Il Dap: no ai colloqui riservati tra Garanti regionali e locali e detenuti al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2019 In Commissione antimafia si ritorna a parlare del 41bis e, in particolar modo, si mette all’indice il rischio dei colloqui riservati tra i garanti regionali e i detenuti al regime speciale. A farlo in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, è il direttore generale della Direzione generale del trattamento dei detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Calogero Roberto Piscitello. “Si pone il tema di cosa possa fare il Garante regionale e comunale: alcune recentissime sentenze - ha detto il direttore - hanno concesso ai Garanti la facoltà di accedere nelle sezioni e chiedere dei colloqui riservati con detenuti al 41bis: a mio vedere è un vulnus pericolosissimo perché mina ogni controllo”. Spiega che “Il colloquio del detenuto in 41bis con la famiglia avviene attraverso un vetro e viene registrato, nulla può sfuggire, mentre un Garante che ha facoltà di un colloquio riservato può conferire liberamente, al di là di ogni forma di controllo”. Per Piscitello è necessario intervenire legislativamente su questo punto, per quanto attiene i Garanti regionali e comunali. Ovviamente, raggiunto da Il Dubbio, il dottor Piscitello ha precisato che si riferisce esclusivamente ai Garanti regionali e locali, “mentre il Garante Nazionale istituito in Italia nel 2016 ha il diritto ad avere questa facoltà, così come prevede la convenzione dell’Onu”. In commissione antimafia, Piscitello, a proposito dei colloqui riservati dei garanti locali, ha chiarito: “Ogni volta che si è presentato un caso del genere ha chiarito Piscitello - ho impugnato quella richiesta: è accaduto però che o il garante o il detenuto hanno fatto ricorso alla magistratura di sorveglianza che ha concesso il colloquio. Io mi sono assunto la responsabilità di non dare corso a quel provvedimento, talvolta di due tribunali di sorveglianza. In un caso in particolare per detenuto di camorra il tribunale di sorveglianza ribadisce il fatto che il provvedimento di diniego fosse illegittimo; nei fatti il mio ufficio si è sovraesposto impugnando sempre questi provvedimenti”. In sintesi il direttore generale del Dap chiede a gran voce una norma che vieti espressamente il colloquio riservato tra il garante regionale o locale e il detenuto al 41bis. L’ultima sentenza, a firma del magistrato di sorveglianza di Spoleto, il quale ha deciso di consentire i colloqui riservati in sede di rinvio dopo l’annullamento della Corte di Cassazione, aveva messo fine alla lunga diatriba dove da una parte c’è, appunto, la battaglia intrapresa dal Garante regionale Stefano Anastasìa il quale parla dell’importanza dei colloqui riservati, perché un detenuto al 41bis dovrebbe avere la possibilità di denunciare eventuali abusi senza che i comandanti di reparto o direttore penitenziari lo sappiano immediatamente; dall’altra, invece, c’è chi si oppone - come il direttore generale Piscitello del Dap - perché un garante potrebbe diventare, anche inconsapevolmente, un veicolo di messaggi mafiosi per l’esterno. Va specificato che, dopo l’adesione dell’Italia alla Convenzione Onu del 2002, la quale prevede che ogni Stato abbia una figura istituzionale che possa effettuare colloqui riservati con i detenuti, nel 2014 il nostro Parlamento ha previsto l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale con l’emanazione di un apposito regolamento, dove è riconosciuta questa prerogativa: quella di poter parlare in via riservata anche con i detenuti al 41bis. Compito che, appunto, spetterebbe al Garante nazionale. La riforma dell’ordinamento penitenziario avrebbe allargato la possibilità a tutti i garanti, dando così la possibilità al detenuto di sentirsi libero di esprimere le proprie doglianze senza subire condizionamenti di alcun genere. Intesa Dap-ePrice per lavoro detenuti, si inizia da Roma e Torino di Marco Belli gnewsonline.it, 31 maggio 2019 Impiegare spazi inutilizzati all’interno degli istituti penitenziari per metterli a disposizione della filiera commerciale e logistica di ePrice, primo operatore italiano nell’e-commerce: magazzini per i prodotti destinati alla vendita sulla piattaforma online dell’azienda, aree di stoccaggio e aree da adibire alla riparazione del reso troveranno spazio dentro le mura del carcere e coinvolgeranno i detenuti in un grande progetto di reinserimento sociale attraverso la formazione e il lavoro. Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed ePrice Operations srl hanno sottoscritto oggi un protocollo d’intesa che sancirà l’ingresso della società specializzata nella vendita online di tecnologia ed elettrodomestici come partner strategico nell’avvio di iniziative di lavoro all’interno degli istituti penitenziari, con l’obiettivo di garantire percorsi formativi e professionalizzanti in favore della popolazione detenuta. La Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “R. Cinotti” e la Casa circondariale di Torino “Lo Russo e Cutugno” sono gli istituti penitenziari in cui sono state individuate sul piano strutturale e logistico le aree, attualmente non utilizzate, che per dimensioni possono ospitare i magazzini e le attività lavorative che saranno definite nei protocolli operativi che seguiranno all’accordo odierno. I detenuti, che nella fase iniziale del progetto saranno 4 per ciascun istituto - numero destinato a crescere con il progredire del progetto - riceveranno una formazione individuale altamente qualificata, con opportunità di assunzione nelle attività logistiche connesse all’e-commerce. L’intesa è stata firmata oggi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal Capo del Dap Francesco Basentini, dall’Amministratore Delegato di ePrice Operations Raul Stella e dai Direttori dei due istituti penitenziari di Roma, Rosella Santoro, e di Torino, Domenico Minervini. “ePrice è un’azienda di e-Commerce al 100% italiana e siamo molto felici di essere coinvolti in un progetto socialmente utile per il nostro Paese lavorando insieme al Ministero della Giustizia e al Dap. Le migliori professionalità della logistica e della distribuzione dell’e-Commerce di ePrice collaboreranno con i Direttori degli Istituti Penitenziari di Rebibbia e Torino per rendere le carceri italiane un luogo dove trasferire competenze e conoscenze che contribuiscano a costruire un futuro migliore per i detenuti”, ha commentato al termine l’Amministratore Delegato di ePrice Operations, Raul Stella. “Siamo lieti di poter iniziare oggi - gli ha fatto eco il Capo del Dap, Francesco Basentini - un cammino significativo che riguarda il reinserimento nella società di persone che potranno usufruire dell’opportunità di una adeguata formazione professionale che domani potrebbe portare a possibilità di assunzione lavorativa o potrà comunque risultare spendibile nel mondo del lavoro. E siamo lieti, a maggior ragione, che a proporsi e ad offrire questa opportunità sia una così importante realtà commerciale italiana, che ringrazio per la disponibilità e per la visione sociale che l’ha portata a varcare le mura del carcere per promuovere un importante progetto di inclusione”. Solidarietà e inclusione, le tecnologie digitali si imparano (anche) in carcere di Giovanni Francavilla Economy, 31 maggio 2019 Il progetto delle Cisco Academy nei penitenziari italiani sottoscritto da Confprofessioni dà buoni frutti: in tre anni coinvolti cinque istituti di pena che hanno formato oltre 300 detenuti grazie ai liberi professionisti. A tre anni di distanza dal Giubileo dei liberi profesionisti, che ha simbolicamente concluso l’Anno Santo della Misericordia, Confprofessioni e Cisco tornano in Piazza San Pietro per illustrare a Papa Francesco i progressi del “Progetto Carceri”, un percorso di alta formazione in informatica e telecomunicazioni rivolto ai detenuti varato nel 2016 da Cisco con il Ministero della Giustizia, Confprofessioni, Vodafone, Cooperativa Universo ed esteso recentemente alla Fondazione di Comunità Monza e Brianza e UniCredit. “Fin dal primo momento abbiamo condiviso i valori di solidarietà e di inclusione sociale del progetto Cisco Academy e siamo orgogliosi di aver dato il nostro contributo per favorire l’inclusione sociale e dare una nuova opportunità ai più svantaggiati”, commenta il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella. “E oggi come tre anni fa, siamo davanti al Santo Padre per portare il nostro impegno e la nostra testimonianza sull’importanza della formazione e del lavoro anche dentro te carceri”. Partito dal carcere di Bollate, il programma ha coinvolto altri quattro istituti di pena (Opera, Monza, Regina Coeli e Secondigliano, dove sono stati formati oltre 300 detenuti, alcuni dei quali hanno conseguito la certificazione Cisco e, attualmente, sono 106 gli studenti, uomini e donne, che seguono i corsi formativi coordinati da Lorenzo Lento, presidente della Cooperativa Universo. Ma il flore all’occhiello del programma, come racconta Francesco Benvenuto, direttore relazioni istituzionali di Cisco Italia, è che “tutte le persone che hanno frequentato i corsi della Cisco Academy, una volta scontata la pena in carcere, non commettono più reati”. Recidiva zero. Dentro le aule delle Cisco Academy, impegno e speranza si mescolano alla voglia di riscatto e alla prospettiva di trovare un lavoro dignitoso. Si contano gli anni, i mesi e i giorni della pena da scontare. Molti ce la fanno: alcuni diventano formatori per insegnare ad altri detenuti i segreti delle tecnologie digitali, altri si costruiscono una nuova carriera nel settore informatico e delle telecomunicazioni. È la storia, per esempio, di Luigi Celeste oggi affermato consulente di sicurezza informatica che ormai lavora da tre anni per una importante multinazionale con incarichi anche all’estero. Luigi ha scritto un libro: “Non sarà sempre così” che racconta la sua storia di rinascita e riscatto grazie allo studio. Ma è anche la storia di tutti quelli che hanno ancora una speranza. Csm, l’inchiesta che sconvolge la magistratura di Gianluca Di Feo La Repubblica, 31 maggio 2019 Il mercato delle nomine e le tangenti: fino a che punto è arrivata la corruzione in Italia? Mai nella storia patria era stata contestata la vendita delle designazioni dei procuratori. C’è un senso di vertigine nel leggere le accuse dell’inchiesta di Perugia, come se fosse saltato l’ultimo diaframma di un tunnel aprendo lo sguardo sul baratro. Fino a che punto è arrivata la corruzione in Italia? Mai nella storia patria era stata contestata la vendita delle nomine dei procuratori, macchiando con il sospetto quell’organo di autogoverno che arbitra l’indipendenza delle toghe. Stiamo parlando del Consiglio Superiore della Magistratura, uno dei pilastri del nostro sistema democratico, presieduto dal capo dello Stato. E al centro di questa vicenda, la cui rilevanza penale verrà accertata nei processi, c’è il pm Luca Palamara che ha guidato per anni l’Anm, rappresentanza unica delle toghe. Certo, il Csm in passato è stato luogo di scontri feroci, in nome del corporativismo correntizio o di visioni diverse dell’ordinamento giudiziario, con l’influenza più o meno incisiva della politica. Adesso invece le porte del Csm appaiono spalancate alle scorribande dei faccendieri, che irrompono come mercanti nel tempio della Giustizia per insediare i loro uomini nelle poltrone utili ad azzerare il rischio di indagini o, peggio, ad armarle contro i loro avversari. Il livello forse ultimo della degenerazione delle istituzioni, corrotte nel senso etimologico del termine che indica una rottura dall’interno, come una crepa che finisce per frantumarle. Bisogna però guardare oltre l’intreccio di tangenti e ricatti emerso finora dall’inchiesta. Allargare il quadro oltre la lista di mazzette, regali e dossier per decifrare la grande manovra che vede interessi enormi scendere in campo in un momento critico per la vita del Paese. Una scacchiera in cui oggi si muovono con altrettanta disinvoltura esponenti di partiti di sinistra, come il Pd, o antichi maestri delle trame di destra. E dove ci sono forze vecchie e nuove accomunate da un unico obiettivo: smantellare l’autonomia degli uffici inquirenti più importanti. Il bersaglio principale è il modello creato da Giuseppe Pignatone nella procura di Roma, che ha trasformato il “porto delle nebbie” in una struttura capace di colpire il tradizionale malaffare dei colletti bianchi e la nuova colonizzazione mafiosa della Capitale, realtà spesso alleate nei loro progetti criminali, arrivando a ipotizzare reti di corruzione altissime. Pignatone ormai è in pensione ma un blocco di potere profondamente radicato nei palazzi romani si è coalizzato per azzerarne l’eredità. Conta sul consenso di parte della magistratura sempre più dominata, negli organi di rappresentanza ma soprattutto nell’attività quotidiana, da una voglia di normalità scandita secondo canoni conservatori che disprezzano i protagonismi e l’eccesso di zelo. È una cesura netta rispetto alla stagione cominciata negli anni Settanta dai “pretori d’assalto”, tanto cari a Sandro Pertini, proseguita poi con le indagini di Mani Pulite e quelle antimafia. Tra i giudici, questa visione del proprio ruolo è sempre stata presente e ha radici nobili. Talvolta però si è tradotta in una maggiore attenzione alle prerogative