Bonafede: “Il sovraffollamento? Ci vogliono più carceri, stanziati 13 milioni” Il Giornale, 30 maggio 2019 “Il problema dell’affollamento carcerario rientra senza dubbio fra le priorità del ministero della Giustizia. Come ho già più volte esposto, un approccio alla questione, che sia serio e credibile deve puntare anzitutto all’incremento dei posti detentivi, combinato con una accorta politica di espulsione a favore dei Paesi d’origine dei detenuti stranieri, anziché alla comoda scorciatoia dei provvedimenti svuota-carceri, i quali di fatto eludono il problema senza risolverlo”. Lo ha detto ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al question time alla Camera. E ancora: “La riforma della magistratura onoraria, approvata nei giorni scorsi in Consiglio dei ministri, proceda spedita in sede parlamentare e coerente con gli obiettivi prefissati dal ministero della Giustizia: ritocchi e miglioramenti saranno senz’altro possibili nel corso dell’iter alle Camere”. Carceri, stanziamenti per 13 milioni (Ansa) Per le carceri “a fronte dei 4,9 milioni di euro stanziati nel 2016 per il corrente anno, sono previsti stanziamenti per 13 milioni di euro per gli investimenti e di 23,6 milioni per manutenzione ordinaria e riparazioni”. Lo ha detto al question time il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Nell’interrogazione presentata dal Pd, il deputato Bazoli ha sottolineato che sono presenti nelle carceri italiane 60.512 detenuti a fronte di una capienza di 46.904 posti regolamentari, con un aumento di 3mila unità solo nell’ultimo anno; e ci sono stati 10.300 atti di autolesionismo nel 2018 con un aumento di oltre il 10% sull’anno precedente, e 64 suicidi contro i 50 del 2017. Il sovraffollamento carcerario, ha detto Bonafede, va affrontato “puntando all’incremento dei posti detentivi, combinato con un’accorta politica di espulsione a favore dei paesi di origine dei detenuti stranieri anziché con i provvedimenti svuota-carcere. In questo binario si incanala il progetto di edilizia penitenziaria del governo attraverso il decreto semplificazione che ha conferito al Dipartimento amministrazione penitenziaria la possibilità di individuare immobili nella disponibilità dello Stato per riconvertirli in strutture carcerarie. È stata avviata una collaborazione con il ministero della Difesa e il Demanio per reperire caserme da convertire in penitenziari. Ci sono poi molti interventi in atto come il completamento di tre padiglioni da 200 posti ciascuno a Parma, Lecce e Trani, la realizzazione in corso di due padiglioni detentivi da 200 posti presso le carceri di Sulmona e Taranto e interventi di ammodernamento in molte strutture tra cui Poggioreale, Secondigliano, Aversa, Palmi, Augusta, Trapani, Ragusa, Catania Piazza Lanza”. Un altro spot del Governo: “In arrivo i fondi per i lavori” (Metropolis) Per le carceri “a fronte dei 4,9 milioni di euro stanziati nel 2016 per il corrente anno, sono previsti stanziamenti per 13 milioni di euro per gli investimenti e di 23,6 milioni per manutenzione ordinaria e riparazioni”. Lo ha detto al question time il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Nell’interrogazione presentata dal Partito Democratico, il deputato Bazoli ha sottolineato che sono presenti nelle carceri italiane 60.512 detenuti a fronte di una capienza di 46.904 posti regolamentari, con un aumento di 3.000 unità solo nell’ultimo anno; e ci sono stati 10.300 atti di autolesionismo nel 2018 con un aumento di oltre il 10% sull’anno precedente, e 64 suicidi contro i 50 del 2017. Il sovraffollamento carcerario, ha detto Bonafede, va affrontato “puntando all’incremento dei posti detentivi, combinato con un’accorta politica di espulsione a favore dei paesi di origine dei detenuti stranieri anziché con i provvedimenti svuota-carceri. In questo binario si incanala il progetto di edilizia penitenziaria del governo attraverso il decreto semplificazione che ha conferito al Dipartimento amministrazione penitenziaria la possibilità di individuare immobili nella disponibilità dello Stato per riconvertirli in strutture carcerarie. È stata avviata una collaborazione con il ministero della Difesa e il Demanio per reperire caserme da convertire in penitenziari. Ci sono poi molti interventi in atto come il completamento di tre padiglioni da 200 posti ciascuno a Parma, Lecce e Trani, la realizzazione in corso di due padiglioni detentivi da 200 posti presso le carceri di Sulmona e Taranto e interventi di ammodernamento in molte strutture tra cui Poggioreale, Secondigliano, Aversa, Palmi, Augusta, Trapani, Ragusa, Catania Piazza Lanza”. Di progetti di riqualificazione dei penitenziari si è spesso parlato nel corso di questi anni ma alla fine poco è cambiato. E intanto dietro le sbarre - come ribadito dai recenti dossier - si continua a morire. Piscitello (Dap): rischi da visite dei Garanti ai detenuti in 41bis Ansa, 30 maggio 2019 “Il 41bis che non è un carcere duro, è un carcere che deve essere separato, che necessita una rigorosa separazione tra soggetti”. Lo ha detto in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, il direttore generale della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Calogero Roberto Piscitello. Oggi sono 753 i detenuti in 41bis. Piscitello ha evidenziato che oltre che ad alcune figure come parlamentari, magistrati, ministri di culto, dal 2009 anche il Garante nazionale dei detenuti può incontrare i detenuti in 41bis. “Ma si pone il tema di cosa possa fare il Garante dei detenuti sia nazionale, che regionale e comunale: alcune recentissime sentenze - ha detto il direttore - hanno concesso ai Garanti la facoltà di accedere nelle sezioni e chiedere dei colloqui riservati con detenuti al 41bis: a mio vedere è un vulnus pericolosissimo perché mina ogni controllo. Il colloquio del detenuto in 41bis con la famiglia avviene attraverso un vetro e viene registrato, nulla può sfuggire, mentre un Garante che ha facoltà di un colloquio riservato può conferire liberamente, al di là di ogni forma di controllo. Con questo sistema si può eludere ogni separatezza del regime restando questo solo con gli orpelli, le vessazioni”. Per Piscitello è necessario intervenire legislativamente su questo punto, per quanto attiene in particolare i Garanti regionali e comunali, e normativamente sulla possibilità che gli enti locali possano nominarli. “Ogni volta che si è presentato un caso del genere - ha chiarito Piscitello - ho impugnato quella richiesta: è accaduto però che o il garante o il detenuto hanno fatto ricorso alla magistratura di sorveglianza che ha concesso il colloquio. Io mi sono assunto la responsabilità di non dare corso a quel provvedimento; talvolta due tribunali di sorveglianza. In un caso in particolare per detenuto di camorra il tribunale di sorveglianza ribadisce il fatto che il provvedimento di diniego fosse illegittimo; nei fatti il mio ufficio si è sovraesposto impugnando sempre questi provvedimenti”. La piaga dell’ingiusta detenzione, così lo Stato butta 656 milioni di Carmine Gazzanni La Notizia, 30 maggio 2019 Solo nel 2018 si contano 895 decreti di risarcimento Dal 1992 la spesa per indennizzi supera i 740 milioni. Quando si parla di ingiusta detenzione, inevitabilmente il nome che torna alla mente è quello di Enzo Tortora. Ma di “Enzo Tortora” in Italia ce ne sono centinaia. Ogni anno. Solo nel 2018 le ordinanze di risarcimento per ingiusta detenzione sono state 895. In media, dunque, parliamo di quasi tre ogni giorno che passa. E la spesa che, per errori o negligenze delle toghe, deve affrontare lo Stato è monstre: nel 2018 è stata pari a 33,3 milioni di euro. Una montagna di soldi che, inevitabilmente, sottraiamo alle casse pubbliche, senza dimenticare il dolore dì chi sì ritrova in cella senza una valida ragione. I dati emergono dall’ultima relazione presentata in Parlamento relativa ai “provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione”. Se entriamo nello specifico, è facile renderci conto di come la mole di chi potenzialmente è stato ingiustamente detenuto è ancora più alta: al di là delle ordinanze, infatti, le domande di riparazione accolte nell’ultimo triennio sono state ben 2.064. Parliamo nella maggior parte dei casi di richiesta di indennizzo “da sentenza (di proscioglimento) irrevocabile”, in altri casi di richiesta di indennizzo “da illegittimità dell’ordinanza cautelare”. Il quadro che ne emerge è disarmante. Soprattutto per alcune Corti d’Appello. Il dato più sconvolgente è senza dubbio quello dì Catanzaro: nel 2018 sì sono avute 182 ordinanze per una spesa dì 10,3 milioni di euro. Un terzo del totale. A seguire Roma: 96 ordinanze e pagamenti per 3,4 milioni. Poi, ancora, Catania, Napoli e Bari dove i pagamenti hanno raggiunto in ognuno dei singoli casi 2,4 milioni di euro. Il report, però, non deve stupire. E, anzi, stupisce che l’esborso sia “lievemente inferiore” a quello registrato nel 2017. Sono anni, infatti che lo Stato risarcisce profumatamente chi ha subito ingiuste detenzioni. I dati sono snocciolati puntualmente dall’osservatorio “Errori giudiziari” di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che informa come dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione) ad oggi si siano registrati oltre 27.200 casi: in media, 1.007 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera i 740 milioni in indennizzi, per una media dì 27,4 milioni l’anno. Ma non è tutto. Nel lungo e dettagliato report c’è anche un capitolo dedicato agli illeciti dei giudici. Le azioni promosse contro i magistrati negli ultimi tre anni sono state 41, con un aumento nel 2018 rispetto agli anni precedenti (16 rispetto a 12 e 13). Nella maggior parte dei casi (36) sono state azioni promosse direttamente dal ministero della Giustizia; negli altri 5 casi, invece, ci ha pensato il procuratore generale della Cassazione. Ebbene, in 11 casi c’è stata piena assoluzione, ma in altre 11 i giudici sono andati incontro a censura. E, ancora, in 7 casi è stato decretato il non luogo a procedere mentre altre 9 sono ancora in corso. Infine, solo in un caso - nel 2016 - il magistrato è andato incontro all’ammonimento. Ma sono le conclusioni del ministero della Giustizia che lasciano riflettere: “Le anomalie che possono verificarsi in correlazione con l’ingiusta compressione della libertà personale in fase cautelare sono costantemente oggetto di verifica da parte degli Uffici ministeriali”. A dimostrazione di come illeciti giudiziari e ingiusta detenzione siano correlati. Aiuto, è impazzita la giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 maggio 2019 Pizzini, accuse. La successione alla procura di Roma si trasforma in una clamorosa guerra tra bande della magistratura e mostra in un solo colpo la pericolosità delle correnti, la decomposizione del Csm e il guaio di avere una politica debole e sottomessa ai pm. Quando la politica diventa debole, la magistratura diventa forte. Quando la politica sparisce, la magistratura diventa dominante. E quando la magistratura diventa dominante, il circo mediatico diventa centrale, gli scazzi tra le correnti finiscono sulle prime pagine dei giornali, gli schizzi di fango vengono offerti ai cronisti di riferimento e capita quello che avrete certamente visto nella giornata di ieri. Capita, cioè, che la successione alla guida di una delle procure più importanti d’Italia, quella di Roma, si trasformi in una guerra tra fronti della magistratura e capita che a colpi di indagini, di esposti, di soffiate e accuse al centro del processo mediatico finisca l’organo che per Costituzione avrebbe il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. La storia forse la conoscete ma prima di spiegare cosa c’è dietro la scena bisogna conoscere i fatti e metterli in fila. Lo scorso 8 maggio, l’ex procuratore capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, è andato in pensione per raggiunti limiti d’età. La corsa alla sua successione è stata molto combattuta: Pignatone avrebbe gradito come suo successore l’attuale procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, ma alla fine le correnti del Csm erano arrivate a una soluzione diversa, che coincideva con il profilo di Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze. Ieri, due giornali non nemici di Giuseppe Pignatone, Repubblica e Corriere, hanno dato conto con rilievo di un’inchiesta per corruzione avviata dalla procura di Perugia a carico di un magistrato di nome Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e leader di Unicost. L’inchiesta in teoria non c’entra nulla con la successione di Pignatone (Perugia indaga da molto tempo su un rapporto non chiaro tra il pm e un lobbista di nome Fabrizio Centofanti), ma l’indagine sparata avrà un effetto sul futuro della procura di Roma: Palamara è stato uno degli sponsor di Viola alla guida della procura di Roma, lo stesso pm è in corsa per una delle due poltrone libere da procuratore aggiunto di Roma e dare conto con rilievo dell’indagine (sulla quale la prima commissione del Csm ha detto ieri che aprirà un fascicolo) non può che aiutare il fronte politico e mediatico che tifa per una non discontinuità alla procura di Roma. Giusto o sbagliato che sia non importa. I nemici di Viola e Palamara hanno deciso di trasformare la successione alla procura di Roma in un affare da risolvere a colpi di indagini e mascariamenti. E con tempismo perfetto, sempre sui giornali di ieri, i sostenitori della discontinuità alla procura di Roma hanno offerto ai teorici della continuità a Roma schizzi di fango utili per screditare chiunque sia tentato di lavorare a una forma di continuità per il dopo Pignatone. Il Fatto quotidiano e la Verità, giornali che hanno spesso criticato l’operato della procura guidata da Pignatone specie quando al centro di alcune indagini sono finiti pezzi da novanta del grillismo e che da tempo danno voce a quella parte della magistratura che non ha mai apprezzato l’arrivo alla guida della procura di Palermo di un magistrato come Lo Voi da sempre scettico sul teorema della Trattativa stato-mafia, ieri hanno dato conto di due presunti conflitti di interesse di Giuseppe Pignatone e dell’attuale aggiunto Paolo Ielo segnalati in un esposto da un sostituto procuratore di Roma, Stefano Rocco Fava. L’accusa è che Pignatone e Ielo non si sarebbero astenuti dal lavorare a un caso al centro del quale vi era Piero Amara, un avvocato finito al centro di una serie di accuse relative a sentenze comprate al Consiglio di stato. E la ragione del conflitto di interessi sarebbe questa: sia il fratello di Pignatone (Roberto, professore associato di Diritto tributario con studio a Palermo) sia il fratello di Ielo (titolare di un suo studio associato con sede a Milano) hanno svolto attività professionali con le quali sono entrati in passato in contatto con Piero Amara. Entrambe le storie, com’è evidente, riguardano semplici accuse che non sarà facile dimostrare, ma una volta affrontato il terreno della cronaca, la scena, ciò su cui vale la pena soffermarsi è il retroscena, e gli spunti di riflessione che offre lo scontro di dimensioni mai viste tra pezzi della magistratura sono moltissimi. Alla radice di questa storia non c’è solo l’evidenza di una guerra