Pensione sospesa per il detenuto evaso e il condannato latitante di Aldo Natalini guidaaldirittodigital.ilsole24ore.com, 2 maggio 2019 Il Legislatore approfittando dell’iter di conversione, ha introdotto una disciplina - di portata generale - sulla sospensione delle prestazioni previdenziali per taluni soggetti condannati che si siano volontariamente sottratti all’esecuzione della pena detentiva nonché per i soggetti evasi o latitanti. Con l’articolo 18-bis del Dl n. 4 del 2019 il Parlamento, anche in questo caso approfittando dell’iter di conversione, ha introdotto una disciplina - di portata generale - sulla sospensione delle prestazioni previdenziali per taluni soggetti condannati che si siano volontariamente sottratti all’esecuzione della pena detentiva nonché per i soggetti evasi o latitanti. Si tratta di una inedita sanzione penale accessoria irrogabile dal giudice penale, la cui esecuzione è rimessa al Pm, onerato di informare, a fini esecutivi, l’ente gestore entro quindici giorni dall’adozione del provvedimento giurisdizionale. Con tale previsione, il Parlamento ha così ampliato - generalizzandolo a tutti i “trattamenti previdenziali di vecchiaia e anticipati erogati dagli enti di previdenza obbligatoria” - il meccanismo revocatorio già introdotto con l’articolo 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012, che contempla la sanzione accessoria della revoca ope iudicis dell’indennità di disoccupazione, dell’assegno sociale, della pensione sociale e della pensione per gli invalidi civili in caso di condanna per taluni delitti di criminalità organizzata (gli stessi oggi richiamati dall’articolo 18-bis) ovvero (ipotesi estranea alla novella in commento) nel caso in cui si accerti, o sia stato già accertato con sentenza resa in altro processo, che i trattamenti stessi abbiano origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite connesse ai medesimi reati (in argomento, vedi Francesco Ciampi, “Revocati i trattamenti assistenziali per i reati più gravi”, in “Guida al Diritto”, 2012, n. 30, pagine 86 e seguenti). Ai sensi del comma 1 dell’articolo 18-bis in commento, la sospensione giudiziale del pagamento dei trattamenti previdenziali, di vecchia o anticipati si applica ai soggetti volontariamente sottrattisi all’esecuzione della pena che siano: a) condannati a pena detentiva, con sentenza passata in giudicato, per i seguenti reati: associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (articolo 270-bis del codice penale); attentato per finalità terroristiche o di eversione (articolo 280 del codice penale); sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (articolo 289-bis del codice penale); associazioni di tipo mafioso anche straniere (articolo 416-bis del codice penale) e delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, scambio elettorale politico-mafioso (articolo 416-ter del codice penale); strage (articolo 422 del codice penale); b) condannati a pena detentiva, con sentenza passata in giudicato, non inferiore a due anni di reclusione per ogni altro delitto. La sospensione si applica altresì, in via generale (cioè a prescindere dal titolo di reato): c) ai soggetti evasi; d) ai soggetti dichiarati latitanti (articoli 295 e 296 del codice di procedura penale). Dall’esame delle cause di sospensione, si evince la chiara volontà del legislatore di indurre in tutti i modi la “consegna” del condannato (ovvero la costituzione dell’evaso o del latitante), facendogli “terra bruciata” attorno mediante la chiusura dei “rubinetti” previdenziali: si vuole evitare, in buona sostanza, che la volontaria inesecuzione della pena detentiva possa trovare nell’erogazione dei trattamenti pensionistici una forma di incentivo economico. La conferma di questa intentio legislatoris si ricava anche dal successivo comma 4 dell’articolo 18-bis, che ammette la facoltà - ma non l’obbligo - di revoca della sospensione (“può essere revocata”) da parte del giudice che l’ha emessa “al venir meno delle condizioni che abbiano determinato la sospensione medesima” (cioè in caso di revoca del decreto di latitanza o di costituzione in carcere dell’evaso o del condannato in via definitiva per i reati sopra elencati). Minori: ingiustificato l’abbassamento del tetto di punibilità di Rita Perchiazzi* guidaaldirittodigital.ilsole24ore.com, 2 maggio 2019 Non possiamo togliere una speranza ai minori che sbagliano: è questa la posizione delle Camere minorili condivisa anche a larga maggioranza dall’ultimo Congresso nazionale forense di Roma. Per l’Uncm, dunque, la proposta Cantalamessa, che prevede l’abbassamento della soglia di imputabilità da quattordici a dodici anni “desta preoccupazione”. Infatti, rieducazione e reinserimento sociale sono per l’Associazione una “bandiera” che va tenuta alta in ragione dei principi espressi nella Carta costituzionale, nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nella Carta di Nizza. Senza contare, poi, che i dati del ministero dell’Interno sui comportamenti delinquenziali dei ragazzi non segnalano emergenze di sorta. Il vento giustizialista che soffia sul nostro Paese investe anche la materia minorile, da sempre incentrata sulla funzione rieducativa della pena, lasciando presagire interventi repressivi anche nei confronti degli imputati minorenni. La proposta di legge atto Camera 1580, che ha come primo firmatario il deputato leghista Cantalamessa, prevede, infatti, l’abbassamento della soglia di imputabilità da quattordici a dodici anni e una generale contrazione dei benefici legati alla minore età, soprattutto per ciò che riguarda i reati di stampo mafioso. La proposta desta grande preoccupazione e ha suscitato le reazioni di molta parte degli addetti ai lavori: in particolare, l’Unione nazionale delle Camere minorili ha espresso netta contrarietà all’ipotesi di abbassamento della soglia di imputabilità, ipotesi che non trova, invero, alcuna giustificazione sul piano della politica criminale e che appare in contrasto con i valori fondamentali del nostro ordinamento. I dati ministeriali attestano, infatti, che