Salvini spinge sul Dl sicurezza-bis: “subito in Consiglio dei ministri” di Leo Lancari Il Manifesto, 29 maggio 2019 Il premier Conte? “L’ho sentito, abbiamo detto di vederci. Lui oggi (ieri, ndr) va fuori, a Bruxelles, io sono qui domani e dopodomani. Spero che il Consiglio dei ministri venga convocato questa settimana. Eravamo rimasti in questo modo e dl sicurezza è pronto”. Spinge, Matteo Salvini. Passata la tornata elettorale e incassato un successo superiore alle migliori aspettative, adesso il ministro degli Interni chiama gli alleati al rispetto degli impegni presi una settimana fa, prima dell’election day. Si era detto che ogni decisione sarebbe stata rinviata a dopo il voto e adesso che le urne sono chiuse preme perché gli impegni presi vengano rispettati. “Siamo impegnati, io come gli altri ministri della Lega, a riprendere in mano, definire e chiudere tutti i dossier”, avverte. “Siamo pronti ad arrivare in cdm sul decreto sicurezza bis con l’accordo di tutti”. Tutti, compresi i 5 Stelle che pure durante la campagna elettorale hanno dimostrato di non gradire troppo le nuove misure volute da Salvini contro le navi delle ong. Dal Viminale ieri è uscita la versione numero cinque del decreto sicurezza bis. Il nuovo testo tiene conto delle perplessità espresse dal capo dello Stato soprattutto per quanto riguarda il trasferimento di alcuni poteri dal ministero dei Trasporti al Viminale. L’articolo 1, che in precedenza assegnava proprio al ministro degli Interni il potere di “limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale”, è stato riscritto in modo da attenuare i poteri del ministro leghista. La nuova versione prevede infatti che il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane sia sì deciso dal ministro degli Interni ma “in concerto” con il ministro della Difesa e con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti secondo le proprie competenze, e “informandone il presidente del Consiglio dei ministri”. Salta anche la reclusione da uno a tre anni, inizialmente inserita nell’articolo 6 del decreto, per chi nelle manifestazioni di piazza ostacola i pubblici ufficiali. Anche così il provvedimento resta fortemente ideologico e punitivo nei confronti delle navi che operano salvataggi di migranti nel Mediterraneo centrale. Rimangono infatti le sanzioni amministrative verso i comandante, l’armatore e il proprietario della nave che non rispetta il divieto di ingresso nelle acque territoriali (le sanzioni previste vanno da 10 mila e 50 mila euro) senza escludere la possibilità del sequestro amministrativo. Passaggio non indifferente: la decisione sulle eventuali sanzioni da prendere contro le navi delle ong viene presa dal prefetto, un organo che dipende dal ministero degli Interni. Restano infine anche le misure sull’ordine pubblico, come quelle previste all’articolo 6 dove è previsto il raddoppio delle pene e delle sanzioni amministrative per chi viola il divieto di uso dei caschi in occasione di manifestazioni pubbliche e per “chiunque nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico” lancia “razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi” così da creare un “concreto pericolo per l’incolumità delle persone”. “La convinzione del dicastero è che siano stati soddisfatti tutti gli interrogativi tecnici”, spiegava ieri sera una nota del Viminale. Preoccupazione, infine, è stata espressa da alcune associazioni per l’istituzione presso il ministero degli Esteri (articolo 12 del decreto) di un fondo di 2 milioni per i rimpatri dei migranti irregolari subordinato a una “particolare collaborazione” da parte dei paesi di origine. “Come attori di solidarietà internazionale - scrivono il Coordinamento italiano ong internazionali (Cini), l’Associazione elle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Aoi) e la rete di ong Link2007 -non possiamo che essere allarmati dai contenuti di u articolo che schiaccia il nesso tra migrazione e sviluppo su una dimensione securitaria”. Con il “Dl sicurezza bis” pieni poteri al Viminale sullo sbarco dei migranti di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 29 maggio 2019 Agenti sotto copertura contro i reati connessi all’immigrazione clandestina; giro di vite sui violenti negli stadi e task force per eseguire le sentenze penali e premi per i paesi che collaborano a rimpatriare gli stranieri. Pieni poteri al Viminale sullo sbarco delle navi di immigrati. Agenti sotto copertura contro i reati connessi all’immigrazione clandestina. Incentivo economico ai paesi che collaborano a rimpatriare i cittadini stranieri, stanziando subito 2 milioni di euro, che possono essere aumentati fino a 50 milioni. Una task force per evitare le scarcerazioni: per smaltire l’arretrato relativo all’esecuzione dei provvedimenti di condanna penale divenuti definitivi, saranno assunte nelle cancellerie dei tribunali 800 persone che collaboreranno per evitare che i provvedimenti di carcerazione rimangano nei cassetti. Giro di vite sui violenti negli stadi. Sono tra i punti chiave della nuova versione del decreto legge sicurezza bis, che in questi giorni andrà all’esame del consiglio dei ministri. Poteri del ministro dell’interno - L’obiettivo dichiarato è rafforzare i poteri del ministro dell’interno in materia di sbarchi di immigrati. Lo strumento è l’attribuzione al ministro del potere di limitare, vietare l’ingresso, transito e sosta di navi nel mare italiano. Il testo richiama la convenzione Onu sul diritto del mare (ratificata con legge 689/1994) e, in particolare, l’articolo 19, comma 2, lettera g), nel quale si afferma che il passaggio di una nave straniera mette a repentaglio la pace e la sicurezza se è impegnata nell’attività di carico o lo scarico di persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello stato italiano. A corredo della norma sono previste sanzioni pecuniarie (fino a 50 mila euro) e ablatorie (sequestro e confisca della nave) a carico del comandante della nave, dell’armatore e del proprietario. Tutto ciò ad eccezione dei navigli militari e delle navi in servizio governativo non commerciale Immigrazione clandestina - Si punta a rendere più incisive le investigazioni contro i reati connessi all’immigrazione clandestina. Lo strumento è l’operazione sotto copertura. Per consentire operazioni con infiltrati si autorizza una spesa di mezzo milione di euro per il 2019 e di un milione per il 2010 e di 1,5 milioni di euro per il 2021. Alberghi - La comunicazione dei dati degli ospiti deve essere data con immediatezza nel caso di soggiorni non superiori alle ventiquattro ore. Manifestazioni - Regolare il pacifico svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico. Con questo obiettivo, la bozza di dl prevede l’inasprimento di pena per i fatti di danneggiamento, devastazione e saccheggio, interruzione di pubblico servizio, le violenze o resistenze a pubblico ufficiale e ciò quando sono commessi nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. Universiadi - Task force di 500 unità di forze di polizia a presidio di siti e obiettivi sensibili per assicurare i livelli di sicurezza necessari per lo svolgimento delle Universiadi 2019. Soggiorni brevi - Si punta a una semplificazione degli adempimenti nei casi di soggiorni di breve durata. Lo strumento è eliminare l’obbligo di permesso di soggiorno anche per missioni e gare sportive, oltre che a visite, affari, turismo e studio, se la durata del soggiorno stesso sia non superiore a tre mesi. Gare sportive - L’obiettivo dichiarato è la lotta violenza in occasione delle manifestazioni sportive. Lo strumento è il rafforzamento del Daspo, con effetti anche per gare all’estero, estensibile fino a 10 anni, revocabile solo previo risarcimento o collaborazione con le forze di polizia. Previste sanzioni penali anche per reati ai danni degli arbitri. Alle squadre è proibito dare contributi o favorire anche solo con biglietti a pregiudicati o persone raggiunte da Daspo. Ampliata la possibilità di fermo di indiziato di delitto commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Viene resa stabile la possibilità di arresto in flagranza differita e cioè dopo l’individuazione con le telecamere di sorveglianza degli impianti sportivi. La Legge sblocca-cantieri in realtà sblocca le tangenti di Paolo Biondani L’Espresso, 29 maggio 2019 Antimafia e anticorruzione sono in allarme per il decreto appalti del governo che stravolge anche le regole antisismiche. E permette cantieri senza controlli nelle zone a rischio di terremoti. Quando i governi varano una legge “sblocca-qualcosa” è come quando i politici locali approvano una variante per la “valorizzazione del territorio”: ai cittadini conviene chiamare i carabinieri o la locale procura. Se in comuni e regioni il risultato quasi immancabile è una devastante colata di cemento, infatti, a livello centrale l’effetto è una congerie di norme sblocca-reati, o salva-colpevoli, applicabili in tutta Italia. Norme “criminogene”, le definiscono i magistrati, professori ed esperti di lotta alla corruzione interpellati da L’Espresso. Il decreto-legge “sblocca-cantieri”, varato il 18 aprile scorso, contiene una sequela di disposizioni che il capo dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, dice di considerare “oggettivamente pericolose per le ricadute in termini di concorrenza, trasparenza e soprattutto legalità”: norme che “rischiano di avere un’incidenza molto negativa anche sulla qualità dei lavori, che dovrebbe essere l’obiettivo prioritario degli appalti pubblici”. La novità più contestata dai pm antimafia è la legalizzazione dei subappalti fino al 50 per cento del valore dell’opera, quasi il doppio del limite precedente (30). Il procuratore generale di Ancona, Sergio Sottani, è “molto preoccupato per l’aumento dei rischi di infiltrazioni nei cantieri delle zone terremotate: i subappalti e i cosiddetti noli a freddo sono da anni la via maestra per l’ingresso di imprese mafiose”. L’alto magistrato, in carica dall’autunno 2017, ha siglato vari accordi con Anac, prefetture e direzione nazionale antimafia, proprio per evitare che i lavori nelle Marche (e nelle altre regioni colpite) possano risolversi nell’ennesimo scandalo di corruzione, criminalità e malgoverno del territorio. “Le imprese mafiose non hanno i requisiti per aggiudicarsi direttamente le gare d’appalto”, avverte il procuratore: “L’esperienza ci insegna che subentrano dopo, in corso d’opera, con minacce, intimidazioni, collusioni o corruzioni. La licenza di subappaltare metà dell’opera rischia di essere un volano che incentiva l’inserimento di aziende criminali in una ricostruzione che nell’insieme è descritta come il più grande cantiere d’Europa, con miliardi in arrivo anche dalla Ue”. La norma simbolo dello sblocca-cantieri è la resurrezione dei commissari, con poteri di gestire i cantieri più ricchi “in deroga a tutte le norme extra-penali”. Significa che un nominato dalla politica può dare appalti a chi vuole, come un sultano. Il banco di prova è la demolizione e ricostruzione del ponte di Genova. Il decreto originario aboliva perfino i controlli antimafia, reintrodotti dopo le proteste di Cantone. Così la prefettura ha potuto scoprire e annullare un subappalto a un’impresa di camorra. Intanto Cantone è uscito da Genova sbattendo la porta: il commissario Marco Bucci, sindaco del capoluogo ligure, non gli faceva controllare niente. L’Anac riceveva gli atti a cose fatte. Nei più civili paesi europei le regole sugli appalti vengono studiate e migliorate per favorire la massima concorrenza e trasparenza: si organizza una vera gara, tra più aziende possibile, per realizzare i progetti migliori ai prezzi più convenienti. Lo sblocca-cantieri invece legalizza le eccezioni, come la “procedura ultra-ristretta”: per assegnare lavori pubblici fino a 200 mila euro, basta invitare “tre imprese, ove esistenti”. Quindi ogni stazione appaltante, ad esempio un Comune, può creare il suo club di ditte privilegiate e mettersi in regola con tre soli preventivi. “Ove esistenti” è la furbata nella furbata: basta certificare che un contratto è particolare, ad esempio perché un ospedale o azienda pubblica vuole proprio un certo macchinario, per azzerare la concorrenza e versare i soldi all’unico fortunato fornitore. Prima del decreto, le regole erano molto più severe: fino a 150 mila euro, era obbligatorio invitare almeno dieci imprese concorrenti; fino a un milione, almeno 15. Il professor Alberto Vannucci, che insegna lotta alla corruzione, conferma l’allarme di Cantone e Sottani spiegando così la nuova procedura: “Per gli imprenditori disonesti diventa molto più facile spartirsi gli appalti: basta mettersi d’accordo in tre anziché in 10 o 15. La logica conseguenza è l’aumento dei costi, cioè della spesa pubblica, e il peggioramento della qualità delle opere”. Le inchieste per corruzione che da settimane stanno scuotendo la Lombardia hanno come reati-base proprio le cosiddette turbative d’asta: oggi, tra Milano e Varese, sono gli imprenditori privati a fare cartello, cioè a decidere come spartirsi i soldi degli appalti. Le tangenti a politici e funzionari servono prima di tutto a sapere i nomi dei concorrenti, per reclutarli. L’indagine milanese documenta che una sola impresa onesta ha fatto saltare una spartizione milionaria: tutte le altre stavano al gioco. E a tenere il banco erano le ditte della ‘ndrangheta. Con il