di corporazione che non all’efficienza dell’azione giudiziaria. E in alcuni casi, l’ambizione personale ha spinto all’intesa con quei potentati in grado di favorire le promozioni. Mai però era arrivata alle bustarelle e ai dossieraggi, alle riunioni notturne di congiurati in toga animati dal rancore e dalla brama di carriera. Uno scenario allucinante, che segna una vera emergenza democratica e impone una risposta altrettanto forte per restaurare la credibilità della magistratura. Perché l’inchiesta esplode mentre sempre di più nel Paese si mette in discussione la cultura delle regole, invocando la supremazia del fare: un’operazione avviata negli anni berlusconiani che adesso ha trovato in Matteo Salvini l’uomo forte capace di completare il disegno. E il leader leghista sa che anche una parte delle toghe non è insensibile al suo richiamo. Lo ha dimostrato lo stesso Csm negando per due volte la solidarietà all’allora procuratore Armando Spataro, attaccato dal ministro dell’Interno. Il pessimo segnale di un’inversione di tendenza, che rischia di condizionare il futuro del Paese. Flick: “la credibilità della magistratura esce a pezzi da questa vicenda” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 31 maggio 2019 L’ex presidente della Corte costituzionale: “Il Csm è troppo importante perché si possa bruciarne l’onorabilità”. Professor Giovanni Maria Flick, cosa succede al Csm? Sulla nomina del successore di Pignatone la magistratura sta dando una pessima immagine di sé… “Io non conosco assolutamente la vicenda, ma in termini generali faccio una constatazione: che i magistrati riservano tra di loro lo stesso trattamento che riservano ai politici. Quindi vale per i magistrati la stessa necessità di rispetto della presunzione di innocenza. Non mi pare che si possa parlare di inchieste ad orologeria né nei confronti dei politici né nei confronti dei magistrati”. Beh, però da giorni girano sui giornali veline e intercettazioni di una “corrente” contro l’altra, ci sono esposti di membri del Csm contro altri… Una guerra senza esclusione di colpi in cui le inchieste vengono usate per colpire il rivale… “Tutte le polemiche che accompagnano il tourbillon delle nomine danneggiano la credibilità della magistratura. Non a caso il presidente della Repubblica ha raccomandato la massima trasparenza e celerità nelle nomine. Capisco che sembro Alice nel paese delle meraviglie, ma se vogliamo che la magistratura abbia la fiducia del paese bisogna che la sappia meritare censurando chi prende queste iniziative. Il Csm è troppo importante perché si possa pensare di bruciarne la credibilità. Al di là del problema se vi possano essere o no reati, questa è una vicenda molto pesante per la credibilità della magistratura e del Csm. Ma senza Csm la magistratura non va avanti e senza magistratura non va avanti il paese”. Ma come si fa a riportare ordine nella magistratura senza minarne l’indipendenza? “Con proibizioni e leggi si ottiene poco, bisogna ricominciare con la cultura. Vale per la magistratura e per gli altri. Il Csm è un organo essenziale per l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura. Detto questo, non c’è dubbio che la magistratura ha occupato un ruolo di supplenza che forse sarebbe stato meglio non occupasse: va detto con il massimo di fermezza, le iniziative di tipo politico da parte della magistratura associata lasciano perplessi. Bisogna che i magistrati tornino a rivalutare il proprio ruolo: indagare su fatti, reati e persone specifiche e non pretendere di scrivere la storia del paese, o intervenire nella storia del paese per sostituirsi alla politica. Il magistrato ha il problema di evitare coinvolgimenti e valutazioni di carattere politico che possano trascinarlo in polemiche come quelle che capitano in questi giorni”. È proprio quello che stiamo vedendo: la scelta di un procuratore fatta attraverso una guerra tra correnti anziché in base a titoli e meriti… “Nel caso specifico, serve il massimo di trasparenza in questo tipo di indagini. Non so se vi sono responsabilità e se verranno provate. Mi auguro che la vicenda venga approfondita il più rapidamente possibile, come chiediamo quando si tratta dei politici. Ci sono due piani diversi: gli eventuali reati commessi, che se ci sono vanno punti col rigore che la legge prevede in questi casi. Poi c’è il contorno, nel quale possono svilupparsi strumentalizzazioni: bisognerebbe intervenire non levando a giudici e magistrati il diritto di associarsi e discutere ma ricordando loro che la loro funzione è quella di giudicare fatti e reati specifici. Il capo di una procura è una persona che va scelta per la sua capacità, professionalità, serietà. Tutto il resto non ci deve entrare. Non perché sia reato, ma perché non giova alla credibilità della magistratura”. Anpci: l’abuso d’ufficio va cancellato, reato indefinito che paralizza le amministrazioni Italia Oggi, 31 maggio 2019 L’Associazione rilancia la proposta già discussa nel 2017. Abolire l’abuso d’ufficio e ripristinare l’elezione diretta dei consigli provinciali. Sono due punti irrinunciabili della piattaforma rivendicativa dell’Anpci che l’Associazione guidata da Franca Biglio (di fresca rielezione a sindaco di Marsaglia con l’81,4% dei voti) rilancerà con forza quando i palazzi della politica saranno tornati a lavorare a regime dopo la pausa elettorale. L’abuso d’ufficio va abolito perché costituisce una spada di Damocle sulla testa di migliaia di sindaci onesti. Il dibattito preelettorale ha rilanciato una proposta che è sempre stata presente nella piattaforma rivendicativa dell’Anpci ed è stata ribadita anche nel corso dell’ultima assemblea tenutasi a settembre 2018 a Inverno e Monteleone (Pv). L’Anpci chiede un intervento normativo per abrogare il reato previsto dall’art. 323 del codice penale o quantomeno per modificarne il perimetro d’applicazione. Si tratta infatti di una condotta delittuosa talmente indefinita, per la molteplicità delle fattispecie e delle norme spesso di difficile interpretazione, che ogni sindaco rischia di finire indagato semplicemente per aver fatto il proprio dovere di amministratore della cosa pubblica. Per questo è necessario porvi rimedio, per liberare i sindaci dal peso di un’imputazione che è sempre dietro l’angolo. Basta infatti un esposto da parte delle opposizioni (che spesso preferiscono le carte bollate alla normale dialettica in consiglio comunale attraverso interpellanze e interrogazioni) per avviare indagini che il più delle volte non portano a nessun risultato tranne quello di paralizzare, in attesa che la giustizia faccia il proprio corso, l’azione di governo dei sindaci. “Il legislatore ha il preciso dovere di affrontare urgentemente tale problematica affinché sia chiaro a tutti ciò che è lecito e ciò che è illecito, evitando aree di indeterminatezza e ambiguità”, ha osservato in una nota Franca Biglio. “Oggi se un sindaco fa, rischia l’imputazione per abuso d’ufficio, se non fa rischia di finire indagato per omissione d’atti d’ufficio. Uno stato di incertezza che sta paralizzando i comuni”. Per questo l’Anpci chiede al governo di riprendere l’interlocuzione avviata sul tema dall’ex ministro Enrico Costa che nel 2017, quando era a guida degli Affari regionali, aveva istituito un tavolo di lavoro presieduto da Carlo Nordio e a cui sedevano il consigliere di stato Gerardo Mastrandrea, il prefetto Emanuela Garroni, i docenti Luigi Stortoni e Luciano Vandelli dell’Università di Bologna e Marco Orofino dell’Università di Milano, nonché Enzo Bianco e per l’Anpci il consulente Vito Mario Burgio. La proposta avanzata al tavolo fu di un’abrogazione totale del reato di abuso. Una soluzione preferibile rispetto alla sua parziale riscrittura perché, come evidenziava il prof. Stortoni nella sua relazione “il vuoto di tutela conseguente ad una eventuale abrogazione della disposizione sembra rivelarsi non particolarmente significativo, soprattutto ben poco comparabile con gli inconvenienti che la previsione penale porta con sé”. Giudice e pm: una sola scuola di formazione ma un’idea di terzietà fatalmente diversa di Catello Vitiello* Il Dubbio, 31 maggio 2019 Quando ormai frequentavo l’università solo per tenere allenata la mente a osservare il processo penale con visione non troppo settaria - nel timore che potesse rivelarsi inquinata dalla mia naturale collocazione in quella “triade di giudicanti” di carneluttiana memoria - ritenevo che proprio la comune cultura della giurisdizione avrebbe sempre prodotto magistrati del pubblico ministero capaci di comprendere - ed esercitare - la terzietà, e di farsene portavoce anche nel corso delle indagini. Vedevo nell’articolo 358 del codice di rito le ragioni per dare all’obiettività lo stesso valore della terzietà, proprio lì dove l’assenza del giudice è solo eventuale. Dopodiché, ho imparato che lo studio del processo non può prescindere dalla quotidianità delle aule e dalla patologia delle prassi e ho compreso - anche a mie spese - che l’obiettività non può sovrapporsi alla terzietà. E in realtà non deve, perché diventerebbe un ossimoro giuridico: il pubblico ministero deve avere una sua teoria accusatoria e ha il diritto di... sbagliare! E però il suo potenziale errore deve poi trovare la “cura”. Ed è proprio qui che nasce il corto circuito: lo stesso percorso per l’accesso, la medesima “scuola di formazione” prima e dopo il concorso, destinano alla magistratura requirente lo stesso “diritto di interpretazione del fatto penalmente rilevante” della magistratura giudicante e, al contempo, inducono quest’ultima a dare - anche inconsapevolmente - maggiore valore alla tesi accusatoria rispetto a quella difensiva soprattutto nella fase delle indagini, laddove il controllo è fugace e inevitabilmente poco approfondito. Una deriva giurisdizionale a cui il migliore degli avvocati riesce solo di rado a fare da argine. Una deriva giurisdizionale che contraddice quel modello processuale che ha inteso - ormai oltre trent’anni fa - ben distinguere l’accusatore dal giudice. Potendo riconsiderare tutto, probabilmente sarebbe stato necessario discutere non su come salvaguardare il valore probatorio delle indagini (si vedano le sentenze additive della Consulta del 1992), bensì sulla tenuta dell’obbligatorietà dell’azione penale, sul nuovo significato di “ragionevole durata” (costituzionalizzata solo nel 1999 ma ancora lettera morta nelle aule di giustizia e fuori, dove si confonde con la prescrizione) e soprattutto sul senso di una colleganza dei magistrati, requirenti e giudicanti, ormai anacronistica. Non possono esserci dunque equivoci sulla ratio di una proposta di legge come quella sulla separazione delle carriere. Proposta che - è sempre utile ricordare - rappresenta l’espressione di una volontà “popolare” e non politica. Di questo occorre ringraziare chi come Beniamino Migliucci e Giandomenico Caiazza si è battuto perché arrivasse in Parlamento, ma anche i magistrati che già con la loro partecipazione ai dibattiti sul tema dimostrano la volontà di rifuggire da posizioni precostituite. Non poteva essere altrimenti, conoscendo, per motivi squisitamente professionali, la lungimiranza e la cultura giuridica di tanti di loro. *Deputato La Consulta: la messa alla prova può essere stabilita dal Gup di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2019 Non c’è bisogno alcun bisogno di una pronuncia di illegittimità costituzionale, perché a legge vigente la messa alla prova può essere concessa dal giudice direttamente in udienza preliminare. Quindi, di fatto, esistono ampi spiragli per la messa alla prova. Parliamo della sentenza della Corte Costituzionale numero 131 e depositata l’altro ieri. È accaduto che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli art. 464- bis, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui tali disposizioni “non prevedono la possibilità di disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio, il fatto di reato venga, su sollecitazione del medesimo imputato, diversamente qualificato dal giudice così da rientrare in uno di quelli contemplati dal primo comma dell’art. 168- bis” del codice penale. L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, anzitutto, l’inammissibilità delle questioni sotto il profilo dell’insufficiente motivazione della loro rilevanza. Nel caso di specie, non si tratterebbe in effetti di una diversa qualificazione, ai sensi dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., dello stesso fatto originariamente contestato dal pubblico ministero, bensì dell’emersione di un fatto diverso. Ma la Consulta sentenzia che l’eccezione è infondata, perché dal mero confronto tra il capo di imputazione e la pur sintetica descrizione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, delle risultanze istruttorie, non emerge infatti alcuna diversità tra i fatti storici di detenzione e cessione di marijuana e cocaina descritti nel decreto che dispone il giudizio, e quelli che l’imputato - sulla base degli atti di indagine - risulta effettivamente avere commesso; bensì - esclusivamente - una diversità nella qualificazione giuridica da parte del giudice rispetto a quella originariamente ipotizzata dal pubblico ministero, in ragione della modesta quantità delle sostanze stupefacenti detenute e cedute dall’imputato, con conseguente sussumibilità dei fatti contestati e accertati nella più favorevole fattispecie prevista dal comma 5 dell’art. 73 del d. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), anziché in quella più grave disciplinata dal comma 1. Tale situazione è per l’appunto disciplinata - come esattamente ritenuto dal giudice a quo - dall’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., pacificamente applicabile anche al giudizio abbreviato (Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 20 gennaio 1992, n. 477). Anche le altre obiezioni, risultano infondate dalla Consulta, perché ha già affermato, in una con la giurisprudenza della Cassazione (sezioni unite penali, sentenza 31 marzo - 1° settembre 2016, n. 36272), che lo speciale procedimento di sospensione del processo con messa alla prova costituisce un vero e proprio rito alternativo (sentenze n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015), in grado di assicurare significativi benefici in termini sanzionatori all’imputato in cambio - tra l’altro - di una sua rinuncia a esercitare nella loro piena estensione i propri diritti di difesa in un processo ordinario. In sintesi la Corte costituzionale ha sciolto ogni incertezza e ha detto che il giudice può concedere il beneficio della messa alla prova direttamente in udienza preliminare. Anche, magari, per evitare lungaggini che mina il principio di economia processuale. La messa alla prova, ricordiamo, che si tratta di un beneficio che comporta la sospensione del procedimento, la determinazione di un programma con attività di volontariato e lavori di pubblica utilità e, infine, se il programma va bene, l’estinzione del reato. Illegittima la vendita di cannabis light di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2019 Per le Sezioni unite penali, con una decisione nota per ora solo nell’informazione provvisoria, è illecita la vendita di prodotti derivata dalla cannabis. Nel dettaglio, “la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n.242 del 2016 che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa” delle varietà per uso a fini medici. Costituiscono dunque reato, afferma la Cassazione nella sua massima sulla cannabis light, “le condotte di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. Saranno dunque i giudici di merito, di volta in volta, a valutare quale sia la soglia di efficacia drogante che rientra nei parametri del consentito. Il verdetto emesso dalle Sezioni Unite si è concluso con l’annullamento con rinvio della revoca di un sequestro di prodotti derivati dalla cannabis, come chiesto dal Pg della Suprema Corte che si era espresso in prima battuta per l’invio degli atti alla Corte costituzionale. Le Sezioni unite hanno evidentemente valorizzato, delle due tesi con le quali hanno dovuto fare i conti, entrambe rappresentate da sentenze delle Sezioni semplici, il fatto che dai lavori preparatori non emerge la volontà del legislatore di consentire la messa in commercio della marijuana e dell’hashish provenienti dalle legittime coltivazioni di canapa. Come pure non è stata ritenuta convincente la tesi per la quale la commercializzazione di prodotto che non è illecito di per sé deve essere considerata automaticamente legale. Usurpazione titoli industriali perseguibile senza querela di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 30 maggio 2019 n. 24141. L’usurpazione del “modello comunitario” da parte di una azienda di abbigliamento è perseguibile d’ufficio. Quindi, la remissione della querela da parte della azienda che deteneva la proprietà del “titolo industriale” non blocca l’azione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 24141 di ieri, segnalata per il “massimario”. È stato così respinto il ricorso degli amministratori delegati di due società: la prima, italiana, attiva nella vendita all’ingrosso di calzature; la seconda, greca, utilizzata per l’importazione delle calzature. Entrambi erano stati condannati a 2 mesi e 15 gg di reclusione, oltre a 1.200 euro di multa ciascuno, per aver, al fine di trarre profitto, prima introdotto nel territorio italiano e poi venduto calzature in gomma “realizzate usurpando il modello di scarpe comunitario n. 00812698-0006, registrato regolarmente il 22 ottobre 2007” da un’altra azienda. Proposto ricorso, i due manager avevano sollecitato la dichiarazione di estinzione del reato per remissione di querela. Ma la Cassazione l’ha respinto. La Suprema corte ricorda che la querela è prevista soltanto per la fattispecie regolata dal 1° comma del 517-ter (rubricato “Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale”). Vale a dire, il caso di “fabbricazione” o “utilizzo industriale” di beni realizzati mediante “l’usurpazione o comunque la violazione di un titolo di proprietà industriale”. Ma non per la fattispecie di cui al comma 2 che, con riguardo ai “medesimi beni”, sanziona le differenti condotte della “introduzione nello Stato, della detenzione per la vendita, o comunque del porre in vendita” la merce, richiedendo inoltre anche il “fine di trarne profitto”. Le due fattispecie dunque “risultano accomunate dall’oggetto materiale del reato, individuato nei beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industria e o in violazione di esso, ma differiscono per il comportamento materiale dell’agente”. Un altro elemento comune, precisa la Corte, è ravvisabile nel trattamento sanzionatorio. Le due fattispecie, però, differiscono “per il regime della procedibilità”. Soltanto il 1° comma infatti dispone che il reato sia procedibile a querela della persona offesa, “mentre un’analoga specificazione non si rinviene nel comma 2”. “Né - conclude la decisione - può sostenersi che la procedibilità a querela sancita dal comma 1 si estenda implicitamente al comma 2, dovendosi evidenziare che di regola l’azione penale è esercitata d’ufficio, qualora non sia necessaria una condizione di procedibilità, cioè la querela, la richiesta, l’istanza o l’autorizzazione a procedere”. Siracusa: resta in cella nonostante il coma, il dramma di un detenuto catanese di Antonio Giordano livesicilia.it, 31 maggio 2019 A lanciare la denuncia l’Osservatorio per i diritti umani e l’Onlus “Sicilia Risvegli”. Un piantone li blocca, i familiari non possono vedere un parente finito al pronto soccorso. Il giorno dopo la scoperta: l’uomo, detenuto al carcere di Floridia, è in coma da dieci giorni e li ha passati chiuso in una cella con un altro detenuto. La denuncia arriva dall’Osservatorio per i diritti umani e da Sicilia risvegli, che parlano di un caso accaduto a un catanese di cinquant’anni. L’appello delle onlus: “Lotta tra la vita e la morte, scarcerare immediatamente”. A raccontare la vicenda è Alessio Di Carlo, avvocato che si occupa della vicenda per conto di Sicilia risvegli e Oidu: “Nella seconda settimana di maggio i familiari hanno avuto notizia che il loro parente non stava bene e lo hanno raggiunto al pronto soccorso di Siracusa, ma qui si sono trovati davanti un agente che non li ha fatti entrare”. Il giorno seguente i parenti sono tornati e solo allora, prosegue il racconto di Di Carlo, “hanno saputo che era ricoverato in terapia intensiva, perché nei dieci giorni precedenti stato colpito da un ictus”. Il detenuto, secondo quanto riferisce l’avvocato, sarebbe caduto in coma ma sarebbe stato tenuto dentro una cella insieme a un altro detenuto, e in queste condizioni sarebbe caduto dal letto rompendosi un dito. Da quando è ricoverato, è tenuto in coma farmacologico, una condizione che negli ultimi giorni, secondo quanto riferito dal legale, sarebbe peggiorata. “Sarà importante capire cosa è successo - dice Di Carlo - sappiamo che in passato il detenuto aveva avuto problemi simili ma si deve capire il motivo per cui in quei dieci giorni è stato tenuto in cella”. “Si sta gravemente pregiudicando e offendendo la dignità di un essere umano”, Sicilia Risvegli, una delle Onlus che hanno sollevato il caso, scrive in un comunicato che “dalle informazioni ricevute pare che nonostante le gravissime ed estreme condizioni di salute il detenuto sia stato portato in ospedale dopo dieci giorni. Sul perché di questo ritardo nei soccorsi - si legge ancora nel comunicato - ci impegneremo affinché verranno fatti gli opportuni accertamenti e verificate eventuali responsabilità”. L’associazione prosegue scrivendo che “si sta gravemente pregiudicando e offendendo la dignità di un essere umano, che ancora oggi risulta detenuto nonostante versi in uno stato assolutamente incompatibile con la detenzione. Le sue condizioni attuali - prosegue il comunicato - sono gravissime, si trova in stato vegetativo persistente, con minima risposta. Sicilia Risvegli Onlus lancia un immediato appello al magistrato di sorveglianza competente per scarcerarlo immediatamente senza perdere altro tempo”. Terni: detenuti agricoltori per una vita futura fuori dal carcere ternitoday.it, 31 maggio 2019 Misure alternative alla detenzione ed economia carceraria al Centro di Palmetta. Il primo giugno la città è invitata a conoscere il progetto Orto21 al Centro di Palmetta. Si terrà sabato 1 giugno presso il Centro di Palmetta la seconda giornata d’apertura di Orto21, l’iniziativa di agricoltura sociale promossa da Associazione Demetra in collaborazione con la Casa Circondariale di Terni. La giornata sarà l’occasione per presentare alla città i lavori svolti finora e per scoprire e approfondire insieme le tematiche legate all’economia carceraria e alle misure alternative alla detenzione. Alla scoperta dell’orto sinergico e di progetti virtuosi di economia carceraria - Si inizierà alle ore 17:00 con un confronto sulle misure alternative alla detenzione alla presenza -tra gli altri-di Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà per l’Umbria e il Lazio. Il programma prosegue poi con una passeggiata insieme ai beneficiari del progetto Orto21 alla scoperta dell’orto sinergico e con la presentazione delle “buone pratiche” di economia carceraria, dove saranno ospiti l’Azienda Agricola Capanne, la Cooperativa le Lazzarelle e il birrificio Vale la Pena, tutti esempi di realtà di successo in grado di offrire nuove opportunità di vita e lavorative ai detenuti attraverso l’avvio di progetti imprenditoriali virtuosi. Infine, grazie alla collaborazione con “Blob pratiche di evasione” e al “Csa Cimarelli”, sarà presentato per la prima volta a Terni “L’Organizzazione”, ultima fatica nonché primo romanzo di Cannibali e Re, collettivo che si pone l’obiettivo di rilanciare l’interesse, la partecipazione, l’amore per la Storia attraverso il proprio progetto narrativo. Il network di Orto21 - Il Progetto Orto 21 è finanziato dalla Chiesa Evangelica Valdese, dalla Regione Umbria e da alcuni donatori privati. Partner e sostenitori del progetto sono la Casa Circondariale di Terni, Ass. Ora d’Aria, Associazione Culturale Zoe, Associazione San Martino, Mercato Brado, Cmt Cooperativa Mobilità Trasporti Soc. Coop., Baronci srl, General Montaggi srl, Iosa srl, Secur3Level e alcune aziende agricole locali. Rimini: in scadenza la carica di Garante per i diritti dei detenuti riminitoday.it, 31 maggio 2019 L’ufficio istituito dal Comune per promuovere iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene. Con l’ultimo giorno del mese di maggio scade il mandato triennale a Ilaria Pruccoli, il “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale”, che, nel marzo del 2016, era stata nominata con una Delibera del Consiglio Comunale che l’aveva votata con la maggioranza assoluta. Quelle del “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale”, sono funzioni specifiche previste da un regolamento approvato nel 2014, che ne disciplina l’esercizio delle funzioni, i requisiti, le modalità per l’elezione ed i profili operativi inerenti la sua attività. Funzioni diverse che hanno consentito a Ilaria Pruccoli, in questi ultimi tre anni, di lavorare per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà, detenute sul territorio del Comune di Rimini. In particolare il lavoro svolto è stato orientato a garantire i diritti delle persone presenti presso la Casa Circondariale di Rimini, mediante la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene. Un lavoro svolto in accordo con l’Amministrazione comunale, finalizzato ad affermare il pieno esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile, in collaborazione con le associazioni e gli organismi operanti per la tutela dei diritti della persona, per diffondere la cultura della legalità anche e soprattutto attraverso la sensibilizzazione del tema carcere e delle sue problematiche. “Ci tengo a ringraziare in modo particolare Ilaria Pruccoli per il prezioso lavoro che ha svolto in questi anni - ha dichiarato la vicesindaco Gloria Lisi - Un impegno importante, portato avanti con serietà, insieme all’Amministrazione, che ha consentito di realizzare progetti e servizi a beneficio non solo dei detenuti ma, più in generale, di tutta la comunità riminese. Sono tante le attività culturali ed educative promosse anche dalle associazioni di volontariato, che si occupano di dare informazioni oppure di mettere in campo attività formative e professionali rivolte ai detenuti. Credo che la realtà del carcere, con tutte le sue problematiche e le sue opportunità, non debba essere considerata come una dimensione avulsa dal resto della città, ma una parte di essa che va conosciuta e considerata. In questo