non esiste alcun allarme legato alla criminalità minorile, che invece, stando alle statistiche, si mantiene stabile, se non in leggero calo. È interessante sottolineare che continuano ad avere un ruolo preponderante i delitti contro il patrimonio, che superano il 50% del totale dei delitti commessi dai minorenni. Le ipotesi criminose connesse ai fenomeni del bullismo, del cyberbullismo o delle baby gang restano scarsamente rilevanti in termini percentuali, pur suscitando grande clamore mediatico e, conseguentemente, un allarme sociale, probabilmente eccessivo. Peraltro, è noto che, in ambito minorile, la reazione punitiva è meno efficace rispetto agli interventi volti alla rieducazione e al reinserimento sociale del ragazzo. Alcuni studi mostrano, infatti, che il rischio di recidiva è molto più basso nei casi che si concludono con un esito positivo della messa alla prova, riducendosi dal 30%, per i minorenni autori di reato non sottoposti alla messa alla prova, al 20% circa per i minorenni che hanno sperimentato questo percorso (a fronte di un 75% del tasso di recidiva degli adulti). È evidente, dunque, che gli strumenti alternativi alla sanzione, tipici del processo penale minorile, mostrino una maggiore efficacia individuale, come strumenti di politica di reinserimento sociale del minore, rispetto ai percorsi giudiziari tradizionali, connotati dalla finalità retributiva della pena. Ma un’altra considerazione appare dirimente: il minorenne che delinque è prima di tutto una vittima. Egli è vittima di una famiglia che non ha saputo dargli la giusta guida sul piano educativo, che non ha saputo proteggerlo dagli ambienti delinquenziali o, nel peggiore dei casi, che lo ha spinto essa stessa verso la criminalità. Ma è anche vittima di un tessuto sociale che non ha saputo intervenire per prevenire la marginalità e la devianza. È la stessa Costituzione ad attribuire allo Stato il compito di proteggere l’infanzia e di assicurare l’assolvimento dei doveri di istruzione ed educazione dei figli, in caso di incapacità dei genitori. Ed è proprio su tali principi che si fonda il sistema penale minorile italiano, improntato a un obiettivo primario di rieducazione, basato sulla personalizzazione dei percorsi e finalizzato alla più celere fuoriuscita del minore dal circuito penale. Sistema, quello del Dpr 448/1988, che ha largamente ispirato la direttiva europea in materia. *Presidente dell’Unione nazionale delle Camere minorili Calabria: Maria Chindamo, un sit-in per rompere il muro del silenzio avveniredicalabria.it, 2 maggio 2019 A promuoverlo sono Libera e l’Osservatorio regionale sulla violenza di genere. Rompere il muro del silenzio e delle omertà, intensificare le indagini per individuare mandanti ed esecutori della scomparsa di Maria Chindamo è questo che chiedono l’osservatorio regionale sulla violenza di genere e Libera a tre anni esatti dalla vicenda criminosa. Lo faranno accanto ai tre figli ed al fratello che in questi tre anni non hanno mai smesso di ricordarla e di chiedere verità e giustizia. Sarà un sit quello organizzato per Lunedi 6 maggio alle ore 11.00 proprio davanti a quel cancello della sua azienda agricola quando nelle prime ore del mattino Maria viene aggredita da una o più persone. Di lei rimangono solo tracce di sangue sul suo Suv bianco e sul muretto della proprietà, insieme alle ciocche dei suoi bellissimi capelli neri. In questi tre anni nessuno avrebbe visto o sentito niente. Solo silenzio intorno a questa famiglia che, tuttavia, non si è arresa, che non ha mai perso la fiducia nello Stato, che ha continuato anche andando nelle scuole, nelle TV locali e nazionali e in tutte le occasione offertagli per testimoniare la loro fede nella giustizia e nella legalità, portare una messaggio d’amore, chiedere non vendetta ma giustizia. Un segno di speranza è stata la notizia di questi ultimi mesi della intensificazioni delle indagini che si auspica possa portare a risultati. Osservatorio e Libera chiedono che si rompa il muro del silenzio e dell’omertà che si è creato intorno a questa vicenda. L’appello è rivolto a chi sa perché collabori alle indagini per permettere, come chiedono i familiari, di potere avere almeno una tomba sulla quale andare a pregare, per riprendersi di questi anni vissuti col fiato sospeso, anni in cui hanno dovuto convivere con quel senso di assenza e con il dolore, con la consapevolezza che il delitto d’onore non è solo un ricordo lontano, ma senza perdere mai la calma, senza dire mai una parola d’odio, ma seminando amore e riconciliazione. L’appuntamento al quale sono state invitate autorità, scuole, associazioni sarà Lunedì 6 maggio alle ore 11.00 c/o la località Montalto di Limbadi. Locri (Rc): visita dell’associazione Antigone al carcere “situazione generale tollerabile” cn24tv.it, 2 maggio 2019 Nella mattinata del 30 aprile, la sezione calabrese dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone ha fatto visita al carcere di Locri, con una delegazione composta da Sara Cacciotella, Brunella Chiarello e Giuseppe Chiodo. “L’istituto, collocato in un edificio del 1862, è mantenuto in buone condizioni dal costante operato di un nucleo di sette persone detenute, destinate alla gestione dei lavori di manutenzione ordinaria del fabbricato.” Fa sapere la commissione ispettiva a seguito del controllo. “A fronte di una capienza regolamentare di 89 persone, la casa circondariale ne ospita 101 al momento della visita, tutte destinate al circuito della media sicurezza. L’utilizzo della videoconferenza ha consentito la sostanziale dismissione della piccola sezione dedicata all’alta sicurezza, un tempo utilizzata per la permanenza dei reclusi tenuti a partecipare ai processi in corso presso il locale Tribunale.” Aggiungono Cacciotella, Chiarello e Chiodo, che precisano: “Il tratto caratterizzante del trattamento penitenziario messo in atto nell’istituto è certamente il lavoro, con la presenza di due laboratori, dedicati rispettivamente alla trasformazione dei metalli e del legno. Le prime produzioni, che ricomprendono anche il “riutilizzo creativo” delle brande dismesse (trasformate in panchine), sono destinate all’arredamento di altre strutture detentive; quelle in legno, invece, sono state già acquistate anche da utenti privati. I lavoratori sono 54 sulle 66 persone detenute presenti con posizione giuridica definitiva”. “Alle attività professionali si affiancano quelle scolastiche, - dichiarano gli ispettori dell’associazione Antigone - con corsi che coprono tanto le necessità di prima alfabetizzazione quanto quelle di istruzione superiore, e quelle di formazione, con corsi di refrigerazione e condizionamento. Il tempo libero può essere impiegato nelle strutture sportive, in biblioteca o nelle attività di cineforum organizzate nella sala di cui l’istituto dispone”. Per quanto riguarda i lati negativi della struttura, Cacciotella, Chiarello e Chiodo notificano: “L’istituto, tuttavia, presenta anche alcuni aspetti critici. In particolare, l’area sanitaria risulta in sofferenza: il personale medico è presente in numero non adeguato alle esigenze della numerosa popolazione detentiva qui ristretta, e risulta mancante la figura specialistica del cardiologo. Ciò costituisce, per un verso, un rischio per le persone detenute, e, per altro, un dispendio per l’Amministrazione penitenziaria, costretta a ricorrere alle traduzioni anche per esami di routine che potrebbero invece essere condotti in loco. È necessaria, inoltre, una maggiore cura per alcune aree comuni: l’area verde interna, destinata ai colloqui con figli e nipoti, risulta povera di piante e arredi; il giardino di Zaleuco, spazio attrezzato situato all’esterno del perimetro delle mura e precedentemente finalizzato a rendere meno opprimente l’attesa del colloquio per i più piccoli, risulta oggi abbandonato all’incuria”. In conclusione, gli ispettore chiosano: “il quadro riscontrato è di una generale tollerabilità della condizione detentiva nell’istituto. Rimane fermo, tuttavia, l’auspicio dell’Associazione Antigone che l’ASP 5 provveda nel più breve tempo possibile all’implementazione del numero di medici in servizio presso la casa circondariale di Locri, dotandola anche di un cardiologo.” Catania: detenuto a rischio ictus si vede rifiutare i domiciliari e denuncia il magistrato secoloditalia.it, 2 maggio 2019 “Sono a rischio ictus, mandatemi ai domiciliari”. Questa la richiesta di un detenuto, F.C., 56 anni, attualmente detenuto nel carcere catanese di piazza Lanza. L’uomo, difeso dal suo legale, l’avvocato Giuseppe Lipera, è imputato nell’ambito di un procedimento penale pendente davanti al tribunale di Siracusa. Il detenuto si sarebbe visto rigettare la richiesta di revoca della pena carceraria in luogo di quella degli arresti domiciliari. Il tribunale del capoluogo aretuseo, in presenza del magistrato, L.R., avrebbe infatti ritenuto compatibili le condizioni di salute del recluso con l’ambiente del carcere. Il 56enne, soffrirebbe di una malformazione artero-venosa nella regione cerebrale destra, e sarebbe così esposto appunto a rischio di ictus cerebrale. L’uomo, dopo essersi visto respingere la richiesta anche dal tribunale della libertà di Catania, ha presentato ricorso in Cassazione il 30 gennaio scorso. È stato quindi disposto l’annullamento del provvedimento di rigetto, fissando così il rinvio ad un nuovo esame. Nell’udienza del 17 aprile scorso nel capoluogo etneo, tuttavia, l’uomo si sarebbe accorto in aula della presenza del magistrato L.R., precedentemente trasferito da Siracusa a Catania. Nonostante le sollecitazioni del sostituto del legale del detenuto, il magistrato sarebbe tuttavia rimasto presente in sede di udienza. Lo stesso magistrato, il giorno prima, fa sapere il legale del 56 enne, avrebbe presentato una perizia successiva all’annullamento della Cassazione. Una perizia trasmessa via pec, secondo la difesa di F.C., senza che il tribunale del Riesame avesse chiesto alcunché. Secondo quanto riferito attraverso una nota stampa dal legale del 56enne, si tratterebbe di una serie di coincidenze non regolari. Il detenuto, per voce del suo difensore, ha denunciato il magistrato alla procura della Repubblica di Messina e si riserva di costituirsi parte civile. Napoli: “Costituzione e carcere”, opera in musica nel carcere di Poggioreale belvederenews.net, 2 maggio 2019 L’iniziativa nell’ambito dello Stage di Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza (prof. Mariano Menna) previsto dal Dipartimento di Giurisprudenza della Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e co-organizzato con il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Campania. Nella mattinata di venerdì, 3 maggio 2019, presso la Casa Circondariale di Poggioreale, alle ore 11.00, si terrà una “lezione” su “Costituzione e carcere”, attraverso la musica del maestro Marco Zurzolo, l’opera in musica (di Samuele Ciambriello e Mena Minafra) interpretata dall’attore Pietro Bontempo ed i “dipinti” del fotoreporter Giovanni Izzo, prevista nell’ambito dello Stage di Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza (prof. Mariano Menna) previsto dal Dipartimento di Giurisprudenza della Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e co-organizzato con il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Campania. Il Garante Samuele Ciambriello ha dichiarato: “Questo evento vuole indicare che tra il “dentro” e il “fuori” delle mura del carcere non esistono barriere ideali, ma solo barriere fisiche, perché nella Carta costituzionale il carcere non significa esclusione ma impegno per l’inclusione, attraverso un’opera di risocializzazione alla quale non deve mancare l’apporto delle stesse persone detenute”. La dottoressa Mena Minafra, responsabile del progetto “Guardami oltre” strutturato a supporto dello Stage di Diritto penitenziario, ha affermato: “Tradizionalmente relegata a un ruolo marginale nella dinamica della giustizia penale, la fase dell’esecuzione sembra assumere oggi un rilievo decisivo, rappresentando una prospettiva privilegiata da cui osservare il fenomeno dell’accertamento penale nel suo complesso. Il senso della pena, le alternative alla detenzione, il rispetto dei diritti delle persone recluse: tutte questioni che sono al centro di un vivace dibattito, il quale impone un attento studio dei profili giuridici in senso stretto per adeguatamente apprezzare l’interesse di vasti settori dell’opinione pubblica per questa materia, considerata la delicatezza e l’antinomia dei valori in gioco. Queste lezioni itineranti, dunque, “servono” affinché vi possa essere una interazione “concreta” tra “diversamente liberi” dei vari Istituti penitenziari coinvolti nel progetto e gli studenti che hanno interesse a conoscere la “reale” portata del diritto penitenziario e della giurisdizione di sorveglianza. Nella prossima lezione itinerante prevista per il 21 maggio ore 10.30 presso l’Istituto penitenziario di Pozzuoli si parlerà di “Affettività e carcere: un binomio (im)possibile?”