deciso di investire con forza nel settore. Svizzera. Eutanasia fra le sbarre al vaglio dei direttori cantonali ticinotoday.ch, 3 maggio 2019 La Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia sta affrontando il tema della possibilità per i detenuti di accedere al suicidio assistito. “Al momento ho la sensazione che la Giustizia voglia semplicemente impedire che qualcuno muoia in prigione”, dice un supervisore in uno studio del Fondo nazionale svizzero per la scienza, come riporta oggi un articolo della Nzz, che si occupa di descrivere un dilemma con cui le autorità carcerarie svizzere si trovano confrontate. Le prigioni svizzere sono difficilmente preparate alla morte, anche se l’invecchiamento demografico nelle carceri è molto più avanzato che nella popolazione media, spiega l’articolo. Delle 143 persone regolarmente detenute, quasi un terzo, ovvero 43, ha più di 60 anni. Solo nel 2009, la percentuale di ultrasessantenni in questa categoria era solo dell’11,6%. Ora la Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia intende chiarire le condizioni alle quali l’eutanasia nelle carceri dovrebbe essere concessa. Il Centro svizzero di competenza per le correzioni sta preparando un documento di base su questo tema. Negli ultimi anni si è prestato attenzione alla creazione di reparti speciali per i detenuti di età superiore ai 60 anni, tuttavia non esiste ancora nessuna prigione attrezzata per permettere ai detenuti la possibilità di morire con l’aiuto delle organizzazioni per l’eutanasia. A New York chiamate gratis dal carcere: è la prima grande città degli Usa a permetterlo tgcom24.mediaset.it, 3 maggio 2019 “Per troppo tempo i detenuti hanno affrontato barriere riguardo aspetti basilari della vita quotidiana”, afferma il sindaco de Blasio. New York diventa la prima grande città degli Stati Uniti a consentire di fare telefonate gratis dal carcere. Lo ha annunciato il sindaco Bill de Blasio. Il provvedimento è entrato in vigore giovedì dopo essere stato approvato l’anno scorso dal consiglio comunale. “Per troppo tempo le persone detenute hanno affrontato barriere riguardo aspetti basilari della vita quotidiana, che possono contribuire a creare carceri più umane”, ha commentato de Blasio. “Con le telefonate gratuite stiamo garantendo che i detenuti abbiano l’opportunità di rimanere in contatto con i loro avvocati, le loro famiglie e le reti di supporto che sono cruciali per rientrare nella propria comunità”, ha aggiunto ilo primo cittadino. Sino ad ora le telefonate costavano 50 centesimi per il primo minuto e 5 centesimi per ogni minuto successivo. Ora, invece, il Department of Correction coprirà il costo delle oltre 25mila telefonate effettuate dalle prigioni di New York ed i carcerati potranno effettuare chiamate ogni tre ore per un totale di 21 minuti ovunque negli Stati Uniti. Verranno inoltre installate linee telefoniche aggiuntive per gestire l’aumento del volume delle chiamate. Il sindacato degli agenti penitenziari, tuttavia, in passato aveva espresso preoccupazione per la nuova politica, spiegando che le telefonate gratuite potrebbero aiutare le gang che operano all’interno delle carceri. Santo Domingo. L’On. Di Stasio (M5S) visita gli italiani detenuti nelle carceri di Armando Tavano italiachiamaitalia.it, 3 maggio 2019 L’on. del M5S Iolanda Di Stasio, nell’ambito della sua missione in Repubblica Dominicana, ha visitato il carcere di La Victoria e ha pubblicato due post, uno il 29 aprile scorso e l’altro nel giorno seguente, ormai negli Stati Uniti e in partenza per l’Italia. Nella comitiva che l’ha affiancata è da segnalare l’importante presenza del presidente del Comites, cav. Paolo Dussich, un conoscitore indiscusso delle carceri dominicane, in cui si reca con regolarità per far visita ai