nuovo decreto, ora bastano tre aziende a giocarsi le turbative. E con la corruzione si può spingere gli amministratori pubblici anche a spezzettare l’appalto, per dividersi lavori ricchissimi, frazionati in tante procedure ultra-ristrette. Con rischi catastrofici per la spesa pubblica: in migliaia di piccoli e medi comuni quasi tutti gli appalti rientrano nel limite dei 200 mila euro. A completare il quadro “criminogeno” è un’altra novità, così descritta dal professor Vannucci: “Lo sblocca-cantieri ha abolito anche il divieto di dare subappalti a un’impresa che ha partecipato alla stessa gara. Il che rappresenta un ulteriore potente incentivo alla turbativa: è il solito film del finto concorrente che presenta un’offerta suicida al ribasso, perché è già d’accordo con il vincitore prefissato. E in questo modo vengono facilitate anche le manovre o i ricatti successivi, per evitare ricorsi in caso di appalti palesemente illegittimi”. Il governo ha giustificato le nuove norme con la volontà di sbloccare migliaia di piccoli appalti e rimettere in moto l’economia. Secondo gli esperti, però, è un falso alibi. Per gli appalti veramente piccoli, sotto la soglia dei 40 mila euro, era previsto già prima l’affidamento diretto, anche a una sola impresa. Mentre a essere ferme da anni sono le grandi opere miliardarie, ma per motivi diversi: fallimento o arresto di imprenditori e funzionari; mancanza di finanziamenti, prosciugati da sprechi passati; ricorsi e processi amministrativi rallentati e complicati dai continui cambi di norme. Cantone sottolinea che il nuovo decreto “ha riscritto un terzo del codice degli appalti”. “Modificare ben 32 articoli significa aumentare l’incertezza del diritto”, rincara Vannucci. Secondo il docente universitario, la norma più scandalosa è “il ritorno dell’appalto integrato: la stessa impresa privata gestisce sia il progetto sia l’esecuzione dei lavori. È un conflitto d’interessi legalizzato: chi gioca tiene anche il banco, nessuno controlla più nulla. Tutte le leggi per uscire da Tangentopoli sono fallite perché in Italia la pubblica amministrazione ha perso la capacità di fare progetti esecutivi. Per questo ogni appalto diventa una lunga agonia di varianti, ricorsi, integrazioni ed extra-costi. Bisognerebbe andare a gara con un progetto definitivo, controllato da un’autorità pubblica con tecnici capaci. Invece abbiamo più di trentamila stazioni appaltanti senza competenze tecniche, che ora vengono autorizzate a spendere soldi pubblici con progetti di massima, cioè farlocchi. Così le imprese private dettano legge. Il codice degli appalti, che stava finalmente entrando a regime, era una riforma nella giusta direzione. Questa invece è una controriforma. È il ritorno alla norma chiave della famigerata legge-obiettivo di Berlusconi e Lunardi: il “general contractor” fa quello che vuole”. Le indagini che in questi anni hanno portato in carcere tanti nomi dell’imprenditoria italiana hanno mostrato anche i costi umani di quelle norme ammazza-controlli: cemento scadente, progetti sbagliati, viadotti che crollano, morti, feriti e altri disastri. In questa cornice, gli esperti bocciano anche la regola che assegna la vittoria a chi offre il “minor prezzo”. Una riedizione del “massimo ribasso”, che in mancanza di contrappesi determina due rischi alternativi: se lo sconto sui prezzi è effettivo, l’azienda viene spinta a strangolare i fornitori e sottopagare gli operai. Mentre se l’impresa ha buone coperture, il ribasso sparisce alla prima variante. Il procuratore generale Sottani è allarmato anche per le nuove norme anti-sismiche. Il decreto sblocca-cantieri ha riscritto anche le regole fondamentali del testo unico dell’edilizia: autorizzazioni, controlli e collaudi. Spiega il magistrato: “Viene introdotta una distinzione fra tre categorie di interventi edilizi, in base a criteri di maggiore o minore rilevanza, che però non sono chiari e tassativi: c’è una formulazione discrezionale, da interpretare. Ma il dato di fondo è che ora sembra possibile costruire nuovi fabbricati anche in zone ad alto rischio sismico con una semplice asseverazione del progettista”. Come dire che basta un’auto-certificazione di un tecnico privato, scelto e pagato da chi vuole costruire? “Il testo di legge fa pensare proprio a questo. Inoltre l’autorizzazione anti-sismica riguarda solo “cosa” e “come”, non “dove” si costruisce”. Quindi un costruttore scriteriato potrebbe fabbricare un palazzo sulla faglia dell’ultimo terremoto? “Dipende dalla tipologia dell’intervento: un grattacielo no, ma altri edifici sì. Le norme sono poco chiare, ma sicuramente molto rischiose”. In tutto questo il professor Vannucci sente odore di tangenti: “Spero di sbagliarmi, ma norme così gravi non sembrano un incidente di percorso: mi fanno pensare a una risposta di lungo periodo alla crisi dei partiti. Nell’attuale fase tutti i movimenti politici hanno una difficoltà manifesta a raccogliere quanto serve alla loro struttura organizzativa, che resta costosa. Ma il finanziamento pubblico è quasi scomparso, mentre fondazioni e associazioni sono diventate un utile schermo per raccogliere fondi individuali. In questa situazione, la gigantesca torta degli appalti può servire a guadagnarsi la gratitudine di alcuni imprenditori, che poi possono ripagare, con finanziamenti leciti o meno. Tangentopoli era proprio questo: le imprese pagavano una decima su tutti gli appalti per far funzionare le macchine dei partiti. Ora si ricomincia, temo. Con lo sblocca-tangenti”. Il mercato delle toghe: un patto per prendere la Procura di Roma di Carlo Bonini La Repubblica, 29 maggio 2019 Perugia, indagato per corruzione l’ex presidente Anm Palamara. Trema il Consiglio Superiore della Magistratura, la sostituzione del procuratore di Roma Pignatone è diventata una congiura. Il Consiglio Superiore della magistratura, il cuore dell’ordine giudiziario, i suoi ventiquattro consiglieri, otto laici e sedici togati, balla sull’orlo di un abisso che si chiama Procura di Roma. Di cui, forse, ha intuito troppo tardi la profondità. E che si prepara a inghiottirlo. Con una fretta indiavolata, dividendosi e mandando in pezzi ogni forma di galateo istituzionale, lasciando dunque cadere ogni richiesta di trasparenza arrivata dal capo dello Stato e presidente del Csm Sergio Mattarella, il Consiglio ha trasformato la successione del procuratore Giuseppe Pignatone (ha lasciato l’incarico l’8 maggio scorso per raggiunti limiti di età) in un mercato dei pani e dei pesci prima, in una cruenta congiura di palazzo, poi, che ha mandato in pezzi correnti, alleanze. In ragione di un domino che, nelle intenzioni dei suoi architetti, deve (ma forse sarebbe più giusto dire “doveva”) riscrivere la geografia degli uffici giudiziari chiave del Paese, i rapporti tra la magistratura e gli “uomini nuovi” della Politica italiana. Ma che, paradossalmente, non ha fatto i conti proprio con il lavoro della magistratura. Con un’inchiesta della Procura di Perugia che, per quanto Repubblica è in grado di ricostruire, da palla di neve quale era, si è fatta valanga. Di cui, come vuole la legge, la Procura di Perugia ha informato il Consiglio. E che annuncia ora di travolgere tutto e tutti. L’ombra della corruzione Una storia che comincia nell’autunno dello scorso anno, senza strepiti, con qualche trafiletto di cronaca bene informato, quando dalla Procura di Roma vengono trasmessi alla Procura di Perugia, competente per le indagini sui magistrati della Capitale, gli atti relativi a una serie di circostanze che documentano una disinvolta amicizia tra Luca Palamara, magistrato della Procura, già consigliere del Csm ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Fabrizio Centofanti, ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone. Un lobbista arrestato nel febbraio di quell’anno per frode fiscale, vicino agli ambienti del Pd e in affari con Piero Amara, avvocato travolto dall’inchiesta della Procura di Roma per il suo ruolo nelle sentenze “aggiustate” della magistratura amministrativa. Affidata al pm Gemma Miliani e al Gico della Guardia di Finanza, l’indagine sulla segnalazione arrivata da Roma procede per corruzione, perché nell’amicizia tra Palamara e Centofanti c’è qualcosa - viaggi e regali diciamo “galanti” - che viene ritenuto vada molto al di là dell’opportuno. È un’inchiesta delicata che, per mesi, si inabissa in un segreto a tenuta stagna. Palamara viene iscritto nel registro degli indagati per corruzione. E questo mentre a Roma, dentro e fuori il Consiglio superiore, i giochi per definire gli equilibri del nuovo Consiglio e quella che sarà la sua prima decisione di peso - la successione di Giuseppe Pignatone - entrano nel vivo. Con un protagonista: proprio Luca Palamara, leader di Unicost (la corrente centrista) e, appunto, magistrato indagato a Perugia. Come riferiscono oggi diverse e qualificate fonti del Consiglio Superiore, Palamara, a Roma, si muove di concerto e con grande disinvoltura con un altro magistrato e gran tessitore della politica giudiziaria del Paese, Cosimo Maria Ferri (figlio dell’ex ministro socialdemocratico della prima Repubblica, passato alla storia per il limite dei 110 chilometri in autostrada), deputato renziano, già sottosegretario Pd alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, legato a Niccolò Ghedini e Denis Verdini e da sempre pontiere con quel mondo di marca berlusconiana, non fosse altro perché capace di portare in dote l’ala conservatrice e moderata della magistratura, la sua corrente Magistratura indipendente, di cui è stato anche segretario. La coppia Palamara-Ferri coltiva un grande progetto. Assumere il controllo degli equilibri e delle maggioranze del Consiglio e stracciare, riscrivendolo, l’accordo già “fatto” che vuole tutte le correnti - a cominciare da Magistratura indipendente ed Unicost - pronte ad appoggiare per la successione a Pignatone il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, per altro sin lì candidato di bandiera della stessa Magistratura indipendente (di cui anche Pignatone fa parte). Per sostituirlo con il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, magistrato per bene, a sua volta espressione della corrente di Magistratura indipendente e ritenuto dalla coppia caratterialmente controllabile. È un progetto che ha il suo esordio nel voto - in cui diventa decisivo l’appoggio assicurato da Palamara con la sua corrente Unicost - che nomina vicepresidente del Consiglio David Ermini, laico del Pd ed ex responsabile giustizia del partito. Le cui mosse, fuori da Palazzo dei Marescialli, sono telecomandate politicamente da un convitato di pietra che risponde al nome di Luca Lotti, l’ex sottosegretario renziano alla Presidenza del Consiglio ed ex ministro, travolto politicamente dall’indagine Consip nella stagione di Pignatone. Nel racconto che ne fanno oggi fonti diverse e qualificate del Consiglio è l’inizio di una partita infernale in cui ognuno degli attori che lavora alla successione di Pignatone gioca una partita che è, insieme, animata da interessi propri e da un obiettivo comune. Azzerare negli uomini, nelle prassi, nella cultura investigativa, nel rapporto con la Politica e il Palazzo, l’eredità “giudiziaria” lasciata da Pignatone a Roma. E disarticolare il network virtuoso di collaborazione cui lo stesso Pignatone ha lavorato nel tempo mettendo in sintonia uffici giudiziari chiave del Paese. Come Milano, Napoli, Palermo. Ritorno alla “ tradizione” - Il nuovo procuratore di Roma, insomma, deve essere un ritorno alla “tradizione”, alla magistratura capace di stare un passo indietro, e la prova generale di ciò che toccherà ad altri uffici vacanti come la Procura di Torino, quella di Brescia (competente per i reati commessi dai magistrati di Milano) e Perugia, dove Luigi De Ficchy si prepara a lasciare. Palamara ha una promessa. L’appoggio al tradimento di Lo Voi e il consenso della sua Unicost alla nomina di Viola gli garantiranno un posto da Procuratore aggiunto a Roma, dove lo accoglierebbe un altro grande “nemico” di Pignatone, l’aggiunto Antonio Racanelli, e dove concorrono in 14. Una promessa che vale per lui e Giancarlo Cirielli, fratello dell’Edmondo oggi deputato di Fratelli d’Italia e firmatario della famosa legge ad personam che, nel 2005, manomise le norme sulla prescrizione per andare in soccorso di Berlusconi. E questo, facendo fuori magistrati concorrenti come Sergio Colaiocco, il pm del caso Regeni, o Ilaria Calò, la pm che ha coraggiosamente rivoltato Ostia come un calzino associando, per la prima volta, il nome dei suoi clan alla parola “mafia”. Palamara sa anche che diventare kingmaker su Roma gli darà una parola sul futuro Procuratore di Perugia, dove cammina l’inchiesta su lui e Centofanti. In Consiglio, del resto, sembra poter indirizzare agevolmente le mosse della corrente. Di Pignatone non deve rimanere neppure l’ombra. Né, nel gioco delle correnti, vanno fatti “prigionieri”, come l’aggiunto Michele Prestipino (che nell’ipotesi di Lo Voi a Roma sarebbe destinato a Palermo), o altri “cani senza padrone” come l’aggiunto Paolo Ielo, competente per i reati della pubblica amministrazione, o il sostituto Mario Palazzi (il pm che con Ielo ha istruito Consip) o il pm Giovanni Musarò (il pm che svela i depistaggi del caso Cucchi). Questa è la posta in gioco nei mesi tra la fine del 2018 e i primi quattro di quest’anno. Fino