esplosiva tra pezzi importanti della magistratura ma c’è anche l’evidenza di qualcosa di più importante: una degenerazione delle correnti della magistratura, una logica di appartenenza alle correnti che nell’assegnazione dei ruoli apicali delle procure pesa più di ogni giudizio legato al merito, una trasformazione del Csm in un organo predisposto a garantire non l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello stato ma l’autonomia e l’indipendenza delle correnti su ogni altro potere dello stato. Ma la gravità della guerra tra bande non riguarda solo l’utilizzo disinvolto dello strumento del circo mediatico (al Csm, a difesa di Nino Di Matteo, estromesso dal pool stragi dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho dopo un’intervista disinvolta dello stesso Di Matteo a La7 sulla Trattativa, ci sarà Sebastiano Ardita, consigliere togato del Csm, di Autonomia e Indipendenza, allievo di Davigo, uno dei magistrati più amati dal grillismo) ma riguarda anche la cornice politica all’interno della quale lo scontro è maturato. La guerre nella magistratura, di solito, arrivano alla luce del sole quando la politica è debole e quando la politica sceglie di conquistare la fiducia della magistratura dando alla magistratura tutto quello che chiede. E in un anno di governo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, oltre ad aver fatto propria l’agenda della Davigo Associati, ha lavorato per concedere alla magistratura quasi tutto quello che la magistratura chiedeva: reati più elastici, intercettazioni meno regolate, prescrizione più lunga, obbligo di pensionamenti più flessibili e ferie più generose. Quando la politica diventa debole, la magistratura diventa forte Quando la politica sparisce, la magistratura diventa dominante. E quando la magistratura diventa dominante, e combatte battaglie di potere sulle prime pagine dei giornali, c’è da tremare - c’è da augurarsi che il presidente del Csm, ovvero il presidente della Repubblica, non resti indifferente di fronte a un paese dominato sempre di più dalla politica della forca, dalla tecnica della gogna e della strategia del mascariamento. La giustizia italiana sta esplodendo. Non è una teoria. È un fatto: è ora di fare presto. “Solo maggiori diritti garantiscono sicurezza”. di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 maggio 2019 Parola del Presidente Emerito della Consulta, Gaetano Silvestri. Il garantismo può essere principio ordinatorio che coniuga rispetto delle regole, tutela dei diritti ed esercizio della giustizia. Per farlo, però, è fondamentale analizzare quale idea di Stato lo presuppone. Su questo tema sono intervenuti durante la tavola rotonda “Garantismo: un’idea di Stato” coordinata dal direttore del Dubbio, Carlo Fusi - il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick; il Presidente della Scuola Superiore della Magistratura e Presidente Emerito della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri; il Giudice della Corte Costituzionale Giulio Prosperetti; il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio; il Presidente Emerito del Consiglio Nazionale Forense, Guido Alpa e il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita. “Interrogandosi sulla forma di Stato, bisogna notare come più si indebolisce il ruolo del Parlamento, più si allarga il ruolo del giudice come portatore di giustizia”, ha esordito Flick, che ha poi affrontato il ruolo dell’avvocato in questo contesto: “La nostra professione è diventata più complessa, perché sono venuti meno i parametri della certezza del diritto, che significa uguaglianza e anche prevedibilità del comportamento. Di fronte alla caduta della dimensione formale della norma, oggi condizionata dall’interpretazione giuridica, il ruolo dell’avvocato diventa ancora più mediatore”. Di conseguenza “oggi, l’avvocato è chiamato a un ruolo di mediazione tra giustizia, politica e realtà sociale: l’esempio sono gli avvocati tunisini, che in toga si schierarono tra i contendenti politici, impedendo che la discussione degenerasse in crisi di piazza”. Quanto al ruolo in questo sistema della Corte Costituzionale, il presidente emerito Gaetano Silvestri ha spiegato come “nel lavoro di bonifica costituzionale dell’ordinamento, l’avvocato ha un ruolo fondamentale: porta gli interessi della società civile dentro il sistema costituzionale e congiunge così la sua responsabilità verso il cliente e quella verso l’ordinamento”. Questo è possibile perché “se il difensore riesce a proporre al giudice una interpretazione della norma costituzionalmente conforme, da un lato ha risolto il caso in modo favorevole per il suo cliente, ma ha fatto anche fare un passo avanti all’ordinamento. In questo modo, la Consulta diventa organo di chiusura”. Non solo: “Oggi è fuorviante parlare di diritto alla sicurezza, perché l’unica sicurezza vera è la sicurezza dei diritti. Se la legislazione ordinaria non dà a un diritto fondamentale tutelato nella Costituzione la possibilità di esplicarsi, allora quella norma deve essere cambiata. Se non ci pensa il legislatore, andrà fatto con l’interpretazione conforme o con la questione di legittimità costituzionale”. In sintesi, secondo Silvestri: “Alla certezza del diritto va sostituita la certezza della tutela dei diritti e in questo gli avvocati hanno un ruolo centrale”. Lo ha ribadito anche il procuratore generale, Fuzio: “Il fulcro della giurisdizione è il primo grado, perché lì l’avvocato imposta la causa e porta davanti al giudice le domande per l’affermazione di un diritto”. Eppure, in questo sistema, “il garantismo non è e non può essere un principio che si rivolge solo ai singoli, ma deve coinvolgere le garanzie costituzionale di tutto lo Stato. Di conseguenza, l’obiettivo di tutti noi deve essere quello di allargare i confini della giurisdizione”. In particolare, sul fronte della magistratura, Fuzio ha ricordato come sia centrale “richiamare l’importanza dell’ufficio del pubblico ministero, con una visione che sia collettiva e sospendendo l’immagine, a volte enfatizzata dalla stampa, di una visione proprietaria del singolo magistrato di un fascicolo d’indagine”. A scardinare la visione è poi intervenuto De Rita, che da ricercatore sociale ha spiegato come “oggi non esistono più sistemi, e tutti quelli che ancora ci sono, sono in crisi. Viviamo in una società molecolare e l’avvocato è proprio colui che può interpretare al meglio questa nuova realtà, perché conosce la legge ma viene dalla società civile, vive i comportamenti e ha una sua naturale propensione a fare il gestore dei meccanismi”. Eppure, secondo De Rita, anche l’avvocato deve provare a cambiare pelle: “La professione deve cambiare ottica, non può più sentirsi calata dall’alto ma deve partire da terra, per ricucire conflitti e gestire il processo sociale. In una battuta: l’avvocato non deve occupare spazi, ma gestire i processi sociali di lotta tra le molecole della società”. Storicamente, ha ricordato il giudice costituzionale Prosperetti, “il diritto cammina sulle gambe degli avvocati, che da sempre trovano le vie giurisprudenziali per dare applicazione ai diritti”. Eppure, oggi la “società ha cambiato i suoi connotati e la crisi non è tanto economica quanto giuridica: molti istituti vanno riformulati, cambiandone proprio i parametri. Pensiamo a un problema come quello dell’immigrazione, come si può pensare di risolverlo con istituti settecenteschi come l’asilo politico? Eppure manca un dibattito”. Insomma, il lavoro del giurista non può più essere solo quello dell’interprete delle norme, ma “deve farsi anche promotore di una giurisdizione capace di reinterpretare la realtà”, mentre la Corte Costituzionale deve “estrarre i diritti che sono nascosti nelle pieghe della Costituzione, in modo da dargli valore di diritti soggettivi”. In conclusione, è intervenuto il presidente emerito del Cnf, Guido Alpa, il quale ha argomentato come “per garantire i diritti servono magistrati, avvocati e accademia, che ricoprano anche un ruolo sociale. Oggi la difficoltà dell’avvocato è quella di rendersi conto che le categorie che aveva studiato all’università non sono più sufficienti a decifrare i fenomeni”. In termini giuridici, “il giusformalismo non è più sufficiente a risolvere i problemi: occorre prendere atto che non possiamo più ragionare in termini di fattispecie, ma in termini di valori, che sono quelli costituzionali, nella Carta europea diritti fondamentali e Carta europea diritti umani”. Da civilista ha tradotto il co cetto ribadendo come oggi “il principio di effettività implica non tanto effettività del ricorso, ma effettività del rimedio: è quello che da effettività al diritto, ciò che si ottiene dal giudice”. Da ultimo, Alpa ha sottolineato come proprio l’inserimento della figura dell’avvocato in Costituzione “ne rafforza autonomia e indipendenza, difendendo l’avvocato dal potere e anche dalle limitazioni che altrimenti potrebbero essere imposte alla professione”. Violante apre alla separazione tra giudici e pm. Audizione alla Camera di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2019 La separazione delle carriere dei magistrati non è un tabù. Parola di Luciano Violante, per decenni uomo chiave della politica giudiziaria del centrosinistra, che regala una gioia grande innanzitutto a Francesco Paolo Sisto di Forza Italia relatore del disegno di legge costituzionale che ha raccolto adesioni à gogo alla Camera e non solo tra i forzisti. Perché oltre a mettere mano alla divisione dei percorsi professionali di giudici e pm, si propone pure di ridisegnare il Csm e soprattutto incidere sulle scelte che si effettuano nell’esercizio dell’azione penale. Insomma tre questioni assai delicate. “Il problema non è la separazione in sé, più che altro bisogna capire come si intende gestirla” dice dopo l’audizione di fronte alla commissione Affari costituzionali della Camera, dove ha ammesso che però un rischio c’è e non è da poco: “Se le riforme sono fatte come occasione per risistemare i rapporti tra politica e magistratura è un altro conto. I dati, tra assoluzioni e proscioglimenti, dimostrano comunque che la subalternità dei giudici rispetto ai pubblici ministeri in realtà non esiste”. E sull’obbligatorietà dell’azione penale? “Introdurre un criterio di priorità (tra i reati da perseguire, ndr) condanna alla prescrizione altri reati. Ma chi deve gestisce la politiche penali in Italia, le procure o l’autorità politica? Io preferirei che spettasse alla politica che ne risponde. Ma si può studiare un meccanismo misto: sulla base delle relazioni degli uffici giudiziari, è poi il Parlamento che incarica il ministro della Giustizia di dare indicazioni sulle priorità”. Ma è sulle correnti della magistratura che Violante usa la clava. “Ciascun capo corrente arriva prima o dopo al Csm” è l’esordio. Poi l’affondo: “C’è una gestione francamente discutibile delle componenti giudiziarie del Csm. È un mercanteggiamento permanente: quando qualcuno parla di discontinuità, a proposito del dopo Pignatone (l’ex capo della Procura di Roma che sarà scelto a breve da Palazzo dei Marescialli, ndr) sta usando un termine politico, non giuridico”. “La castrazione chimica è una fake news”. Intervista a Paolo Giulini di William Beccaro estremeconseguenze.it, 30 maggio 2019 Il tema della castrazione chimica è stato rilanciato dal vicepremier Matteo Salvini dopo lo stupro di una donna di 36 anni a Viterbo da parte di tre ragazzi (tra cui un esponente di Casapound). Una proposta di legge c’è, ed è sostenuta da una raccolta di firme, nonché da un sondaggio commissionato dalla Lega che dice che il 58% degli italiani è favorevole. “Ma la recidiva per questo tipo di reati è intorno al 17% - dice ad EC - il criminologo Paolo Giulini, a capo dell’Unità di trattamento intensificato per autori di reato sessuale nel carcere di Bollate - contro il 53% dei detenuti per altri reati. La castrazione è una fake news. Non tutti coloro che hanno fantasie devianti le mettono in atto diventando criminali. E il “silenzio ormonale” è comunque reversibile”. “Una fake news, una risposta emotiva allo sdegno delle persone, e un imbroglio ideologico, perché la castrazione chimica è comunque reversibile e non tutti coloro che hanno fantasie sessuali devianti le mettono in atto diventando criminali”. Paolo Giulini, criminologo e presidente del Cipm, Centro italiano per la promozione della mediazione di Milano, a capo dell’Unità di trattamento intensificato per autori di reato sessuale nel carcere di Bollate, è colui che da almeno dal 2006 tenta di sradicare il problema delle aggressioni sessuali e delle violenze su donne e minori da parte dei pedofili con un approccio differente rispetto all’idea, tornata più che attuale dato il disegno di legge attualmente in Senato presentato dalla Lega, della castrazione chimica. E ad EC su questo dice “Si tratta di un emendamento che non tiene conto di come stanno le cose davvero. Gran parte delle condotte devianti non sono frutto di parafilie. La maggior parte degli autori di reati sessuali, infatti, non ha un problema nel controllare gli impulsi e, sempre nella maggior parte dei casi, la dimensione della sessualità non è prevalente, è solo un mezzo per mettere in atto dinamiche di controllo, potere e prevaricazione. E infatti la maggior parte dei casi di stupro e abusi resta sommersa perché si consumano in famiglia o all’interno di relazioni prossimali. Io dico sempre che la violenza sessuale non è un modo aggressivo di esprimere la propria sessualità, ma è un modo sessuale di esprimere la propria aggressività”. Giulini invoca piuttosto “un patto terapeutico nazionale” che è poi quello che sta dando risultati più che incoraggianti a Milano, nel carcere di Bollate per esempio, dove Giulini ha avviato un progetto specifico di trattamento, che prevede un anno di terapia. “Un anno - spiega il criminologo - in cui questi detenuti devono prendere coscienza, dare un nome al male che hanno compiuto perché la maggior parte minimizza. Ma siamo solo ospitati in carcere come intervento dall’esterno e non di sistema. E abbiamo vinto un bando a Milano per seguire gli aggressori che escono dal carcere. Questo trattamento multidisciplinare, invece, dovrebbe essere patrimonio di tutti. Perché esistono delle fragilità rispetto alla compulsione sessuale e noi ci sforziamo di puntare sulle risorse del singolo. Insieme con i fattori di rischio, valutiamo i fattori di protezione, mettiamo in evidenza la comprensione per la sofferenza degli altri, la possibile empatia con le vittime, non si tratta di fare terapia e di dare pillole, organizziamo un percorso nel quale è la comunità, siamo noi, che ci prendiamo carico della nostra sicurezza. Quest’anno, il nostro presidio, tra pedofili, aggressori sessuali, stalker, ha 353 persone prese in carico, e 101 sono stati i nuovi accessi, organizzati in quattro gruppi di incontri ogni settimana e uno ogni quindici giorni con i parenti”. Il che - chiarisce Giulini - non esclude nell’ambito dei progetti seguiti di poter integrare in modo sperimentale terapie con trattamenti farmacologici. Ma la domanda viene da sé: una volta scontata la pena, chi monitorerebbe l’assunzione dei famaci? Per imporre un trattamento