senso le funzioni del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, sono fondamentali. Un ruolo, istituito nel Comune di Rimini nel 2014 che, con il Consiglio Comunale, provvederemo a rinominare come prevede il regolamento”. Milano: detenuti in cerca di riscatto, fuori dal carcere c’è l’impresa di Andrea Gianni Il Giorno, 31 maggio 2019 Per 24 ore alla settimana lavorano fuori dal carcere di Opera, maneggiando carichi di paraffina che poi viene utilizzata nella “tecnologia del vetrino”. Cercano di lasciarsi alle spalle un passato violento. Trascorsi criminali, sangue e dolore provocato, anni di reclusione. Carlo Sbona, “imprenditore-scout” milanese, ha scelto di offrire un’occasione di riscatto a detenuti in “articolo 21”, assegnati al lavoro esterno nella cooperativa sociale Trasgressione.net fondata dallo psicologo Angelo Aparo. Li accoglie nell’azienda dove vengono prodotti strumenti per l’anatomia patologica, fondata nel 1977 in via San Faustino, quartiere Ortica. Da qualche mese sono al fianco dei 52 dipendenti Alessandro Crisafulli e Roberto Cannavò. Il primo - tra gli anni ‘80 e ‘90 controllava le piazze dello spaccio milanesi - sta scontando una condanna all’ergastolo per due omicidi e altri reati. Cannavò l’8 giugno 1992, per un regolamento di conti uccise a colpi di pistola un venditore ambulante, Agatino Razzano, al mercato di Moncalieri, alle porte di Torino. “L’esperienza finora è stata molto positiva - racconta Sbona - i detenuti hanno voglia di mettersi in gioco e li impieghiamo a turno in un magazzino dove vengono stoccati e lavorati grossi carichi di paraffina che arriva dalla Germania. È un vantaggio anche per noi, perché non è facile trovare qualcuno che voglia fare un lavoro manuale e ripetitivo. Nella nostra ditta lavorano persone provenienti da tutto il mondo, dal Pakistan, dal Senegal o dalle Filippine. Crisafulli e Cannavò forse sono gli unici italiani”. Presto l’esperienza potrebbe andare oltre perché Carlo Sbona, da decenni impegnato nel sociale con gli scout Agesci e Libera, si è reso disponibile ad affidare tutto il “ciclo della paraffina” alla coop Trasgressione.net, intenzionata ad aprire un’officina esterna per lavorazioni conto terzi. L’area è già stata individuata, uno stabile in viale Abruzzi a Peschiera Borromeo che verrebbe concesso dal Comune. “Il lavoro è solo una parte del nostro progetto perché il laboratorio, assieme all’attività di vendita di frutta e verdura che già svolgiamo, ci permetterebbe di sostenerci economicamente”, spiega Aparo, da oltre vent’anni in prima linea per il recupero dei detenuti nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore con il Gruppo della trasgressione, che ha visto tra i primi partecipanti il manager Sergio Cusani, quando era in cella per la maxi-tangente Enimont. “A Peschiera Borromeo vogliamo lanciare un progetto per la prevenzione del degrado - racconta - aprendo nello stesso stabile un centro per sviluppare la creatività dei giovani. I detenuti, che girano già nelle scuole lombarde, si spenderebbero contro bullismo, tossicodipendenza e criminalità”. Un sogno che, però, rischia di scontrarsi con la realtà. Il vecchio furgone a gasolio che la coop usa per trasportare frutta e verdura nei mercati e nei ristoranti milanesi presto non potrà più circolare nella nuova Ztl Area C: servono 40mila euro per acquistare un nuovo mezzo, indispensabile per il “braccio economico” del Gruppo della trasgressione. “Ho trascorso 25 anni della mia vita in carcere - racconta Crisafulli - e adesso, all’età di 54 anni, mi trovo senza competenze, anche se a Opera ho studiato e mi sono avvicinato alla cultura. È difficile ricostruirsi una vita. Il male che abbiamo fatto non si cancella, ma vogliamo provare a migliorare il nostro futuro e aiutare i ragazzi a non seguire strade sbagliate”. Catanzaro: carcere, inaugurato reparto scolastico nell’Alta Sicurezza cn24tv.it, 31 maggio 2019 Il rispetto verso le attività di studio, veicolo di crescita personale e sociale, si manifesta anche attraverso la cura dei luoghi in cui queste attività si svolgono. Nel carcere di Catanzaro la mattina del 29 maggio è stato inaugurato il reparto scolastico e trattamentale Alta sicurezza. “Un evento che è il frutto del lavoro dei detenuti, i quali con la loro attività hanno reso possibile la fruizione di luoghi non utilizzati per anni” ha spiegato il direttore Angela Paravati, consegnando a ciascuno dei ristretti un encomio, che sarà inviato alla magistratura di sorveglianza quale elemento di valutazione, ed una nota di apprezzamento al coordinatore del reparto, l’ispettore Giacinto Longo. “Abbellire e ripulire l’ambiente è un’attività che può accompagnare la pulizia dell’anima” ha commentato il vescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone, che ha proceduto al taglio del nastro e benedetto i nuovi luoghi di formazione allestiti presso la Casa Circondariale: aule scolastiche per la scuola primaria e secondaria, ma anche laboratori di sartoria, musica, informatica ed una palestra. Presenti anche il vicedirettore Emilia Boccagna, il personale di polizia penitenziaria ed il personale educativo, i magistrati di sorveglianza Laura Antonini e Angela Cerra, il preside del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti Giancarlo Caroleo, il direttore dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale Giuseppa Irrera e l’ingegnere Rosario Focà, dell’ufficio tecnico. La mattina si è conclusa con l’offerta di un buffet realizzato dal laboratorio di pasticceria gestito all’interno del carcere dai detenuti ed il finale dell’evento è stato allietato dalla musica dell’oboe di un detenuto. Realizzare queste aule è stata una concreta manifestazione dell’impegno da parte dei detenuti a partecipare al percorso trattamentale: chi studia, lavora, cucina, suona uno strumento musicale ha una possibilità in più di avere già “dentro” una vita diversa. Parma: l’Università in via Burla, open day per i detenuti La Repubblica, 31 maggio 2019 Oggi l’Università di Parma è entrata in carcere, con un Open Day dedicato ai detenuti. Obiettivo dell’incontro, che si è svolto questa mattina agli Istituti penitenziari di via Burla, era di informare le persone detenute sulla possibilità di iscriversi all’Università di Parma, scegliendo tra i tanti corsi di studio proposti grazie al supporto che lo stesso Ateneo offre. Dopo i saluti istituzionali da parte di Sara Rainieri, Pro Rettrice alla Didattica, Brunella Marchione e Sara Cametti della U.O. Comunicazione Istituzionale hanno illustrato agli oltre 50 detenuti presenti l’organizzazione dell’Università di Parma e l’ampia offerta formativa. A seguire, docenti di diverse aree hanno presentato i propri ambiti di insegnamento con brevi Seminari in pillola. L’incontro, cui ha partecipato il Direttore reggente degli Istituti penitenziari di Parma, dott.ssa Lucia Monastero, è stato organizzato anche grazie al coordinamento della dott.ssa Annalisa Andreetti, Responsabile amministrativa dell’Ateneo per le attività negli Istituti Penitenziari. L’intento di fondo dell’Open Day non è stato solo quello di fornire informazioni tecniche su quali lauree e quali corsi si possano seguire, ma soprattutto di sensibilizzare le persone detenute sull’importanza dello studio, per un possibile lavoro futuro e più in generale per migliorare il proprio percorso personale, dotandosi di strumenti culturali e coltivando i propri interessi. I Seminari in pillola, tenuti da docenti di materie molto diverse, dalla zoologia alla filosofia, dalla biologia alla letteratura, oltre a sollecitare grande interesse da parte dell’uditorio, hanno mostrato come ogni tipo di conoscenza serva per rispondere a questioni che riguardano la vita di ogni giorno, e ciò che tocca le persone in prima persona e da vicino. Nel corso della mattinata è stata presentata la possibilità offerta dall’Ateneo di approfondire tanti tipi di discipline (dalle scienze naturali a quelle sociali, dalle lettere alle arti) con modalità diverse: dalla normale iscrizione ai corsi triennali, per conseguire la laurea, sino alla fruizione di singoli insegnamenti universitari, per arricchire il proprio curriculum anche senza arrivare a una laurea. Dopo la stipula dell’accordo con gli Istituti penitenziari di Parma presentato il 4 dicembre 2018, l’Università di Parma sta lavorando alla costituzione di un vero e proprio Polo Universitario Penitenziario, che prevede lo sviluppo di diverse modalità di supporto agli studenti detenuti: dal tutoraggio in carcere ai colloqui con docenti, dai seminari con studenti iscritti alle facilitazioni per il pagamento delle tasse. Napoli: “Regalami un sorriso”, a Poggioreale protesi dentarie per i detenuti indigenti ilnapolista.it, 31 maggio 2019 Il progetto si chiama “Regalami un sorriso”. Nasce da un protocollo di intesa tra Rotary, carcere, l’Asl Napoli 1 e Istituto “Casanova”. Al carcere di Poggioreale, i detenuti in condizioni economiche più disagiate hanno chi cura i loro denti gratuitamente. Accade grazie al progetto “Regalami un sorriso”, che fornisce loro protesi dentarie mobili. Il progetto - Il progetto nasce da un protocollo di intesa sottoscritto dal Rotary International Distretto 2100, il carcere di Poggioreale, l’Asl Napoli 1 Centro e l’Istituto Statale Istruzione Secondaria per odontotecnici “A. Casanova”. Quest’ultimo è stato coinvolto grazie al sistema dell’Alternanza Scuola Lavoro. Il progetto “Regalami un sorriso” è nato dall’idea di una rotariana, nella doppia veste di dirigente di istituto per odontotecnici e di Past President del Rotary Club Napoli Castel Sant’Elmo. Prevede la donazione di protesi mobili ai detenuti in condizione di grave disagio economico, fisico e psicologico. Gli allievi, i docenti e i tecnici del Casanova hanno realizzato le protesi in Alternanza Scuola Lavoro con la collaborazione di un tutor esterno, Vittorio Capezzuto. L’Asl Napoli 1 Centro e i volontari odontoiatri rotariani, Luca Mastangelo, Andrea Lalli e Massimo Galletta, hanno effettuato l’assistenza odontoiatrica necessaria. Il primo anno di attività - Nel primo anno di attività a Poggioreale, non solo sono state donate protesi, ma è stato anche realizzato un corso di orientamento agli studi odontotecnici culminato nell’istituzione di una sezione carceraria di istruzione statale per odontotecnici. Il secondo anno - In questo secondo anno, a Secondigliano, si è riproposto il progetto con l’intenzione di creare presso l’istituto di pena un Centro di fresaggio odontotecnico. Qui i detenuti potranno non solo formarsi come tecnici del Cad/Cam ma potranno lavorare producendo in autonomia gli elementi richiesti per realizzare protesi. Le istituzioni coinvolte - Fondamentale il ruolo del Provveditore Regionale per la Campania Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Garante Nazionale per i diritti dei detenuti, che hanno sostenuto l’iniziativa del Rotary. A garantire lo svolgimento virtuoso del progetto la direttrice dell’Istituto di Pena, Giulia Russo e il dirigente del servizio di Medicina Penitenziaria, Lorenzo Acampora. L’azione di grande valenza sociale evidenzia il valore della persona favorendone il recupero e riorientandolo verso i valori della socialità, legalità e inserimento lavorativo. Pisa: quando il carcere diventa palcoscenico, termina il percorso teatrale al Don Bosco gonews.it, 31 maggio 2019 Si è concluso il percorso annuale della Scuola di Teatro Don Bosco. Dopo la rappresentazione de La Tempesta di Shakespeare - spettacolo che ha visto insieme sulla scena gli allievi detenuti e gli studenti della Scuola Normale Superiore - il palcoscenico della Casa Circondariale ha ospitato anche due spettacoli della compagnia “I Sacchi di Sabbia”, che grazie al contributo di Fondazione Pisa e Regione Toscana, da anni cura questo progetto. La due giorni, è stata inaugurata il 22 maggio con “Andromaca” da Euripide, rivisitazione della tragedia greca in chiave ironica. A seguire, il 28 maggio al Don Bosco si è inscenata “I Dialoghi Degli Dei”, dall’opera di Luciano di Samosata, gustosa carrellata di vizi e virtù degli abitanti dell’Olimpo in chiave contemporanea. Chiudere con due classici, rappresentati da professionisti, chiosa perfettamente il percorso annuale della Scuola, che ha visto una quarantina di allievi detenuti elaborare, coadiuvati dai normalisti, due testi antichi di grande importanza: “Gli Uccelli” di Aristofane e “La Tempesta” di Shakespeare. Francesca Censi, coordinatrice del progetto, attrice e animatrice storica, con Paolo Pierazzini della Compagnia del Lux, dice: “La scuola è prima di tutto un luogo di confronto umano e culturale dove le allieve e gli allievi possono fare esperienza di socialità e comunicazione attraverso il linguaggio del teatro, della letteratura e della poesia”. Gabriele Carli de “I Sacchi di Sabbia”, interviene dicendo: “ Il progetto ha dato buoni risultati sia dal punto di vista della partecipazione, con quaranta allievi l’anno, tra detenuti e detenute, sia dal punto di vista rieducativo. È stato infatti rilevato, dall’Area Pedagogica dell’Istituto, che attraverso la pratica teatrale e il confronto con il gruppo, i detenuti -in particolare quelli con problemi di tossicodipendenza- sono riusciti a far emergere capacità e competenze mai utilizzate prima”. Ogni ciclo di lavoro, ha previsto una performance finale dei