reclusi italiani. “Sono appena uscita dal carcere di “La Victoria” a Santo Domingo, dove ho incontrato i nostri connazionali che sono detenuti qui. La condizione delle carceri dominicane è molto complessa e ho voluto assicurarmi, entrandoci dentro, che la loro situazione fosse sotto controllo e i loro diritti garantiti nel rispetto delle norme internazionali. Senza entrare nel merito di giudizi e pregiudizi, vedere con i propri occhi posti come questo, concretizza il mio lavoro in commissione e come Presidente del comitato per i diritti umani. Sono cose che ti segnano e lasciano spazio a molte riflessioni e confronti, come quelli che sto avendo con le associazioni di italiani a Santo Domingo. Un bagaglio di esperienze da riportare a Roma”. Nei suoi due ultimi post l’on. Di Stasio ha rivolto quindi la sua attenzione alla nostra comunità, compiacendosi dell’esito della sua visita e compromettendosi a raccontarci in un secondo tempo i dettagli della stessa. In attesa delle maggiori informazioni promesse, siamo in grado di descrivere in linea di massima la sua visita al carcere di “La Victoria”. Della comitiva facevano parte tra gli altri la sua assistente Ilaria Pellegrino, il cav. Paolo Dussich, presidente del Comites, il funzionario della nostra ambasciata dott. Sandro Niccolini e il connazionale residente a Boca Chica, Gianni Prudenza. Nel carcere di La Victoria, l’on. si è incontrata con i sei cittadini italiani che vi si trovano attualmente reclusi. Questi hanno dichiarato all’onorevole di non subire maltrattamenti o violazioni dei diritti umani. Si sono lamentati però dei disagi cui sono sottoposti, in particolare perché sono costretti a dormire sul pavimento in celle angustie, insieme a una trentina di altri carcerati. Uno di loro addirittura ha il “posto letto” nell’area antistante il bagno per cui durante la notte è costantemente disturbato dal viavai di chi lo frequenta. Successivamente l’onorevole ha voluto visitare Boca Chica, in quanto aveva sentito parlare male della cittadina balneare dove abitano tanti connazionali. Invece ne è rimasta molto bene impressionata. Quella dell’on. Di Stasio è stata una visita ufficiale. Ricordiamo che la parlamentare pentastellata è presidente del Comitato per i diritti umani. Degno di nota è il fatto che l’onorevole abbia anche gradito il confronto che è rimasto in essere con le associazioni di italiani a Santo Domingo. Una visita quindi quella della Di Stasio che non si è limitata soltanto ai “Diritti Umani”, ma che è andata oltre toccando temi di interesse della nostra comunità. Il Cav. Paolo Dussich ha dichiarato di avere molto apprezzato la disponibilità e l’attenzione rivolta ai nostri connazionali reclusi da parte dell’on. Di Stasio. Si tratta sicuramente del primo parlamentare italiano che entra in un penitenziario locale. Ricordiamo che il presidente del Comites visita con regolarità gli italiani che scontano pene o che sono reclusi in via definitiva nei carceri dominicani. L’on. Di Stasio ha anche rivolto un invito al cav. Dussich di far visita al parlamento italiano. Non possiamo che ringraziare l’onorevole e congratularci per la sua iniziativa. Restiamo in attesa dei dettagli relativi alla sua visita promessi nel post pubblicato dagli Usa. Libia. Nell’Accademia militare di Haftar: “Così ci prepariamo a sconfiggere Sarraj” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 maggio 2019 A Tokra, dove si addestrano 1500 allievi. La Bbc: i soldati dell’uomo forte della Cirenaica hanno abusato dei cadaveri dei nemici. Ma i generali di Haftar: “Tutto falso”. Soldati ordinati, disciplinati e agli ordini di un unico comando contro il caos anarchico delle milizie che difendono Fayez Sarraj: questo il messaggio netto e chiaro dall’Accademia Militare dell’esercito di