farmacologico, fa notare Giulini, serve il consenso dell’interessato. Per questo andrebbe cambiata la nostra Costituzione con una legge ad hoc. L’articolo 32, infatti, stabilisce: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Inoltre, questo “silenzio ormonale” è reversibile. E mentre in alcuni Paesi esiste l’obbligo di controllo, in Italia non sarebbe previsto. “La recidiva per questo tipo di reati è intorno al 17% - continua - contro il 53% dei detenuti per altri reati. Uno studio recente su 127 pazienti ha dimostrato che il trattamento con anti-androgeni la porta al 6%. Mentre con il trattamento psicologico dei cosiddetti good life model, i “modelli di buona vita”, la recidiva scende al 3%. La terapia psicologica dunque è al momento più efficace di quella farmacologica. E poi al momento in Italia non ci sono nemmeno i fondi per garantire il trattamento psicologico ai condannati per pedofilia”, dice ancora Giulini. E questo nonostante l’articolo 13-bis della Convenzione di Lanzarote, che individua uno specifico trattamento psicologico per i condannati per reati di sfruttamento sessuale dei minori, sia stato inserito nell’Ordinamento penitenziario dalla legge 172 del 2012 come ratifica e come richiesto da quella Convenzione agli Stati membri. Sui pedofili Giulini fa ancora una precisazione: “L’equazione pedofilo uguale criminale sta cambiando. Si ragiona sempre di più sull’idea che ci siano persone che provano attrazione per i minori (sono quasi tutti maschi) che non potranno mai superare questa condizione. Qualcuno deve passare attraverso il “lutto” della sessualità: rinunciare per sempre e trovare altre fonti di soddisfazione. Tutti coloro che hanno commesso abusi o che hanno interesse per i bambini possono però imparare a controllare le proprie pulsioni. E avere una vita normale, senza mai commettere violenze o reati. Per farcela, devono essere seguiti da psicologi e personale specializzato. Ecco anche in base a questo penso che il farmaco in qualche modo deresponsabilizzi rispetto a chi commette un crimine”. C’è poi da dire che molti tra gli aggressori seriali sono risultati impotenti, che un po’ più del 5% delle violenze sessuali sono opera di donne (nel foglietto illustrativo del farmaco che viene utilizzato si legge chiaramente che il medrossiprogesterone acetato, il principio attivo di Depo-Provera, passa nel latte materno), che ci sono anche le molte violenze su donne, transessuali e minori da parte della criminalità organizzata, motivate dal denaro come quelle dei produttori e commercianti di materiale pedo-pornografico, dalla violenza sacrificale dei culti più allucinati, dalle truci bestie di Satana fino alle più patetiche associazioni nel sopraffare altri, al proprio disegno delirante o a un interesse materiale. In tutti questi casi la castrazione chimica non rappresenterebbe affatto un ostacolo o un impedimento, così come difficilmente inciderebbe sul complesso quadro psicologico ed emozionale del pedofilo seriale. Al tema etico si affianca appunto tutto quanto riguarda l’aspetto medico. Il farmaco più in uso per questo trattamento è attualmente proprio il Depo-Provera ovvero il principio attico del Medrossiprogesterone. Questo farmaco agisce sul cervello, in una parte specifica detta ipotalamo, inibendo la produzione ed il rilascio in circolo degli ormoni che stimolano i testicoli alla produzione di testosterone, l’ormone androgeno della sessualità maschile. L’effetto può variare da 20 giorni a tre mesi. Uno studio statunitense del 2013 pubblicato sul Journal of Bioethical Inquiry chiarisce che “l’approccio dominante in Europa è quello di offrire la castrazione chimica come un intervento formalmente opzionale”. A proposito di tale trattamento, nella nota n. 51 dell’Agenzia italiana del farmaco, aggiornata al novembre 2016 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 5 novembre 2016, si legge: “I farmaci analoghi dell’ormone stimolante il rilascio delle gonadotropine (LH-RH analoghi) hanno un ampio utilizzo nella pratica clinica grazie al loro meccanismo di azione. Essi producono una iniziale stimolazione delle cellule ipofisarie che provoca la secrezione dell’ormone follicolo stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) mentre un trattamento prolungato determina desensibilizzazione dei recettori ipofisari e inibizione della produzione di entrambi gli ormoni gonadrotopi, determinando funzionalmente una condizione di castrazione farmacologica”. Nella stessa nota si legge ancora che il trattamento è attualmente riservato a gravi malattie in prevalenza di natura tumorale (carcinoma della prostata, carcinoma della mammella, endometriosi, fibromi uterini non operabili e così via) e vi sono avvertenze sugli effetti collaterali specifici ? tra cui figurano riduzione della massa muscolare, importanti effetti negativi sul metabolismo osseo ed osteoporosi, anemia - destinati a ripercuotersi sullo stato di salute generale dei pazienti e sulla loro qualità di vita. E in effetti alle origini della discussa procedura ci sono in realtà fini medici. A spiegarci quindi come funzionano i farmaci è Vincenzo Gentile, Professore Ordinario di Urologia Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Urologia e Andrologia dell’Umberto I: “Gli antiandrogeni sono farmaci che inibiscono gli ormoni sessuali maschili, usati come cura di alcuni tumori. Nei giovani possono creare danni importanti e ci possono essere effetti sulla fertilità, ma in genere la loro azione termina se viene sospesa la somministrazione. Si tratta di farmaci che agiscono a livello del Sistema nervoso centrale - aggiunge - su una ghiandola detta ipofisi. Si assumono per via sottocutanea e sono disponibili in diverse formulazioni, anche a lento rilascio. La vera castrazione chimica - sottolinea Gentile - utilizza i cosiddetti farmaci antiandrogeni centrali. Appartengono alla famiglia degli analoghi dell’ormone LH-RH, e agiscono a monte della cascata di eventi che porta alla produzione di testosterone, fabbricato principalmente nei testicoli, e al rilascio dell’ormone sessuale maschile nel sangue. In altre parole, precisa lo specialista, interferiscono con il complesso meccanismo che stimola la produzione di testosterone, impedendo all’ipofisi di inviare al testicolo l’invito a fabbricare e liberare testosterone. Dal punto di vista farmacologico penso che il provvedimento è praticabile - dice Gentile. Ma sono d’accordo con chi sostiene che da sola non basti, va fatto un lavoro a livello sessuologico e psichiatrico per la rieducazione dei soggetti con simili devianze”. Insomma, il trattamento risolve momentaneamente il problema, ma il soggetto sottoposto a tali cure non è immune da effetti collaterali anche importanti, dall’osteoporosi alla depressione, al calo dell’attenzione. Inoltre, sottolinea l’esperto, la somministrazione sottocutanea dei farmaci necessari che spengono l’impulso e il desiderio sessuale andrebbe comunque deciso dopo avere attentamente esaminato la storia psico-sessuale del paziente. Il problema che vedo è però la durata dell’adesione alla terapia nel tempo”. Per quanto tempo questi pazienti devono essere seguiti? Per quanto tempo ci si può aspettare che seguano con costanza la terapia? Quanto dovrebbe durare il trattamento? Si praticherebbe fissa per tempi e modi indipendentemente dall’età? L’obbligatorietà è costituzionale? Anche se in alcune parti del mondo l’intervento consegue un certo successo, la questione rimane aperta. Un ultimo aspetto non meno inquietante di quelli esposti fin qui è che il trattamento sarebbe disposto dal giudice “previa valutazione della pericolosità sociale e della personalità del reo, nonché dei suoi rapporti con la vittima del reato”. Giulini fa chiarezza anche su questo ricordandoci che “La scelta è solo parzialmente libera, poiché potrebbe essere una scelta di comodo, effettuata solo per abbreviare la detenzione. Gli psicologi che effettuano la psicoterapia sanno benissimo quanto conti, ai fini della riuscita della stessa, la motivazione personale al cambiamento che, in questo caso, sarebbe molto debole e solo strumentale all’evitamento del carcere. E poi l’obbligatorietà, del resto, sarebbe ed è anticostituzionale, dato che l’articolo 27 dice esplicitamente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E ancora la menzione di una “sentenza di condanna passata in giudicato” come presupposto necessario del (residuale) trattamento “volontario” e il semplice riferimento ad una condanna alla reclusione nei casi di trattamento discrezionale e obbligatorio inducono a ritenere che, nell’intenzione di chi propone questo provvedimento, ci sia che il trattamento potrebbe essere adottato anche dopo una sentenza non definitiva”. Una sentenza non definitiva per un trattamento chimico che non ha non poche conseguenze. Insomma, noi che abbiamo bandito la pena di morte, le punizioni corporali e le torture, pur nella considerazione che su certi gravissimi reati si debba intervenire risolutamente, siamo pronti ad oltrepassare il confine di una tale violazione dei corpi? Chi abusa rimane una persona o no? Nel mondo - Sono solo due i Paesi europei, Repubblica Ceca e Germania, in cui si è fatto ricorso alla castrazione chirurgica in anni recenti, secondo il rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa. In entrambi i Paesi l’operazione avviene con il consenso della persona condannata e dopo un esame del caso da parte di un gruppo di esperti. Secondo il Cpt, però, in alcuni casi avvenuti in Repubblica Ceca il consenso degli interessati non era facilmente accertabile, visto che si trattava di individui con deficit mentali o alcolizzati. Germania e Repubblica Ceca, sono state invitate dal Cpt a interrompere la pratica. In Europa, l’adesione del condannato è volontaria e informata sui rischi per la sua salute. Svezia, Finlandia e Germania hanno delle limitazioni in base all’età minima del condannato, che deve andare dai 20 ai 25 anni. Inoltre, l’uso della castrazione chimica non è utilizzata necessariamente per punire o controllare i colpevoli di reati sessuali di per sé. Per esempio, la Finlandia permette la procedura solo se allevierà l’angoscia mentale del soggetto riguardo i suoi impulsi sessuali, mentre Danimarca, Germania e Norvegia la permettono se si può dimostrare che il soggetto potrebbe essere costretto a commettere crimini sessuali a causa di istinti sessuali incontrollabili. La Svezia permette la castrazione chimica nel caso in cui il soggetto possa essere una minaccia per la società e la pratica è strettamente volontaria, con l’obbligo che il soggetto sia pienamente informato di tutti i possibili effetti collaterali. In Belgio, invece, la castrazione chimica non è prevista nelle leggi, ma è il giudice che può offrire la libertà condizionale a patto che il condannato accetti trattamenti medico-farmacologici, che possono comprendere anche la castrazione chimica. L’adesione del condannato deve essere sempre volontaria e informata sui rischi per la salute. La Polonia è il primo caso (e l’unico) nell’Unione europea a prevedere la castrazione chimica come punizione obbligatoria, precisando però che riguarda i colpevoli di stupro di minorenni e di parenti stretti. Di recente altri Paesi hanno seguito l’esempio della Polonia: alla fine del 2011, la Russia ha introdotto la castrazione chimica obbligatoria come pena da comminare ai condannati di reati sessuali contro i minori di 14 anni, sentito il parere di uno psichiatra forense. A febbraio del 2014 la castrazione chimica per i pedofili recidivi è stata approvata dal parlamento della Macedonia. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, sono 8 gli Stati che prevedono la castrazione: California, Florida, Georgia, Louisiana, Montana, Oregon, Texas e Wisconsin. Ma negli Usa si parla d’altro, infatti, la castrazione chimica è una punizione, quindi il più delle volte obbligatoria e non una libera scelta del condannato. Giornalista picchiato a Genova, 4 poliziotti si presentano spontaneamente in procura di Tommaso Fregatti La Stampa, 30 maggio 2019 Gli agenti hanno risposto all’appello dei magistrati. Stamattina sono stati sentiti dal pm e hanno fornito la loro versione dei fatti. I quattro poliziotti del reparto mobile coinvolti nel pestaggio del giornalista di Repubblica Stefano Origone durante gli scontri di piazza Corvetto si sono presentati spontaneamente in Procura davanti al pubblico ministero Gabriella Dotto. Gli agenti, che sono stati iscritti nel registro degli indagati per il reato di lesioni aggravate, hanno reso dichiarazioni assistiti dagli avvocati. “Sono compiaciuto nella collaborazione della polizia- ha commentato il procuratore capo Cozzi - Segna un atteggiamento di elevato senso istituzionale. Presentarsi e dare spiegazioni di quello che è successo e dove si è sbagliato ammettere le responsabilità è molto diverso rispetto a quello che è avvenuto in passato. Ora auspichiamo che anche chi è ha aggredito la polizia si presenti e ammetta le sue responsabilità. Terremo conto della condotta”. Stefano Origone è stato assalito e picchiato da diversi uomini in divisa durante gli scontri tra la polizia e antifascisti avvenute il 23 maggio 2019 in piazza Corvetto. Tutto è scaturito per la protesta dovuta alla concessione di far svolgere in piazza Marsala un comizio con il quale Casa Pound ha chiuso la campagna elettorale per le Europee del candidato Marco Mori. Origone, sentito in ospedale dal pm, aveva così descritto quanto accaduto: “Non li ho visti: mi hanno colpito e hanno continuato a farlo nonostante urlassi che ero un giornalista. Non smettevano più: ho cominciato a dire basta e a un certo punto ho dubitato di uscirne vivo”. Solo grazie all’intervento di un altro poliziotto che lo ha riconosciuto Origone è uscito dalla morsa degli agenti. Il vicequestore Giampiero Bove, funzionario del commissariato di Sestri Ponente così aveva raccontato quei momenti a Il Secolo XIX: “Io non sono un eroe, credo che siamo addestrati per atterrare e immobilizzare una persona quando serve. A quel punto, se chi hai di fronte non resiste, non c’è bisogno di dare una seconda manganellata”. Consulta. Spiragli ampi per la messa alla prova di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 30 maggio 2019 Ampia la possibilità di “messa alla prova”. Il giudice può disporre il beneficio, previsto, per i reati minori (puniti fino a 4 anni), anche se per farlo deve riqualificare il reato più grave contestato dal pubblico ministero e farlo rientrare in uno dei reati per cui il beneficio è ammesso. Tutto questo già a legislazione vigente, senza alcun bisogno di una pronuncia di illegittimità costituzionale. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 131, depositata il 29 maggio 2019, con cui sono stati salvati gli articoli 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale. La questione è scaturita nel corso di una udienza preliminare, in cui il difensore di un imputato ha chiesto la “messa in prova” previa riqualificazione del reato. Il Pubblico ministero aveva contestato uno diverso, non compreso nella lista di quelli per cui è ammesso lo speciale beneficio. Ma il difensore ha insistito nella sua richiesta. L’interesse dell’imputato è molto forte, considerato che si tratta di un beneficio che comporta la sospensione del procedimento, la determinazione di un programma con attività di volontariato e lavori di pubblica utilità e, infine, se il programma va bene, l’estinzione del reato. Nel caso specifico il giudice ha avuto il dubbio di poter fare l’operazione richiesta, in quanto non prevista espressamente dalla legge e ha mandato tutto alla Consulta. La corte costituzionale ha sciolto ogni incertezza e ha detto che il giudice può concedere il beneficio della messa alla prova direttamente in udienza preliminare. Lo stesso, inoltre, può essere fatto dal giudice se si convince successivamente della diversa qualificazione del fatto nel prosieguo del giudizio. D’altra parte la possibilità di una diversa qualificazione del fatto propedeutica alla concessione della messa in prova è già ammessa nel corso dei giudizi di appello, quando riformano la sentenza precedente e concedono la messa in prova, prima rifiutata. Quel che vale in appello, dice ora la Consulta, non può non valere nel giudizio di primo grado. Altrimenti l’imputato sarebbe costretto a fare sempre appello per avere la messa in prova negata in primo grado e il principio di economia processuale non tollera questa lungaggine. Detenuti al 41bis: esclusa la videoconferenza per i colloqui con i familiari di Rosa Valenti studiocataldi.it, 30 maggio 2019 Per la Cassazione, il magistrato di sorveglianza non può concedere colloqui in videoconferenza con i familiari per i detenuti sottoposti al 41bis. Nell’ambito dell’ordinamento penitenziario, in una recentissima sentenza (n. 16557-2019) la Corte di Cassazione ha affermato che il magistrato di sorveglianza non può concedere colloqui in videoconferenza con i familiari per il detenuto sottoposto al regime del carcere duro previsto dall’art. 41bis. È compito del legislatore, infatti, in virtù delle nuove tecnologie prevedere o meno questa opportunità, dopo aver analizzato che non ci siano i rischi per la sicurezza interna. La vicenda - Ad affermarlo è la Suprema Corte che ha accolto il ricorso del ministero della Giustizia contro l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza aveva dato il via libera alla richiesta di un colloquio visivo con il fratello, anche lui carcerato, di un detenuto in regime di carcere duro. Il Tribunale di sorveglianza si era espresso positivamente in quanto si trattava di un banale video-collegamento tramite Skype, ma la Corte ha ritenuto che tale tipo di mezzo non si attaglia al regime carcerario e ancora meno al regime speciale ex art. 41bis dell’ordinamento penitenziario. La videoconferenza tra fratelli detenuti, nel caso in esame, di un uomo sottoposto al regime carcerario ex art. 41bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 che aveva chiesto e ottenuto dal magistrato di sorveglianza di poter intrattenere dei colloqui con il fratello, parimenti detenuto, tramite videoconferenza (lo si definirà nel processo ‘una specie di Skype adattato’) non si adatta al regime carcerario sia ordinario che al cosiddetto carcere duro. L’articolo 41bis - L’articolo 41bis, al comma 2-quater, lettera b) oltre a prevedere il diritto del detenuto ad avere colloqui con i familiari o conviventi, nel numero di uno al mese da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, prevede un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione. I colloqui sono comunque videoregistrati. In definitiva, si tratta di un ambito interamente regolamentato dalla legge che non contempla - né per i detenuti in regime ordinario, né per i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41bis ord. pen. - videoconferenze o video colloqui e nemmeno permette di costruire “colloqui visivi sui generis” - per usare l’espressione presente nell’ordinanza impugnata - poiché la legge delimita con precisione il concetto di “colloquio”, così come quello di “corrispondenza telefonica”. Alla luce di questa sentenza risulta chiaro che in assenza di chiare e puntuali modifiche all’ordinamento penitenziario, i detenuti - siano essi in regime carcerario ordinario ovvero ex art. 41bis - non possono svolgere colloqui con i propri familiari tramite videoconferenza. Campania: è allarme sovraffollamento, ci sono quasi 8mila detenuti di Luigi Maria Mormone 2anews.it, 30 maggio 2019 Il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha fatto sapere che la percentuale di sovraffollamento è del 133%. Un dato secondo soltanto a quello della Lombardia. Allarme sovraffollamento nelle carceri della Campania, stimato al 133,9%: è uno dei dati diffuso dal Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, in occasione della presentazione della relazione annuale sullo stato degli istituti penitenziari regionali. La maglia nera va al carcere di Poggioreale, dove il sovraffollamento raggiunge picchi del 157,81%. Seguono Benevento (154%), Pozzuoli e Arienzo (151%), Secondigliano (144%). La Campania è la seconda regione in Italia per numero di detenuti con 7830 persone (di questi 7343 sono uomini, 396 le donne), a fronte di una capienza regolamentare di 6477 unità. Il dato, in negativo, è di un esubero di presenze nelle celle di 1395 persone soggette a restrizione. Al primo posto la Lombardia con 8610 carcerati in 18 istituti, terza la Sicilia con 6509 detenuti in 234 istituti. Su un totale di 7830 detenuti, 1117 sono stranieri: sono il 12,9% a fronte di una media nazionale del 34%. In attesa di processo ci sono 1532 persone, mentre quelli passati in giudicato sono 3959, pari al 50,4%. Infine, in regime di 416 bis, si trovano nelle carceri campane 965 detenuti accusati di associazione di stampo mafioso Ciambriello: “Il 50% in attesa di giudizio” (Il Mattino) Sono 3.780 le persone detenute nelle carceri della Campania ancora in attesa di giudizio. È quanto emerge dalla relazione annuale del garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, per il quale “il carcere viene ancora utilizzato come misura cautelare preventiva”. È un dato “allarmante” perché, da solo, costituisce il 50% dei reclusi in Campania. Nel 2018, solo a 91 persone è stata concessa la possibilità di lavorare all’esterno mentre a 194 su 4.092 è stata concessa la semilibertà. “È opinione condivisa da molti giuristi e addetti ai lavori - ha commentato Ciambriello - quella di intensificare le misure alternative alla detenzione, per le persone in attesa di giudizio per reati di bassa pericolosità sociale o per chi dovesse ancora scontare un residuo di pena”. Non va meglio se, guardando ai dati, si punta agli operatori che quotidianamente lavorano nelle carceri della Campania. Pur essendo prevista in pianta organica la presenza di 4.442 agenti di polizia penitenziaria, se risultano in servizio 4254 di cui, “ogni giorno 850 in permesso per malattia”. La carenza è di circa 200 agenti. Corre parallelo a questo dato quello relativo alla condizione di sotto organico: nelle carceri mancano educatori, mediatori, medici, psichiatri, psicologi e tecnici riabilitativi. Una carenza compensata in parte dalla presenta dei volontari: sono in totale 1.179 le persone che svolgono attività a favore dei detenuti. “Costruire nuove carceri non è una risposta, non servono”. Lo ha detto Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, in occasione della presentazione della relazione annuale sullo stato dei detenuti nelle carceri regionali. “Più che costruire nuovi istituti di pena - ha aggiunto - occorre valorizzare e ristrutturare strutture già esistenti”. Campania: il Garante dei detenuti “decarcerizzare costa meno di carcerizzare” ilmonito.it, 30 maggio 2019 “Da quando ho ricevuto l’incarico istituzionale come Garante delle persone private alla libertà personale, il 26 Settembre 2017, ho concentrato le mie conoscenze e capacità affinché fossero tutelati i diritti e rispettati i doveri dei detenuti”. Ha così esordito, Samuele Ciambriello, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, al Consiglio Regionale della Campania, per la relazione annuale sulle condizioni delle carceri campane, di questo 2018. Ad introdurre la relazione, Maria Antonietta Ciaramella, delegata da Rosetta d’Amelio, Presidente del Consiglio Regionale della Campania. La consigliera della Regione Campania ha affermato: “Ringrazio innanzitutto il Professor, nonché, Garante Samuele Ciambriello, per il lavoro svolto in questo ultimo anno. I ringraziamenti non sono solo da parte mia ma di tutta la Regione Campania che oggi rappresento. Quando leggiamo questo rapporto e quindi andiamo ad affrontare il problema degli esseri umani che restano tali, all’interno delle celle, non possiamo non guardare anche lo spaccato di società che c’è fuori, perché quello presente nelle carceri è solo una conseguenza. Non dobbiamo dimenticarcelo. Un aspetto particolarmente importante per la Regione Campania è sicuramente quello sanitario, non perché sia più importante rispetto agli altri ma perché è nostra competenza e nostra responsabilità migliorare in questo settore. Proprio come stiamo facendo. Quando ho fatto visita ai detenuti la cosa che più mi ha colpito è che molti di loro hanno avuto per la prima volta un rapporto con uno specialista o con il servizio sanitario pubblico, in carcere. Questa è una cosa che mi ha stravolta e devastata come essere umano, perché avere a che fare con una persona che puoi immaginare possa avere un degrado sociale, culturale ma non sapere o non avere la considerazione di sé, tale dover ricorrere ad un medico, perché avverti un dolore e quel dolore lo attribuisci ad una normalità perché sei sofferente e nato sofferente. Credo che questo debba farci interrogare su cosa è la società fuori e poi cosa possa succedere dentro. Perché dentro può essere un momento di riscatto e di rinascita”. Dopo l’introduzione della Consigliera ha preso parola Samuele Ciambriello e ha raccontato che grazie ad un’attenta osservazione e attività di monitoraggio, ha ricavato dati, notizie, osservazioni ed esperienze riguardanti le condizioni di vita dei ristretti e degli istituti penitenziari che gli hanno permesso di realizzare la prima relazione annuale “su lo stato della vita di un detentivo in Campania”. Dall’osservazione dei dati relativi agli Istituti di pena che insistono nella Regione Campania, possiamo preliminarmente scorgere ancora oggi, l’insistere del gravoso problema concernente il sovraffollamento carcerario (ad oggi 7872 presenze) Il Garante, ha poi fatto presente ulteriore problema. Ovvero la presenza di persone in attesa di giudizio, in istituti di pena, alle quali viene privata la libertà ancor prima della condanna definitiva. Non è mancato a tale proposito, un suggerimento del garante, con opinione condivisa da molti giuristi e addetti ai lavori quella di intensificare le misure alternative alla detenzione, almeno per le persone ancora in attesa di giudizio per reati di bassa pericolosità sociale o per chi avesse ancora da scontare una pena residua esigua in riferimento al reato commesso. “Il generale malessere non è solo un fattore che affligge la popolazione carceraria, ma si riflette anche sugli operatori che con gli stessi lavorano quotidianamente.” Stesso discorso è stato ripreso e riconfermato da Monica Amirante, Presidente del tribunale di sorveglianza di Salerno. “Migliorare la qualità della vita detentiva non solo aiuta il detenuto a cambiare atteggiamento e migliorarsi ma soprattutto è una tutela nei confronti di chi deve lavorare”. Non sono mancati durante la relazione i continui ringraziamenti di Ciambriello per i volontari, che sono una forte presenza a parziale compensazione del deficit di personale. Ha poi ricordato del dato emblematico riguardo la sanità penitenziaria, le quali pur riconoscendo il diritto di ciascun individuo alla cura ed alla salute a prescindere dallo status liberatis, presenta notevoli criticità operative e gestionali, causate per lo più da carenze organiche, strumentali e di personale. “Ogni detenuto costa 136 euro al giorno delle quali 3 euro per colazione, pranzo e cena e appena 2 euro per il trattamento rieducativo. Capirete bene che non bastano certo per una nuova formazione sociale e che decarcerizzare costa meno di carcerizzare”. Non è mancato cenno su un tema delicato, quello della delinquenza minorile in Campania. Difatti, risulta dai dati che nonostante la giovane età questi reati commettono reati efferati, mossi dall’incoscienza, dall’irresponsabilità influenzati dal contesto culturale e familiare in cui vivono. Si è poi forte dibattuto sull’esecuzione delle misure di sicurezza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nelle case di cura e custodia della introduzione della c.d. R.E.MS. Dopo la relazione di Ciambriello è intervenuto anche Domenico Schiattone, direttore ufficio detenuti e trattamento del Prap, che non si è trovato particolarmente d’accordo con le affermazioni del Garante ma che ha ringraziato per l’impegno e il lavoro svolto in questo ultimo anno e ha tenuto spiegare che la mancanza di personale e di attività formativa sono dovute alla mancanza di fondo. Durante la giornata non è mancata anche la presenza della Presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia, che ha affermato “Dagli anni 70 ad oggi, ringraziando il cielo il carcere è cambiato, ci sono più figure che lavorano per renderlo migliore. Anche se, secondo me resta ancora un po’ chiuso. Per migliore all’interno dei carceri c’è bisogno di fondi che purtroppo mancano e non arrivano per ora”. Non è mancata la risposta a Domenico Schiattone anche di Ornella Riccio, magistrato di sorveglianza presso il tribunale per minori, presente anche lei oggi e che ha ricordato come lo Stato sia assente nell’intervenire prima che il reato possa essere commesso per una seconda volta. A fine giornata Ciambriello ha ringraziato il suo staff, alle persone che hanno lavorato nell’ultimo anno con dedizione permettendo di costruire e di organizzare piccoli progetti che danno la speranza a queste persone che hanno bisogno di inclusione e non reclusione. Modena: 42enne morto in carcere “quel detenuto andava trasferito” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 30 maggio 2019 La stessa direzione del Sant’Anna ne aveva chiesto il trasferimento: il suo stato di salute psichica era incompatibile col regime carcerario. Eppure da Reggio Emilia, struttura dove avrebbe dovuto essere trasferito, è arrivato il diniego: carcere pieno. La famiglia del 42enne bolognese deceduto nei giorni al Sant’Anna chiede che sia fatta luce sulla morte dell’uomo e che vengano accertate eventuali responsabilità in merito. La procura di Modena ha aperto un fascicolo contro ignoti con l’ipotesi di reato di omicidio colposo e ieri, sul corpo del 42enne, è stata effettuata l’autopsia. Il consulente nominato dalla procura ha chiesto 90 giorni di tempo per fornire risposte sulle cause di morte. L’uomo era entrato in carcere a febbraio. Incensurato, disoccupato, aveva un’invalidità del 75% legata ad un ritardo lieve. La sua età psicologica non corrispondeva a quella fisica, per intenderci. Nei suoi confronti era scattata la misura cautelare con l’ipotesi di reato di violenza sessuale lieve ma il procedimento penale era pendente a Bologna: ancora in fase di