all’incrocio con l’inchiesta di Perugia. Che ora che ha smesso di essere un segreto, annuncia una nuova storia e pone una domanda: cosa ha scoperto in questi mesi? Le manganellate e i calci con gli anfibi. I miei 20 secondi in balia degli agenti di Stefano Origone La Repubblica, 29 maggio 2019 Il racconto del nostro giornalista picchiato a Genova. “Sono un giornalista, sono un giornalista”. L’ho gridato subito, mentre i poliziotti mi venivano incontro alzando i manganelli. È stata una frazione di secondo. Mi sono girato, ho cercato di scappare, ma non ne ho avuto il tempo. Sono stato accerchiato, hanno cominciato a colpirmi sulla schiena, la testa e le braccia. D’istinto mi sono chinato per proteggermi. Sono passati cinque giorni da quel pomeriggio di Piazza Corvetto a Genova e dagli scontri tra polizia e antifascisti per una manifestazione di CasaPound. L’ospedale, l’operazione alle due dita frantumate, la costola rotta che non mi fa respirare e che a ogni colpo di tosse mi fa vedere le stelle e mi impedisce di dormire. Solo ora riesco a fare ordine nei ricordi e ricostruire quegli attimi. Di pura follia. “Stavo solo facendo il mio dovere di cronista”. Nella mia mente in questi giorni me lo sono ripetuto in continuazione perché cercavo di capire quale errore avessi commesso. “Nessuno”, continuano a ripetermi mia moglie Stefania e quasi tutto il resto del mondo. Ero appostato a pochi metri dal cordone di poliziotti perché un ragazzo vestito di scuro era stato bloccato dagli agenti e veniva picchiato selvaggiamente. Mi sono detto: che questo sia un altro G8? È meglio stare qui e vedere con i miei occhi quello che sta succedendo. Pochi minuti prima mi ero seduto su una panchina proprio perché la situazione era molto più tranquilla, finalmente, dopo due ore di tafferugli. Mi sono acceso una sigaretta, ho guardato le foto della mia nipotina Frida che mi erano arrivate su WhatsApp e mi sono guardato attorno per cercare con gli occhi dove fossero gli altri miei colleghi. Alle mie spalle, sulla collinetta del Parco dell’Acquasola, la gente osservava quello che stava succedendo in piazza. Mi sono alzato e mi sono diretto verso il cordone di agenti che, usando i lacrimogeni, aveva disperso un gruppo di manifestanti spingendoli in fondo a via Santi Giacomo e Filippo, l’unica via di fuga predisposta dal servizio di sicurezza della questura. I poliziotti erano allineati proprio all’inizio della strada per creare una zona cuscinetto e isolare i più violenti. Ero a pochi metri dagli agenti, tranquillo, mi sentivo quasi protetto. Mi sbagliavo. Improvvisamente la polizia con caschi e maschere antigas è schizzata sul lato destro della strada e ha bloccato il ragazzo vestito di nero con il casco in testa. È stato un attimo impercettibile. Un secondo dopo sono piombati su di me. Una gragnuola di colpi, senza soluzione di continuità. Sono stato schiacciato per terra. E da quel momento ho capito che poteva essere la fine. La mia. “Sono un giornalista”, continuavo a gridare disperatamente. Niente, non si fermavano. Possibile che non sentissero? D’istinto mi sono coperto la testa con le mani. Non so quanto sia durato, probabilmente una ventina di secondi, ma interminabili. E sempre d’istinto mi sono ritrovato in posizione fetale con le mani sul capo e la faccia per terra. Vedevo anfibi neri. Tanti, intorno a me. Mi rimbombavano nel cervello i colpi dei loro manganelli e delle loro suole. Calci alla schiena, manganellate sulle braccia, sulle gambe, sugli stinchi. Le mani non bastavano a difendermi. Mi stavano ammazzando di botte come nei film che avevo visto sul G8. Sentivo dolore, pregavo che smettessero. Non gridavo più “sono un giornalista”, ma supplicavo: “Basta, basta”. Un colpo di anfibio al costato mi ha tolto il fiato, ho abbandonato quella posizione e ho allungato le gambe. Ho teso i muscoli di tutto il corpo perché non sopportavo più il dolore. Ho pensato: non ce la faccio più. Proprio in quel momento ho sentito un corpo sul mio. Era un poliziotto. “Fermi, è un giornalista”. Era Giampiero Bove, un caro amico che negli anni della cronaca nera andavo a trovare in commissariato per cercare di strappare qualche notizia. “Stefano, sono Giampiero, stai tranquillo, ci sono io”. Ricorderò per sempre quelle parole e il suo sguardo rassicurante. “Alzati, spostiamoci”. Non ci riuscivo. Mi girava la testa. Avevo dolori ovunque. Ho cercato di prendere il cellulare, ma le dita non si piegavano. “Lo prendo io, fai uno sforzo, alzati Stefano”. Mi guardavo attorno, la polizia caricava un gruppo di persone vicine alla panchina dove mi ero seduto. Mi hanno appoggiato al muretto, proprio nel punto dove avevano arrestato il ragazzo vestito di nero. “Ho due dita rotte”, ho detto a Giampiero. Erano scure e con una forma a fisarmonica. Una collega mi ha sorretto. Poi un poliziotto mi ha aiutato a raggiungere Via Assarotti, ma non sapevo dove mi trovassi. Altri giornalisti hanno chiamato il 118, mi hanno dato dell’acqua. Il viaggio in ambulanza a sirene spiegate fino all’ospedale Galliera. Interminabile, perché le strade principali erano state chiuse per via della manifestazione. Mi veniva da vomitare, avevo perso lucidità mentre al telefono avvisavo mia moglie. “Sono sull’ambulanza, la polizia mi ha massacrato”. Ma lei non mi credeva. Nei due giorni di ricovero sono state tante le manifestazioni di solidarietà. Mi ha chiamato il presidente della Camera, Roberto Fico, ma non il ministro dell’Interno Matteo Salvini, forse perché era impegnato in campagna elettorale. Carcere per diffamazione. Investita la Corte Costituzionale ossigeno.info, 29 maggio 2019 Dal Tribunale di Salerno su istanza del Sugc in un processo a direttore e collaboratore del quotidiano “Roma” di Napoli. Sarà la Corte Costituzionale a stabilire se la pena del carcere per i condannati per diffamazione a mezzo stampa è una misura legittima. Lo ha deciso il tribunale di Salerno che ha accolto l’eccezione di incostituzionalità sollevata dall’avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania, Giancarlo Visone, nel processo per diffamazione a carico del direttore responsabile del quotidiano “Roma” e di un giornalista autore di un articolo. Secondo la tesi del Sindacato, condivisa dal giudice, “anche la sola previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa comporterebbe una limitazione eccessiva del diritto convenzionalmente e costituzionalmente tutelato della libertà di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista, incompatibile con l’articolo 10 della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo)”. Secondo questa tesi il carcere per i giornalisti, previsto nell’articolo 13 della legge sulla stampa e dall’articolo 595, comma tre, del codice penale (diffamazione a mezzo stampa), violerebbe gli articoli 3, 21, 25 e 27, nonché l’articolo 117 comma 1 della Costituzione in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Da anni chiediamo che con una legge il Parlamento cancelli il carcere per i giornalisti - affermano il segretario e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del Sugc, Claudio Silvestri. Una vera vergogna che nessun Governo ha voluto affrontare seriamente e che spinge l’Italia in fondo alle classifiche sulla libertà di stampa. Adesso a decidere sulla legittimità del carcere sarà la Corte Costituzionale. A prescindere dalle sentenze, tuttavia, è sempre più urgente un intervento del legislatore su una materia fondamentale perché riguarda il diritto dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini ad essere informati. La recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo proprio per la presenza della pena detentiva per il reato di diffamazione non dà più alcun alibi al Parlamento”. Condanna patteggiata, non sanabile l’errore sulla continuazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2019 Corte di cassazione, sentenza 27 maggio 2019, n. 23150. Rimedio drastico per l’errore sulla continuazione inserito nella sentenza oggetto di patteggiamento. Per la Cassazione, sentenza n. 23150 della terza sezione penale, la pronuncia viziata deve essere annullata con rinvio e la medesima Cassazione, investita del ricorso, non può procedere autonomamente all’eliminazione della frazione di pena applicata in aumento. Alla base della pronuncia c’è l’erronea considerazione dell’istituto della continuazione, qualificando come plurimi fatti invece distinti suscettibili di integrare un’unica fattispecie criminale. Nel dettaglio, si trattava della qualificazione giuridica delle condotte di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, hasish e cocaina, erroneamente incasellate nel reato continuato piuttosto che in un’unica violazione di legge. Secondo la Corte, conservare la frazione di pena che era stata negoziata e cancellare quella attribuita all’ulteriore profilo di condotta significherebbe incidere sui presupposti dell’accordo e impedire che, per la determinazione della pena, sia considerata la complessiva gravità dell’unico reato riconoscibile. Migranti, per l’anagrafe basta la richiesta d’asilo: respinto il ricorso del Ministero La Repubblica, 29 maggio 2019 La sentenza del Tribunale di Firenze per il cittadino somalo che aveva chiesto l’iscrizione a Scandicci. Il Tribunale di Firenze ha respinto il reclamo del Ministero dell’Interno che aveva impugnato la decisione di un giudice che ha autorizzato un somalo richiedente asilo a presentare domanda di iscrizione all’anagrafe al Comune di Scandicci. Comune che aveva rifiutato l’iscrizione basandosi sulle recenti norme del ‘Decreto sicurezza’. Era la prima sentenza di questo genere seguita, poi, da altre decisioni dei Tribunali di Bologna e Genova. Il ricorso del Ministero è dello scorso marzo. Il Tribunale di Firenze ha confermato il primo verdetto, scaturito dal ricorso dell’avvocato Noris Morandi dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, bocciando il reclamo del Ministero che, secondo i giudici, non aveva “legittimazione” ad impugnare perché non partecipò al primo grado. “Avrebbe potuto intervenire volontariamente nel processo di prima fase, e in tal caso sarebbe stato legittimato a proporre il reclamo”, hanno scritto i giudici, chiarendo che il Viminale dovrà versare 2.767 euro di spese legali allo Stato per il gratuito patrocinio del somalo. Riciclaggio, doppia verifica se il reato presupposto è commesso all’estero di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2019 Corte di cassazione, sentenza 27 maggio 2019, n. 23190. Doppia verifica sulla rilevanza penale per potere contestare il reato di riciclaggio. Una per l’ordinamento straniero e una per quello italiano. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 23190 della Seconda sezione penale. I giudici si sono trovati davanti all’impugnazione del Pubblico ministero contro l’ordinanza del riesame che aveva annullato il provvedimento di sequestro disposto nei confronti due indagati per riciclaggio. In discussione l’opacità della provenienza di somme di denaro fatte rifluire dalla Spagna in Italia e per le quali si sospettava un possibile illecito fiscale. Per il ricorso il giudizio di legittimità della condotta a monte dell’ipotizzato riciclaggio, se commessa in territorio estero, dovrebbe essere parametrata sulla legge italiana. Con la conseguenza che dovrebbe essere il giudice italiano a dover procedere a un’eventuale diversa valutazione di un fatto giudicato dall’autorità giudiziaria straniera, procedendo in questo odo a una sorta di revisione di fatto delle decisioni definitive del giudice straniero. Per la Cassazione, però, non è questa la linea interpretativa che deve essere seguita: il fatto che costituisce il presupposto del delitto di riciclaggio può anche essere un illecito fiscale commesso all’estero, ma questo deve avere rilevanza penale per l’ordinamento straniero. Una volta stabilita quest’ultima, sarà compito del giudice italiano verificare lc contestuale importanza penale anche per il nostro ordinamento. Solo allora l’autorità giudiziaria nazionale potrà procedere considerando il fatto come presupposto del riciclaggio e lo potrà fare anche quando all’estero è stata disposta l’archiviazione per ragioni processuali però e non sostanziali, che escludano la rilevanza del fatto. Non va sospesa la patente a chi guida ubriaco una bicicletta di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2019 Corte di Cassazione - Sezione IV -Sentenza 28 maggio 2019 n. 23257. A meno di una settimana la Cassazione (vista la decisione n. 22228/2019) è costretta a ribadire che la guida di un velocipede in stato di ebbrezza alcolica non legittima il giudice ad adottare la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida per i mezzi a motore. E la Cassazione, con la sentenza di ieri n. 23257, specifica l’assenza di legame tra la patente di guida e la condotta pericolosa del “ciclista” anche quando il tasso alcolemico rientri nell’ipotesi più grave dell’1,5 grammi per litro, prevista dalla lettera c) del secondo comma dell’articolo 186 del Codice della strada. La norma afferma che a seguito dell’accertamento del reato consegue “in ogni caso” la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni. Ma il caso del ciclista esula - secondo i giudici di legittimità - da un’applicazione integrale della norma sanzionatoria, che in questo caso colpirebbe solo la condotta di pericolo nell’ambito della circolazione