Khalifa Haftar. Siamo venuti nella base di Tokra, una settantina di chilometri a est di Bengasi per vedere in diretta come l’uomo forte della Cirenaica intende creare i suoi ufficiali. Al momento vi si addestrano circa 1.500 cadetti per un corso di studi che dura tre anni. Il modello è quello delle accademie egiziane. Non è un mistero che il governo di Abdel Fattah al Sisi resta il punto di riferimento principale per Haftar. Proprio in queste ore la Bbc diffonde video e racconti secondo i quali i militari di Haftar avrebbero abusato dei cadaveri dei nemici uccisi, apparentemente nelle battaglie di Bengasi e Derna, negli scorsi anni. Sembrerebbe anche che alcuni ufficiali di Haftar avrebbero compiuto flagranti atti contrari a tutte le regole di guerra, sparando a sangue freddo contro i prigionieri. Queste accuse vengono rifiutate in toto dagli ufficiali di Haftar, che accusano invece le milizie avversarie, più o meno degli stessi crimini. Tutto attorno iniziano le “montagne verdi”, che sono la parte più agricola del Paese e dove si trovano anche tanti vecchi insediamenti italiani dell’epoca coloniale. Secondo il comandante dell’Accademia, il brigadier generale 66enne Emraja al Amami, circa 2.000 volontari si presentano ogni anno (è stata avviata da meno di tre) e più o meno 500 passano gli esami di ammissione. Una cinquantina tra loro fanno oggi parte della marina. Tanti erano tra i ranghi dell’esercito di Ghaddafi e in passato sono stati ospiti delle accademie italiane per corsi d’addestramento e cooperazione. Nel cortile sono parcheggiati vecchi pezzi d’artiglieria e mezzi corazzati russi. Venezuela. Maduro non molla e torna all’attacco: “Arrestate Lopez” di Emiliano Guanella La Stampa, 3 maggio 2019 Quattro vittime nelle proteste. Il presidente sfila tra i militari. Lavrov avvisa Trump: se interferite ci saranno conseguenze. Il golpe che non c’è stato ha fatto sprofondare il Venezuela in una nuova ondata di proteste con almeno quattro morti e centinaia di feriti e arrestati. Tra le vittime un ragazzo di 14 anni, Yofre Hernandez Velasquez, che era andato col padre ad appoggiare gli insorti davanti alla base militare de La Carlota ed è stato colpito da un proiettile che gli ha perforato l’addome. La prima controffensiva di Maduro è arrivata nel pomeriggio, quando un tribunale di Caracas ha ordinato l’arresto dell’oppositore Leopoldo Lopez, ora rifugiato in una residenza dell’ambasciata spagnola, dopo aver violato gli arresti domiciliari. La crisi infinita infiamma la piazza e innervosisce anche i rapporti tra Washington e Mosca, con il ministro degli esteri russo Lavrov che ha risposto stizzito alle dichiarazioni del suo pari americano Pompeo. “Non interferite negli affari del Venezuela o ci saranno gravi conseguenze”. Mentre Trump continua a ribadire che tutte le opzioni sono sul tavolo, nei corridoi della Casa Bianca il fallimento della ribellione di martedì inizia a far pensare che la questione venezuelana è molto più difficile di quanto ci si poteva aspettare. Nicolas Maduro, intanto, si è fatto vedere in parata militare assieme a migliaia di ufficiali a Fuerte Tiuna, il comando operativo delle Forze Armate nei pressi di Caracas. Ad ognuno la sua folla; Juan Guaidó sa di contare con l’appoggio di una popolazione stremata, ma l’erede di Chavez è tranquillo perché finora i militari stanno con lui. Una posizione di forza relativa per entrambi, ma che non basta a nessuno dei due per vincere. Un “pareggio tecnico” che gela gli slanci d’ottimismo su soluzioni magiche per uscire dalla crisi, internamente o sul fronte esterno. Lavrov e Pompeo si riuniranno la settimana prossima al meeting del Circolo artico a Rovaniemi e parleranno soprattutto del Venezuela. Tra le righe della cronaca, fatta di scontri, morti, retorica