indagini preliminari. Fatto sta che, quando la direzione del carcere Sant’Anna si è resa conto che il 42enne non era compatibile con il regime carcerario ha inviato comunicazione al pm di Bologna. Il tribunale, il 18 aprile, ha autorizzato il trasferimento del detenuto nel carcere di Reggio Emilia, dove è presente un reparto idoneo ad accogliere persone con quel tipo di disabilità ma dal penitenziario è arrivata risposta negativa: non c’è posto. “Era il 18 aprile quando il trasferimento del 42enne è stato autorizzato dal giudice - spiega il legale della famiglia, l’avvocato Andrea Gori del foro di Bologna - ma i ‘colleghi’ reggiani hanno risposto di non poterlo accogliere per mancanza di posti. Era in attesa di essere trasferito ed è morto. Ho presentato una domanda di accertamento tecnico non ripetibile per verificare le cause del decesso - conferma il legale - e tra novanta giorni ne verremo a conoscenza. Sapevano che l’uomo non era in grado di sopportare il regime carcerario. E allora - ci chiediamo - perché nessuno ha fatto nulla? I genitori del 42enne chiedono di sapere la verità”. L’uomo si era sentito male in cella e - secondo i primi accertamenti - aveva chiesto aiuto al compagno ma, portato in infermeria, è morto poco dopo”. Campobasso: sommossa in carcere, interviene la Garante dei detenuti isnews.it, 30 maggio 2019 Sommossa nel carcere di Campobasso, sulla rivolta che ha visto protagonisti alcuni detenuti del carcere di Campobasso, che in forma di protesta hanno messo sottosopra un piano di un’ala della casa circondariale del capoluogo interviene la Garante regionale dei Diritti della Persona, Leontina Lanciano, che è anche Garante dei detenuti. “Sono stata più volte in carcere - ha dichiarato Lanciano - e ho verificato quello che è successo. La situazione è complessa e, nel mio ruolo di soggetto istituzionale preposto alla tutela dei diritti dei detenuti, posso dire che mai come in questo caso servono prudenza e attenzione nell’uso delle parole e nella strategia da adottare per trovare soluzioni”. “Le condizioni di vivibilità della struttura carceraria devono essere migliorate al fine di consentire sia ai detenuti, sia agli agenti di polizia penitenziaria, di vivere in un clima disteso nel reciproco rispetto. Detto questo, pur comprendendo le necessità dei detenuti e le loro motivazioni, non giustifico e censuro qualsiasi forma di protesta che sfoci nella violenza, sia in carcere sia al di fuori di esso”. “I detenuti possono presentare le loro istanze nelle forme previste dalla legge. La violenza porta altra violenza, questo è certo. Presto - ha concluso - sarò nuovamente nella struttura di via Cavour per incontrare i detenuti e verificare lo stato della situazione a distanza di alcuni giorni dalla rivolta. Insieme con il Garante nazionale Mauro Palma continuerò a monitorare la situazione carceraria di Campobasso, considerando la complessità di una situazione che necessita di grande attenzione”. Campobasso: la nuova direttrice del carcere è Rosa La Ginestra primonumero.it, 30 maggio 2019 Ma non lascia Larino, resterà “in missione”. Rosa La Ginestra, che dirige da ben 28 anni il carcere di Larino non spirito “illuminato”, prenderà servizio alla guida del penitenziario di Campobasso dal prossimo 1° giugno, restando a Larino “in missione”. Sostituisce Irma Camporeale nel penitenziario di via Cavour dove esattamente una settimana fa c’è stata una grave insurrezione con materassi e mobili bruciati e finestre spaccate. La situazione è ancora grave. 8 detenuti sono stati trasferiti. Esattamente una settimana fa la rivolta nel carcere di Campobasso (qui la cronaca e il racconto) dove un nutrito gruppo di detenuti si è barricato all’interno del secondo piano incendiando materassi, suppellettili, distruggendo tutto quanto ha trovato lungo il percorso. Una situazione che ha rischiato di sfociare in un dramma, ma che fortunatamente è stata tenuta sotto controllo: il pericolo di ostaggi e feriti è stato così scongiurato. Tuttavia, a distanza di sette giorni, la situazione resta grave nella struttura penitenziaria del capoluogo. La notizia, confermata proprio in queste ore, è la sostituzione del direttore. Irma Camporeale, accusata peraltro dagli stessi detenuti di una eccessiva severità e di un pugno troppo duro per quanto riguarda la facoltà di telefonare a casa e incontrare parenti, sarà sostituita a partire dal 1° giugno prossimo da Rosa La Ginestra, storica direttrice del carcere di Larino. Una decisione in realtà presa da tempo, e già formalizzata. La Ginestra dirige da 28 anni il carcere di massima sicurezza di Larino, dove si sperimentano le “Sezioni a regime aperto” e dove il suo lavoro è stato concreto, apprezzato, ha dato straordinari risultati in termini di reinserimento lavorativo dei detenuti. Una donna che ha dedicato e dedica il suo impegno a un progetto di recupero perfettamente coerente con lo spirito della pena che oltre alla punizione prevede appunto la rieducazione dei reclusi. Rosa La Ginestra non lascerà comunque Larino, ma sebbene dovrà trasferirsi a Campobasso resterà nel penitenziario di Monte Arcano “in missione”. In giornata si è diffusa la notizia del trasferimento a Campobasso, nei panni di direttrice, di Maria Celeste D’Orazio, da pochissime settimane dirigente della casa circondariale di Avezzano. In realtà l’equivoco, rilanciato da noi, è stato ingenerato da un errore di personale del sito del Ministero, che riporta come direttore dell’Istituto penitenziario di Campobasso Maria celeste D’Orazio. Intanto il garante regionale dei diritti della persona Leontina Lanciano interviene sulla vicenda dopo aver effettuato una nuova visita nel Penitenziario: “Sono stata più volte in carcere - spiega - e ho verificato quello che è successo. La situazione è complessa e, nel mio ruolo di soggetto istituzionale preposto alla tutela dei diritti dei detenuti, posso dire che mai come in questo caso servono prudenza e attenzione nell’uso delle parole e nella strategia da adottare per trovare soluzioni. “Le condizioni di vivibilità della struttura carceraria devono essere migliorate - aggiunge Lanciano - al fine di consentire sia ai detenuti sia agli agenti di polizia penitenziaria di vivere in un clima disteso nel reciproco rispetto. Detto questo, pur comprendendo le necessità dei detenuti e le loro motivazioni, non giustifico e censuro qualsiasi forma di protesta che sfoci nella violenza, sia in carcere sia al di fuori di esso. I detenuti possono presentare le loro istanze nelle forme previste dalla legge. La violenza porta altra violenza, questo è certo. Presto - conclude - sarò nuovamente nella struttura di via Cavour per incontrare i detenuti e verificare lo stato della situazione a distanza di alcuni giorni dalla rivolta. Insieme con il Garante nazionale Mauro Palma - conclude il Garante dei Diritti - continuerò a monitorare la situazione carceraria di Campobasso, considerando la complessità di una situazione che necessità di grande attenzione”. Nuoro: Sebastiano Prino, dal carcere a una nuova esistenza di Piera Serusi L’Unione Sarda, 30 maggio 2019 “Così i libri mi hanno salvato”. Una vita che riparte dal capolinea di un percorso carcerario cominciato con la strage di Chilivani. In ogni pagina c’è lo sguardo del bambino diventato vecchio in fretta per via di una “decisione espressa a sette anni”. Una decisione “che mi venne fatta pesare e che era diventata irrevocabile”. Era l’estate del 1974 e Sebastiano Prino aveva dieci anni, ma come il piccolo Gavino Ledda tre decenni prima e come centinaia, migliaia di infanti e adolescenti fino agli anni Sessanta in Sardegna, venne spedito in campagna per accudire il gregge. Aveva appena finito le scuole elementari e da quel momento, fu la sentenza del padre, sarebbe stato un pastore. “Dopo pochi mesi - racconta - quel mestiere non mi piaceva più e chiesi di poter tornare a scuola, ma la risposta fu un categorico no”. Scelta inconsapevole - È stata la sua sliding door, la scelta inconsapevole che gli ha condizionato la vita. “I passi di un uomo solo”, edizioni Libri Liberi, è una raccolta di racconti, lettere e riflessioni di una vita deragliata dentro il carcere e infine, va detto, risorta grazie allo sguardo mai svanito di quel bambino che fu costretto troppo presto (“Mio padre era un uomo all’antica”) a rinunciare all’innocenza dell’infanzia. Nuorese, classe 1964, condannato all’ergastolo per la strage di Chilivani - l’uccisione dei carabinieri Ciriaco Carru e Walter Frau, caduti il 16 agosto 1995 nel conflitto a fuoco coi banditi che preparavano l’assalto a un furgone portavalori lungo la strada Sassari-Olbia - Sebastiano Prino finirà di scontare la sua pena nel 2023 e oggi, in regime di libertà vigilata, vive a Nuoro dove lavora per la cooperativa sociale Ut Unum Sint, (il presidente è don Pietro Borrotzu), che si occupa di reinserimento dei detenuti e di giovani chiamati a un percorso di giustizia riparativa. La sua vita, dunque, riparte da qui, dal capolinea di un tour carcerario cominciato all’Asinara e proseguito a Livorno, Sulmona, Padova - dal 2010 al 2015, dove ha potuto frequentare il corso di storia all’Università e laurearsi con una tesi su Marc Bloch - e infine Badu e Carros. Intanto ha partecipato a diversi concorsi letterari e ha vinto alcuni premi. “La scrittura e lo studio mi hanno salvato”. Le chiavi della libertà - Sulla copertina del volume la foto di un murale: un pugno fatto di libri che sorregge una chiave. La cultura, l’istruzione come lasciapassare per la libertà. “È il messaggio che voglio lanciare perché non debba più essere che ai bambini venga tolta la possibilità di avere una vita migliore, di assaporare la bellezza dello studio”. Nel libro - già presentato a Nuoro, a Monserrato, a Firenze - racconta dei colloqui in carcere con le assistenti sociali “che con protervia mi chiedevano conto di come conducevo la mia vita quando ero libero”. Siete arrivate un po’ tardi, rispondeva lui, “il vostro aiuto mi sarebbe servito tanti anni fa, quando ho lasciato il banco di scuola per arrampicarmi in montagna dietro un gregge di capre dispettose”. Il riscatto - Lo studio più che il lavoro, dice, “è ciò che aiuta chi sta in carcere ed è la vera occasione di riscatto. Eppure, ancora oggi, in tanti penitenziari questo non viene capito. Per me non è stato semplice studiare, ho dovuto combattere anche perché sono sempre stato nelle sezioni speciali e ogni no, davanti alle mie richieste di potermi iscrivere a un corso, veniva giustificato in nome della sicurezza. Solo a Padova ho trovato un direttore, un’educatrice e dei volontari che credevano nel valore dello studio come possibilità di reinserimento del detenuto”. Innocente o colpevole - Sa bene che tanti, tra coloro che leggeranno il suo libro, vorrebbero chiedergli dell’accusa che gli è costata l’ergastolo. Non ne parla ma, per dovere di cronaca, occorre dire che si è sempre professato innocente. “Sto scontando la mia pena. È questo il dato di fatto”. Innocente o colpevole, quante volte avrà pensato ai familiari dei carabinieri uccisi? “Tante - ha risposto una volta in un’intervista all’Unione Sarda -. Quanto è grande la loro sofferenza?, me lo sono sempre chiesto. Non ho mai dato retta a chi mi diceva di chiedere loro perdono per avere gli sconti di pena. Non l’ho mai fatto, anche per una questione di rispetto”. Teramo: biciclette per i detenuti-studenti di UniTe, l’Adsu sostiene il progetto emmelle.it, 30 maggio 2019 Firmato il protocollo d’intesa. La testimonianza dell’ex mafioso laureato: “La cultura preserva dalla devianza”. Le due ruote saranno utilizzate dai rinchiusi che lavorano alla mensa del Campus ma anche per chi vorrà studiare all’università. Passa anche attraverso la disponibilità di quattro biciclette, di cui due a pedalata assistita, il percorso di facilitazione di accedere ai corsi formativi universitari dell’Ateneo di Teramo per i detenuti ristretti nella casa circondariale di Castrogno. Il protocollo d’intesa, preparato dal professor Claudio Lo Sterzo, e siglato ieri mattina nella sede del Rettorato tra il direttore del penitenziario teramano, Stefano Liberatore, il presidente dell’Azienda per il diritto allo studio, Paolo Berardinelli, e il rettore Dino Mastrocola, e l’intervento del presidente della Fondazione universitaria, Romano Orrù, è un altro tassello che punta ad incrementare il progetto di recuperare attraverso lo studio le condizioni di emarginazione di chi sconta errori commessi nei rispettivi percorsi di vita. Come ha voluto testimoniare Santo Le Pera, il 60enne condannato per associazione mafiosa laureatosi nel dicembre scorso a UniTe in Scienze del Turismo, se la “cultura preserva dalla devianza”, la strada è di sicuro quella buona. Le biciclette serviranno per il momento a facilitare la mobilità di due detenuti assunti con borsa lavoro alla mensa universitaria e ad un terzo in arrivo alla Fondazione Università di Teramo. Ma nel futuro potrebbero arrivare ad essere il mezzo di locomozione per colore che, in attesa di giudizio e autorizzati, vorranno recarsi al Campus di Coste Sant’Agostino per seguire le lezioni e dare esami. “Non sembri un paradosso - ha spiegato il direttore Liberatore - il fatto che avremo disponibili queste biciclette in carcere. Non si tratta di un regalo a una categoria sì svantaggiata, ma detenuta, che ha commesso dei reati: la finalità non è puramente oggettiva, legata alla mera elargizione di un mezzo per lo spostamento, ma è specifica e valorizzata dall’aspetto rieducativo, attraverso il diritto allo studio. È un aiuto a questi soggetti per superare la difficoltà di mobilità per studiare”. Un detenuto più colto magari anche laureato, viene restituito alla società con potenzialità diverse dalla recidiva, dunque. L’idea dell’Adsu, come ha spiegato anche il direttore Antonio Sorgi, diventa dunque valorizzazione di un percorso virtuoso di studio in cui il penitenziario di Castrogno conta già altri precedenti positivi: oltre a qualche decina di detenuti-studenti che seguono i corsi di Agraria e Alberghiero dell’Istituto Di Poppa Rozzi, e seguiranno da quest’anno anche quelli dei servizi per il turismo, ci sono 9 iscritti alle facoltà universitarie e ben 3 nel recente passato, si sono laureati. Un risultato che per essere compreso nella sua pienezza, va rapportato alle difficoltà organizzative e logistiche che Castrogno presenta, noto per il suo sovraffollamento con i 430 detenuti ospitati. La sicurezza associata al trattamento, l’impossibilità di far “incrociare” i detenuti delle varie aree detentive, come ha spiegato la responsabile dell’area educativa, Elisabetta Santolamazza, vede i rinchiusi studiare perfino... nella chiesa del carcere. Le biciclette sono fornite dall’Azienda per il diritto allo Studio di Teramo, che conferma la propensione ad allacciare una rete di interessi sul territorio, che fa il paio con la capacità, altrettanto dinamica, di intercettare sempre più finanziamenti propri, attraverso la partecipazione a bandi competitivi. “Un virtuosismo - ha aggiunto il presidente Berardinelli - che conferma il ruolo positivo dell’Adsu nei confronti della popolazione carceraria”, la cui facilitazione è stata già testimoniata dall’offerta delle