stradale, senza travolgere la patente di guida di altro tipo di veicoli. Come nella vicenda risolta dalla Cassazione, con la sentenza del 22 maggio scorso, dove si trattava di guida in stato di ebbrezza su bicicletta a pedalata assistita e veniva cassata la sanzione della revoca della patente Am (cosiddetto patentino)anche nella decisione odierna si tratta di reato commesso alla guida di un veicolo, in questo caso definito genericamente “velocipede”, per la cui circolazione in strada non è richiesto alcun titolo abilitativo. Da questo rilievo deriva secondo la sentenza di oggi - l’illogicità di sospendere la patente conseguita, come impone il codice della strada, per guidare altri mezzi come quelli dotati di motori con potenza superiore a 250 watt. Mentre, secondo il codice stradale, rientrano nella categoria dei velocipedi tutti quei mezzi che vengono assistiti da un motore fino a 250 watt e solo quando la velocità è inferiore a 25 chilometri orari. Aosta: la direttrice “il carcere non è nelle priorità della Regione” di Sandra Lucchini voxpublica.it, 29 maggio 2019 “Questo carcere ha delle grandi potenzialità, ma sono ignorate. Il territorio non c’è. Stiamo aspettando, da due anni, la firma del presidente della Regione al Protocollo d’Intesa regionale. Correggo, inoltre, quanto dichiarato dal garante dei detenuti. Nella Casa Circondariale di Brissogne non c’è allarme sovraffollamento, né carenza di igiene”, dice la direttrice, in missione, Rosalia Marino “L’Amministrazione Penitenziaria non ignora le problematiche del carcere regionale. La realtà è un’altra. Non ci sono Direttori e Comandanti disponibili a trasferirsi in Valle d’Aosta. La soluzione più adeguata per garantire la presenza stabile di entrambe le figure professionali è l’istituzione di un concorso pubblico regionale. Potrebbe incentivare professionisti residenti. L’ultimo risale al 1997. In questi giorni siamo in attesa che venga firmato il protocollo d’Intesa”. Rosalia Marino, Direttrice, in missione, da ottobre 2018, della Casa Circondariale di Brissogne, ha un cruccio: “Non c’è, in regione, un interlocutore con cui confrontarmi. Lo stesso presidente Fosson con cui ho avuto in incontro, non ha ancora firmato il Protocollo d’Intesa Regionale, già rielaborato dal Ministro della Giustizia. Atto molto utile a regolamentare l’attività dell’Istituto penitenziario. Forse, i molti cambiamenti politici, in Valle d’Aosta, hanno originato problematiche di varia natura”. Confessa di aver incontrato molte difficoltà dal suo arrivo. Crede, ma, soprattutto, spera in una maggiore collaborazione delle istituzioni. Ad oggi, secondo quanto afferma, Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta lavorando per avviare contatti con la Regione Autonoma Valle d’Aosta. “Mi aspetto - ribadisce - che, a breve, si arrivi alla firma del protocollo, documento basilare per restituire al carcere di Brissogne la priorità sociale che merita. Oggi, è una struttura abbandonata. Disponiamo di un unico medico di guardia, dalle 8 alle 18,30. Inammissibile anche dal punto di vista sanitario”. Rettifica le dichiarazioni di Enrico Formento Dojot, garante dei detenuti che, sui media, ha descritto una situazione carceraria a ‘tinte fosché. “Ospitiamo, in questo periodo, 224 detenuti, di cui l’ottanta per cento stranieri. Preciso che la capienza regolamentare è di 181 detenuti. Quella tollerabile arriva a 338, numero ricavato dalla doppia accoglienza allestita nelle cell:.La capienza è già diminuita e diminuirà ancora - rilancia Rosalia Marino -.in quanto. avvieremo una importante ristrutturazione delle docce su un piano. Intervento che consentirà di trasferire cinquanta detenuti. L’Associazione di Volontariato Carcerario fa tanto per il benessere e la qualità di vita degli ospiti. La direzione del carcere ha proposto tre progetti, di cui uno approvato. dall’Amministrazione Penitenziaria. Consistono nella ristrutturazione di alcuni settori, nell’automazione dei cancelli e nella sistemazione di un nuovo impianto di videosorveglianza. Abbiamo avviato i contatti con un imprenditore locale per offrire un’occupazione ad alcuni detenuti”. Il lavoro. La vera apertura per un effettivo reinserimento sociale, famigliare, scolastico di chi intende imprimere una svolta ad un periodo di vita allo sbando. Le scarse opportunità occupazionali all’interno del penitenziario regionale favoriscono un iniquo turnover di detenuti destinato a continuare in assenza di iniziative mirate. “Dai frequenti dialoghi con la popolazione carceraria e con tutto il personale in servizio emerge la il desiderio di impegnarsi in attività che garantiscano un’autonomia economica. L’assenza di questa possibilità crea disagio e, quindi, la richiesta di trasferimento in altre strutture penitenziarie. Molte realtà devono essere risolte. Nella mia attività bisettimanale posso contare sulla continua collaborazione della Polizia Penitenziaria. Ma non è sufficiente. Sollecito l’attenzione degli amministratori regionali e comunali per non vanificare la funzione rieducativa che la pena deve avere”. Cosenza: chiudono i corsi scolastici nelle carceri, docenti a rischio trasferimento quicosenza.it, 29 maggio 2019 L’allarme lanciato dai sindacati Flc-Cgil, Gilda e Snals, 150 docenti saranno costretti a fare domanda di trasferimento e i detenuti non potranno più studiare. “Il tema della stesura degli organici rappresenta il momento più delicato non solo per le singole istituzioni scolastiche, per l’Atp, ma soprattutto può determinare per molti docenti e anche per il personale Ata la perdita di titolarità in quella scuola ed essere dichiarato soprannumerario con tutte le conseguenze che si possono determinare. È il caso dei docenti dei corsi serali e dei docenti delle sede carcerarie che si sono visti recapitare in queste ore la lettera in cui vengono dichiarati perdenti posto. Il numero è abbastanza importante, si parla di circa 150 docenti che saranno costretti a fare domanda di trasferimento”. A lanciare l’allarme i rappresentanti sindacali Pino Assalone Segretario Provinciale Flc-Cgil, Vanda Salerno Segretaria Provinciale Gilda, Angelo Siciliano Segretario Provinciale Snals. “Ma la cosa che più preoccupa - continuano a scrivere i sindacati - è che gli alunni delle sedi carcerarie e dei corsi serali non avranno più la possibilità di frequentare tali scuole. Riteniamo importante che l’esperienza di un luogo di chiusura e di esclusione, qual è il carcere, si trasformi invece in luogo di crescita, di confronto e di apertura verso la società. Sarebbe pazzesco non soffermarsi sulla valenza sociale che rivestono le scuole carcerarie della nostra provincia Cosenza, come in ogni altro luogo di detenzione, e ragionare solo sulla base di una qualche convenienza ragionieristica. Così come è di fondamentale importanza il mantenimento dei corsi serali per coloro i quali in età giovanile hanno interrotto gli studi e cercano di ottenere un titolo di studio. Interrompere tutto ciò rappresenta una forzatura delle normative che in una democrazia del diritto non è sostenibile. Inoltre, la creazione di questo significativo numero di personale in soprannumero, che dovrà essere assorbito nelle scuole della provincia, creerà delle ricadute molto negative sui trasferimenti interprovinciali, sulle immissioni in ruolo, sulla stessa autonomia scolastica per effetto della diminuzione degli stessi corsisti sia del serale che delle sedi carcerarie. Per queste ragioni, siamo convinti sia urgente attivare tutte le misure affinché ai detenuti e a coloro che frequentano i corsi serali sia assicurato il percorso scolastico già iniziato. Per tutto ciò invitiamo l’USR e l’ATP a tenere in debita considerazione gli articoli 27 (sulla funzione rieducativa della pena) e 34 (sul diritto allo studio) della Costituzione, tutte le normative, le direttive, perseguendo una coerente politica del diritto teso a garantire, comunque, attraverso la scuola il luogo in cui il cittadino possa trovare lo spazio che lo orienti, lo accompagni nella esplicitazione dei bisogni formativi a garanzia del diritto alla persona all’apprendimento. Massa Carrara: parte il progetto “Sentieri di Libertà” lagazzettadimassaecarrara.it, 29 maggio 2019 Progetto di pulitura e manutenzione per l’inserimento di detenuti in percorsi di pubblica utilità. Cinque mesi di lavoro tra i sentieri di montagna con interventi di pulitura e di manutenzione, tre detenuti e un soggetto sottoposto a misura alternativa coinvolti accanto a squadre di volontari, sono i numeri, in sintesi, di “Sentieri di Libertà 2019” “progetto che se da una parte ci permette di tutelare e valorizzare il nostro territorio, dall’altra dona nuova speranza e dignità alle persone che hanno commesso errori e stanno scontando la loro pena” ha sottolineato l’Assessore Giorgia Podestà nel corso della conferenza stampa di stamani a Villa Schiff. Il progetto, portato avanti grazie alla collaborazione del comune di Montignoso con la Casa di Reclusione di Massa, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) e il CAI di Massa “Elso Biagi” permetterà infatti una serie di interventi di pubblica utilità su tre sentieri di media montagna di Montignoso consentendo, allo stesso tempo, percorsi di reinserimento sociale e di prevenzione sui casi di recidiva. “Siamo orgogliosi di questa convenzione soprattutto per la compartecipazione di diversi soggetti e istituzioni - continua Podestà - e il cui fine straordinario permette a soggetti in situazione di disagio, che hanno colpe e responsabilità da scontare con la giustizia, di poter essere nuovamente riconosciute all’interno della società”. “Bisogna superare il welfare esistente - ha detto Nadia Bellè Responsabile Area Servizi al Cittadino - se noi riusciamo a fare progetti che puntano alla prevenzione e quindi all’inclusione avremo un risparmio di risorse in termini sociali ed economici. Molte di queste persone si sentono abbandonate, non riescono a trovare la strada nuova al momento di uscita dal carcere, se le porte che si trovano di fronte sono tutte chiuse una delle possibilità più concrete è quella di tornare su strade sbagliate e pericolose, questo sarebbe il fallimento delle istituzioni e dell’intera società. Questo progetto ha una doppia finalità, una diretta e riguarda una nuova fruibilità dei sentieri e una indiretta sull’intera comunità e su queste persone che possono affrontate una vita diversa e migliore”. “Il carcere non può essere la fine dei sogni - ha detto Paolo Basco Direttore pro tempore della Casa di Reclusione di Massa - il carcere è strutturale per il recupero e il reinserimento ma senza la società, senza istituzioni e senza queste esperienze di collaborazione diventerebbe uno spazio marginale, le persone verrebbero abbandonate a se stesse in un sistema chiuso. I trattamenti non possono essere contrari al senso di umanità e devono propendere alla rieducazione, come? Con l’esempio, con l’opportunità, con l’umanità. Stiamo rispondendo a un dovere istituzionale, quello di guardare a chi è ai margini. Quando noi siamo attenti ai bisogni degli ultimi possiamo misurare il nostro grado di civiltà”. “I percorsi rieducativi che cerchiamo di costruire sempre in forte sinergia - ha detto Cristina Rossi Responsabile dell’Area Educativa - vanno nella direzione di valorizzare l’impegno che i detenuti prendono nei confronti della collettività, riscoprendo anche valori fondamentali come quelli del rispetto delle persone e dell’ambiente. Valori portati in primo piano da proprio da questo progetto”. Tre i sentieri che verranno ripuliti dai detenuti accanto ai volontari del CAI con uscite previste una volta alla settimana: il primo riguarderà il tratto che va dalla località Termo del Pasquilio al Monte Folgorito e il Passo della Focolaccia, il sentiero dalla località Pasqulio a Sant’Eustachio e quello che da Vietina porta al Folgorito. “Come associazione di volontari credo che questo progetto non faccia altro che allargare le opportunità verso il nostro territorio, in modo tale che sia tutelato, difeso e valorizzato. L’altro elemento che voglio sottolineare è quello della condivisione, non si tratta di semplici interventi di pulizia ma di riuscire a conoscere e inserirsi in un ambiente attraverso la condivisione del lavoro, della fatica, del vivere e trascorrere tempo insieme”. Monza: “Oltre i confini”, un giornale per illuminare il buio al di là del muro di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 29 maggio 2019 “Oltre i confini - Beyond borders”. Questo il titolo scelto dai detenuti del Carcere di Monza per la testata giornalistica, presentata in edicola nel luglio del 2018 all’interno del settimanale Il Cittadino, storica testata di Monza e Brianza: un vero e proprio inserto di otto pagine, al centro del giornale ed estraibile, così da poter diventare una lettura indipendente. “Tutto nasce - racconta il direttore Claudio Colombo - quando nella primavera dell’anno scorso arriva in redazione Antonetta Carrabs, che per (con) i detenuti di Monza ha creato un laboratorio di narrazione. Porta con sé poesie, racconti, riflessioni, che ci sottopone e che accendono il nostro interesse”. Seguono poi, le riflessioni interne alla redazione del settimanale, un loro incontro con un gruppo di detenuti che hanno deciso di raccontarsi e cercare di spiegare come sia la vita all’interno dell’istituto, quali le dinamiche, le