. Per questa giornata, è stato autorizzato l’ingresso in carcere ai giornalisti della carta stampata, muniti di tesserino, e ai cineoperatori. Spoleto: Celestini, i detenuti e le barzellette che “rovesciano” il sistema di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 2 maggio 2019 Ascanio Celestini, attore, regista e scrittore, ha partecipato per tre giorni (10, 11 e 12 aprile) nel carcere di Spoleto al progetto “Adotta uno scrittore” a cura del Salone Internazionale del Libro di Torino che ha previsto incontri senza filtri e censure tra un autore e gli studenti di una scuola superiore. Trenta gli istituti e altrettanti gli autori ospitati tra i banchi, ma l’artista romano e altri nove colleghi hanno voluto essere presenti in sezioni di scuole carcerarie. Può raccontarci questa esperienza a contatto con i detenuti. Che cosa ha fatto nei tre giorni che ha passato con loro? “Giorgio Flamini (l’organizzatore dell’evento, ndr), mi ha parlato del lavoro che fa da anni in carcere con i detenuti e gli operatori. Del loro modo di pensare il teatro. E abbiamo cominciato da lì. Dalla loro esperienza di artisti. Non credo sia interessante forzare qualcuno ad affrontare questioni che non vengono sollevate da lui. Così abbiamo preso spunto dall’attività che ognuno di loro ha in comune con gli altri. Non c’era il tempo, né il motivo di fare un laboratorio, di affrontare questioni tecniche”. Ha parlato anche a loro del suo libro Barzellette? “È stato il gioco che ci siamo portati avanti per tutti e tre i giorni. Una seria e valida opera filosofica potrebbe essere composta interamente da barzellette scriveva Wittgenstein. Ma attraverso le barzellette possiamo affrontare qualsiasi discorso. Amore, morte, lavoro, follia, fede, emarginazione, sesso… Attraverso le storielle possiamo parlare di qualsiasi esperienza umana, positiva o negativa, collettiva o individuale. È una chiave d’accesso per scavare nell’esperienza umana. Più che una visione del mondo, è una visione dell’uomo”. Come mai la scelta di puntare su questo genere? “Non mi interessa la barzelletta per la sua funzione ludica. Anzi non credo che serva per giocare e scherzare. O meglio: lo scherzo è tanto più coinvolgente quanto meno resta in superficie. L’unico confronto che mi viene in mente è con la veglia funebre. Accanto al morto (e dunque accanto alla morte come elemento spaesante) possiamo mettere in moto un meccanismo di difesa e attacco. In certe culture il rituale è differente per la notte e il giorno. Con la luce del sole si compie il rito sociale, solidale col dipartito. La cerimonia pubblica impone un comportamento sobrio. Con l’arrivo della notte si scatena la violenza dell’inconscio, si sfogano le contraddizioni. Per questa seconda fase Ernesto De Martino (antropologo e studioso di etnografia delle società contadine del Novecento, ndr) parla anche di “giochi lascivi”. Commenti sconci, atteggiamenti fortemente ambigui, baci e movenze, oggetti fallici che servono a rovesciare l’esperienza della morte in un’esperienza potentemente vitale”. Dunque che cos’è per le i la barzelletta? “Per me la barzelletta è un’esperienza di rovesciamento. Il riso che provoca non è la risata a denti stretti della Settimana Enigmistica o il gesto di allegra approvazione nei confronti di qualcuno che ci mette allegria, ma il fou rire (l’incontrollabile accesso di riso, ndr) più simile alla morte dello strano serpente con la coda appuntata, che gli fumava come una cappa di camino del libro XX di Pinocchio. Il burattino cerca di scappare, ma inciampa e restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria. Allora l’animale fu preso da una tale convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi gli si strappò una vena sul petto e morì”. Come hanno reagito i detenuti? Qual è stata la barzelletta che hanno gradito maggiormente? “Certamente quelle legate alla sessualità. Soprattutto quando la barzelletta racconta un’esperienza concreta e non quando viene utilizzata come rivelazione per qualche altro meccanismo che le è estraneo. Perciò le tante storielle sul marito che scopre la moglie a letto con un amante risultano essere meno erotiche di altre apparentemente meno piccanti. L’assurdità della detenzione nel nostro Paese è anche nell’aver coniugato la pena che deve tendere alla rieducazione del condannato, come recita l’art. 27, a una sorta di castrazione di fatto”. Dall’esterno si fa fatica a pensare che in carcere si possa ridere…. “Ribadisco: il riso non è un gioco per gente spensierata. C’è molto più tormento nelle storielle ebraiche quando ridono della Shoa che nell’austerità delle celebrazioni ufficiali”. I luoghi comuni rappresentano il paradigma delle barzellette e finiscono per identificare quasi tutte le categorie sociali (carabinieri, neri, cinesi, mogli, mariti, politici, pierini etc… ). Esistono barzellette anche sui detenuti? “Per il mondo del carcere ne racconterei una russa. Un esempio per dire che giustizia e ingiustizia spesso cambiano a seconda del contesto. Siamo ai tempi di Michail Sergeevic Gorbacëv e tre carcerati si confrontano. Il primo dice: - Io sono qui perché ero un oppositore di Gorbacëv. - Invece io sono recluso perché ero suo sostenitore - dice l’altro e chiede al terzo: - E tu? - Io sono Gorbacëv!”