borse lavoro. La politica non sta a guardare questo nuovo modello sociale, secondo quanto ha ben compreso anche l’assessore regionale alla ricerca e all’università Piero Fioretti, che ha voluto ricordare come questo impegno, nella casa circondariale, “viene portato avanti nonostante le gravi difficoltà in cui versa la quotidiana attività degli agenti di polizia penitenziaria”. Pozzuoli (Na): quel buon caffè che in carcere sanno fare di Maria Pia Terrosi Redattore Sociale, 30 maggio 2019 A Pozzuoli, nella struttura carceraria femminile più grande della Campania, le detenute lavorano in una vera e propria torrefazione. Il progetto Lazzarelle ha coinvolto negli anni 56 donne ed è diventato uno strumento potente di inclusione sociale. Ora i prodotti (ci sono anche thé e infusi) arriveranno presto in un bistrot del centro di Napoli. Dal 2010 nel carcere femminile di Pozzuoli - la struttura carceraria femminile più grande della Campania - si produce caffè. Un progetto partito dalla volontà e determinazione di Imma Carpiniello, presidente della cooperativa sociale Lazzarelle, che ha creato all’interno del carcere una vera torrefazione nel quale lavorano le donne detenute. “L’idea” - racconta - “è stata quella di dar vita a un’impresa tutta al femminile: al momento sono 6 le detenute che lavorano in questo progetto, ma complessivamente negli anni sono state coinvolte 56 donne. Ognuna con la propria storia, al tempo stesso differente e uguale a quella di molte altre. Per esempio molte di loro, prima di lavorare con noi, non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. La cosa importante è che con questo progetto non solo imparano un mestiere che possono far valere fuori una volta uscite dal carcere, ma soprattutto acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro potenzialità”. Alle Lazzarelle si capisce fino in fondo che il lavoro non solo offre dignità, ma è uno strumento potente di inclusione sociale che dà alle donne una possibilità concreta di riscattarsi. Per questo - aggiunge Imma Carpiniello - il carcere non deve essere visto come un luogo oscuro e dimenticato, ma la dimostrazione che, anche nelle condizioni più difficili, tutte le donne possono essere protagoniste del loro cambiamento. Lo dimostra la stessa Imma Carpiniello che non si è fermata al caffè, ma ha aggiunto la vendita di tè, infusi e tisane e si sta occupando dell’apertura di un Bistrot al centro di Napoli. Sarà un luogo - precisa - dove non solo si potranno assaggiare e acquistare i prodotti delle Lazzarelle, ma che - tramite questi prodotti - vuole essere un punto di incontro dove raccontare il carcere in maniera differente. Ma oltre alla forte valenza sociale il progetto Lazzarelle ha anche una decisa connotazione ambientale per la quale la cooperativa è stata premiata lo scorso marzo a Firenze al Festival dell’Economia civile riconoscendola come azienda virtuosa ambasciatrice di sostenibilità. Il caffè, infatti, viene prodotto solo con grani acquistati dalla cooperativa Shadilly che promuove progetti di cooperazione con i piccoli produttori dei Paesi in via di sviluppo e il packaging - solo di plastica, senza alluminio - è stato studiato per facilitare il riciclo nella raccolta differenziata. Non solo. La cooperativa Lazzarelle è coinvolta in un progetto di economia circolare che punta al recupero e riciclo delle buccette di caffè (l’involucro del chicco), oggetto di ricerca da parte del Corso di Economia circolare per l’energia e l’ambiente dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. “Siamo partiti - racconta Alfonso Marino, docente del corso - da una ricerca fatta anni fa dalla Food and Drug Administration Usa nella quale si studiava come riciclare le buccette del caffè che oggi vengono buttate via come un rifiuto, mentre sono una preziosa materia prima seconda”. Il progetto, descritto nell’articolo pubblicato sul sito del Circular Economy Network, è ancora in fase sperimentale anche se sono stati già raggiunti alcuni risultati concreti e individuati come campi di applicazione il settore farmaceutico e quello della bioplastica. Volterra (Pi): bloccato il teatro in carcere, il Garante inizia lo sciopero della fame di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 maggio 2019 Il Dap ha stanziato 1 milione di euro per la sua realizzazione ma il progetto è fermo a causa di burocrazia e permessi. È stata promossa anche una petizione on line. Un milione di euro per un teatro da 200 posti nel carcere di Volterra. I soldi ci sono già da un anno, ma del teatro neppure l’ombra. È il paradosso che lascia perplessi i detenuti e la Compagnia della Fortezza, che da trent’anni organizza attività teatrali all’interno del penitenziario in provincia di Pisa, dove molti reclusi (tra i 162 complessivi) non sono soltanto spettatori degli eventi teatrali, ma attori protagonisti. I fondi sono stati stanziati un anno fa dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma il progetto presentato dagli architetti si è inceppato. Il motivo? A spiegarlo è il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone: “Il progetto è bloccato a causa della burocrazia, del temporeggiamento delle istituzioni e dei dubbi di alcuni degli attori coinvolti, tra cui la sovrintendenza pisana che ha cambiato guida recentemente”. Sul carcere di Volterra ci sono alcuni vincoli architettonici vista la storicità del penitenziario, che sorge all’interno di un’antica fortezza. Ma il garante Corleone non ci sta e annuncia lo sciopero della fame: “Dentro quel carcere, in questi anni, è stato costruito di tutto, non capiamo perché non si possa realizzare un teatro, sono stati presentati tre progetti e almeno uno di questi deve essere realizzato perché il teatro costituisce una grande opportunità culturale e rieducativa sia per chi vive il carcere sia per chi sta fuori. Voglio dare 15 giorni di tempo alle istituzioni coinvolte (Provveditorato opere pubbliche, Sovrintendenza e Dap), dopodiché, se non arriveranno risposte concrete, comincerò il digiuno”. Secondo Corleone, almeno uno dei tre progetti - tutti presentati dall’architetto del Dap Ettore Barletta - ha caratteristiche tali da non impattare sull’architettura antica del luogo. Un progetto, quello del teatro in carcere a Volterra, nato circa trent’anni fa grazie ad Armando Punzo(Il regista e drammaturgo Armando Punzo, 59 anni, con, alle spalle, alcuni attori del nuovo spettacolo da lui scritto e diretto per la compagnia della Fortezza, “Beatitudo”. Punzo è anche direttore artistico del teatro di San Pietro di Volterra nella foto, con alle spalle alcuni detenuti durante lo spettacolo “Beatitudo”), drammaturgo e regista, direttore del teatro di San Pietro a Volterra e noto soprattutto per le attività coi detenuti nel penitenziario della cittadina toscana attraverso la Compagnia della Fortezza, premiata recentemente da Buone Notizie. “Il teatro e tutto il suo indotto - ha detto Punzo - hanno modificato un carcere che in passato era noto per la sua durezza. Ha attraversato lo spazio della pena, costruendo ponti con la società esterna e realizzando una metodologia di lavoro teatrale apprezzata a livello internazionale. A Genova, nel carcere di Marassi, è stata realizzata ex novo, in un cortile in disuso, una sala da 200 posti, “Il teatro dell’Arca”. Perché a Volterra non si può?”. Poi ha ricordato le difficoltà avute, in tutti questi anni, a lavorare “in locali di fortuna e inadeguati (una cella di tre metri per nove) e di spettacoli interni alla fortezza che si sono svolti teatralizzando cortili dell’aria e ambienti di servizio”. Per chiedere la realizzazione del teatro in carcere, è stata lanciata una petizione sulla piattaforma change.org, che ha già raggiunte circa 500 firme. “Occorre aver chiaro un fatto - è scritto nella petizione: nell’esperienza di alto valore artistico che è stata costruita a Volterra c’è un lavoro professionale che ha permesso a tanti detenuti di acquisire competenze tecniche e avere un’occupazione”. Bolzano: “Rifarsi una vita, storie oltre il carcere”, presentazione del libro il 5 giugno lavocedibolzano.it, 30 maggio 2019 L’appuntamento è per mercoledì 5 giugno alle 18.30 nella Sala Grande della Kolpinghaus a Bolzano con la presentazione del libro “Rifarsi una vita, storie oltre il carcere” a cura di Paolo Beccegato e Renato Marinaro. Interverranno Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio Odòs, da anni impegnato in percorsi di giustizia che coinvolgono il territorio e don Dario Crotti, direttore Caritas Pavia, impegnato in percorsi di Giustizia con le scuole e il carcere. Introduce e modera Paola Dispoto, operatrice Caritas impegnata in un percorso di Volontariato della Giustizia. Il libro - Come risposta all’esigenza di giustizia la società sceglie il carcere, che però non riabilita. Altri tipi di pena sarebbero più costruttivi per creare percorsi di integrazione e autonomia, perché è nella relazione con gli altri, nell’essere riconosciuti persone, pur nella consapevolezza delle proprie responsabilità, che può iniziare un percorso di rinascita. Questo libro racconta storie di persone che hanno sbagliato per i motivi più diversi: l’educazione (non) ricevuta, l’ambiente di vita, il miraggio dei soldi facili, gli eventi traumatici improvvisi, le violenze domestiche, i momenti di rabbia o di follia, l’incapacità di uscire da situazioni infernali. Ma racconta soprattutto storie di donne e uomini che hanno avuto la possibilità di un riscatto morale, civile o spirituale, grazie alle pene alternative al carcere, al conforto di chi ha dato loro fiducia e le ha considerate innanzitutto persone, alle famiglie che hanno saputo aspettare e offrire loro una ragione di speranza, alle comunità che le hanno accolte senza giudicare, a chi ha saputo offrire loro la possibilità di un lavoro e di sentirsi utili. Brindisi: “Ragazzi di Via Appia”, chiude la stagione degli attori-detenuti brindisireport.it, 30 maggio 2019 In scena una pièce tratta dai lavori di Pasolini, prima della pausa estiva del laboratorio teatrale condotto con la compagnia Aleph. Si avvia alla conclusione, prima della pausa estiva, il laboratorio teatrale tenuto presso la Casa Circondariale di Brindisi dalla Compagnia Teatrale Aleph. Un percorso di grande crescita personale e di gruppo che, con l’indispensabile supporto della direzione della Casa Circondariale, ha costituito un’occasione per provare a mettere in discussione stili e scelte di vita offrendo lo spunto per suggestioni su alternative “legali” ed attraenti e creative. La scelta dei testi e le tecniche teatrali per la costruzione di uno spettacolo hanno messo in moto meccanismi di coinvolgimento per offrire ai detenuti la possibilità di scoprire quell’umanità che si nasconde dietro ogni tipo di giudizio. Il carcere è stato, paradossalmente, il luogo che ha reso possibile ad ognuno di loro di aprirsi, denudarsi, mettersi in gioco, con varie motivazioni personali, a partire da quella del riscatto sociale. “Ragazzi di Via Appia” liberamente ispirato al film “Accattone” e al romanzo “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini è lo spettacolo che i detenuti, concludendo questo percorso, offriranno il 29 maggio alle ore 15.30, insieme ad una performance, “Parole Preziose”, degli attori di Aleph agli altri ospiti della Casa Circondariale di Brindisi. Mentre il 30 maggio alle 19.30 gli attori - detenuti si esibiranno presso il teatro della Chiesa della Vergine SS. Addolorata “La Pietà” in via indipendenza a Brindisi in uno spettacolo aperto a tutti. Gli attori di “Aleph”, Carla Orlandini, Franco Miccoli, Luigi De Falco e Nicola Galateo hanno lavorato per alcuni mesi attraverso tecniche di recitazione, di rilassamento, respirazione e giochi di ruolo per allentare le normali tensioni e per rimuovere incertezze e difficoltà nel rapporto con gli altri. Esperienze, queste, che senza il sostegno della direzione della Casa Circondariale di Brindisi, del magistrato del Tribunale di Sorveglianza, insieme al personale tutto della Polizia penitenziaria, non avrebbero potuto consegnare alla società il loro risultato, e soprattutto la conferma che è possibile sperimentare ruoli e dinamiche diversi da quelli propri della detenzione, dove i meccanismi relazionali basati sulla forza, sul controllo e sulla sfida possono essere sostituiti da quelli legati alla collaborazione, allo scambio e alla condivisione. Varese: premiati detenuti autori di opere letterarie e dipinti di Gianni Beraldo varese7press.it, 30 maggio 2019 L’anno prossimo compirà dieci anni, il concorso artistico e letterario riservato a detenuti “ospiti” negli istituti penitenziari della Lombardia. Un concorso nato proprio a Varese, coinvolgendo dapprima i detenuti del “Miogni” poi, sull’onda del successo ottenuto, coinvolgendo a tutte gli altri istituti penitenziari della Regione. Una bella e lodevole iniziativa a carattere sociale dalla grande rilevanza anche sotto il profilo umano. Progetto rieducativo nato con il contributo di varie realtà, dalla Fondazione La Sorgente ad Auser, dall’Enaip alla Cooperativa lotta contro l’emarginazione, dall’Associazione assistenti carcerari San Vittore Martire di Varese all’associazione L’Oblò, alle Acli, alla Consulta Interassociativa femminile di Milano. Questa sera il salone Estense di Varese ha ospitato le opere finaliste consegnando i vari premi a referenti delle varie associazioni a nome dei detenuti finalisti, almeno per quelli detenuti in carcere fuori dal circondario varesino. Presenti invece alcuni detenuti del carcere Miogni (ovviamente accompagnati da agenti polizia penitenziaria), emozionati per tanto clamore mediatico. Per l’amministrazione comunale vi erano l’assessore Roberto Molinari e il sindaco davide Galimberti. Molto belle le opere partecipanti, con dipinti e spunti letterari di notevole interesse tutte che inevitabilmente richiamano a quella libertà ma anche a sensi di colpa troppo spesso repressi e soffocate all’interno delle mura carcerarie, ma con la speranza di rifarsi una vita. Arte e letteratura in tal senso aiuta a liberarsi dalla malinconia infondendo speranza e coraggio. Insomma un’altra chance che a tutti loro deve essere concessa perché giusto sia così. Tutto questo emerge forte e prepotentemente dai loro elaborati, con riflessioni ad alta voce che urlano al mondo che loro sono vivi e non bisogna dimenticarli. Cerimonia di premiazione intervallata da alcuni brani musicali magnificamente interpretati dalla cantante Gaia Galimberti e dall’ottimo chitarrista Fabrizio Buzzi dei Licei Manzoni. Chi certamente di loro non si dimentica la direttrice del carcere varesino, la dottoressa Carla Santandrea insediatasi lo scorso mese di febbraio sostituendo Giancarlo Mongelli, ora direttore al carcere di Bollate oggi presente a ritirare un premio per un “suo” detenuto. La nuova direttrice del Miogni nonostante la ancora giovane età ha ben 25 anni di esperienza alle spalle, avendo diretto tra gli altri l’Istituto penitenziario di Como e quello “tosto” San Vittore di Milano in veste di vice direttrice “Esistono uomini liberi e uomini privati della libertà ma quello che conta é la parola uomo-dice la direttrice varesina- Ogni loro lavoro esprime uno stato d’animo