attività, cosa riesca a rendere vivibile una restrizione che all’esterno deve apparire insopportabile. La vera e propria fase di progettazione del giornale, che ovviamente tocca anche l’aspetto editoriale de Il Cittadino e per questo ha coinvolto anche la direzione competente, lima e mette a punto tutta una serie di cose: dal numero di pagine, alla cadenza con cui andrà in edicola, fino all’impaginazione. La redazione di Sanquirico, così si chiama la Casa circondariale, è formata da otto “giornalisti” ma il numero dei partecipanti può variare e possono cambiare gli stessi redattori, data la possibilità di essere trasferiti o, avendo scontato la pena, lasciare l’istituto. Il gruppo può anche aumentare, avendo pensato bene la direzione di estendere la partecipazione anche agli altri detenuti che, volendo, potranno far arrivare in biblioteca i loro articoli. Ed è sempre in biblioteca che tutti i lunedì dalle 13 alle 16 si tengono le riunioni di redazione. Antonetta Carrabs guida il confronto fra i redattori, che leggono, approfondiscono e scrivono i loro articoli. La scintilla che ha acceso il desiderio - ancor prima che il progetto venisse prospettato a Claudio Colombo - è stato il laboratorio di narrazione tenuto in carcere da Antonetta Carrabs, presidente di Zeroconfini, un’associazione culturale umanitaria che, come si legge sul sito web “opera all’insegna della tutela dei diritti civili, della salvaguardia e del rispetto dei diritti umani, favorendo attraverso l’arte, il dialogo interculturale”. L’”aiuto morale e spirituale delle persone disagiate” e il “sostegno di soggetti svantaggiati” sono alcune delle motivazioni che hanno portato questa associazione a operare negli istituti penitenziari. Ed è da questo laboratorio, che lentamente nasce e prende forma nei detenuti che vi partecipano un’esigenza più profonda. La narrazione che si trasforma in scrittura diventa un modo per capirsi e capire, una forma di analisi e comprensione di sé e del proprio vissuto. Un modo, lento e forse anche doloroso, per riavvicinarsi alla realtà là fuori. Insomma attraverso la lettura e la narrazione, trovare la voglia e le parole per raccontare il dentro al fuori. Il laboratorio di narrazione dal titolo quasi catartico Parola, liberami!, è stato il volano, chissà quanto innocente, che ha innescato questo progetto editoriale che a febbraio di quest’anno è arrivato al 3° numero e, a breve, dovrebbe portare in edicola il 4°. Se la redazione de Il Cittadino si occupa, come è chiaro vista la maggiore esperienza, di correggere gli articoli e titolarli, corredarli di fotografie e impostarli graficamente, sono però i “giornalisti embed” che decidono cosa far uscire, quali gli argomenti: raccontano storie personali, come quella che ha aperto il 2° numero: “Il giorno in cui ho perdonato mio padre”; raccolgono testimonianze, come quella di Joele, fuggito dal Marocco in cerca di un futuro migliore e finito in carcere, dove sta cercando di farsi forza per scrollarsi di dosso gli errori commessi e ridiventare “un ragazzo umile di campagna”. C’è la sezione Masterchef, con ricette da tutto il mondo, dal dolce albanese alla crostata mediterranea; ci sono i corsi dove hanno la possibilità di apprendere cose nuove, come la coltivazione biologica nelle serre che loro stessi hanno rimesso a nuovo, o rammentare quelle dimenticate, come la lettura dei giornali che li aiuta a rileggere il mondo. C’è un articolo, nel numero dello scorso febbraio, dedicato ai volontari in carcere che dice tra l’altro: “Sono persone come loro che ci aiutano a superare l’altezza e lo spessore dei muri che ci separano dall’esterno”. Un giornale, a pensarci bene, può essere l’asta per saltare il muro che li divide da chi è fuori. Un giornale può diventare un ponte ideale e continuativo tra l’ambiente carcerario e quello, ben più vasto, che lo circonda. Un giornale, questo giornale, può abbattere i muri e andare Oltre i confini. Castrovillari (Cs): “Siddiavo”, nasce un sito internet per gli studenti detenuti abmreport.it, 29 maggio 2019 È stato presentato ieri presso la Casa Circondariale di Castrovillari il sito web kutambulula.eu. Sito realizzato dall’Istituto Ipseoa di Castrovillari che da tempo collabora con l’Istituto Penitenziario in diversi progetti. All’interno vi è una sezione curata dalla docente Anna Maria Rubino “Siddiavo” che raccoglie lavori, pensieri e poesie realizzati dagli alunni detenuti della casa circondariale negli ultimi tre anni. Un progetto importante, per certi versi unico, che apre le menti al confronto e al dialogo andando oltre ogni tipo di pregiudizio grazie ad una esperienza che è diventata un percorso educativo teso a valorizzare i concetti di accoglienza e diversità. Questo progetto nasce con l’intento “di rendere visibile l’invisibile” in una società troppo spesso pronta ad etichettare tutto e tutti. Ieri tra poesie, momenti teatrali e musicali curati dai detenuti si è dato modo di conoscere l’importante lavoro svolto in questi anni nelle varie sottosezioni. Il Direttore dell’Istituto Penitenziario Giuseppe Carrà, ringraziando coloro i quali hanno reso tutto ciò possibile, ha rimarcato l’importanza del progetto e il suo significato. Kutambulula’ nel linguaggio del popolo bantu significa ricevere. “Ciò non traduce semplicemente un ricevimento guidato da criteri individualistici e soggettivi ma stabilisce che, nel farlo, si deve dare il meglio di se stessi, perché chi ospita deve rappresentare tutta la comunità a cui appartiene, comunità che è composta, in questo caso, da tutti gli operatori penitenziari, dai volontari, dagli insegnanti e dalla popolazione detenuta” afferma Carrà che nel suo intervento ha immaginato “questo laboratorio social agli antipodi - come se fosse una bottega artigiana” che “non è solo un luogo di lavoro, ma anche di trasmissione di una passione alla vita, al bello. Immaginiamo il carcere come una bottega d’altri tempi ovvero dei luoghi ospitali, ordinati e guidati da un Maestro d’arte che, in questo caso, può essere l’insegnante ma anche il volontario, il sacerdote e tutta quella cerchia di persone che, sacrificando tempo e famiglia, cerca di introdurre un’esperienza che tiene conto di più fattori (relazioni, lavoro, integrazione sociale, autostima, gusto del fare) introducendo positività” Milano: 300 mq per i giochi dei bimbi, ecco la ludoteca nel carcere di Bollate gnewsonline.it, 29 maggio 2019 È stata inaugurata la nuova ludoteca del carcere di Bollate (Milano), un’area di 300 metri quadri pensata per ospitare i bambini in visita ai genitori detenuti. Lo spazio è il risultato del progetto “Liberi di giocare”, realizzato da Sopra Steria Group, ed è stato presentato oggi alla presenza di Silvia Piani, assessore regionale alle Politiche per la famiglia, Cosima Buccoliero, direttrice del carcere di Bollate, Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, e Stefania Pompili, amministratore delegato di Sopra Steria Group. “Sono entusiasta del restyling della ludoteca, uno spazio importante per rendere il momento dell’incontro tra le famiglie il più sereno possibile e, soprattutto, a misura di bambino”, ha detto la direttrice Cosima Buccoliero. “Siamo orgogliosi di aver contribuito, veramente in prima persona, a un progetto per i più piccoli e di aver lavorato fianco a fianco con gli operatori e gli ospiti della Casa Penitenziaria”, ha aggiunto l’ad di Sopra Steria Group Stefania Pompili. Volterra (Pi): protesta dal carcere “perché bloccate il progetto di costruzione del teatro?” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 maggio 2019 Il progetto per Volterra c’è, ma non ha l’ok. Protestano regista e garante dei detenuti. I soldi ci sono, e sono tanti, circa un milione di euro. Ma il progetto, da almeno un anno, è fermo. Stiamo parlando del progetto di un teatro da 200 posti nel carcere di Volterra per cui, come ha spiegato il garante dei detenuti toscani Franco Corleone, “l’amministrazione penitenziaria ha stanziato circa un milione di euro ma al momento resta bloccato a causa della burocrazia, del temporeggiamento delle istituzioni e dei dubbi di alcuni degli attori coinvolti, tra cui la sovrintendenza pisana che ha cambiato guida recentemente”. Nello specifico, il teatro dovrebbe essere ricavato nel Bastione del Cassero, zona Fortezza medicea ora non utilizzata. L’idea di realizzare un teatro nel carcere a Volterra è nata trent’anni fa grazie ad Armando Punzo, drammaturgo e regista, direttore del teatro di San Pietro a Volterra e noto soprattutto per le attività coi detenuti nel penitenziario della cittadina toscana attraverso la Compagnia della Fortezza. “Il teatro e tutto il suo indotto - ha detto Punzo - hanno modificato un carcere che in passato era noto per la sua durezza. Ha attraversato lo spazio della pena, costruendo ponti con la società esterna e realizzando una metodologia di lavoro teatrale apprezzata a livello internazionale. A Genova, nel carcere di Marassi, è stata realizzata ex novo, in un cortile in disuso, una sala da 200 posti, Il teatro dell’Arca. Perché a Volterra questo non si può fare?”. Non basta, Punzo ha anche ricordato le difficoltà avute, in tutti questi anni, a lavorare “in locali di fortuna e inadeguati (una cella di tre metri per nove) e di spettacoli interni alla fortezza che si sono svolti teatralizzando cortili dell’aria e ambienti di servizio” Un’offerta culturale, quella del teatro in carcere, che permette di evadere con la mente ai reclusi del penitenziario in provincia di Pisa e che da anni funziona da strumento rieducativo per i tanti reclusi che non sono soltanto spettatori, ma vengono coinvolti come attori partecipanti negli spettacoli. Il garante Corleone ha poi aggiunto: “C’è un’idea, ci sono i finanziamenti e ci sono i progetti, adesso è il momento di rompere il guscio di immobilismo incredibile e incomprensibile e di partire con i lavori. Tutto questo è fantascienza”. Per chiedere la realizzazione del teatro in carcere, è stata lanciata una petizione sulla piattaforma change.org, che ha già raggiunte circa 500 firme. “Ho dato quindici giorni di tempo al provveditore dell’amministrazione penitenziaria, ai progettisti e alla sovrintendente di Pisa per avere risposte concrete - ha concluso Corleone - Se queste non ci saranno, io inizierò lo sciopero della fame”. Modena: “Sognalib(e)ro”, seconda edizione promossa in 18 carceri modena2000.it, 29 maggio 2019 Un nuovo appuntamento con libri, lettura e scrittura si è svolto lunedì 27 maggio nel carcere di Sant’Anna di Modena con Laura Morante. La regista e attrice ha presentato il suo libro d’esordio, “Brividi immorali” (La nave di Teseo, 2018), e ha dialogato con i detenuti e con il giornalista Bruno Ventavoli di Tuttolibri - La Stampa nell’ambito del premio nazionale per le carceri “Sognalib(e)ro”. Nel frattempo, con l’approvazione nei giorni scorsi da parte della Giunta, prende ufficialmente il via la seconda edizione del premio promosso dal Comune di Modena, assessorato alla Cultura, con Direzione generale del ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e sostegno di BPER Banca. Il concorso, ideato e diretto da Bruno Ventavoli in collaborazione col Comune, mira a promuovere lettura e scrittura nelle carceri come strumento di riabilitazione, dando espressione all’articolo 27 della Costituzione. Di particolare rilievo umano, culturale e sociale, il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà, essere pubblicato da Giunti editore. Per la seconda edizione di Sognalib(e)ro sono stati individuati dal ministero della Giustizia 18 istituti, dove sono attivi laboratori di lettura o di scrittura creativi: la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di Reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza Saluzzo, Trento, Pescara, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna,; quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Come già nell’edizione 2018, il Premio Sognalib(e)ro si articola in due sezioni. Nella Sezione Narrativa italiana (che comprende anche il Premio speciale Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura degli Istituti attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi: “La straniera”, di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019); “Fedeltà” di Marco Missiroli (Einaudi, 2019); “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018). La Giuria è composta da gruppi di detenuti in ogni istituto. Ogni componente dovrà esprimere la preferenza attribuendo 3 punti al libro migliore, 2 al secondo e 1 punto al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore incaricato che raccoglierà i voti della giuria interna e li trasmetterà al Comune di Modena. Tutti i voti trasmessi riferiti alla medesima opera, sommati determineranno il romanzo vincitore. Il premio consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore a tutti gli Istituti partecipanti, accrescendo così il patrimonio librario degli Istituti di detenzione. Lo scrittore vincitore, inoltre, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Nella sezione Inedito, invece, una giuria di esperti presieduta da Bruno Ventavoli e composta dal disegnatore satirico Makkox, e dagli scrittori Barbara Baraldi e Paolo di Paolo affiancati da Antonio Franchini, editor Giunti, attribuirà il premio a un’opera inedita (romanzo, racconto, poesia) prodotta da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto un sogno…”. La giuria sceglierà a maggioranza il miglior testo esprimendo la valutazione con un giudizio sintetico. Il premio consiste nella donazione di libri alla biblioteca del carcere dove è recluso il vincitore, da parte della editrice Giunti. Qualora i testi vincitori possiedano le caratteristiche necessarie, saranno pubblicati dalla medesima casa editrice in un’antologia tematica. Il Comune di Modena, inoltre, si riserva di assumere ulteriori iniziative di divulgazione dei testi in concorso (nella prima edizione, ad esempio, i testi sono stati pubblicati dalla casa editrice civica digitale del Comune di Modena il “Dondolo”, diretta da Beppe Cottafavi). La partecipazione al Premio è aperta ai cittadini italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza limiti di età, attualmente detenuti negli istituti penitenziari individuati dal Ministero della Giustizia. A ogni detenuto è consentito partecipare a una o a entrambe le sezioni. Per la prima, ogni Istituto deve far pervenire entro il 15 novembre 2019 all’indirizzo mail info.cultura@comune.modena.it il punteggio attribuito dagli aderenti al proprio gruppo di lettura a ogni libro candidato. Per la seconda sezione, ciascun autore può inviare al massimo due opere inedite che devono essere in lingua italiana, in forma dattiloscritta e spedite entro il termine del 15 novembre 2019, via e-mail (info.cultura@comune.modena.it). A Modena, l’attenzione dell’Amministrazione comunale e di associazioni di volontariato e culturali nei confronti della realtà penitenziaria, ha portato a realizzare numerosi e diversi progetti dentro il carcere, con l’obiettivo di concorrere a un’azione di coinvolgimento dei detenuti in attività di recupero e rieducazione, nella cornice di una interrelazione positiva tra carcere e società. È in questo solco che il Comune di Modena promuove il premio “Sognalib(e)ro” attraverso le proprie biblioteche. Ragusa: “Liberaci dai nostri mali”, sabato presentazione del libro di Katya Maugeri ragusah24.it, 29 maggio 2019 Un’indagine che va oltre il reato, quella realizzata dalla giornalista siciliana Katya Maugeriin “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento”, con la prefazione di Claudio Favae la postfazione del giornalista de “La Repubblica”, Salvo Palazzolo, edito dalla Villaggio Maori Edizioni. Un viaggio-inchiesta nelle carceri, arricchito dal progetto fotografico di Alessandro Gruttadauria. Sette detenuti raccontano le loro storie, i loro errori, le loro debolezze, i rimpianti e la speranza di costruire un nuovo progetto di vita. L’autrice indaga le vite dietro le sbarre di chi, oltre agli errori commessi e l’etichetta di “carcerato”, rimane un essere umano. Non c’è assoluzione nelle sue riflessioni: nelle sue “ore d’aria” annota le sue emozioni di intervistatrice e riesce a raccontare le difficili condizioni psichiche di chi ha commesso un reato, e di chi, fuori da una cella, ha lasciato rimpianti e sogni. Il libro sarà presentato a Ragusa, sabato 1 giugno alle 17 nei Laboratori teatrali Bottega dell’Attore di Germano Martorana in via Ercolano 55. A dialogare con l’autrice, Chiara Cultraro mediatrice penale minorile, socia Aimepe, Dina Cassarino assistente sociale e presidente dell’associazione Cad - centro ascolto del disagio e Valentina Guerrieri, assistente sociale e vicepresidente Cad. Letture a cura di: Germano Martorana (attore regista e direttore artistico della Bottega dell’attore di Ragusa). Tra le tematiche affrontate, la tossicodipendenza, con il contributo del Centro di solidarietà Il Delfino di Cosenza, la criminalità organizzata, la giustizia riparativa, la triste realtà dei suicidi in carcere, con la testimonianza di Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia e le riflessioni di Mario Conte, consigliere Corte d’Appello di Palermo. “Liberaci dai nostri mali” non è solo un’inchiesta: è il racconto di una realtà di cui bisognerebbe avere coscienza, superando sbarre, muri e pregiudizi. Palermo: “Transiti”, al Pagliarelli l’8 giugno in scena i detenuti-attori di Antonella Lo Cicero Il Sicilia, 29 maggio 2019 Un viaggio chiamato vita, tra imprevisti, attese e qualche volta un profondo vuoto da attraversare. Una riflessione intima sul valore che diamo al tempo. Si chiama “Transiti”, il nuovo spettacolo che la compagnia teatrale Evasioni mette in scena l’8 giugno alle 18 alla Casa Circondariale Pagliarelli - Lo Russo di Palermo, frutto di un anno di lavoro dei detenuti ospiti, diretti dalla regista Daniela Mangiacavallo, sui testi originali del drammaturgo Rosario Palazzolo. Volti assonnati, infreddoliti, stanchi e malinconici attendono un treno di cui un misterioso speaker annuncia il ritardo. Da quel momento un’umanità distratta e assetata di ignoto si aggira tra i binari in attesa di intraprendere una metaforica avventura. Un’interminabile attesa fatta di incontri addii, arrivederci per scoprire che il cammino è prima di tutto un’occasione per incontrare se stessi. “Transiti” va in scena con i costumi realizzati all’interno del carcere frutto di un corso di sartoria teatrale realizzato dall’associazione “Baccanica”: i detenuti armati di ago e filo hanno lavorato alla preparazione dei costumi guidati da Giulia Santoro. Anche le scenografie sono state realizzate dagli ospiti del Pagliarelli, impegnati in un progetto sui mestieri in carcere, finanziato dalla Fondazione Acri - programma Per Aspera ad Astra. Metro, stoffe, colori per tessere una nuova vita e un sogno oltre le sbarre. Si ringrazia La Direzione della Casa Circondariale Pagliarelli Lo Russo, l’Area Educativa, l’Amministrazione Penitenziaria, il Ministero di Giustizia, l’Assessorato al Turismo Sport e Spettacolo, l’Associazione Acri. Per poter partecipare allo spettacolo occorre inviare una email a associazionebaccanica@gmail.com entro il 30 maggio indicando i propri dati anagrafici. Macerata: presentazione del libro dei ricordi di detenuti e migranti di Marina del Tronto vivereascoli.it, 29 maggio 2019 I racconti e i ricordi dei detenuti e di alcuni giovani migranti della casa circondariale di Marino del Tronto Venerdì 31 maggio, alle ore 9.30, all’Auditorium ITE “Alberico Gentili”, in via Cioci, 6 a Macerata, sarà presentato il libro “La luna è dietro le sbarre, il mare ha il colore del sole” che ha preso forma dall’esperienza della scuola di istruzione per adulti nel carcere di Marino del Tronto. Interverranno gli autori Glauco Giostra Ordinario di procedura penale, Facoltà di Giurisprudenza Università degli Studi di Roma La Sapienza e Francesco Petrelli dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Modera i lavori Riccardo Minnucci Videomaker di Popsophia. Il progetto “La Scuola in Carcere” - ricorda la Dirigente scolastica del Centro Provinciale Istruzioni Adulti di Macerata Sabrina Fondato - si è svolto per la maggior parte nella casa circondariale di Marino del Tronto. Sono state raccolte brevi testimonianze riportate da parte di alcuni detenuti e di alcuni giovani migranti, riguardanti ricordi ed esperienze che ricostruiscono le loro storie di vita. Il progetto rappresenta un tentativo di sviluppare un percorso di integrazione socio-culturale attraverso forme di scrittura partecipata, che ripercorra, attraverso la memoria, i momenti più importanti della vita delle persone che hanno accettato di coinvolgervisi. Le storie di vita sono state raccolte tramite incontri, interviste e laboratori di scrittura con i detenuti ed i migranti, che privilegiassero l’ascolto e l’empatia come atteggiamento da parte degli insegnanti promotori del progetto. La pubblicazione che ne è derivata è stata fortemente voluta dalla dirigente prof.ssa Sabrina Fondato e dal prof. Nazzareno Cioni, docente di lettere nella casa circondariale, che hanno creduto nel valore educativo e di integrazione del progetto stesso, che mira a far riflettere gli autori delle storie sui loro percorsi di vita personali. Per la parte grafica la prof.ssa Isabella Crucianelli ha generosamente messo a disposizione le immagini delle proprie opere che meglio potevano essere associate al significato profondo dei racconti. L’attuale fase di disseminazione si pone l’obiettivo di accrescere la conoscenza della comunità scolastica intorno alle circostanze di vita che possono favorire episodi di devianza e di rimuovere qualche pregiudizio nei confronti dell’alterità, del diverso, che possono manifestarsi in tante forme nella società di oggi. Radio Radicale, appello trasversale al M5S di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 maggio 2019 Tutti i partiti tranne uno insieme al sit-in organizzato dall’Fnsi in piazza Montecitorio contro il bavaglio alla libera informazione. La richiesta è di riammettere gli emendamenti respinti e lasciare decidere l’Aula. “Non può essere il governo a decidere quali giornali vanno in edicola e quali non sono necessari al pluralismo dell’informazione. Non può essere il governo a decidere se Radio Radicale debba continuare o no a fornire il servizio pubblico che garantisce da 43 anni”. È una regola del nostro Stato, non un punto di vista, il concetto affermato da Matteo Bartocci. Il direttore editoriale de il manifesto è intervenuto ieri, a nome delle cooperative editrici della Legacoop, al presidio organizzato dalla Federazione nazionale della stampa in piazza Montecitorio per opporsi al colpo di mano imposto dal M5S all’intero arco parlamentare, nessuno escluso. E infatti c’erano rappresentanti di tutti i partiti, a prendere parte alla maratona oratoria in favore dell’organo della Lista Marco Pannella: dalla Lega a Leu, dall’Altra Europa con Tsipras a Fratelli d’Italia, da Forza Italia al Pd, oltre naturalmente a tutti i partiti della galassia radicale. “Chiediamo che si dia al Parlamento la possibilità di pronunciarsi - scandisce il segretario nazionale dell’Fnsi, Raffarle Lorusso aprendo il sit-in - e che vengano messi in votazione gli emendamenti per salvare Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire e tante altre piccole testate che sono l’ossatura del pluralismo e danno voce a territori che altrimenti non ne avrebbero”. “L’inammissibilità significherebbe il bavaglio al Parlamento”, puntualizza il presidente dell’Fnsi, Beppe Giulietti. Ci sono due decreti sui quali si può intervenire per scongiurare il rischio di una chiusura immediata dell’emittente che ha poche settimane di autonomia finanziaria, dopo il blocco della convenzione con il Mise per la trasmissione delle sedute parlamentari assegnata a Radio Radicale - come ha ricordato il presidente dell’Ars, Vincenzo Vita - tramite un bando pubblico in applicazione della legge 224/1998. Un servizio definito “di interesse generale” dall’Agcom in una segnalazione urgente inviata più di un mese fa al governo. Perché, come dice il deputato dem Roberto Giachetti, da 12 giorni in sciopero della fame (e 5 senza bere, prima di finire in ospedale), “si può ragionare su una soluzione, che riguardi la Rai o altro, ma non c’è nessuna soluzione che prescinda da una proroga della convenzione, senza la quale il servizio si interromperà e Radio Radicale sarà costretta a chiudere”. Oggi alla Camera, nelle Commissioni riunite Bilancio e Finanza, verrà riproposta la riammissione degli emendamenti (di Lega, Leu e Pd) al decreto “Crescita” bocciati dal M5S. Se, dopo la batosta elettorale, Di Maio avrà ammorbidito le sue posizioni (e quelle del sottosegretario Crimi), i presidenti potrebbero lasciare che a decidere sia l’assemblea dei deputati. Emendamenti che possono essere presentati anche direttamente in Aula, col permesso del presidente Fico, uno dei pochi del M5S non pregiudizialmente contrario. Al Senato invece (dove il 5 giugno si discuterà una mozione ad hoc) spetta alla presidente Casellati rivedere l’inammissibilità degli emendamenti presentati da Leu, Pd e FdI allo “Sblocca cantieri”, ma c’è il rischio che, come spiega la senatrice Loredana De Petris, “senza il consenso degli inamovibili 5 Stelle, non si riesca a superare la difformità di argomenti, come è stato fatto invece per l’emendamento sulla videosorveglianza negli asili”. Di fatto però anche la Lega - alla quale l’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha chiesto di mediare con il M5S - non sembra disposta ad intraprendere un braccio di ferro con gli alleati di governo anche sull’informazione. Dal sit-in, dove erano presenti tra le tante associazioni anche Stampa romana, Usigrai, Articolo 21, Cgil e l’Ordine dei giornalisti, e hanno fatto capolino le ex ministre Beatrice Lorenzin e Marianna Madia, sono stati lanciati appelli anche dal cdr de L’Unità, da Renato Brunetta (Fi), Andrea Marcucci e Walter Verini (Pd), Fabio Rampelli e Federico Mollicone (Fdi), Stefano Fassina (Sinistra italiana), Riccardo Magi (+Europa), Riccardo Noury (Amnesty Italia), Giuseppe Basini e Massimiliano Capitanio (Lega), Alfonso Gianni e Fausto Bertinotti che ha chiesto l’intervento del presidente Sergio Mattarella. Di pentastellati neppure l’ombra. Anche se, come ha fatto notare il direttore di Radio Radicale Alessio Falconio, “il M5S non è un monolite, se Primo Di Nicola, Emilio Carelli e altri hanno firmato la petizione a sostegno della nostra radio: è un fatto che non si può cancellare. E che ci rende più forti nell’affermare il diritto del conoscere per deliberare”. L’angoscia di queste ore si legge sul volto di Falconio e dei tanti redattori radicali presenti. “Siamo