detenuti aperta a un pubblico composto dal resto della popolazione carceraria dell’Istituto. Censi e Carli sono stati coadiuvati da Carla Buscemi, giovane allieva della Compagnia. Roma: “Famiglia”, Marcello Fonte e il bel teatro dei detenuti allo Spazio tuacitymag.com, 31 maggio 2019 In scena, da oggi fino a domenica 2 giugno, al Teatro Lo Spazio lo spettacolo “Famiglia”, realizzato con attori detenuti ed ex detenuti. Sul palco anche Marcello Fonte “Questo spettacolo è dedicato a chi non c’è. Ai figli lontani e ai padri che sono morti mentre i figli erano lontano. Sulla scena ci sono tutti, le persone, i personaggi e i fantasmi. Non importa se non c’è più il muro di un carcere a separarli. Ancora una volta questi attori usano il teatro per quello che serve, per colmare una distanza, per aggredire il senso di colpa, per sostenere il peso del giudizio. Per parlare a chi forse è in platea o a chi forse non c’è più. Ed è in questo sforzo ed in questa necessità che ci raccontano della famiglia, della ferocia degli affetti, dell’amore e della violenza, della solitudine. Del tempo che passa. In un semplice, tragico, commovente passaggio dalla realtà alla finzione”. Scrive così Valentina Esposito nelle note di regia di Famiglia, lo spettacolo in scena da stasera e fino a domenica al Teatro Lo Spazio. Uno spettacolo molto particolare, come tutti gli altri realizzati da Valentina Esposito, autrice e regista, fondatrice, nel 2014, di Fact (Fort Apache Cinema Teatro).un progetto teatrale rivolto a detenuti ed ex detenuti per il loro inserimento nel sistema spettacolo. Non sono pochi gli obiettivi raggiunti fino ad oggi e le collaborazioni tra gli attori di Fact e importanti registi contemporanei, come Francesca Comencini, Claudio Caligari, Stefano Sollima, Sidney Sibilia, Daniele Luchetti, Valerio Mastandrea, Marco Ponti e Matteo Garrone che trova nel volto di Marcello Fonte, ormai testimonial del progetto Fact, quello del suo Dogman, che sbanca il Festival di Cannes 2018 aggiudicandosi la Palma D’Oro e vince come Miglior Attore agli oscar europei, gli European Film Awards. Insieme a Fonte, sono tanti gli attori (ex detenuti e non) che danno vita all’esperienza di Fact: Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi e Cristina Vagnoli, tutti interpreti sul palcoscenico del Teatro Lo Spazio di uno spettacolo che prova a scandagliare l’anima di uomini che nei lunghi anni di reclusione hanno sofferto per gli affetti lontani, per i figli distanti, per gli amori perduti, e si trovano ora a tentare una ricostruzione emotiva di un rapporto difficile fatto di rivendicazioni e ribellioni. Nella pièce della Esposito, il matrimonio dell’ultima e unica figlia femmina di una numerosa famiglia tutta al maschile, diventa pretesto per riunire tre generazioni di persone legate da antichi dolori e irrisolte incomprensioni, per rimettere sullo stesso tavolo i padri dei padri e i figli dei figli, e consumare una vicenda d’amore e d’odio, sospesa tra passato e presente, sogno e realtà. Imperia: sport all’interno delle carceri, un successo il progetto “Ponte” di Maurizio Vezzaro La Stampa, 31 maggio 2019 Corsi di pallavolo, calcio e balon nel carcere di Imperia, calcio a cinque con torneo finale nel penitenziario di Sanremo. Si è concluso il percorso educativo che ha visto impegnate nel portare avanti un progetto con fondi regionali (il nome simbolico del progetto era “Ponte”), Uisp, Acli e Arci. “Un progetto - spiega Lucio Garzia presidente Uisp di Imperia - condiviso in maniera entusiastica dal direttore dei due carceri Francesco Frontirrè, perché finalizzato a far compiere ai detenuti un percorso ispirato a valori quali tolleranza, rispetto, fair play. In tale contesto lo sport e il gioco sono stati utilizzati quali strumenti per accrescere l’autocontrollo, la comunicazione e l’integrazione”. Da parte della popolazione carceraria c’è stata una massiccia adesione. Solo a Sanremo le sessioni dedicate al calcio sono state seguite da 40 persone, impegnate in incontri settimanali tenuti da settembre fino all’aprile scorso. A Imperia a ogni incontro c’erano tra i 12 e i 15 partecipanti. A conclusione di tutto, a Sanremo si è tenuto una sorta di saggio generale con tanto di attestati: si è organizzato un torneo finale di calcio a cinque vinto dalla squadra ospite della Uisp. Le altre formazioni iscritte sono state formate da detenuti di varie etnie, specchio di quello che è la società all’interno di un penitenziario. Le attività sportive e culturali all’interno delle carceri sono fondamentali nel lavoro di recupero dei detenuti perché contribuiscono a sviluppare gli anticorpi necessari a non ricadere negli stessi errori una volta scontata la pena e col ritorno alla vita normale. Migranti. Il cambio di rotta di un Paese che perde l’onore di Roberto Saviano La Repubblica, 31 maggio 2019 Finora la Marina militare aveva sempre risposto alle chiamate di naufraghi in difficoltà. Oggi le cose in Italia non sono facili e quindi è proprio oggi che dobbiamo amare il nostro Paese, rispettarlo, dobbiamo dialogare, confrontarci, litigare sapendo che il suolo che calpestiamo ci restituirà solo ciò che avremo seminato e curato. Ogni parola è un seme, ogni ragionamento è un seme e noi italiani restiamo quello che siamo sempre stati: persone fatte di terra e mare. Conosciamo il mare, gabbia e occasione, limite e infinito, siamo uomini e donne di mare. Ecco perché, quando già l’Europa trattava l’immigrazione come un problema, l’Italia continuava a salvare vite in mare. E le salvava perché un uomo, una donna, un bambino che dall’Africa prendono il mare per venire in Italia, se in pericolo, non sono migranti, ma naufraghi. È la legge eterna del mare: ogni naufrago va tratto in salvo. Sempre. Qualcuno mi dirà, non possiamo salvarli tutti noi. Se nessun altro li salva, vi rispondo, allora li salveremo noi! Esistono le Zone Sar (Search and Rescue, ovvero “ricerca e salvataggio”) di competenza dei diversi paesi, perché dovremmo farci carico di recuperare i naufraghi anche laddove non sarebbe di nostra competenza? Perché per prima cosa dobbiamo rispettare la vita umana, è una regola universale alla quale se ci sottraiamo iniziamo a modificarci. Lasciare che una persona anneghi significa perdere qualsiasi cosa abbiamo raggiunto. Empatia, leggi, diritti, morale, convivenza. Perdiamo tutto. Non è sentimentalismo, è misura di ciò che sta accadendo. Non possiamo sottrarci dal salvare le persone in mare perché ogni vita perduta, quando poteva essere salvata, è sofferenza che si moltiplica, è odio. E l’odio diventa rancore, e il rancore vendetta. Ma non possiamo accoglierli tutti, mi direte. Manca il lavoro per noi, come possiamo farci carico di centinaia di migliaia di persone in cerca di un futuro migliore? Ma noi non dobbiamo accoglierli tutti: noi dobbiamo salvarli tutti, è nostro dovere farlo. Non facciamoci fregare dalla propaganda: salvare e accogliere sono due cose diverse, due momenti diversi che possono e devono essere gestiti in maniera diversa. Il salvataggio risponde a una necessità immediata, non c’è tempo per la strategia. L’accoglienza viene dopo e su quella si può discutere e cambiare passo, ma senza mettere in dubbio la necessità di salvare. Anzi, direi, senza mettere in discussione il diritto che noi italiani abbiamo, il privilegio che viviamo nel salvare vite umane. Salvare vite è come donare vita, come è accaduto che lo abbiamo dimenticato? Qualcuno oggi pensa di poter girare la faccia davanti a queste storie, pensa che tutto sommato la quotidianità sia già così difficile che non serve complicarsi la vita con questo strazio; non invidio queste persone perché per loro il risveglio sarà ancora più duro. E non le invidio perché non sanno quanto l’Italia abbia fatto la differenza, perché non sanno che l’Italia non ha mai girato le spalle a chi, in pericolo, chiedeva aiuto. Mi sono sentito orgoglioso di essere italiano quando ho visto il lavoro titanico che la Marina militare italiana ha sempre fatto, prima da sola, poi con l’Europa ma da capofila, poi insieme alle Ong, poi di nuovo da sola. Sono orgoglioso dei pescatori italiani che, nonostante andassero incontro a sanzioni gravose e al sequestro delle loro imbarcazioni che sono per loro sopravvivenza stessa, hanno sempre obbedito alla legge del mare, quella legge che impone di prestare soccorso a chiunque si trovi in pericolo tra le onde, a qualunque costo e senza pensare alle conseguenze. “Noi gente in mare non l’abbiamo lassata mai!”: questo era il principio dei pescatori lampedusani e a questo principio non si sono sottratti; se l’avessero fatto, avrebbero negato ogni singola parte della loro vita. Ma le cose sono cambiate ora, dirà qualcuno tra voi. Oggi la Marina sta agendo diversamente, direte. Sappiamo che il 23 maggio scorso, e lo sappiamo dagli unici testimoni rimasti nel Mediterraneo a darci queste informazioni, ovvero le Ong, un uomo è morto durante un’operazione di salvataggio, anzi, prima ancora che l’operazione iniziasse. Nel video girato da un velivolo della Sea-Watch si vede un gommone in avaria che sta imbarcando velocemente acqua. La Sea-Watch contatta prima la Guardia costiera libica che non risponde e poi la nave della Marina militare italiana Bettica, che si trova a meno di trenta miglia dal gommone. Improvvisamente e per quasi un’ora le comunicazioni tra la Marina militare italiana e la Sea-Watch si interrompono, quando riprendono la Bettica avverte che la Guardia costiera libica si sta recando sul posto. È prassi che la Guardia costiera libica non risponda alle richieste di soccorso. È prassi che i salvataggi siano fatti all’unico scopo di riportare i migranti nei campi di prigionia libici dove ricomincia il loro calvario, dove vengono torturati e dove viene estorto loro denaro: ogni migrante preso dalla Guardia costiera libica è guadagno doppio per i trafficanti (che, detto per inciso, non sono le Ong ma la guardia costiera libica finanziata dall’Italia e dall’Europa) che li lasceranno tornare nel loro paese solo in cambio di denaro. È ormai appurato che la Libia non è un porto sicuro. E allora perché la nave della Marina militare italiana Bettica non è intervenuta? Perché si infanga l’onore (che bella parola quando porta con sé il rispetto per la vita umana) dei militari della Marina che hanno sempre, secondo coscienza, risposto prima ancora che alle convenzioni internazionali, che pure stabiliscono il dovere di salvare vite, alla superiore e universale legge del mare? Oggi possiamo dividerci su tutto, ma non sulla necessità e sul dovere di salvare vite. Quando un uomo, una donna o un bambino sono in pericolo in mare, noi abbiamo il dovere di salvarli e se l’alternativa è la Libia, dobbiamo essere consapevoli che li stiamo condannando all’inferno. Per sfuggire a questo ragionamento, la propaganda inventa scorciatoie ridicole ma funzionanti: parole da buonista, parli bene dall’attico a Manhattan; si bersaglia chi racconta, non il racconto, perché quello è oggettivo e non può essere messo in discussione. Ma quell’uomo che annega è vita reale, non la finzione spacciata per realtà sui social. Facile dire la solita balla buonista parli tu dall’attico a Manhattan… no, parlo da meridionale, nato e cresciuto nelle terre più martoriate d’Italia, più saccheggiate, terre dimenticate da Dio e dagli uomini, ma non dai politici avvoltoi e sciacalli. Quelli, di noi meridionali, non si dimenticano mai. Promettono acqua agli assetati e intanto condannano le nostre anime per l’eternità. Parlo da uomo che non può accettare che il confine tra la vita e la morte sia una linea convenzionale e invisibile tracciata nel mare. Ciò che resta, alla fine di tutto, è l’onore. L’onore riscattato dal significato abusivo che ne danno le mafie per indicare nell’uomo d’onore l’affiliato. Onore inteso come rispetto dei nostri principi umani più profondi al di là delle conseguenze, nonostante le conseguenze. Onore è ciò che permette ancora di guardarci l’un l’altro e di sapere che io mi posso fidare di te perché tu ti puoi fidare di me, qualunque sia la tua condizione sociale, qualunque sia il luogo da cui provieni, il tuo quartiere, la tua religione e il colore della tua pelle, la tua condizione sociale, il tuo lavoro, il tuo conto in banca, la scuola che frequenta tuo figlio, il lavoro che fai. È facile: se mentre tu soffri e muori io giro lo sguardo dall’altra parte, se io soffrirò e rischierò di morire mi ripagherai con la stessa moneta. Salvare per essere salvati. Salvare per salvarsi: nel nostro mare, se smettiamo di salvare, finiremo annegati noi. Migranti. Soccorso gommone con 100 persone, potranno sbarcare a Genova di Alessandro Fulloni e Annalisa Grandi Corriere della Sera, 31 maggio 2019 L’allerta lanciata da diverse associazioni: “A bordo è morta una bimba”. Ma dopo il soccorso, la Marina precisa: “Nessuna vittima a bordo”. E Saving Humans corregge il tiro: “Si rischiava l’ennesima strage”. Trenta: “Le nostre navi non si tirano indietro”. Una “cronaca” in diretta che finisce passate le tredici, quando al termine del soccorso al gommone in difficoltà - con 100 migranti a bordo - nel canale di Sicilia la Ong Saving Humans twitta queste parole: “Apprendiamo con gioia che non ci sarebbe nessuna vittima a seguito della situazione di pericolo che da ieri era segnalata e che rischiava di diventare