particolare. Sono tutte persone che comunque possiedono delle doti particolari che noi aiutiamo a fare emergere. Ovviamente dipende dal tipo di soggetto che si trova in carcere”. Un mestiere difficile e complicato quello della direttrice di un istituto di pena, insieme a quello di tutto lo staff “qui a Varese ho trovato del personale molto preparato e competente, una vera e piacevole sorpresa, sulla struttura invece vi é da lavorare”. La direttrice Santandrea evidenzia come sarebbe opportuno evidenziare attraverso i media la figura altamente professionale della polizia giudiziaria, dei loro sacrifici così come pure delle loro notevoli capacità e professionalità, utile nel sapersi confrontare al meglio con la popolazione carceraria, un microcosmo composto da soggetti diversi provenienti spesso anche da Paesi diversi con tutte le loro mille complessità no facili da gestire, anzi molto difficile diremmo. Insomma, oggi la giusta vetrina é stata giustamente per quei detenuti che vogliono rivalersi di una condotta immorale che li ha portati in carcere, cercando un’ altra via di fuga: quella dell’arte e della cultura più in generale. Ma non dimentichiamoci di chi si adopera quotidianamente perché tutto questo si possa realizzare senza problemi. Arezzo: Orchestra Multietnica, al via dal carcere il tour “Culture contro la paura” arezzoweb.it, 30 maggio 2019 Sarà la Casa Circondariale di Arezzo ad ospitare, giovedì 6 giugno alle ore 17:00, il concerto di apertura del tour estivo dell’Orchestra Multietnica di Arezzo dal titolo emblematico: “Culture contro la paura”. Il concerto è uno tra gli eventi della Festa della Musica organizzati dal Mibact, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e rientra fra le attività ricreative e culturali per la rieducazione dei detenuti della Casa Circondariale. Sarà inoltre l’occasione per la formazione aretina di continuare il dialogo, intessuto con la straordinaria potenza del linguaggio musicale, con quella parte di umanità che ha temporaneamente perduto la propria libertà. Così come avvenuto in precedenti occasioni presso la Casa Circondariale di Arezzo diretta dal Dott. Paolo Basco, istituzione aperta al valore della multiculturalità, e più recentemente all’interno de La Dogaia, la Casa Circondariale di Prato, il concerto sarà molto più di un’occasione di svago per i detenuti, sarà una vera e propria finestra aperta su un confronto che non deve interrompersi tra il “dentro” e il “fuori”, tra “prigionia” e “libertà”, sul dibattito in merito alla detenzione e su una convivenza possibile immagine di futuro che non deve appartenere all’utopia. “La nostra presenza all’interno della Casa Circondariale di Arezzo segna il nostro impegno per la realizzazione di un tour dove non suoneremo “solo canzonette”, parafrasando lo storico album di Edoardo Bennato, ma porteremo sul palcoscenico, con i nostri musicisti provenienti da 13 differenti nazioni, un alto valore umano, civile e sociale - dichiara Luca “Roccia” Baldini, presidente dell’Oma. Un valore costruito anche insieme ai tanti ospiti che in questi dodici anni di concerti ci hanno accompagnato sulle piazze e nei teatri, a partire dagli ultimi in ordine di tempo: Dente, Alessandro Fiori, Paolo Benvegnù, Ginevra Di Marco e Dario Brunori. Artisti che hanno deciso di far parte, insieme a tanti altri, del nostro ultimo e più importante progetto, “Culture contro la paura”, in un momento storico in cui la paura troppo spesso vince sull’intelligenza”. Un progetto che uscirà non solo nel tour omonimo ma anche in un disco attualmente in fase di produzione per il quale è in corso una compagna di crowdfunding sul portale musicraiser.com. Alla campagna possono prendere parte tutti gli estimatori dell’Oma, prendendo posizione, sostenendo il progetto e raccogliendo così l’invito a lottare culturalmente contro le tante “paure” dell’”altro da noi” rivolto dalla formazione aretina. Torino: rapper detenuto all’Ipm Ferrante Aporti vince il Festival “Sottodiciotto” di Marina Lomunno vocetempo.it, 30 maggio 2019 Si intitola “FuoriLuogo” il cortometraggio che ha vinto lo scorso marzo a Torino la 20ª edizione del concorso nazionale del Festival “Sottodiciotto sezione Off”, dedicato ai videoclip realizzati dai ragazzi under 18 in ambito extrascolastico. L’eccezionalità del riconoscimento è dovuta agli autori, un gruppo di minorenni detenuti al “Ferrante Aporti” che frequentano il Laboratorio di informatica multimediale dell’Istituto penale gestito da Inforcoop - Lega Piemonte, finanziato dalla Città metropolitana di Torino. Il cortometraggio, giudicato il migliore su 16 clip finalisti lo scorso marzo da una giuria composta dal regista Enrico Bisi, dalla documentarista Rosa Canosa e da Marco Maccarini, presentatore, autore televisivo e speaker di Radio Italia, ha avuto la seguente motivazione: “Per la sintonia tra immagini, musica e parole che il cortometraggio riesce a far arrivare al pubblico attraverso uno stile ben calibrato”. Il video, di 4 minuti, è incalzante e diretto anche per il linguaggio “duro” dei ragazzi di oggi e ha come colonna sonora la canzone rap “Crazy”, scritta da uno dei giovani reclusi. Racconta l’adolescenza dei ragazzi ristretti presentando in parallelo, in una sorta di visione onirica, le immagini del quotidiano dietro le sbarre e i luoghi “fuori”, della liberà perduta vissuta nelle periferie urbane degradate. Grazie alla disponibilità della direttrice del carcere Gabriella Picco, abbiamo incontrato nei giorni scorsi all’Istituto Ferrante F., il giovane autore del rap a cui abbiamo chiesto come è nata l’idea di partecipare al Festival. “La proposta è partita dagli operatori del laboratorio di informatica” spiega F. “a cui partecipo con alcuni compagni minorenni. Con i miei amici ci siamo impegnati tantissimo: io sono appassionato del genere rap, ho scritto centinaia di testi, è il mio modo per tirare fuori quello che ho dentro”. “Selfie”. In un documentario la vita di due adolescenti in un quartiere popolare di Napoli di Gabriella Kuruvilla Corriere della Sera, 30 maggio 2019 A Napoli si può morire per strada a 16 anni, colpiti alle spalle da un proiettile, solo perché ti hanno scambiato per un latitante. Soprattutto se ti trovi nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, all’età sbagliata. Anche se nel capoluogo campano il posto, il momento e pure l’età sono spesso sbagliati. Lo testimonia la morte di Davide Bifolco, un ragazzino ucciso nel rione Traiano da un carabiniere nell’estate del 2014: la vittima non aveva mai compiuto alcun reato, il carnefice pensava di sì. Eppure, subito dopo l’accaduto, quasi tutti la pensavano come quest’ultimo: il morto, infatti, era comunque considerato un potenziale delinquente e quindi, in fondo, era solo “uno in meno”. I pregiudizi si sa fanno spesso brutti scherzi, che possono diventare tragedie e ingiustizie. Come in questo caso, da cui trae spunto il regista Agostino Ferrente per “Selfie”, il suo ultimo documentario che sarà nei cinema dal 30 maggio 2019. Nonostante, dopo L’Orchestra di Piazza Vittorio e Le cose belle, si fosse ripromesso di non girarne altri: “Avevo sofferto troppo entrando nelle vite delle persone coinvolte: ho bisogno di immergermi a fondo nella realtà che voglio raccontare, fino a diventarne parte e a volerla modificare, riparare”, ha spiegato. I suoi propositi, però, non hanno retto di fronte a questa storia. Facilmente distorta dai giornali e dai talk show e successivamente indagata da Maurizio Braucci e Massimiliano Virgilio nel libro “Una città dove ammazzano i ragazzini” (Edizioni dell’Asino). Sono proprio i loro scritti a introdurre il regista nella vicenda, e a convincerlo della necessità di narrarla nuovamente: non per realizzare un’inchiesta sulla dinamica dell’omicidio, ma per descrivere il luogo e le persone coinvolte. “Perché, in quel posto, sarebbe potuto capitare a chiunque”, dice. Quello che ne è uscito non è precisamente un documentario ma è, piuttosto, un esperimento cinematografico: intenso e diretto, capace di commuovere e divertire. In maniera spontanea. Esattamente come, in maniera spontanea (e in presa diretta), piangono e sorridono i suoi protagonisti: Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, due adolescenti incensurati, della stessa età di Davide. Che lo conoscevano, che vivono nel suo stesso quartiere e che frequentano, inevitabilmente, i suoi ambienti. A loro il regista ha dato due iPhone, per riprendere se stessi: la loro vita e dunque, anche, la loro amicizia. La scelta del mezzo con cui filmarsi e filmare non è casuale: la cinepresa, con cui non hanno alcuna dimestichezza, è stata sostituita dal cellulare, con cui invece decisamente ne hanno. È uno strumento “amico”, d’uso quotidiano. Che gli è stato chiesto di utilizzare come uno specchio, in cui riflettersi continuamente, permettendo al pubblico di riflettere su di loro e sulla loro condizione: inevitabilmente influenzata dal fatto di abitare in un quartiere considerato da sempre e da tutti difficile, dove lo spaccio è un ammortizzatore sociale di facilissimo accesso e la criminalità non sembra una scelta ma un destino che ti cade addosso fin dalla nascita. Al montaggio dei loro filmati, ricchi di movimento e di vita, che permettono allo spettatore di capire quanto è complicato in quel contesto avere una vita “normale”, si alternano le riprese delle telecamere di sicurezza: immagini ferme e mortifere, che sembrano sempre sul punto di documentare un fatto di cronaca nera. Si ha quindi sempre un doppio sguardo, interno e esterno, su questa realtà. Come a dire, anche, che la sua interpretazione dipende dal punto di vista. E che se il punto di vista è malamente pilotato -dai media ma non solo- le conseguenze il più delle volte sono nefaste. “I quartieri popolari di Napoli sono stati raccontati in lungo e in largo”, conclude il regista, “Ma la mia nuova ossessione era raccontare gli sguardi di questi ragazzi, concentrandomi non su quello che vedono, che oramai tutti conosciamo, ma sui loro occhi che guardano”. Attraverso cui guarda anche lo spettatore, cambiando prospettiva. Save the Children: “Infanzia negata a un bambino su tre” di Valerio Sofia Il Dubbio, 30 maggio 2019 La condizione dei bambini del mondo continua ad essere preoccupante nonostante i progressi. Ad uno su tre (690 milioni) l’infanzia viene di fatto negata a causa di morti premature per malattie curabili, cibo insufficiente per vincere la malnutrizione, impossibilità di studiare e di frequentare una scuola, lavoro minorile, matrimoni precoci. Lo denuncia l’organizzazione umanitaria Save the Children in vista della Giornata internazionale dei bambini, presentando il suo terzo rapporto annuale, dove si evidenzia la presenza di qualche luce, ma accanto ad ancora troppe ombre. Quest’anno il rapporto infatti si sofferma sui progressi significativi compiuti negli ultimi 20 anni per tutelare i diritti dei bambini. Nel 2000, si legge, i minori derubati della propria infanzia erano 970 milioni, un numero che oggi si è ridotto di 280 milioni. E così in diversi campi qualche passo avanti c’è stato. Ad esempio rispetto al 2000 si registrano 4,4 milioni di morti infantili all’anno in meno; il numero di bambini colpiti dalla malnutrizione è sceso di 49 milioni; si contano 115 milioni di bambini in meno tagliati fuori dall’educazione e 94 milioni in meno coinvolti in varie forme di lavoro minorile. E ancora, rispetto a venti anni fa, il numero di spose bambine si è ridotto di 10 milioni e quello delle gravidanze precoci di 3 milioni. Sierra Leone, Ruanda, Etiopia e Niger i Paesi al mondo che hanno fatto registrare i maggiori progressi in termini di tutela dell’infanzia. La Repubblica Centrafricana è invece il Paese al mondo dove le condizioni di vita per i bambini sono le peggiori; a seguire Niger e Ciad. Dieci Stati africani, di cui 6 colpiti da conflitti, occupano gli ultimi dieci posti della classifica. Il primato dei Paesi più a misura di bambino spetta invece a Singapore, seguito da Svezia e Finlandia, con l’Italia all’ottavo posto in graduatoria, peggio solo di Irlanda, Germania, Slovenia e Norvegia, oltre che dei tre sul podio, sebbene nel nostro Paese oggi si contino 1,2 milioni di minori in povertà assoluta. Tra i peggioramenti evidenti, le condizioni dei bambini coinvolti nelle aree di conflitto. Nel 2016 in guerra sono stati uccisi 53.000 bambini, di cui il 64% in Medio Oriente e Nord Africa. Non a caso la Siria con Venezuela e Trinidad e Tobago costituisce il gruppo degli unici tre Paesi al mondo dove le condizioni di vita per i bambini, negli ultimi 20 anni, non hanno subito alcun tipo di miglioramento, con lo Yemen che si segnala invece per le forti difficoltà nel reperire dati aggiornati, a causa del devastante conflitto in corso nel paese ormai dal 2015. Nel complesso, nel mondo 31 milioni di minori oggi sono costretti a fuggire dalle proprie case nel tentativo di mettere in salvo di combattimenti la propria vita. Inoltre ogni giorno, nel mondo, 15 mila bambini perdono la vita prima di compiere i 5 anni. Tra le cause principali la polmonite, che solo nel 2017 ha provocato la morte di oltre 800 mila bambini. Circa 1 bambino su 4 sotto i 5 anni, inoltre, risulta attualmente affetto da malnutrizione. I passi avanti dunque ci sono, ma il cammino è davvero lungo. I migranti diventati un’icona: “Su quel barcone eravamo noi”. di Fabrizio Gatti La Repubblica, 30 maggio 2019 Parlano i protagonisti della foto simbolo scattata da Massimo Sestini nel 2014. Li ha rintracciati il “National Geographic”. Della nostra epoca, tra le opere d’arte destinate a sopravvivere, resterà sicuramente una fotografia scattata in mezzo al Mediterraneo. È l’immagine che sabato 7 giugno 2014, ventuno minuti dopo le cinque del pomeriggio, Massimo Sestini ha inquadrato sull’esatta verticale di un barcone e delle sue centinaia di volti. Tutti con lo sguardo all’insù, circondati dal mare. Ecco Hajar, che allora ha 15 anni. Ecco sua sorella Shaza, in viaggio con la figlia di quattro mesi. Ecco Amal, la loro madre, che è riuscita a farle scappare dalla Siria in fiamme. E Ansoumana, partito dal Gambia, 15 anni anni pure lui e per questo soprannominato Bambino. E poi Bakary del Mali, 14 anni. E Ayman, 30 anni, con il figlio Mahmood che di anni ne ha solo quattro. Eccoli quel giorno. E rieccoli oggi, sani e salvi nelle loro nuove vite in Francia, Germania, Italia e Svizzera. National Geographic ha voluto raccontare la storia di questa foto straordinaria che è tuttora l’icona mondiale delle migrazioni. Marco Cattaneo, direttore dell’edizione italiana della prestigiosa rivista, ha dedicato la copertina e il servizio di apertura del numero di giugno, in uscita sabato, ai protagonisti di questo ritratto collettivo, intenso, immediatamente riconoscibile. Volti e voci che incontreremo su National Geographic anche nel documentario in onda nella Giornata mondiale del rifugiato, giovedì 20 giugno alle 20.55 (Canale 403 di Sky), con la produzione di Marco Visalberghi e Doclab, il patrocinio dell’Alto commissariato per i rifugiati, musiche originali di Massimo Nunzi e la regia di Jesus Garcés Lambert. “Where are you? Dimmi dove sei” è il titolo, ispirato allo stesso appello che