. E sui giornalisti? “Sul settore dell’informazione potrei citarne una che mostra come il racconto della verità può raccontare una menzogna se è fatto solo a metà. Un giornalista viene mandato a intervistare un centenario. - Come ha fatto a raggiungere questo traguardo? - chiede. - Mangio leggero e sano - risponde il vecchio - non ho mai bevuto o fumato, vado a dormire presto… E in quel momento si sente un gran trambusto nella stanza vicina. Qualcuno è caduto a terra spaccando qualcosa. Due voci accompagnano il fracasso. Una maschile e l’altra femminile. - Cosa succede? - chiede il giornalista. - È quell’alcolizzato di mio padre - dice il centenario - torna sempre a casa tardi con qualche mignotta!”. Verona: “Ne la città dolente”, Dante “passeggia” in carcere di Luca Imperatore gnewsonline.it, 2 maggio 2019 Si intitola “Ne la città dolente” ed è lo spettacolo teatrale ideato dal regista Alessandro Anderloni impegnato da anni nella Casa Circondariale “Montorio” di Verona con un laboratorio di teatro frequentato dai detenuti. Lo spettacolo, che rientra nel progetto “Teatro in carcere 2019”, promosso dall’associazione culturale Le Falìe, sarà in scena in quattro repliche che si svolgeranno in forma itinerante in alcuni luoghi del carcere per un gruppo di circa cento spettatori esterni per ciascuna rappresentazione. “È Dante nella sua essenzialità - dichiara Alessandro Anderloni - Non abbiamo tradotto o semplificato alcuna parola delle terzine. La Compagnia del Montorio ha lavorato con una generosità sorprendente, cercando il suono di Dante, insieme con una partecipazione intima a quanto interpretano. I luoghi suoneranno con le voci degli interpreti: corridoi, aule, palestre e passeggi evocheranno i luoghi camminati dal poeta, percorsi nuovamente settecento anni dopo dagli attori insieme col pubblico. Questo luogo rende ancora più necessario attenersi ai versi di Dante, ché in quei versi c’è già tutto, e in essi può ritrovarsi ciascuno dei lettori. Il dialogo che la Divina Commedia tesse con i protagonisti del progetto è stato intensissimo, fin dalla prima lettura. E, di prova in prova ha scavato sempre più in profondità”. A calcare la scena insieme agli attori detenuti ci saranno anche otto studenti delle scuole veronesi “Marco Polo”, “Angelo Berti”, Ipsia “Giovanni Giorgi” e “Nani-Boccioni” per una iniziativa che ha il sostegno della Fondazione San Zeno e il patrocinio dell’Ufficio Scolastico VII dell’ambito Territoriale di Verona. “Con questo progetto vogliamo aprire le porte del carcere alla città - commenta la Direttrice della Casa Circondariale Mariagrazia Bregoli - perché non sia visto come un’isola, ma come luogo che dialoga con l’ambiente in cui è inserito”. Le date degli spettacoli sono: lunedì 29 aprile - dalle 19.00 alle 20.30 giovedì 2 maggio - dalle 19.00 alle 20.30 venerdì 3 maggio - dalle 19.00 alle 20.30 sabato 4 maggio - dalle 19.00 alle 20.30 Cooperazione, il gioco della delegittimazione delle Ong prosegue: stavolta in campo “Le iene” di Carlo Ciavoni repubblica.it, 2 maggio 2019 Il dito puntato su tre organizzazioni che lavorano nei campi di detenzione in Libia: “Cesvi”, “Emergenza Sorrisi” e “Help Code”, che hanno replicato. Ancora una volta, alcune Ong si trovano costrette a difendersi e ribellarsi al facile, persistente e incredibile gioco della delegittimazione, stavolta perpetrato dal programma Mediaset “Le Iene”, in onda il 28 aprile scorso. Un gioco che, oltretutto, coinvolge proprio chi lavora nelle zone più difficili e pericolose del mondo. Stavolta è toccato a tre Ong che in Libia cercano di portare aiuto e, di fatto, svelare le atrocità medievali nei confronti di migranti rinchiusi in veri e propri lager. Atrocità rispetto alle quali le autorità di quel Paese, oggi lacerato peraltro da una guerra civile di cui non si vede la fine, non sono in gradi di intervenire, anche per la diffusa corruzione tra le forze armate e la polizia, spesso complici di bande di miliziani-mercanti di esseri umani violenti e senza scrupoli. Quel dito puntato su tre Ong. Insomma, i “ragazzi” de “Le iene” stavolta hanno messo in dubbio che gli aiuti della Cooperazione italiana arrivino ai migranti rinchiusi nei campi libici. L’obiettivo del servizio tv, realizzato da Gaetano Pecoraro, in particolare è stato puntato su due campi, quello di Tariq al Seqa e di Tariq al Matar, dove operano tre Ong, che stanno realizzando dei progetti di aiuto : “Emergenza Sorrisi”, “Cesvi” e “Help Code”. L’intervista a nove migranti che rimasero rinchiusi in quei luoghi da maggio ad agosto dell’anno scorso hanno prima raccontato le violenze subite, poi hanno aggiunto che degli aiuti della Cooperazione italiana non hanno visto traccia. Niente: nessuna assistenza sanitaria o kit igienici, o altro genere di aiuto, persino i materassi e le coperte - hanno detto - vennero garantiti dai gestori del campo, ma solo in occasione di visite ufficiali e poi immediatamente ritirati. La replica delle organizzazioni umanitarie. La replica di Cesvi ed Emergenza Sorrisi è però subito arrivata. “Nel periodo febbraio-luglio 2018 - si legge in una nota di Cesvi - eravamo già impegnati su diversi progetti, operando anche nei centri di detenzione di Tariq al Seqa, Tariq al Matar e Tajoura, nell’area di Tripoli, con un finanziamento dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo per un ammontare complessivo di 296.044 euro. Il servizio andato in onda - prosegue il documento - si è basato sulla testimonianza di nove ragazzi eritrei presenti nei centri di detenzione, che hanno a ragion veduta sostenuto di non avere avuto contatti con gli operatori di Cesvi. Infatti, possiamo dimostrare che nei mesi della loro detenzione la nostra attività si è svolta nella sezione femminile di questi luoghi, separata da quella maschile, dove abbiamo svolto attività di supporto per donne e bambini. Oltre tutto - si legge ancora nella nota - la possibilità di operare nel centro di Tariq al Seqa è stata bloccata dal 3 giugno, fino alla