l’ennesima strage. Siamo grati all’equipaggio e al comandante della nave della Marina militare P490 Cigala Fulgosi per aver operato il soccorso”. Dopo il ringraziamento però arriva il rilancio delle accuse, sia pure “smorzate” rispetto a poche ore prima. “Non comprendiamo - aggiunge la Ong in un altro tweet - perché si sia aspettato tanto, mettendo in grave pericolo queste persone. Chiediamo ora che vengano sbarcate in un porto sicuro, e protette. Vengono dall’inferno libico, hanno già patito abbastanza”. Parole che arrivano ibn conclusione di una mattinata che ha visto una polemica rovente attorno agli orari del soccorso condotto dal pattugliatore Cigala Fulgosi. Saving Humans - forte anche di alcuni tweet di “Alarm Phone”, il “centralino” di emergenza delle Ong - sosteneva che sul gommone fosse morta una bimba di cinque anni. Ma la Marina, terminato l’intervento, è stata netta. “Non risulta alcuna persona deceduta a bordo” sono le parole tranchant di un comunicato ufficiale al termine dell’operazione in acque internazionali, a circa 90 miglia a Sud di Lampedusa, che ha portato al salvataggio di 100 persone, tra cui 17 donne e 23 minori, salite sulla nave Cigala Fulgosi. Nel pomeriggio il Viminale ha indicato Genova come porto di approdo dei naufraghi. Questi i fatti. Erano circa le 9 di giovedì mattina quando la Cigala Fulgosi è intervenuta in soccorso dei migranti. L’intervento è stato deciso perché le condizioni meteo erano in peggioramento; l’imbarcazione inoltre si trovava senza motore ed era in precarie condizioni di galleggiamento. A bordo soltanto “una decina di persone - è ancora il comunicato della Marina - era provvista di salvagente individuale”. “Alarm Phone” - che da mercoledì pomeriggio aveva segnalato l’emergenza - ha parlato di una bambina che sarebbe morta. “Sappiamo chi poteva salvarla e non l’ha fatto” è stato il durissimo tweet di Saving Humans. Alla Ong però ha ribattuto il ministro dell’Interno Salvini: si tratta di “accuse infondate e diffamatorie contro i nostri uomini e donne della Marina” che “hanno soccorso chiunque fosse a rischio”. “Le persone sono in grave pericolo - aveva scritto nella mattinata di giovedì su Twitter Alarm Phone, che era in contatto con i migranti a bordo - e sono ancora abbandonate in mare. Non c’è alcun soccorso in vista anche se da bordo vedono un elicottero. Alle 23,47 ci hanno detto che un lato del gommone si è sgonfiato e sta entrando acqua. Non hanno più carburante e sono alla deriva”. Ma poi, come detto, la nave della Marina ha prestato il soccorso. Tra mercoledì notte e giovedì mattina le Ong avevano ripetuto: “Le persone a bordo sono in grave pericolo - si leggeva sul Twitter di Alarm Phone - ci sono 15 bambini, il più piccolo di nove mesi. Temono possono morire di ipotermia”. “Chi è a bordo ci ha contattato di nuovo - si leggeva ancora in un tweet delle prime ore del mattino - Vedono un elicottero volare intorno a loro ma non vedono alcuna imbarcazione. Ci chiedono se siamo a conoscenza di una possibile operazione di soccorso in arrivo, ma anche noi non sappiamo nulla”. E ancora, sempre Alarm Phone: “I #migranti riferiscono che una bambina di 5 anni è morta a bordo. Alle 8.25h ci hanno detto che l’elicottero era ancora lì e di poter stabilire che la nave è un’imbarcazione militare. Siamo quasi certi che sia la P490 dell’ItalianNavy. Deve prestare soccorso immediato!”. A proposito della morte della bimba, la Ong Mediterranea Saving Humans twittato a metà mattinata: “A 24h da prima segnalazione, dopo appelli della società civile, @ItalianNavy sembra operare soccorso. La nave P490 Cigala Fulgosi è sempre stata a poca distanza, ma ha aspettato. Se confermata morte di bimba di 5 anni tra naufraghi, sappiamo chi poteva salvarla e non l’ha fatto”. Ma infine, appunto, è arrivato il comunicato della Marina per la quale a bordo non ci sono vittime. “Non permetto a nessuno di dire che la nostra Marina Militare abbia ignorato il soccorso di persone in pericolo di vita. A nessuno, sia molto chiaro! E lo dico perché oggi qualche quotidiano e una Ong hanno alluso a questo, lasciando intendere che una nave militare italiana non sia intervenuta per salvare un barcone di migranti diretto verso le coste italiane”. Lo ha scritto su Facebook il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. “È - ha aggiunto - del tutto falso e strumentale! Quando è arrivato l’allarme ai nostri uomini, la nave italiana si trovava a 80 chilometri di distanza, praticamente 2 ore di navigazione dal barcone, localizzato invece in acque di responsabilità libica. Si è deciso di inviare dunque, immediatamente, un elicottero, perché quando c’è da salvare vite umane i nostri non si sono mai tirati indietro. Anzi”. La Guardia costiera libica aveva tentato di salvare il gommone alla deriva ma una sua motovedetta ha avuto un guasto e ha dovuto delegare il compito alla Marina italiana. Lo ha riferito il portavoce della Marina libica, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem. “Avevamo ricevuto richieste di soccorso ieri mattina”, ha detto Ghasem all’Ansa. “Una motovedetta della Guardia costiera libica è uscita immediatamente per salvare i migranti ma è andata in panne prima di raggiungerli e abbiamo informato la parte italiana della situazione affinché agisse”, ha aggiunto il portavoce della Marina, da cui in Libia dipende la Guardia costiera. “Ci coordiniamo con la controparte italiana e abbiamo seguito con loro le operazioni di soccorso che hanno avuto luogo stamattina”, ha detto ancora Ghasem al telefono. “La parte italiana è al corrente del guasto che ha avuto la nostra motovedetta”, ha detto l’ammiraglio sottolineando che “ci sono accordi con gli italiani” per la “riparazione delle motovedette” libiche, “che sono vecchie”. Cannabis light shop, prodotti vendibili solo se non “droganti” di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 maggio 2019 Le sezioni penali unite della Cassazione rivelano il bag della legge del 2016 che legalizza la coltivazione, non la commercializzazione. A stabilire se il prodotto è fuori legge sarà di volta in volta il giudice di merito, senza parametri numerici. “La commercializzazione di cannabis sativa legale e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53 Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”. Il verdetto emesso ieri dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, dopo un’udienza tenuta a porte chiuse, rischia di mandare in pezzi un settore di sviluppo commerciale in piena espansione, che dà occupazione soprattutto a molti giovani. In sostanza, il massimo consesso della Suprema corte - chiamata ad esprimersi sul sequestro dei prodotti di due negozi marchigiani (ad Ancona e a Macerata, la cui chiusura come si ricorderà ha fatto gioco alla campagna elettorale di Matteo Salvini) e a fare ordine nel “contrasto giurisprudenziale” creato dopo che altre sezioni della stessa Cassazione (la III penale, la VI e la IV) avevano emesso sentenze contrapposte - evidenzia un bag nella legge che ha permesso l’apertura di centinaia di cannabis light shop in tutta Italia. Le Sezioni Unite Penali, presiedute da Domenico Carcano, sottolineano infatti che la legge 242/2016 legalizza solo la coltivazione di cannabis sativa con un Thc al di sotto della soglia dello 0,6% e non la commercializzazione dei prodotti da essa derivati (cosa che, secondo alcune precedenti sentenze, risulterebbe invece superfluo perché “è nella natura dell’attività economica che i prodotti della “filiera agroalimentare della canapa”, che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzabili”). Stando però così le cose, nella visione dell’organo massimo della Cassazione, la detenzione e la cessione di cannabis - anche quella che è legale coltivare - rientra nelle azioni che possono costituire reato o meno a seconda dell’”efficacia drogante” della stessa. Scrivono infatti i giudici nella sentenza di ieri: “Integrano il reato di cui all’art.73, commi 1 e 4 del dpr 309/1990 (il testo unico sulle droghe, ndr), le condotte di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa legale, salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”. Cosa vuol dire in concreto? Che d’ora in poi sarà il giudice di merito a stabilire di volta in volta se il prodotto commercializzato, eventualmente messo sotto accusa, abbia una “efficacia drogante” superando così la soglia consentita (non più stabilita da un parametro numerico). Le conseguenze sui negozi di cannabis light non dovrebbero essere dirette ma è evidente che la commercializzazione di questo tipo di prodotti diventa notevolmente più a rischio per l’esercente. Nello stesso verdetto di ieri infatti la Cassazione ha accolto il ricorso del pm di Ancona contro la decisione del Tribunale del Riesame di annullare il sequestro di merce dei due negozi, e ha rinviato a nuovo processo. È quanto aveva chiesto in subordine la procura generale che però sperava nella trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Un atto al quale però si è opposta la difesa, rappresentata dall’avvocato Carlo Alberto Zaina, che vedeva nel rinvio alla Consulta il protrarsi di “una situazione di assurda incertezza”. Secondo la pg Maria Giuseppina Fodaroni, invece, il sistema legislativo attuale - nel combinato disposto della legge 242/2016 e del dpr 309/1990 con le tabelle emendate dopo che nel 2014 la Consulta ha cancellato la legge Fini-Giovanardi - non è chiaro sulla cannabis light, e può creare confusione riguardo le condotte suscettibili di sanzioni. Naturalmente, la sentenza degli ermellini è stata accolta con entusiasmo dalle destre proibizioniste, a cominciare dal ministro della Famiglia Lorenzo Fontana che ha espresso “soddisfazione”. E anche il vicepremier Matteo Salvini ha esultato affermando: “Siamo contro qualsiasi tipo di droga, senza se e senza ma, e a favore del divertimento sano”. La Coldiretti invece ha fatto notare che negli ultimi cinque anni i terreni coltivati a cannabis sativa in Italia sono aumentati di 10 volte: dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 del 2018. E dunque ora si rende “necessario l’intervento del Parlamento”. Cannabis light, cosa cambia con la sentenza della Cassazione? di Margherita De Bac Corriere della Sera, 31 maggio 2019 Qual è la differenza tra cannabis light e terapeutica? E quanti negozi sono ora a rischio? Già oggi i negozi che vendono prodotti derivati dalla cannabis Sativa light potrebbero essere chiusi in base alla direttiva del ministro dell’Interno Matteo Salvini che va nella stessa direzione. Chi fa ricorso contro la chiusura difficilmente potrà avere ragione. La chiusura è legata alla vendita dei soli prodotti elencati nella decisione presa dalla Corte cioè: foglie, inflorescenze, olio e resina ottenuti dalla varietà di canapa Sativa light. Sono esclusi dal divieto di commercializzazione i prodotti non elencati come caramelle, biscotti o lecca lecca e altri articoli. I dettagli dovranno però essere chiariti con la lettura della sentenza, una volta che verranno depositate le motivazioni. Che cos’è la cannabis light? Con questo termine sono indicati foglie, infiorescenze, olio e resine estratte da una particolare varietà di cannabis Sativa, la cui coltivazione è autorizzata da una direttiva europea. Le altre parti della pianta hanno un uso industriale, per la trasformazione in carta, tessuti, materiale edile e estratti che costituiscono ingredienti per alimenti e cosmetici. Foglie e inflorescenze inizialmente venivano scartate dai coltivatori poi hanno trovato un impiego ricreativo e i derivati vengono venduti al dettaglio. Foglie e infiorescenze triturate hanno un contenuto di principio attivo inferiore a quello di resina e olio. Che differenza c’è tra cannabis light e terapeutica? C’è una profonda differenza. Vengono innanzitutto ottenute da piante di canapa diverse, con concentrazioni differenti del principio attivo tetraidrocannabinolo, il Thc, sostanza psicoattiva inclusa nella tabella degli stupefacenti. La concentrazione consentita in milligrammi nella cannabis light va dallo 0,2 allo 0,6%, come indica una legge del 2016 del ministero dell’Agricoltura, destinato ai produttori che ha alzato il termine di tolleranza allo 0,6%. La cannabis terapeutica è invece un farmaco da vendersi solo dietro presentazione di ricetta medica nelle farmacie ospedaliere o territoriali autorizzate, ottenuta da piante con un Thc tra 7 e 22%. Questi medicinali sono prescritti per alleviare dolore, nausea, vomito ed effetti della chemioterapia. L’aspetto terapeutico non è dunque in discussione. Perché la Cassazione è intervenuta? Si era creato un contrasto interpretativo sulla liceità della commercializzazione al dettaglio della cannabis light proveniente dalle coltivazioni di canapa previste dalla legge del 2016. Due diverse sezioni della Corte avevano sentenziato diversamente. La normativa di tre anni fa non disciplinava la vendita. Cannabis light. La Lega canta vittoria: “Ora chiudiamo i negozi”. Il silenzio dei 5 Stelle di Roberto Giovannini La Stampa, 31 maggio 2019 Il clima generale, lo Zeitgeist, ormai è chiaro: si ritorna indietro. E dunque festeggia la Lega, con in testa Matteo Salvini, e festeggia tutto il fronte proibizionista, che vede nella cannabis light l’anticamera della droga, e la porta d’accesso alla degenerazione morale. “Siamo contro qualsiasi tipo di