Massimo Sestini ha rivolto dai social media agli sconosciuti passeggeri del barcone. Sempre il 20 giugno (alle 20.30) il documentario sarà proiettato in contemporanea al Maxxi di Roma: una serata aperta al pubblico, organizzata da National Geographic, in collaborazione con il Museo nazionale delle arti del XXI secolo e Unhcr. La fotografia, quando è unica e irripetibile, ha la stessa potenza di un’opera d’arte. Eppure nell’immaginazione di un profano sembra uno scatto facile: l’elicottero si ferma in volo sopra il grappolo di sguardi e si ha tutto il tempo necessario per l’inquadratura. Massimo Sestini ascolta. Sta guidando la sua macchina sull’autostrada per Firenze. “Prova a mettere la faccia fuori dal finestrino”, dice divertito: “Stiamo andando a 130 all’ora e già così puoi capire. Sul mare l’elicottero viaggia tra i duecento e trecento orari. È un’operazione di soccorso, non puoi chiedere al pilota di fermarsi sopra il barcone, anche perché rischierebbe di farlo rovesciare. Non appena esci dal portellone, però, vieni investito dal vento della velocità e dal flusso violento che scende dal rotore”. National Geographic rivela i retroscena, aneddoti e trucchi che ogni fotografo amatoriale vorrebbe conoscere. È comunque sconsigliabile farsi appendere a trecento all’ora sul mare senza essere professionisti esperti: “Il merito della foto”, ammette Sestini, “è per il 50 per cento del comandante Sergio Prato. È lui il pilota dell’elicottero imbarcato sulla nave Carlo Bergamini della Marina militare che ha centrato la posizione esatta per la mia inquadratura”. All’inizio l’appello, rilanciato anche dalla Bbc, è caduto nel vuoto. Fino a quando in una scuola svizzera del Canton Ticino un professore ha chiesto ai suoi studenti di raccontare con un disegno la loro storia personale. Hajar, che oggi ha 20 anni e vive in Germania, voleva descrivere il viaggio che l’ha portata in salvo con tutta la sua famiglia: dai bombardamenti a Homs, la sua città in Siria, alla traversata del Mediterraneo. “Cercavo su Internet le immagini. Quando ho trovato quella barca mi sono detta: sarà una foto come un’altra. Allora”, sorride Hajar, “ho provato a zoomare per capirci di più. Fino a quando... mi sono riconosciuta!” Accoglienza migranti, il Viminale chiede 3 milioni di euro a Lucano di Silvio Messinetti Il Manifesto, 30 maggio 2019 Il nuovo capo dipartimento dell’Immigrazione, Michele Di Bari, ha inoltrato al comune della Locride formale diffida a saldare il conto pregresso, entro 30 giorni. “Non c’è niente di eroico nel vile infierire su chi è più debole” scriveva Dacia Maraini. Ma al Viminale più che eroi ci sono caterpillar, uomini in ruspa con cui abbattere il nemico. L’attacco concentrico di politica e magistratura lo ha già esiliato, umiliato, e il 26 maggio, anche, sconfitto elettoralmente (dopo un’operazione politica tanto efficace quanto spregiudicata, pronta a tutto, anche ad aumentare i residenti del 40% in un anno nel borgo, pur di strappargli Riace). Ora, non sazi, i solerti funzionari del ministero di Salvini battono pure cassa contro Mimmo Lucano. Il nuovo capo dipartimento dell’Immigrazione, Michele Di Bari, già prefetto a Reggio Calabria e responsabile numero uno della disastrosa gestione della baraccopoli di San Ferdinando ma promosso, guarda caso, da Salvini all’importante incarico, ha inoltrato al comune della Locride formale diffida a saldare il conto pregresso. Un conto salato di 3 milioni da versare entro 30 giorni. Se così non fosse “si procederà mediante trattenuta sui versamenti erariali”. Si tratta di somme già incassate per i servizi resi dal 2011 al 2018. Ma che il Viminale rivuole indietro perché nel corso degli anni Riace non avrebbe sanato alcuni vizi di rendicontazione. Secondo la procedura, in caso in caso di anomalie nei conti, l’amministrazione deve presentare controdeduzioni, pena tagli al budget successivo. Secondo il ministero ciò non sarebbe avvenuto, dunque l’ente deve versare il quantum. Questa diffida, tuttavia, stride con la recente sentenza del Tar di Reggio che aveva annullato la circolare del ministero che escluse Riace dallo Sprar. Ebbene, quel provvedimento era stato annullato proprio perché non era stato preceduto da una chiara segnalazione delle asserite anomalie e, inoltre, in quanto implicitamente smentito dai rinnovi triennali dei progetti. La decisione del Tar, infatti, si fonda essenzialmente sulla circostanza che a Riace a dicembre sia stato autorizzato il finanziamento per il triennio 2017-2019, “in prosecuzione del triennio precedente senza avere comminato penalità”. Peraltro, secondo il Tar, se sussiste il danno erariale questo l’avrebbe prodotto proprio il Viminale in quanto “il progetto avrebbe dovuto essere chiuso alla scadenza naturale. Averne autorizzato la prosecuzione, lasciando la gestione di ingenti risorse pubbliche in mano ad un’amministrazione, per quanto ricca di buoni propositi e di idee innovative, ma ritenuta priva delle risorse tecniche per gestirle in modo efficiente, appare fonte di danno erariale che dovrà essere segnalato alla Procura presso la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della regione Calabria”. La magistratura amministrativa aveva, dunque, già sottolineato in sentenza la non correttezza della procedura seguita dal Viminale. Che, tuttavia, ci riprova infierendo su Lucano e sugli assessori delle sue vecchie giunte. Che potrebbero esser chiamati a rispondere dinanzi alla Corte dei Conti di un danno erariale milionario. Brasile. Carcere Manaus. Padre Poli: un sistema che castiga e uccide di Matteo Petri vaticannews.va, 30 maggio 2019 Almeno 55 omicidi avvenuti in 4 Istituti penitenziari tra domenica e lunedì scorso. Per la Pastorale penitenziaria “lo Stato brasiliano ha gravi colpe”. Si parlerà anche di questo all’incontro del Consiglio Episcopale di Pastorale dei vescovi brasiliani che si apre oggi. La testimonianza del coordinatore della Pastorale nazionale di Amazonas. È attualmente di 55 vittime, ma potrebbe anche salire il bilancio degli scontri avvenuti in quattro carceri dello stato brasiliano di Amazonas tra domenica e lunedì scorso. A lanciare l’allarme è la Pastorale penitenziaria brasiliana, in forte apprensione per quanto avvenuto nelle ultime ore. Responsabilità dello Stato - “Negli ultimi 4 giorni abbiamo assistito a un massacro risultato di una detenzione di massa, trascuratezza nei confronti di vite di scartati e avidità di alcune compagnie private - spiega a Vatican News padre Giovanni Poli, coordinatore della Pastorale nazionale di Amazonas e membro della pastorale carceraria di Manaus - lo Stato brasiliano ha le sue colpe”. Secondo padre Poli “queste morti non avvengono a causa delle tanto sbandierate lotte tra fazioni, questa è una narrativa infida - afferma il religioso - che trasforma parte della popolazione carceraria in responsabile per episodi che in realtà sono le conseguenze inevitabili di un sistema carcerario la cui funzione principale è la produzione di dolore, sofferenza e morte”. Le cause dei decessi - Secondo la Segreteria dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Amazzonia, gli scontri sarebbero scoppiati durante un’ispezione delle forze di sicurezza nelle carceri e a scatenarli sarebbe stata la rivalità tra bande. Le autorità riferiscono anche che gran parte delle vittime presenta segni di strangolamento e asfissia. Quattro degli uomini uccisi erano detenuti al carcere Compaj, lo stesso dove all’inizio del 2017 morirono 56 persone nel corso di una ribellione durata più 15 ore. I motivi profondi di questi decessi - “Il motivo più profondo però è un altro, cioè la struttura carceraria brasiliana. Qui ci sono Istituti penitenziari super affollati in cui nessuno si preoccupa del riscatto personale, del fine riabilitativo, che invece la pena dovrebbe avere - spiega ancora padre Giovanni Poli -. Non esiste una visione alternativa al modello meramente punitivo, di castigo. Il sistema carcerario brasiliano non redime la persona, non migliora i rapporti nella società, non riesce ad essere un deterrente; il sistema carcerario brasiliano mira soltanto a punire, castigare e uccidere”. La risposta del Ministero della Giustizia - Il Ministero della Giustizia e della Sicurezza Pubblica, come richiesto dal governo dello stato di Amazonas, ha deciso di inviare una task force per intervenire nel complesso penitenziario di Anísio Jobim. Qui sono avvenuti 19 decessi. Ieri mattina intanto, con un tweet, il ministro Sergio Moro ha anche aggiunto che “saranno resi disponibili trasferimenti in altre carceri federali per i colpevoli di questi massacri”. Lunedì scorso, invece, il governatore dello Stato di Amazonas, Wilson Lima, aveva confermato che le morti sarebbero avvenute a causa di una spaccatura di una banda criminale in nel traffico di droga. L’azione della Pastorale carceraria - “Noi cerchiamo di stare vicino a chi ha perso un fratello, un padre o un marito - spiega ancora padre Poli - qui in Brasile, infatti, non esistono strutture psicologiche di supporto per chi ha subito queste perdite e talvolta l’opinione pubblica è quasi felice di queste morti. Noi invece, come Pastorale carceraria crediamo che la vita vada sempre rispettata a prescindere dalle scelte sbagliate, dagli errori commessi o dal colore della pelle”. Algeria. Morto in carcere attivista per i diritti umani askanews.it, 30 maggio 2019 L’attivista algerino per i diritti umani, Kamel Eddine Fekhar, 54 anni, è morto ieri dopo circa tre mesi di detenzione e quasi due mesi di sciopero della fame. Il decesso è stato annunciato su Facebook dal suo avvocato, Salah Dabouz, precisando che è avvenuto nell’ospedale di Blida, circa 40 chilometri a Sud di Algeri, dove era stato “trasferito con urgenza a seguito di un peggioramento delle sue condizioni di salute”. Il legale ha accusato le autorità giudiziarie di Ghardaia, circa 480 chilometri a Sud di Algeri, per “questa morte programmata”: “Avevo lanciato l’allarme, per tre settimane Kamel Eddine è stato detenuto in condizioni disumane nell’ospedale carcerario di Ghardaia, non è stato fatto nulla”. Come ricorda il quotidiano algerino El Watan, l’attivista era stato arrestato il 31 marzo con l’accusa di “attentato alle istituzioni”, a seguito di un’intervista diffusa su Facebook, e aveva deciso di fare lo sciopero della fame per denunciare la sua detenzione “ingiusta”. “Un omicidio! Un abietto omicidio politico”, hanno denunciato cittadini e attivisti politici e per diritti umani, secondo El Watan, che parla di “persecuzione giudiziaria contro un uomo che esprimeva le sue idee pacificamente”. Venezuela. Vescovi: “è compito delle autorità garantire i diritti umani dei detenuti” agensir.it, 30 maggio 2019 “Di fronte a quanto accaduto, che deploriamo profondamente e che riempie di allarme, stupore e tristezza coloro che sono in carcere e le loro famiglie, la Commissione Giustizia e Pace dell’Episcopato venezuelano ricorda nuovamente alle autorità dello Stato venezuelano che è loro dovere inderogabile garantire e rispettare tutti e ciascuno dei diritti umani della popolazione carceraria, che si trova sotto la loro custodia e protezione”. Lo scrive, in un comunicato, l’organismo ecclesiale, presieduto da mons. Roberto Lückert León, vescovo emerito di Coro, in seguito a quanto accaduto la scorsa settimana nel carcere venezuelano di Acarigua (Stato di Portoguesa), che si trova a circa 300 chilometri a sudovest di Caracas, dove venerdì 30 detenuti sono morti e 19 sono rimasti feriti nell’ambito di una rivolta, i cui contorni non sono stati chiariti. “La custodia e l’ordine all’interno delle carceri non può essere concesso o delegato dalle autorità statali a persone private e specialmente ad altri detenuti che mediante la costrizione e l’uso terrore mantengono un ordine basato sull’estorsione ai reclusi e ai loro familiari, per esercitare la violenza e diversi traffici illeciti, come per esempio di stupefacenti, armi e altro”, prosegue la nota. In particolare, la Commissione ricorda che le autorità hanno l’obbligo di non permettere l’ingresso di armi nelle carceri e di mantenere l’ordine e la disciplina interna con personale professionalmente qualificato. La Commissione chiede, inoltre, un’autentica giustizia per la morte dei detenuti, “che si sommano ai massacri accaduti in altri commissariati di polizia gli scorsi anni e rimasti nell’assoluta impunità”, e “provvedimenti immediati che garantiscano a vita e l’integrità delle persone detenute”. Tiananmen, 30 anni dopo: una macchia indelebile sulla storia della Cina di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 maggio 2019 Nei prossimi giorni ovunque nel mondo si ricorderà il trentesimo anniversario del massacro di piazza Tiananmen, dove il 3 e il 4 giugno 1989 i soldati aprirono il fuoco contro manifestazioni pacifiche uccidendo centinaia se non migliaia di persone, per lo più studenti e lavoratori che chiedevano riforme politiche. Ovunque, ma non in Cina, dove ogni riferimento alla repressione di piazza Tiananmen continua a essere sistematicamente censurato. Chiunque cerchi di commemorare le vittime lo fa a grande rischio personale e va incontro a minacce o arresti. Come negli anni scorsi, nelle settimane precedenti l’anniversario la polizia ha arrestato, posto agli arresti domiciliari o minacciato decine di attivisti, compresi familiari delle vittime. Ad aprile l’attivista Chen Bing è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per avere, insieme agli altri tre attivisti Fu Hailu, Lou Fuyu e Zhang Junyong, “fomentato dispute e provocato disordini” commemorando l’anniversario di Tiananmen etichettando bottiglie di un liquore cinese. Sospettato del medesimo reato, il 18 maggio è iniziata un’indagine nei confronti dell’attivista Deng Chuanbin, autore di un tweet sulle proteste del 1989. Il 20 maggio la polizia ha ordinato alla 82enne Ding Zilin, che a Tiananmen perse il figlio 17enne Jiang Jielian, di lasciare la sua abitazione a Pechino e trasferirsi nella sua città natale nella provincia dello Jiangsu, a oltre 1100 chilometri di distanza. Si tratta di una prassi consolidata con cui le autorità cercano di ridurre gli attivisti al silenzio in periodi politicamente sensibili e rendere più difficili le interviste ai media stranieri. Ding Zilin è una delle fondatrici delle Madri di Tiananmen, un gruppo di familiari delle vittime che chiede un’indagine sul massacro del giugno 1989. Nelle ultime settimane altri membri del gruppo sono stati posti sotto sorveglianza di polizia. Molti genitori delle vittime di Tiananmen sono morti di vecchiaia o di malattie. E il tempo è agli sgoccioli per tanti altri che, ciò nonostante, vogliono verità e giustizia per i loro figli assassinati a Tiananmen. Da 30 anni Amnesty International chiede alle autorità cinesi di riconoscere pubblicamente le violazioni dei diritti umani commesse a Tiananmen nel 1989; avviare un’indagine pubblica e indipendente e chiamare i responsabili delle violazioni dei diritti umani a risponderne di fronte alla giustizia; risarcire le vittime del massacro del 1989 e i loro familiari; porre fine alle minacce e ai procedimenti giudiziari contro coloro che commemorano o parlano pubblicamente delle proteste del 1989.