pronti a tornare”, promette però Giulietti. Non sono soli. Forse non siamo soli. È il momento di salvare Radio Radicale Il Foglio, 29 maggio 2019 La Lega ha tutto da guadagnare da una proroga della concessione. La manifestazione della federazione della stampa contro la chiusura di Radio Radicale conferma l’urgenza di riparare in extremis all’errore liberticida commesso col rifiuto di rinnovare la concessione. Ora che, dopo l’esito elettorale, la Lega ha promesso un cambio di passo dell’esecutivo, è possibile che la maggioranza trasversale che esiste in Parlamento possa lavorare per correggere quell’errore, almeno con una proroga. Un’ipotesi è che il Parlamento si esprima concretamente con l’approvazione di un emendamento ad hoc a qualche decreto in conversione. La Lega, che già aveva espresso la disponibilità alla proroga, avrebbe tutto da guadagnare da un’azione di questo tipo, che servirebbe, tra l’altro, a contraddire chi accusa Salvini di avere un comportamento autoritario e illiberale. Il ministro dell’Interno ora sa che il Movimento 5 stelle, che si oppone strenuamente - non si capisce bene perché - alla sopravvivenza dell’emittente, non può certo prendere a pretesto una votazione parlamentare differenziata per rompere il contratto di governo. Ci sono quindi condizioni politiche nuove che dovrebbero permettere di risolvere un problema e di evitare l’immagine di un paese che non sopporta la libertà di stampa e di opinione nelle sue espressioni concrete. Sul valore di Radio Radicale come effettivo servizio pubblico (che non vuol dire statale o governativo) si sono espressi esponenti di tutti gli ambienti culturali e professionali, compresi - e questo è particolarmente significativo - i colleghi delle altre testate informative. Radio Radicale si è conquistata questo apprezzamento pressoché unanime per aver saputo gestire un’informazione completa e non settaria. Sarebbe il caso che le istituzioni ne prendessero atto senza arroganza e senza perdere altro tempo. “Uomini come bestie” di Francesco Ceraudo, il medico degli ultimi recensione di Adriano Sofri Il Foglio, 29 maggio 2019 Prima di raccomandare un libro sul, anzi dal, carcere, voglio fare due osservazioni. Una lessicale, contro la frase fatta sulla galera, che “ci vanno solo i poveracci”. Frase piena di condiscendenza e distanza mascherate da commiserazione. In galera vanno i poveri. Poveraccio forse all’origine ebbe un tono compassionevole, ma presto approdò al disprezzo. Dite a uno a Roma “Sei un poraccio”, vuol dire non vali niente, nun sei un cazzo. Il Vangelo dice Beati i poveri, non beati i poveracci. Seconda osservazione: alla lunga, il sentimento italiano nei confronti del carcere si è involuto segnando fra l’altro la bancarotta di quanti, tra loro io, hanno provato a umanizzarlo (verbo ottimistico, niente di umano ci è alieno, ma neanche di disumano). Dei poveri ai poveri importa poco, e tanto meno ai benestanti ipocriti che dicono poveracci; ma non ha fatto che gonfiarsi, parallelamente al disgusto per le caste, le élite, “i politici” - “Ciài pure l’orologio!” - il desiderio e l’augurio vibrante della galera per i potenti. I quali ci vanno, in galera, benché sempre in minoranza. Sicché oggi un ricco può andare in galera - un anticipo del cammello nel regno dei cieli. Tutto questo sdegno per i ricchi e i ladri non ha accresciuto di un metro lo spazio dei poveri nel mondo né di un millimetro lo spazio dei poveri nelle celle: ha solo agguantato qualche ricco e potente esemplare. Bene: il libro è “Uomini come bestie”, l’autore è Francesco Ceraudo, “il medico degli ultimi” (ETS, Pisa, pp. 310). Là si capisce che cosa siano i poveracci. Il riconoscimento migliore che tributerei a Francesco Ceraudo, un pazzo che ha fatto per quarant’anni e per vocazione il medico del carcere, cioè dei carcerati, è che non si sarebbe mai, di fronte a qualunque autorità terrena o celeste, piegato a far passare la salute dei suoi curati dietro ragioni presunte superiori di sicurezza, regolamenti, abitudini. A Pisa c’era (non c’è più: sembra essersi applicata una tenacia metodica alla degradazione di quel carcere) un prestigioso Centro Clinico, alla cui ombra anch’io vissi per anni, quasi morii e provvisoriamente sopravvissi. Come qualunque detenuto, diffidai di Francesco Ceraudo. Qualunque detenuto, specialmente se non sia alla sua prima volta e si illuda ancora sul rispetto della legge e sul senso di umanità eccetera, diffida di tutto e tutti. Si è chiusi, invisibili al mondo di fuori, sorvegliati e spiati nell’universo di dentro - spioncini, è pieno di spioncini - ci si sente in balia dei custodi e lo si è davvero: si diffida. Si tengono le spalle al muro, si sta sul chi vive, si dorme con un occhio solo, quando si riesce a dormire: se no, non si chiude occhio. Del medico per definizione occorre potersi fidare. Si chiama così: medico di fiducia. Sapete com’è complicato il meccanismo psicologico che precede e tiene a bada la fiducia. Si diffida di chi è scostante, si diffida di più di chi è cordiale: sta facendo penzolare l’esca sotto il vostro naso. La vita vi ha insegnato: non accettare caramelle dai conosciuti. Un medico è un medico, e il suo codice ippocrateo deve restare in vigore dovunque si trovi: già. Ma il carcere ha un precetto supremo e ingordo: la sicurezza. “Assicurare” le persone detenute: cioè rassicurare le altre, quelle a piede libero, assicurando e ribadendo ben bene i ceppi di quelle recluse. Ceraudo stava dalla parte della “sicurezza” o della salute? Ci misi poco a decidere: stavo bene, mi regolavo su come venivano trattati gli altri, quelli che stavano male o malissimo. I malati di Aids, i positivi al virus Hiv: il carcere era un deposito di questi malati, giovani specialmente, e poi di epatite, di tbc… Mi sembrava incredibile che si tenessero in galera persone malate di Aids, come si diceva, “conclamato”. Mettemmo su una mobilitazione su questo disastro, scioperi, digiuni. Ceraudo si mostrava indipendente, non temeva di entrare in rotta con le autorità, comprese quelle del governo nazionale. Diceva di sé: “Sono un cane che abbaia alla luna”. Successe che l’associazione dei medici penitenziari da lui presieduta, seguita dagli infermieri, affiancasse un digiuno collettivo dei detenuti, con un proprio sciopero contro i tagli imponenti al bilancio della sanità penitenziaria. Lessi con speciale piacere la seguente frase del loro manifesto: “I medici e gli infermieri, per il rispetto che portano ai propri pazienti, non abbandoneranno il posto di lavoro e devolveranno il corrispettivo di una giornata lavorativa alla cassa per i detenuti abbisognevoli”. Bella parola: abbisognevoli. Mi ricordava il dottor Antonio, del romanzo risorgimentale di Giovanni Ruffini. Il resto lo leggerete, se volete. “Ancora un giro di chiave”, la storia di Antonino Marano raccontata da Emma D’Aquino recensione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 maggio 2019 Il “killer delle carceri” è dentro da 50 anni ma fu arrestato per un furto di melanzane. Sabato scorso ha varcato nuovamente i cancelli del carcere, ha 75 anni e ha già scontato quasi 50 di galera. Ma la sua è una storia particolare, perché era stato arrestato per piccoli reati, ma dietro le sbarre è diventato un vero e proprio criminale. “Le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti” disse Filippo Turati, il padre del socialismo italiano. Una citazione che cristallizza proprio la storia del signore tratto in arresto il fine settimana scorso nella località di Giarre, in Sicilia. Si chiama Antonino Marano, ed è uno dei “killer delle carceri”, protagonista di vari episodi che segnarono la cronaca criminale degli anni 80. Divenuto sicario di grosso spessore criminale e autore di vari gesti eclatanti, evase anche dal carcere di piazza Lanza di Catania, nel 1978, assieme ad altri tre complici. La sua storia è narrata dal libro uscito da qualche mese dal titolo “Ancora un giro di chiave” e l’autrice è la giornalista televisiva Emma D’Aquino. Un titolo profetico, perché, appunto, ha appena subito un altro giro di chiave. È il 31 gennaio del 1965 quando Marano entra in carcere per aver rubato melanzane e peperoni, la ruota di un’Ape e una bicicletta. L’aveva rubata, racconta nel libro, “per andare a lavorare come manovale, non l’avessi mai fatto. Ci sono rimasto per un’eternità. La cella, la coabitazione coatta mi hanno trasformato. Dietro quelle sbarre le mie mani si sono macchiate di sangue e io sono diventato un assassino”. Una volta, nel carcere di San Vittore, a Milano, assieme ad un suo complice, Marano urlò di essere in possesso di una bomba, e fece irruzione nella cella di Andraus per ucciderlo con un tubo della doccia che “avevamo staccato con le mani” per “assassinare un infame”. L’intervento degli agenti penitenziari bloccò il tentativo di omicidio. Durante il processo, in cui furono condannati a 17 anni di carcere ciascuno, i due non spiegarono ai giornalisti il movente: “Se Andraus fosse morto si poteva dire, ma purtroppo è vivo. Quando morirà ne riparleremo...”. Il 5 ottobre 1987, Marano e il complice Antonino Faro furono vittime di un attentato nell’aula della corte d’Assise di Milano: durante la requisitoria del pm Francesco Di Maggio, al processo Epaminonda, il detenuto Nuccio Miano esplose diversi colpi di pistola contro di loro, ferendo però per errore due carabinieri. Il tentativo di vendetta era arrivato un anno dopo. Il 7 novembre 1988, nell’aula bunker delle Vallette di Torino, si celebrava un processo- stralcio contro il clan dei catanesi, davanti alla corte d’Assise presieduta da Gustavo Zagrebelsky. Da una delle gabbie, Marano lanciò una bomba carta contro le celle in cui si trovano i fratelli Nuccio e Luigi “Jimmy” Miano. L’ordigno artigianale, realizzato con dell’esplosivo nascosto dentro un pacchetto di sigarette, colpì però una canaletta elettrica e un termosifone in ghisa, sventrato dall’esplosione. Non aveva neanche un avvocato quando un giudice si occupa per la prima volta di lui: i furti vengono considerati “in continuazione”, fanno cumulo, e lui si ritrova con una condanna a quasi undici anni. Entra ed esce di prigione fino al 13 giugno del 1973, quando varcando la soglia del penitenziario di Catania ha inizio il suo peregrinare, da nord a sud, per le patrie galere: da Pianosa a Voghera, da Alghero a Porto Azzurro fino a Palermo, spesso nelle sezioni di Alta Sicurezza. Il 22 maggio 2014, dopo quarantanove anni, due omicidi, due tentati omicidi e due condanne all’ergastolo, Nino Marano, il detenuto più longevo d’Italia per reati commessi in carcere, ha ottenuto la libertà condizionale. Fino però ad arrivare a pochi giorni fa, quando, è stato tratto nuovamente in arresto dai carabinieri di Giarre con addosso una pistola ben oliata nella piccola tracolla che indossava: un colpo in canna, caricatore pieno, matricola abrasa. Pronta all’uso. Difficilmente una rapina, ritengono gli inquirenti. È più probabile che, invece, ci fosse in ballo un regolamento di conti di qualche genere da cui difendersi o da compiere. Ma questo ancora non si può sapere. L’unica cosa certa è che era entrato in carcere per un piccolo furto ed era uscito con alle spalle condanne per omicidi. Dipendenze da droga e alcol, l’Autorità garante: “Si abbassa l’età, aumentare i controlli” garanteinfanzia.org, 29 maggio 2019 Chiesta più attenzione sulla vendita di alcolici. Serve una risposta sistematica, valorizzando le buone pratiche presenti in Italia. Inviata una nota di sensibilizzazione a Governo, Regioni e Comuni Dipendenze da droga e da alcol tra i minorenni: l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha scritto al Governo, alla Conferenza delle Regioni e a quella Stato Città. Con una nota di sensibilizzazione, la Garante Filomena Albano ha indicato 13 azioni da intraprendere a tutela di diritti fondamentali delle persone di minore età, primo tra tutti quello alla salute. Tra di esse quella di riconoscere precocemente i preadolescenti a rischio di dipendenze, assegnando un ruolo importante ai pediatri di libera scelta e ai medici di famiglia. “Bisogna aumentare la frequenza dei controlli periodici, i cosiddetti ‘Bilanci di salutè, tra i 10 e i 14 anni” ha chiesto l’Autorità garante. “Vanno rafforzati, a livello locale, i controlli sul rispetto dei divieti di vendita ai minori di 18 anni nei luoghi frequentati da giovani e giovanissimi”. “Sono sempre più numerosi i giovanissimi che fanno uso di sostanze stupefacenti e alcoliche” osserva Filomena Albano. “E come testimonia la comunità scientifica, si comincia sempre prima. È cambiato il modo di consumare droga, si allunga sempre di più l’elenco delle sostanze che eludono le norme vigenti e che possono essere reperite via internet”. L’Autorità garante ha ascoltato istituzioni, operatori e professionisti del settore. Dalle audizioni è emerso un quadro con esperienze di rilievo, ma con un’offerta disomogenea sul piano nazionale. Che fare? “Non si può sintetizzare in una sola azione ciò che è necessario e possibile fare: prevenzione e presa in carico, pure se precoce, sono solo due dei possibili interventi” risponde Filomena Albano. Oltre all’incremento dei controlli tra 10 e 14 anni, l’Autorità garante ha suggerito - al compimento del 14° anno di età - che i pediatri trasmettano al medico di famiglia la scheda clinica dei ragazzi. Chieste campagne di sensibilizzazione, in