droga, senza se e senza ma, e a favore del divertimento sano”, dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Esprime “soddisfazione” anche il ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana, che nel verdetto degli ermellini vede una “conferma delle preoccupazioni che abbiamo sempre manifestato in relazione alla vendita di questo tipo di prodotti”. A questo punto, dice Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, il governo deve “dare seguito a questa sentenza e chiudere immediatamente i cannabis shop. Basta perdere tempo: no alla droga, senza se e senza ma”. Una tesi che piace ad Andrea Caroppo, eurodeputato della Lega al Sud: “ora occorre chiudere negozietti e rimuovere distributori automatici, cominciando da quelli malevolmente installati vicino alle scuole”. Anche Forza Italia sembra compatta a favore della svolta indicata dalla Cassazione. “È una decisione importantissima - dice il senatore azzurro Maurizio Gasparri - che può cancellare un equivoco che sta avvelenando le nostre città”. In attesa delle motivazioni della sentenza, “questo primo annuncio dà ragione e forza a chi come me ha sempre combattuto la diffusione delle droghe, pesanti, leggere o leggerissime, in tutte le sue forme”. Per Annagrazia Calabria, sempre di FI, “non si possono tollerare zone d’ombra che in qualche modo legittimino la subcultura dello sballo”. E anche nel Partito democratico c’è chi, come Stefano Pedica, plaude alla sentenza “che di fatto è uno stop alla vendita della cosiddetta cannabis light”, perché “non ci sono droghe di serie A e B. Sono tutte pericolose”. Concordano Massimo Gandolfini, presidente del Family Day, che manifesta “grande soddisfazione”, oltre che Toni Brandi e Jacopo Coghe, organizzatori del Congresso di Verona e presidente e vice presidente di Provita e Famiglia. Un po’ curiosamente, va detto, la maggior parte delle reazioni di chi critica la Cassazione non riguardano l’omologazione della cannabis (legale, anche in versione non light, in metà degli Usa e in tanti paesi Ue) con la droga. Tantomeno il fatto che sia legale la vendita di superalcolici, che lo Stato lucri sulla vendita di un prodotto mortale come le sigarette, o che il vicepremier con il rosario proponga di riaprire le case chiuse. I più invece stigmatizzano il danno economico procurato dalla sentenza ai coltivatori e ai commercianti che hanno aperto i negozi. I Radicali esprimono così timore per “una sentenza “politica”, in linea con il volere di un ministro che ha annunciato un’offensiva contro la cannabis light”, e rilevano che si colpisce “uno dei più promettenti settori dell’agricoltura”. “Si cancella o si condanna al mercato nero un settore in espansione lungo tutta la filiera, dalla coltivazione alla commercializzazione; e in tutta la filiera si cancellano decine di migliaia di imprese e posti di lavoro regolari”, afferma il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova. Sulla stessa linea c’è la maggioranza delle voci del Partito democratico: per il deputato Andrea Romano, la sentenza “rischia di rappresentare una pietra tombale per un settore in piena espansione”. Per l’altra deputata dem Giuditta Pini, con lo stop ai negozi “migliaia di giovani imprenditori che hanno investito i loro risparmi in aziende agricole e nel commercio rischierebbero la chiusura, migliaia di persone rischierebbero il posto di lavoro, e un mercato legale che stava sottraendo proventi alla criminalità organizzata diventerebbe illegale e invisibile”. Propone un’azione più incisiva invece il deputato radicale di +Europa Riccardo Magi. “All’Italia non serve una caccia alle streghe che allarga il mercato criminale. Serve una legge che legalizzi la cannabis e i suoi derivati. I numeri (senza “vincolo di mandato”) ci sono. Bisogna subito costituire un intergruppo parlamentare. Da domani vediamo chi ci sta”. Chi sa che faranno i Cinque Stelle: ieri sull’argomento cannabis solo un imbarazzato silenzio. Cannabis light. La politica dovrebbe adeguarsi alla società di Alberto Mingardi La Stampa, 31 maggio 2019 La Corte di Cassazione ha chiarito che non è accettabile, nell’attuale quadro normativo, la commercializzazione al pubblico “a qualsiasi titolo dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. Quando sono privi di efficacia drogante? Bisogna aspettare, ovviamente, di leggere la sentenza. Ma è prevedibile che la questione resti materia di dibattito, da una parte quanti sono convinti che anche gli articoli attualmente in commercio siano in qualche modo pericolosi, dall’altra chi ricorda come i valori della cannabis light siano ben al di sotto di qualsiasi sospetto. L’unica cosa certa, in questo momento, è l’incertezza. In Italia ci sono migliaia di esercizi commerciali che hanno aperto presumendo di non commettere alcun illecito. Esiste una filiera, che d’improvviso si scopre in una terra di nessuno. Che dirà la politica a chi ha impiegato, in perfetta buona fede, i propri risparmi per aprire un’attività di questo tipo? Il nostro è un Paese nel quale la classe dirigente chiama “vittime” individui adulti che avevano investito nelle sei banche fallite e decide di indennizzarli, a carico della collettività. Che fare allora con persone che si sono convinte che le regole del gioco siano cambiate a partita iniziata? Non avrebbero, paradossalmente, più titolo loro ad essere rimborsate? In tutto l’Occidente, la tendenza generale va nella direzione di una depenalizzazione della marijuana. Negli Usa l’uso della cannabis per scopi medici è legale in trentatré stati, l’uso a scopo ricreativo è permesso in dieci, fra cui Washington DC, la capitale dell’impero. Questo riflette un cambiamento profondo nelle abitudini delle persone, che in larga misura ormai considerano questo “vizio” fra quelli ammissibili, persino meno disapprovato del fumo di sigaretta. In Italia l’uso a scopo ricreativo è vietato ma proprio la moltiplicazione dei negozi di cannabis light testimonia forse come la sensibilità al tema è mutata. Ci sono momenti nei quali le regole formali debbono adeguarsi alle norme sociali. È improbabile che questo avvenga nel nostro Paese, dove la cannabis segna l’ennesima frattura fra i due partiti di governo. I quattrini, le aspettative, le speranze di quei quindicimila appaiono un dettaglio trascurabile. Del resto, si tratta solo d’imprenditori privati. Stati Uniti. Quegli americani uccisi dal costo dei farmaci di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 31 maggio 2019 Il disagio sociale è molto profondo, soprattutto nella sanità. E stavolta. “Nessuno dovrebbe morire perché non ha l’insulina per il suo diabete”. Affermazione indiscutibile, ma se pensate che rifletta la crisi sanitaria di un Paese africano siete fuori strada: articoli con titoli simili compaiono spesso sulla stampa Usa. Raccontano la realtà quotidiana di milioni di americani costretti a pagare centinaia (a volte migliaia) di dollari per un farmaco salvavita in commercio da un secolo i cui costi continuano a schizzare in alto: le tre case che lo producono (sospettate di collusione) migliorano marginalmente la formulazione e si garantiscono così continui rinnovi di brevetti. Ora il Colorado prende la decisione rivoluzionaria di fissare un tetto, 100 dollari al mese, per i ticket che i diabetici sono costretti a pagare anche se già versano migliaia o decine di migliaia di dollari l’anno per la polizza sanitaria. E non si tratta solo di insulina. Nel libero mercato Usa dei farmaci i costi di tutti i salvavita, dalle cure per il cancro a quelle per la sclerosi multipla, continuano a salire: il trattamento più efficace per la sclerosi oggi costa 92 mila dollari l’anno: il doppio del 2010, quando la medicina venne messa in commercio. Vale la pena di riflettere anche su questo quando vediamo tutto nero nella nostra sanità e ammiriamo l’America che continua a crescere. Certo, farmaci più costosi fanno salire il Pil. Come anche l’abuso di antidolorifici, alimentato da medici e case farmaceutiche senza scrupoli, che ha creato un nuovo popolo di drogati (e relativo business della disintossicazione). In un Paese che mangia male ci sono, poi, 30 milioni di diabetici bisognosi di più cure, più visite, più test clinici e ricoveri: tutte cose che negli Usa costano assai più che in Europa. Oltre a enormi diseguaglianze di reddito, l’America nasconde, insomma, anche profondi disagi sociali, soprattutto nella sanità. E stavolta Trump non ha colpe. Anzi, consapevole che il tema è popolare, incalza i giganti di big pharma: rifiuta i loro contributi elettorali e cerca di obbligarli a ridurre i tariffari con pressioni di ogni tipo. L’ultima: l’obbligo di dichiarare il prezzo negli spot pubblicitari televisivi. Le imprese stanno cercando disperatamente di sottrarsi a una norma che le costringerebbe alla trasparenza (e all’impopolarità): arrivano a denunciare violazioni del Primo emendamento dalla Costituzione, quello che vieta limiti alla libertà d’espressione. Libia. L’Unhcr evacua 150 rifugiati da Tripoli a Roma. 65 sono minori La Repubblica, 31 maggio 2019 A causa dei violenti scontri e del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza a Tripoli, 149 persone tra rifugiati e richiedenti asilo vulnerabili sono state evacuate e trasferite a Roma. Lo fa sapere l’Unhcr precisando che le persone evacuate provengono da Eritrea, Somalia, Sudan ed Etiopia. Tra esse vi sono 65 minori; 13 bambini hanno meno di un anno, e uno di loro ha appena due mesi. L’evacuazione - aggiunge l’Unhcr - è stata portata a termine in collaborazione con le autorità italiane e libiche. Il gruppo, tra cui molte persone con necessità di cure mediche e sofferenti di malnutrizione, è stato trasferito dal Centro di Raccolta e Partenza dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, dopo mesi trascorsi in condizioni disperate all’interno dei centri di detenzione in altre zone della città. L’evacuazione è stata portata a termine in collaborazione con le autorità italiane e libiche. “Sono necessarie altre operazioni di evacuazione” ha affermato Jean-Paul Cavalieri, Capo della Missione dell’Unhcr in Libia. “Queste operazioni rappresentano un’àncora di salvezza per i rifugiati, per i quali l’unica possibilità di fuga consiste nell’affidare le loro vite a trafficanti senza scrupoli per attraversare il Mediterraneo”. All’inizio di questa settimana, 62 rifugiati provenienti da Siria, Sudan e Somalia sono stati evacuati da Tripoli al Centro di Transito di Emergenza dell’Unhcr a Timisoara, in Romania, dove riceveranno cibo, abiti e cure mediche prima di proseguire il loro viaggio verso la Norvegia. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha fornito il supporto necessario al trasporto. L’Unhcr lancia un appello affinché aumenti la disponibilità a prestare “ulteriori opportunità di evacuazione e corridoi umanitari per portare al sicuro i rifugiati detenuti in Libia”, in quanto “il numero dei nuovi detenuti aumenta molto più rapidamente di quello di coloro che vengono evacuati”. Quasi 1.000 rifugiati e migranti sono stati evacuati dalla Libia o reinsediati nel 2019, mentre nel solo mese di maggio più di 1.200 persone sono state riportate indietro dalla Guardia Costiera libica dopo essere state soccorse o intercettate mentre tentavano la fuga in mare. Algeria. L’attivista Fekhar muore in cella, i berberi si mobilitano di Vermondo Brugnatelli Il Manifesto, 31 maggio 2019 Era in sciopero della fame dal 31 marzo. Arrestato per aver denunciato la segregazione subita dalla minoranza in Algeria. Nato nella regione dello Mzab, da anni lottava per i diritti degli ibaditi, repressi da Algeri. “Pouvoir assassin!”