fine di luglio 2018, come attestano i report e le comunicazioni ufficiali inviate all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo”. Cesvi ha comunque pubblicato tutti i report del progetto sul proprio sito web. “Abbiamo fornito queste ed ulteriori informazioni anche a “Le Iene” - aggiunge la ong - ma nel servizio non ne è stato fatto cenno”. La risposta di “Emergenza Sorrisi”. Di tono simile la replica di “Emergenza Sorrisi”, che si è occupata della formazione di 15 medici libici, i quali hanno poi offerto assistenza medica nei due campi e alla popolazione che vive nella stessa zona. Il progetto realizzato è durato sei mesi, da gennaio a giugno 2018, ed è stato finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione con 327 mila euro. “I medici - dice un documento dell’organizzazione - hanno visitato 992 persone, nei registri c’è il loro nome, cognome e patologia. Insomma, è tutto documentato - dice Fabio Abenavoli, presidente della Ong - abbiamo dato assistenza medica a persone sofferenti. Questa era la nostra missione. Siamo medici”. Le attività di Helpcode in Libia, il monitoraggio e il controllo. Helpcode opera nei centri di detenzione governativi gestiti dal Ministero per il contrasto all’immigrazione clandestina (Dcim) del governo di Concordia Nazionale della Tripolitania dal 2018 per migliorare le condizioni dei migranti detenuti. Nel 2018, con il progetto “Prima emergenza nei centri di detenzione migranti in Libia”, finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics) per 678.108 €, Helpcode ha portato aiuti nei centri governativi libici di Tajoura, Triq al Sikka e Trik al Matar. “Le Iene - si legge in una nota dell’Ong - hanno riportato la posizione di migranti ma dell’intervista a Helpcode ne è stato riportato un breve estratto”. “Ecco invece cosa abbiamo fatto”: Tra marzo e settembre 2018, nei tre centri citati, Helpcode ha distribuito 2.800 materassi, 2.800 lenzuola, 2.800 coperte, 2.800 asciugamani, 2.800 scarpe, 2.800 vestiti, 930 kit igienici per le donne, 3.550 saponette e shampoo e 2.800 spray repellenti. E comunque tutte le altre attività svolte sono state raccontate con articoli dettagliati e relative testimonianze fotografiche sul blog di Helpcode. È possibile trovarli ai link qui di seguito: https://helpcode.org/progetti/prima-emergenza-nei-centri-di-detenzione-migranti-in-libia https://helpcode.org/progetti/verso-una-migrazione-sostenibile https://helpcode.org/categoria/libia Gran Bretagna. Julian Assange è stato condannato a 50 settimane di carcere ilpost.it, 2 maggio 2019 Julian Assange è stato condannato a 50 settimane di carcere da un tribunale del Regno Unito per aver violato i termini della libertà su cauzione nel 2012. Assange, il 47enne fondatore di WikiLeaks, era stato arrestato nel 2010 dalla polizia britannica in seguito a un mandato di arresto europeo e internazionale da parte dell’Interpol, su richiesta delle autorità svedesi, e dopo aver ottenuto di essere liberato su cauzione, persi tutti i possibili ricorsi contro l’estradizione, nel giugno 2012 si era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Aveva quindi richiesto e ottenuto asilo politico, motivato con i timori di poter essere estradato negli Stati Uniti una volta messo sotto processo in Svezia. Assange aveva vissuto nell’ambasciata per sette anni fino all’11 aprile scorso, quando il presidente ecuadoriano Lenin Moreno aveva deciso di revocargli l’asilo politico. Assange era stato quindi arrestato nuovamente dalla polizia britannica e il giorno successivo è stato dichiarato colpevole della violazione dei termini della sua libertà su cauzione. In una lettera letta in aula, Assange ha detto di essere fuggito perché si trovava “in circostanze difficili” e temeva di essere estradato negli Stati Uniti. Si è anche scusato con la corte, per averle mancato di rispetto. Giovedì, Assange dovrà presentarsi in tribunale per affrontare la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti per la sua presunta collaborazione con l’allora soldato Bradley Manning (oggi Chelsea Manning) nell’hackerare una password per introdursi nei sistemi informatici governativi e sottrarre dei documenti. La Svezia, che aveva deciso di archiviare le accuse contro Assange, sta considerando la possibilità di riaprire il caso, scrive BBC. Venezuela, il golpe che non c’è stato. I russi dietro la “beffa” dei militari? di Rocco Cotroneo corriere.it, 2 maggio 2019 Fonti Usa, gli uomini chiave del regime si sarebbero dovuti schierare con Guaidó e López ma, all’ultimo momento, hanno fatto marcia indietro. Scenari da guerra fredda? La fotografia di oggi - ennesima giornata di marce di protesta contro e a favore del regime - vede al momento uno sconfitto e un mezzo vincitore. La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia nazionale bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semi-clandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato, o meglio come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. “C’era un accordo dietro le quinte - ha detto Bolton -. Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro”. Parole rafforzate dalla ricostruzione dei fatti (anch’essa da prendere con le pinze) del segretario di Stato Mike Pompeo: “Maduro era pronto a salire su un aereo, per scappare a Cuba. Poi è stato fermato dai russi”. Siamo di fronte, insomma, ad uno scenario da post guerra fredda in grado di far impallidire quella vera, con tutto il contorno dei film di spionaggio. Se così fosse, gli Usa avrebbero erroneamente dato il via libera all’operazione finale di Guaidó e López, fornendo loro però informazioni fasulle: non esisteva uno scenario di deposizione di Maduro all’interno del regime stesso. Alla “fregatura” avrebbero partecipato attivamente uomini di Mosca. I militari venezuelani infatti, tranne poche diserzioni di soldati semplici, non si sono spaccati. Il quadro del fallimento era già chiaro nel primo pomeriggio ora di Caracas, a otto ore dall’inizio dell’operazione. A quel punto - e Maduro non era nemmeno apparso in pubblico - López aveva