e proclami ci sono, in fondo, più domande che risposte. Come è possibile che Guaidó dica da tre mesi che i militari stanno con lui se a ogni tentativo di spallata al regime le defezioni sono minime? Perché Maduro non lo fa arrestare, come ha fatto con tanti altri, considerando che Guaidó circolava in giro protetto da una scorta di non più di 20 uomini armati? Esiste un dialogo sotterraneo che non si vuole scoprire per non dare segnali di debolezza? Nell’incertezza generale molti negozi e uffici rimangono chiusi, ma non è chiaro se è per lo sciopero generale proclamato dall’opposizione o se è più semplicemente perché in molti, con stipendi da fame e alimenti introvabili, non se la sentono nemmeno più di andare a lavorare. Centrafrica. In manette il missionario che documenta lo sfruttamento. Ma è rivolta di Matteo Fraschini Avvenire, 3 maggio 2019 Padre Aurelio Gazzera fermato perché documentava i danni ambientali provocati dalle miniere d’oro. Ma è stato rilasciato dopo le proteste in massa della sua gente. “Non mi sento molto tranquillo”. Commenta così ad Avvenire padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano residente da anni a Bozoum, nel nord-ovest della Repubblica centrafricana. Alcuni militari lo hanno fermato per ore sabato scorso per aver fotografato il sito di una miniera sfruttata da una compagnia cinese. “Abbiamo una pattuglia di caschi blu davanti alla parrocchia - spiega Gazzera -, ma la gente fatica a fidarsi anche di loro”. Tutto è iniziato quando una società cinese ha cominciato alcuni mesi fa a scavare nell’area alla ricerca dell’oro. I danni ambientali e umani provocati durante gli scavi possono però essere fatali per la gente del posto. Per questo il carmelitano, sostenuto dalla popolazione locale, ha deciso di indagare documentando i lavori di questa ditta. “Mi hanno sequestrato cellulare e macchina fotografica - racconta Gazzera - e poi mi hanno portato alla Brigata Mineraria, il comando militare incaricato di difendere le miniere”. L’arresto del religioso ha però provocato una rivolta popolare. Circa 4mila persone hanno manifestato per richiedere dalle autorità la sua liberazione. Gli abitanti di Bozoum hanno iniziato inoltre a minacciare i militari e la società cinese, bruciando almeno un veicolo ed erigendo barricate. Da anni, ormai, oro e diamanti vengono venduti o trafficati, alimentando le violenze nel Paese. “È paradossale che ci siano soldati pronti a difendere le società straniere e non la popolazione locale”, sottolinea il missionario. In Centrafrica quasi tutto il settore minerario coinvolge artigiani che non usano le dovute precauzioni nello scavare. Spesso ci sono persino donne e bambini nei siti delle miniere, in gran parte incustodite dopo lo sfruttamento iniziale. Da quando è riesplosa la guerra civile nel 2012, sono stati diversi gli accordi firmati per placare gli scontri spesso definiti frettolosamente “etnici o religiosi”. Come spesso accade, però, le vere ragioni delle sofferenze si trovano nel “bottino di guerra”. In questo caso si tratta appunto delle risorse minerarie a cui Paesi stranieri come Francia (ex potenza coloniale), Cina e Russia sono fortemente interessati. “La Cina non sta solo scavando per cercare l’oro - ci spiega un diplomatico occidentale che si trova sul posto. Sono anni che stanno esplorando il nord-est del territorio centrafricano per sfruttare le riserve di petrolio”. Tre giornalisti russi sono invece stati uccisi l’anno scorso per aver investigato i legami tra Mosca e la capitale Bangui, soprattutto nel settore dei diamanti e delle armi. “La situazione rimane molto tesa - conclude Gazzera. La settimana prossima dovrei recarmi a Bangui insieme ad alcuni leader religiosi per discutere con le autorità del nostro futuro. Vedremo”.