. Lo slogan divenuto la colonna sonora della “Primavera nera” del 2001 torna a risuonare minaccioso in Cabilia e nelle altre regioni berberofone dell’Algeria. I berberi sono in fermento dopo la morte di Kameleddine Fekhar, un militante dei diritti umani, incarcerato arbitrariamente e in sciopero della fame dal 31 marzo scorso. Questa morte, avvenuta martedì 28 maggio all’ospedale di Blida, dove Fekhar era stato trasferito quando le sue condizioni erano ormai molto deteriorate, lascia adito al sospetto che in realtà nulla sia stato fatto per salvare la sua vita e che la sua sorte sia stata decisa dall’alto, vuoi per far tacere una voce che da sempre denunciava le ingiustizie del regime, vuoi per accendere l’esca di uno sdegno che possa fornire il pretesto per una dura repressione e per fomentare la divisione del fronte della protesta, creando divisioni tra arabi e berberi. Anche il suo compagno di prigionia, Hadj Brahim Aouf, pur avendo sospeso lo sciopero della fame, subisce maltrattamenti e abusi e teme adesso di fare presto la stessa fine di Fekhar. Kameleddine Fekhar era nato il 9 febbraio 1963 a Ghardaia, nella regione berberofona dello Mzab (sud dell’Algeria). Medico di professione, lascia la moglie e otto figli. Instancabile paladino dei diritti umani in un paese dove la casta al potere non tiene in alcun conto i diritti dei più deboli e delle minoranze, per questo suo impegno era già stato arrestato a più riprese e anche sospeso dalla professione per undici anni. La regione dello Mzab è l’ultimo rifugio dei pochi musulmani ibaditi rimasti in Algeria dopo l’affermazione dei Fatimidi intorno all’anno Mille. Seguaci di un rito distinto sia dal sunnismo sia dallo sciismo, trovarono rifugio in questa grande vallata alle porte del deserto, costruendovi cinque città dall’architettura urbanistica molto caratteristica, che suscitò l’ammirazione di Lecorbousier e per molto tempo ha attirato una gran parte del flusso dei turisti verso l’Algeria. Sono conosciuti per il loro carattere laborioso e pacifico, poiché il loro credo è impostato su una severa etica del lavoro, al punto che vengono descritti come i “calvinisti dell’Islam”. Per il loro attaccamento alla cultura e alle tradizioni ancestrali, di cui fa parte la lingua berbera, sono da sempre malvisti dal regime di Algeri, che cerca in tutti i modi di farli scomparire, confiscando terreni e distribuendo alloggi a masse di diseredati arabi, che non di rado se la prendono con le attività commerciali degli mzabiti, arrivando ad atti di violenza contro le persone e le cose. Nel 2015 la situazione era talmente degradata che si ebbero diversi morti oltre al danneggiamento di antichi mausolei, patrimonio dell’umanità. Diversi filmati inchiodavano le autorità alle loro responsabilità, mostrando come le forze dell’ordine accompagnassero e proteggessero i violenti invece di fermarli e disarmarli. Kameleddine Fekhar venne in Italia per denunciare questo comportamento razzista e criminale, e successivamente rivolse un appello alle Nazioni unite in cui chiedeva l’aiuto della comunità internazionale per fermare “l’apartheid e la pulizia etnica” in atto contro il suo popolo. Questo atto gli valse due anni di prigione: venne liberato soltanto in seguito alla mobilitazione internazionale che si era sollevata intorno al suo caso. Questa volta è bastato che in un’intervista affermasse che l’amministrazione pratica la segregazione nei confronti della popolazione perché lo mettessero in prigione senza nemmeno peritarsi di esplicitare un capo di accusa. A conferma della volontà repressiva delle autorità di Ghardaia, anche il suo avvocato, Salah Dabouz, è in stato di accusa per il solo fatto di essersi interessato alla sua difesa e di portare all’esterno, giorno per giorno, notizie sul trattamento inumano che in carcere gli veniva riservato. Negli ultimi giorni i resoconti erano sempre più drammatici, con la descrizione di uno stato di salute ormai allo stremo, ma anche di fronte a questa situazione le autorità hanno continuato a negare la scarcerazione e a rifiutare adeguate cure mediche. Il cordoglio e lo sdegno per questa morte annunciata stanno facendo nascere un po’ dovunque iniziative di ricordo e di protesta, tanto in Algeria che nell’emigrazione. Per le manifestazioni di oggi, ininterrotte dalla fine di febbraio contro il clan al poter, è stato proposto di effettuare un minuto di silenzio. Pacifista convinto, Fekhar si stava dando da fare per mantenere l’unità di intenti tra i berberi e gli arabi chaamba della sua regione per combattere insieme l’ingiustizia del regime. C’è da sperare che la sua morte, invece di accrescere le tensioni tra le comunità, finisca per rinsaldare la contestazione al “potere assassino” che aggiunge un’altra vittima alle tante sulla propria coscienza. A Milano è indetta per domani mattina, sabato 1 giugno, una manifestazione davanti al consolato algerino. Tra le richieste dei manifestanti, un appello ai politici italiani perché protestino presso il governo di Algeri e chiedano che si faccia luce sui responsabili della morte di Kameleddine Fekhar. “Se l’Algeria è un paese in cui qualunque cittadino può essere messo arbitrariamente in prigione uscendone solo morto - si legge nella nota - sarà impossibile rifiutare lo status di rifugiato a qualunque algerino ne faccia richiesta in Italia”. Sud Sudan. “Sono un bambino soldato e a 13 anni uccidevo ragazzi come me” di Filippo Rossi L’Espresso, 31 maggio 2019 I saccheggi, le stragi, gli stupri di massa. Un ex piccolo combattente racconta gli orrori della guerra civile, i tentativi di fuga, le torture subite e la fatica di ricominciare. “Sono stato costretto ad arruolarmi quando avevo 13 anni. I ribelli hanno fatto di me un comandante solo perché parlavo un po’ di inglese, sapevo leggere e scrivere, ma anche perché ero stato il primo fra le nuove reclute a uccidere in battaglia”. Sunday, 18 anni, oggi sta seguendo un corso di formazione per diventare muratore in un centro sostenuto da Unicef e altre organizzazioni a Yambio, una cittadina del Sud Sudan, vicino al confine con il Congo. È uno dei luoghi dove la piaga dei bambini soldato ha colpito più duramente durante la guerra civile, facendo detenere al Paese più giovane del mondo un triste primato: quello dello Stato con più minorenni in armi (e ancora oggi circa 19 mila si troverebbero nei ranghi dell’esercito nazionale o dei numerosi gruppi ribelli, secondo l’Unicef). Tutti ne hanno abusato per anni, quasi fossero una risorsa imprescindibile per combattere. La voce di Sunday si fa fioca, quasi impacciata quando si tratta di raccontare la sua adolescenza. Momenti che un essere umano preferirebbe dimenticare o addirittura mai dover affrontare. Ancora troppo giovane, Sunday è stato obbligato dal padre ad arruolarsi con i ribelli, i cosiddetti IO’s (principale forza ribelle in contrapposizione al governo): “Sono rimasto con loro per 3 anni. Hanno ingannato mio padre, dicendogli che c’era un lavoro e che avevano bisogno di gente giovane. Tutto è cominciato così”. Il suo sguardo è costantemente rivolto verso il basso, segno che fa ancora troppo male il ricordo di aver lasciato scuola e famiglia per andare in guerra. I suoi occhi portano tuttora i segni del trauma. Una violenza che ha colpito troppi ragazzini ancora indifesi e che non hanno potuto scegliere. Mentre Sunday entra nei dettagli della sua storia, le sue mani afferrano la sedia sulla quale siede al riparo di un albero, quasi a trattenersi. “Dopo giorni di cammino sono arrivato all’accampamento. Era nel nord del Paese, in mezzo alla selva. Insieme alle nuove reclute, ho cominciato l’addestramento. Ci insegnavano solo ad ammazzare per sopravvivere. La maggior parte delle nostre azioni era andare a saccheggiare i villaggi e uccidere chiunque si trovasse sulla nostra strada. Soprattutto perché avevamo fame. Quando poi sono diventato comandante, dovevo occuparmene io, guidando un gruppo di soldati a volte più grandi di me. Erano gli ordini: difficili per un bambino diventato comandante in poco tempo”. Sunday è il portavoce di tutte le anime che oggi vogliono gridare al mondo che è stato tolto loro un diritto fondamentale: quello di vivere la propria infanzia felice. Un testimone diretto della morsa che ha stretto il suo Paese in una brutale guerra civile per 5 anni, cominciata nel 2013 e terminata con il trattato di pace firmato a Khartum lo scorso 28 ottobre fra i due uomini forti che hanno scatenato l’inferno per una lotta di potere: il presidente Salva Kiir e il suo ex-vice Riek Machar. Sono loro ad aver dato vita a uno scontro fra l’esercito nazionale, lo stesso gruppo armato che ha guidato il paese all’indipendenza nel 2011 (Esercito per la liberazione del popolo sudanese, oggi rinominato Forze di difesa popolare sud sudanese) e un movimento nato dalla sua scissione e chiamata Spla, guidata da Machar. Per rimpolpare i contingenti di entrambi gli schieramenti molti minorenni sono stati costretti a diventare adulti troppo presto, facendo fatica a brandire un fucile, a trattenere le proprie emozioni e subendo traumi psicologici forse irreversibili. Non erano solo carne da macello: cucinavano, portavano l’acqua, spiavano, facevano la guardia. A volte arrivavano di spontanea volontà o erano mandati dai genitori per ragioni di sopravvivenza. Una contraddizione diventata regola nelle regioni controllate dai ribelli, tagliate fuori da tutti i servizi come l’educazione, la sanità o l’alimentazione. Oppure, nelle regioni controllate dal governo, i soldati minacciavano i genitori di requisire il loro bestiame: le mucche, sinonimo di ricchezza, a volte più importanti dei figli. In mezzo alla guerra civile, ai combattimenti, alle razzie e agli stupri indiscriminati però, Sunday non ha resistito: “Un anno esatto dopo la mia partenza, a 14 anni, non riuscivo più a sopportare tutta quella violenza. Volevo andare via. Ho trovato il modo di fuggire, tornando a casa mia, nel mio villaggio, sui banchi di scuola. Ma non facevo che pensare a come uccidere le persone, a come stuprare le ragazze. Non stavo per niente bene, anche perché sapevo che sarebbero venuti a cercarmi”. Dopo qualche mese infatti, i ribelli lo hanno scoperto e lo hanno riportato all’accampamento. “Il comandante ha ordinato che mi mettessero nella buca. Era un fosso scavato nel terreno e coperto da un pezzo di alluminio che era usato per punire chi disobbediva. Mi ci hanno lasciato due giorni e due notti senza mangiare e senza bere. Quando mi hanno tirato fuori, mi hanno picchiato quasi a morte. Non avevo più le forze di andarmene e volevo solo suicidarmi. Si combatteva spesso in quel periodo. Un giorno, ricordo che i soldati del governo ci hanno teso un’imboscata alle 6 del mattino, quando ancora stavamo dormendo. Molti di noi sono morti, compresi alcuni comandanti. Siamo riusciti a fuggire, rifugiandoci in un accampamento vicino e, insieme ai rinforzi, abbiamo respinto l’attacco”. Il combattimento, fatto di sparatorie alla cieca fra un lato e l’altro o attacchi all’arma bianca, e i saccheggi, non erano gli unici modus operandi usati dai ribelli e dai governativi. Gli stupri di massa erano all’ordine del giorno e il bottino di guerra più ambito erano proprio le donne. Rapite dai ribelli, alcune servivano nei ranghi come combattenti. Ciò nonostante, la maggior parte diventavano cuoche, schiave sessuali o mogli. “A volte ci inviavano in città dicendoci di prendere le ragazze che ci piacevano”, continua Sunday imbarazzato. “Potevamo rapirne una a nostro piacimento e farne nostra moglie oppure le portavamo ad altri soldati al campo o le facevamo diventare combattenti. Io ne ho ricevuta una. Non ho avuto scelta. Quando arrivavano al campo erano impaurite ma non potevano scappare. Non sapevano dove andare. Erano ragazzine”. L’esperienza diretta l’ha fatta Joyce, oggi 15enne ma che è stata rapita a poco più di 10 anni per combattere e la sera… servire ancora. “A noi piccoli non davano un fucile ma un coltello. Se prendevamo prigionieri toccava a noi sgozzarli. E se non lo facevamo uccidevano noi. Quando ammazzavo sentivo di voler scappare ma non sapevo dove andare”, racconta la ragazzina, oggi fuggita in un campo profughi nel nord dell’Uganda dalle terre di Yambio, le stesse di Sunday. “Quando sono arrivata in Uganda, dopo una settimana di cammino, volevo solo uccidere. Ci ho messo un attimo a rendermi conto che ero in un luogo differente. Ma la comunità dove vivo, compreso mio padre, ha cominciato a insultarmi e abusare di me. Dicono che sono un’assassina. Non posso parlare con nessuno qui. Ho molti traumi e sono senza sostegno. Voglio solo stare in luogo silenzioso. Solo così posso trovare la mia libertà”, conclude la ragazzina, mangiandosi la pelle del pollice. Ma per Sunday è stato differente, essendo un comandante. Non poteva scappare, aveva bisogno di un alibi. Un anno dopo il suo ritorno e l’esperienza della buca, ha quindi escogitato un altro modo di andarsene: “Ho chiesto al comandante un periodo di congedo. Mi ha detto di partire per 2 mesi, minacciandomi però di morte caso in cui non fossi riapparso. Quando sono partito, ho giurato che mai più sarei tornato, anche a costo di morire. Tutte le cose orribili che avevo vissuto non le volevo nemmeno ricordare. Passati i due mesi, quindi, mi sono nascosto in questo centro. Sapevo che sarebbero venuti a cercarmi ancora. È successo più volte, hanno distrutto casa mia e rubato tutto. L’ultima volta è stata in novembre, anche se era più di un anno che ero fuggito”. Grazie ad Unicef, tuttavia, Sunday, come altri 3 mila bambini della regione, ha ottenuto l’agognata libertà. Non ha più dovuto nascondersi. Nella regione di Yambio, l’agenzia Onu ha pattuito con vari gruppi ribelli e con il governo il congedo di migliaia di minorenni in segno di pace, riconciliazione e rispetto per i diritti umani, aiutandoli con un programma di sostegno di 3 anni ricevendo educazione, sanità e sostegno psicologico. Un barlume di speranza, insomma. “Ricordo bene il giorno del mio congedo. Era esattamente un anno fa. Anche se non avevo nulla, ero felice. Sapevo che ormai era tutta acqua passata. Più difficile però, è stato ritornare all’interno della mia comunità. All’inizio non si fidavano di me, avevano paura che facessi loro del male. Ci ho parlato, ho spiegato loro com’era cominciato. Dopo alcune settimane, mi hanno riaccettato. Ho anche ricevuto sostegno psicologico, il che mi ha aiutato a superare vari traumi. Ora non ho più paura, se qualcuno mi tocca o mi sfiora non reagisco più violentemente come prima. Insieme agli altri compagni del centro, poi, parliamo delle nostre esperienze. Ci aiuta molto. Siamo stati tutti vittime della stessa sorte”, racconta Sunday, guardando i suoi compagni mentre lavorano. La cosa più dura da accettare per lui è stato forse il fatto che il padre sia morto ancora quando era nei ranghi ribelli senza dare spiegazioni e che, senza possedere niente, dovrà per sempre vivere nei luoghi che gli ricorderanno la morte, dove tutti negano ogni coinvolgimento con i crimini. “Ma non porto rancore”.