già deciso di chiedere aiuto diplomatico (prima al Cile, infine alla Spagna) e una ventina di militari ribelli avevano fatto lo stesso con il Brasile. Non secondaria, infine, la mancata risposta della piazza. C’erano poche migliaia di manifestanti nelle strade, i venezuelani sono esausti. Fine della sfida. Non finisce qui naturalmente. La nuova sfida delle manifestazioni in corso oggi potrebbe non avere molta rilevanza, ma la decisione dell’amministrazione Trump di non desistere dalla partita venezuelana resta chiara. “Pur preferendo una transizione democratica, l’opzione militare resta in piedi”, ha insistito ieri Pompeo. Nigeria. Ragazzini e donne vittime di abusi sessuali nelle prigioni dello Stato del Borno repubblica.it, 2 maggio 2019 Il rapporto di Amnesty International. la promiscuità tra adulti e bambini nelle stesse celle. Le violenze dei carcerieri sulle donne detenute. Un gruppo di indagine istituito dal governatore. Una ricerca condotta dal Amnesty International ha accertato casi di violenza sessuale nei confronti di donne e minori da parte di agenti di sicurezza e altri detenuti nelle strutture penitenziarie di alta sicurezza nello stato del Borno, in Nigeria. Gli strazianti episodi sono avvenuti nelle prigioni di massima sicurezza di Maiduguri e Giwa, dove migliaia di civili, arrestati per sospetta complicità con il gruppo armato di Boko Haram, sono detenuti. La ricerca condotta da Amnesty International ha inoltre accertato che numerosi minori sono detenuti illegalmente, insieme agli adulti, nel penitenziario di Maiduguri. “Si tratta di un altro inquietante caso di violazione dei diritti umani perpetrato a danno dei civili nel contesto del fenomeno di Boko haram, nella Nigeria nord orientale”, dice Osai Ojigho, direttore di Amnesty International Nigeria. “Non è accettabile che i minori siano esposti a un trattamento così vile, mentre sono sotto la tutela del governo, così come è intollerabile che le donne, ancora una volta, debbano sopportare il peso dell’abuso da parte delle forze di sicurezza che dovrebbero proteggerle”. Minori detenuti e vittime di abusi nel carcere di Maiduguri. Un gruppo di ricercatori di Amnesty International ha visitato la prigione di Maiduguri all’inizio di questo mese, per verificare le accuse mosse dal detenuto Charles Okah - inizialmente documentate da Sahara Reporters - secondo il quale vi sono bambini detenuti illegittimamente e vittime di abusi presso tale penitenziario. Okah ha sostenuto che tre minori detenuti nel braccio della morte erano tra le molte vittime di abusi sessuali. Amnesty International ha ottenuto documentazione del tribunale che conferma come almeno 68 bambini sono detenuti nella prigione di Maiduguri. Adulti e minori nelle stesse celle. L’organizzazione si è anche rivolta a ex detenuti minorenni della prigione di Giwa Barracks, i quali hanno effettivamente riconosciuto 39 di questi minori come loro ex compagni di detenzione a Giwa; si tratta di una lista che include i nomi dei tre minori detenuti nella stessa area in cui sono ospitati i prigionieri nel braccio della morte, stando al rapporto di Okah. “Il governo ha finora fallito nel proprio compito di proteggere questi minori, in violazione della Convenzione sui diritti del fanciullo” afferma Osai Ojigho. “Il governo nigeriano deve garantire l’immediato trasferimento di tutti i bambini dalla prigione di Maiduguri e rilasciare coloro che non sono stati imputati per un reato effettivo. I minori sospettati di avere commesso dei reati dovrebbero essere detenuti in strutture dedicate. La detenzione di minori insieme agli adulti è inaccettabile”. La promiscuità genera violenze di ogni sorta. Amnesty International ha intervistato un detenuto presso la prigione di Maiduguri e un ex guardiano, i quali hanno entrambi confermato la diffusione del fenomeno dell’abuso di minori nel penitenziario. Il detenuto ha in particolare confermato di essere stato testimone di abusi di minori da parte di adulti. “Non è un segreto cosa accade in prigione con i piccoli”, ha detto il detenuto, che ha parlato con Amnesty International attraverso un intermediario per tutelare la propria identità. La fonte ha anche riferito ad Amnesty International che a volte gli era stato possibile ascoltare cosa accadeva nei bagni e ciò aveva confermato la sua intuizione al riguardo degli abusi su minori. “A volte vedi un minore andare in bagno e un adulto seguirlo a ruota. Quando il ragazzo esce, non hai bisogno che ti venga detto cosa gli è successo”. La conferma di un’ex guardia carceraria. L’ex guardia della prigione di Maiduguri, che era troppo impaurita per incontrare Amnesty International personalmente, ha confermato di essere al corrente della situazione. Stando alle sue dichiarazioni: “Le condizioni li (nella prigione) non sono buone per i minori ed è difficile fermare quello che succede. L’unico modo è che siano tirati fuori da li. Cosa puoi aspettarti quando tieni nello stesso posto ragazzini e adulti”. Amnesty International ha anche documentato l’aggressione sessuale ai danni di un ragazzo di 16 anni da parte di un detenuto nella prigione di Giwa Barracks, all’incirca nel mese di gennaio del 2018, sei mesi prima che tutti i minori fossero rilasciati. Le varie testimonianze. A quel tempo, i minori erano detenuti in celle confinanti con quelle degli adulti: le interazioni erano dunque inevitabili. Un ex detenuto ha dichiarato ad Amnesty International di avere visto un detenuto adulto “che tentava di togliere i pantaloni” a un ragazzo mentre dormiva. “Un ragazzo che se ne è accorto ha svegliato il compagno che dormiva e, al mattino, è stato fatto rapporto alle guardie”, ha detto il testimone. Per quanto noto, il detenuto adulto è stato conseguentemente spostato presso un’altra cella, ma nessuna altra misura è stata presa per proteggere i minori. Questo episodio è stato confermato ad Amnesty International dalla vittima e da altri 15 ex detenuti. Un gruppo di indagine istituito dal governatore. Subito dopo la pubblicazione del rapporto di Okah, il governatore dello stato del Borno ha annunciato di avere istituito un gruppo di indagine e che avrebbe nel giro di una settimana reso noto il resoconto e adottato misure. Tuttavia, nessun aggiornamento è stato dato sullo stato dell’arte dei lavori del gruppo investigativo. Amnesty International ha provato a contattare telefonicamente il procuratore generale dello Stato del Borno, senza ottenere risposta. Un sms inviatogli è altresì rimasto senza risposta. L’organizzazione ha anche inviato un’email e un sms al portavoce del governatore dello Stato del Borno, senza ottenere riscontro. “La detenzione di minori con adulti, nella consapevolezza della loro esposizione ad abusi, è deprecabile. Lungi dal proteggere i minori dagli abusi, le autorità nigeriane hanno creato l’ambiente propizio”, ha detto Osai Ojigho. “Le autorità devono assicurare indagini sollecite, indipendenti e imparziali e che ogni ufficiale di prigione o membro dell’esercito accertato responsabile di violazione dei diritti umani sia consegnato alla giustizia”. Donne violentate a Giwa Barracks. I ricercatori di Amnesty International hanno inoltre recentemente saputo di violenze sessuali sulle donne da parte dei militari nella prigione di Giwa Barracks. Tre ex detenute hanno indipendentemente l’una dall’altra dichiarato di essere state testimoni di queste aggressioni e hanno identificato 10 tra i soldati responsabili - tra cui cinque che prestavano servizio presso l’ospedale della prigione. Due di queste ex detenute hanno dichiarato di essere a loro volta state violentate. Stando alle testimoni, almeno 15 detenute sono state vittime di violenza da parte di soldati che pretendevano prestazioni sessuali in cambio di cibo, sapone, oggetti di prima necessità e la promessa di libertà. Un “fidanzato” per sopravvivere. Una ex detenuta ha detto ad Amnesty: “Le riconoscevamo, le donne che andavano con i soldati. Avevano sempre oggetti che noi non avevamo, come sapone, detergente e assorbenti. Alcune donne.. avevano fino a 15 assorbenti ciascuna (dati dai soldati). I soldati portavano alle loro “fidanzate” anche pane, bibite e altro cibo. Una vittima ex detenuta ha spiegato che anche se i soldati non usavano la forza per costringerle ad avere rapporti, non era per loro possibile in quelle circostanze rifiutarsi. Una donna ci ha detto che aveva un “fidanzato soldato” per sopravvivere alla detenzione e avere maggior cibo. Ci ha riferito di avere conoscenza di altre donne nella stessa situazione. Un’altra ex detenuta ha dichiarato che i soldati promettevano la libertà a chi avesse accettato di avere rapporti, cosa che poteva accadere nell’ipotesi di una gravidanza in cui il padre fosse stato il soldato. La liberazione in cambio di...”Poiché erano i soldati a chiamare le detenute che dovevano essere rilasciate, per loro era facile sostituire i nomi. Le donne sapevano che una fidanzata di un soldato era incinta di due mesi. E in effetti la notte prima del giorno in cui alcune donne sarebbero state rilasciate, il soldato contraffece dei documenti per lei e il giorno dopo il suo nome era inserito tra quelli delle donne che dovevano essere rilasciate”, ha spiegato la ex detenuta. L’anno scorso, una ex detenuta a Giwa Barracks ha raccontato ad Amnesty International delle violenze sessuali presso la prigione. L’enorme potere dei soldati. Amnesty International ha avviato una indagine nel maggio del 2018 ma non è chiaro se sia stata portata avanti. “Anche nel caso in cui le detenute siano apparentemente consenzienti, questi atti costituiscono stupro, perché i soldati approfittano di una condizione ambientale nella quale alle detenute non rimane altro se non fare sesso con loro” dice Osai Ojigho. “I soldati hanno un enorme potere sulle donne; controllano quasi tutta la loro vita quotidiana nelle prigioni; possono sia disporre punizioni ingiuste e arbitrarie, come fornire cibo e medicine di cui hanno disperatamente bisogno. Molti abusano di questo potere. È un comportamento riprovevole per il quale i soldati coinvolti devono rispondere”. Un rapporto di 30 pagine di un testimone oculare. “Queste ultime testimonianze seguono un percorso di violazioni che abbiamo ripetutamente documentato nelle prigioni nigeriane. È arrivato il momento che il presidente Buhari agisca”. Il 23 marzo 2019 Sahara Reporters ha rivelato dettagli di un rapporto di trenta pagine reso dal testimone oculare Charles Okah, che descriveva una serie di violenze sessuali ai danni di donne e minori nella prigione. Stando ai media, ci sono almeno 106 minori tra gli 11 e i 17 anni in stato di detenzione. Un comitato del governo dello Stato ha visitato la prigione dopo la sua inaugurazione, per indagare su quanto riportato nel rapporto. Alcuni agenti sono stati arrestati ma rilasciati il giorno dopo. Da quel momento in poi, non si è più saputo nulla. Amnesty International sta facendo pressione sul governo dello Stato del Borno perché i risultati dell’indagine siano resi pubblici. Le accuse negate, ma ammessa la promiscuità adulti-minori. Le autorità della prigione di Maiduguri hanno respinto le accuse di episodi di violenza sessuale nella struttura, dicendo che il gruppo di indagine non avrebbe trovato alcuna prova. L’Ufficio relazioni con il pubblico del sistema delle prigioni nigeriane ha detto che non può rendere pubblico il rapporto per ragioni di sicurezza, perché esso conterrebbe dati sensibili. È stata comunque confermata la detenzione promiscua di minori e adulti. Stando all’ufficiale che ha reso la dichiarazione “In ragione della natura dei crimini commessi, possono essere persone che non dovrebbero essere li. Maiduguri è una situazione inusuale determinata dalla emergenza di Boko Haram”. Nell’aprile del 2019 Amnesty International ha intervistato un detenuto adulto e una ex guardia della prigione di Maidugiri, insieme a 18 ex detenuti di Giwa Barracks, 15 ragazzi e tre donne. Ha anche parlato con parenti dei detenuti nella prigione di Maiduguri, funzionari del tribunale e fonti al corrente di quanto accade all’interno della prigione, tra le quali un ex dirigente della prigione.