particolare tra le giovani in età fertile, per informare i ragazzi sulle conseguenze dell’abuso di alcol. L’Autorità garante ha raccomandato di promuovere il rafforzamento dell’autostima degli studenti e di coinvolgere gli adolescenti nella costruzione di siti e campagne di informazione. Chiesti corsi di formazione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per gli agenti impegnati nei controlli. Suggeriti l’aggiornamento delle tabelle delle sostanze stupefacenti, l’analisi dell’applicazione dell’art. 75 del DPR 309/90 e la diffusione delle prassi più interessanti attivate dai Servizi sociali delle Prefetture a fini dissuasivi. Da attribuire, infine, alle unità mobili di prossimità anche la competenza a promuovere sani stili di vita. Droghe. Riduzione del Danno, il Piemonte rompe il silenzio di Susanna Ronconi Il Manifesto, 29 maggio 2019 Correva l’anno 2017, gennaio, quando servizi e prestazioni della Riduzione del Danno (RdD) divennero LEA, Livelli Essenziali di Assistenza. Cioè, dovuti ad ogni cittadino che consuma droghe sul territorio nazionale, per promuoverne la salute e prevenire i rischi e i danni potenziali correlati al consumo. Dovuti e, soprattutto, esigibili, perché i LEA sono questo, un diritto. In due anni e mezzo, però, nessun atto governativo ha tradotto questa norma in un diritto esigibile, a cominciare dal Ministero della Sanità, che del monitoraggio dei LEA è responsabile, sebbene la loro concreta implementazione spetti poi alle Regioni. Un anno dopo, nel 2018, una vasta azione delle associazioni per la RdD, la campagna “LEA. La RdD è un diritto”, metteva attorno a un tavolo alcune Regioni - quelle già attive da anni sulla RdD - puntando sul loro coinvolgimento e responsabilità, a fronte dell’immobilismo governativo (rdd.fuoriluogo.it). Tra regioni, il Piemonte ha risposto istituendo un Tavolo tecnico con il compito di redigere la proposta dei LEA della RdD regionali, e dopo un lavoro di meno di un anno, il 12 aprile di quest’anno è stata approvata la relativa delibera della Giunta regionale (DGR). I LEA della RdD piemontese sono un buon apripista. Sono redatti sulla base della conoscenza dei diversi modelli di consumo e dei bisogni di salute dei consumatori, sono supportati da evidenze e indirizzi tratti dalle linee guida dell’EMCDDA, l’Osservatorio europeo sulle droghe, e includono note e standard minimi utili ad una implementazione pragmatica e coerente. Non è secondario, per la qualità del testo, il percorso partecipativo che il Tavolo ha messo in atto: sono state presenti infatti tutte le competenze, dai Dipartimenti dipendenze delle Asl regionali, al terzo settore, a associazioni di ricerca, come Forum Droghe, fino - ed è forse la prima volta per un tavolo istituzionale - all’associazione torinese delle persone che usano sostanze. La redazione dei LEA si è avvalsa di tutte queste competenze, ed è, questo, un processo virtuoso da diffondere. Il testo include tipologie di servizi e specifiche prestazioni, molte di queste ultime - ed è importante - devono essere offerte su tutto il territorio regionale non solo all’interno dei servizi mirati (drop in, unità e interventi di strada) ma anche attraverso i SerD, e devono essere garantire anche in carcere. I LEA includono, tra le altre, il drug checking, la distribuzione di naloxone, l’attivazione del peer support. Il tavolo tecnico ha chiesto ed ottenuto di essere un tavolo stabile: si sa che definire i LEA è un primo passo, vanno poi implementati, promossi presso tutte le Asl e coperti economicamente. E dunque, c’è un grande lavoro da fare. Ma intanto, si può cominciare. La Commissione Salute e il Coordinamento tecnico dipendenze della Conferenza delle Regioni possono e devono, ora, prendere in mano la questione con decisione, e riempire l’imbarazzante vuoto e l’ingiustificabile latitanza del governo centrale. E alla ministra della Salute Giulia Grillo le associazioni chiedono di rispondere alla richiesta di incontro che le hanno inoltrato tre mesi fa. Per non dire di chi dovrebbe colmare il vuoto di un Piano d’azione nazionale che non abbiamo (l’ultimo, quello del 2009, non essendo ratificato dalla Conferenza Stato Regioni, non è mai entrato in vigore), e che - essendo stati sanciti i Livelli Essenziali di Assistenza - non potrebbe che includere la RdD come parte strategica della politica nazionale. Guerra in Libia, più vittime e più sfollati. Haftar in rotta con l’Onu di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 29 maggio 2019 Conflitto senza soluzioni a breve termine. Si combatte sempre più intensamente a Tripoli. E l’Unhcr allestisce grandi campi profughi oltre il confine tunisino. Il generale della Cirenaica accusa l’inviato speciale Salamé di imparzialità e rilancia le voci sulla presenza di miliziani Isis provenienti dalla Siria nelle file di Serraj. “Sta iniziando sulla costa Sud del Mediterraneo una lunga e sanguinosa guerra”. Pur premettendo di “non essere Cassandra”, l’inviato speciale Onu Ghassam Salamè aveva lanciato l’avvertimento una settimana fa. È stato facile profeta, in Libia le speranze di arrivare in tempi brevi ad un cessate il fuoco e a un ritorno al dialogo si fanno sempre più fioche. I combattimenti nelle ultime ore si stanno di nuovo avvicinando al centro della città e le vittime civili negli ultimi giorni sono raddoppiate, mentre l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha appena finito di approntare enormi campi profughi - da 25 mila persone di capienza - al di là della frontiera tunisina per ospitare i libici in fuga dalla guerra, che evidentemente anche l’Unhcr non prevede risolta a breve. L’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Haftar che dal 4 aprile ha lanciato l’offensiva per “liberare la capitale dalle milizie e dai terroristi che combattono tra le loro fila” ora sta avanzando lungo la strada del vecchio aeroporto, chiuso dal 2014, a Salah al Din, dove sta ingaggiando una violenta battaglia a base di missili Grad a pochi di chilometri in linea d’aria dalla centralissima piazza dei Martiri. Le milizie a libro paga del premier Serraj per contrastare l’avanzata hanno richiamato rinforzi dalla città di Misurata, che già fornisce il grosso delle forze di difesa di Tripoli. Oltre all’aviazione, che nel fine settimana ha concentrato i raid sulla zona di Qasr bin Ghashir, dove dovrebbe essere l’acquartieramento delle truppe della Cirenaica. La luce elettrica e i collegamenti internet sono stati ripristinati solo ieri in tutto il quadrante meridionale della periferia cittadina, dopo un’interruzione di giorni a causa dei danneggiamenti. E due ospedali nell’area più calda sono finiti sotto tiro. L’Organizzazione mondiale della Sanità che soltanto lunedì scorso contava ancora solo una ventina di vittime civili, ha aggiornato il bilancio, raddoppiandolo, mentre i combattenti morti sono ora 562, i feriti 2.855 (106 i feriti civili) e gli sfollati oltre 82 mila. Haftar al quotidiano francese Le Journal du Dimanche ha ribadito che non intende fermare le operazioni militari per un cessate-il-fuoco né tanto meno ritirarsi. E ha anche accusato l’inviato Onu Salamé di “imparzialità”. Ciò che probabilmente lo ha infastidito di recente è stata la richiesta di Salamé al Consiglio di sicurezza di istituire una commissione d’inchiesta sulle forniture estere di armi che continuano ad affluire in Libia, su entrambi i fronti, in violazione dell’embargo Onu. A completare il quadro che sempre più fa somigliare la Libia a una nuova Siria, distante però solo poche decine di miglia marittime dalle coste meridionali italiane, c’è poi l’annuncio dell’arrivo in massa di combattenti qaedisti in fuga proprio dalla Siria. Giorni fa un membro libico della missione Unsmil dell’Onu, Medhi al Mijrabi, in una lettera al ministro degli Esteri di Tripoli, Mohamed Taher Siala, ha rivelato come lo stesso Salamé in una comunicazione riservata al Consiglio di sicurezza avesse accreditato l’ingaggio di combattenti provenienti da Idlib tra le milizie a difesa del governo Serraj. L’Unsmil ha poi smentito via Twitter la rivelazione. Ma ieri il comando di Haftar ha ribadito e precisato l’informazione: “Da alcuni giorni la brigata Abu Obeida dello Stato islamico è arrivata nella città di Zawiya”. Sarebbe guidata da un marocchino, Shaban Hadia, chiamato Abu Obeida, che in passato ha fatto parte anche del Fronte al Nusra. I jihadisti sarebbero arrivati in Libia tramite la Turchia, alleata di Serraj. Egitto. Human Rights Watc: “in Sinai i crimini di guerra di al-Sisi” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 maggio 2019 Duro rapporto di Hrw contro l’Egitto e l’anti-terrorismo del regime: comunità sfollate e rase al suolo, arresti, torture e sparizioni di civili. La città di Rafah non esiste quasi più e l’ong chiama in causa anche Israele. C’era una volta il Sinai, oggi ne resta poco. La campagna anti-terrorismo, lanciata dal governo egiziano nel febbraio 2018 e che sarebbe dovuta durare pochi mesi, è ancora là con un bagaglio di devastazione senza precedenti. Comunità rase al suolo, appezzamenti agricoli scomparsi, coprifuoco, chiusure pressoché totali. E ancora omicidi extragiudiziali, perquisizioni e arresti arbitrari, bombardamenti e operazioni militari nelle zone civili. Un modus operandi affatto nuovo: l’esercito egiziano opera così dal 2014, l’anno successivo al golpe del generale al-Sisi che ha individuato nei gruppi islamisti radicali (e non) il target preferenziale. Se con i Fratelli musulmani agisce con arresti, processi di massa e condanne a morte, con i gruppi legati ad Al Qaeda e Isis - molti operativi in Sinai - agisce con campagne militari che coinvolgono inevitabilmente la popolazione civile, già strutturalmente marginalizzata dal governo centrale. A dare un quadro più preciso è un vasto rapporto di Human Rights Watch, 134 pagine rese pubbliche ieri e frutto di un lungo lavoro di ricerca, dal 2016 al 2018. Due anni di indagini con interviste a civili, attivisti, giornalisti, ex soldati. La conclusione è cristallina: le forze armate egiziane (40mila uomini dispiegati nella regione in collaborazione con Israele, come ammesso dallo stesso al-Sisi e denunciato da Hrw che chiede spiegazioni anche a Tel Aviv) hanno commesso - e stanno commettendo - in Sinai crimini di guerra. Di diversi tipi: arresti di massa, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, raid aerei e terrestri contro civili, blocco delle comunità con conseguente stop all’ingresso di cibo e beni di prima necessità, torture, arresto di minori, morti in cella. Il tutto giustificato dal Cairo con la guerra all’islamismo radicale, responsabile in questi anni di attentati contro turisti, comunità copta e comunità musulmana. Quanto sta avvenendo da anni nella penisola sfugge agli occhi dei più, con i giornalisti impossibilitati a entrare e le poche informazioni fornite da chi in Sinai vive. Le famiglie raccontano di parenti scomparsi, di raid dei soldati che ordinano di lasciare la propria casa in 24 ore, di carburante che non arriva più, di distruzione delle comunità più povere per “ragioni di sicurezza”. Hrw accusa il regime di “prendere di mira e abusare dei civili” e di “non distinguere tra civili e miliziani”: “Invece di proteggere i residenti in Sinai nella loro lotta contro i miliziani - spiega Michael Page, vice direttore di Hrw per Medio Oriente e Nord Africa - l’esercito egiziano ha mostrato totale disprezzo per le loro vite, trasformando la loro quotidianità in un incubo senza fine”. Questo è l’anti-terrorismo al tempo di al-Sisi, per cui il presidente golpista riceve tributi e onori nelle capitali europee. Eppure da mesi attivisti e organizzazioni denunciano quanto accade in Sinai ai suoi 500mila abitanti: decine di migliaia di persone sono state cacciate dalle loro case e nel periodo compreso tra il 2014 e il 2018, riporta il Tahrir Institute for Middle East Policy, oltre 12mila residenti sono stati arrestati. A dare la misura della devastazione sono le immagini satellitari (lì il regime non può arrivare) che mostrano cittadine fantasma, campi agricoli bruciati e abbandonati, interi villaggi rasi al suolo. Al loro posto checkpoint e basi militari che impediscono di fatto gli spostamenti interni, mentre Rafah - una delle principali città della Penisola, al confine con Gaza - è praticamente scomparsa della mappa, come le città di al-Arish e Sheikh Zuwayd. Degli 80mila residenti a Rafah oggi non ne restano che qualche centinaia. Gli sfollati, denunciano le famiglie, hanno ricevuto rimborsi talmente scarsi da non potersi ricostruire una vita. E il verde che colorava le comunità, uliveti, frutteti, campi coltivati, è scomparso con i residenti: almeno 40mila alberi di ulivo sono irraggiungibili e l’agricoltura è stata bandita. In mezzo alle piante potrebbero nascondersi i miliziani, la risposta del Cairo. Il Cairo una risposta sembra averla per tutto e gli alleati europei stanno a sentire. Il 20 maggio il Fondo monetario internazionale ha sbloccato l’ultima tranche da due miliardi di dollari di un prestito da 12, dopo aver verificato il rispetto degli accordi precedenti, ovvero l’attuazione di misure di austerity, l’incremento del pil, la rimozione delle barriere a investimenti esteri e la riduzione dell’intervento statale in economia. Tutte cose che, tradotte nella realtà, reggono poco: se l’esercito è sempre più presente con le proprie aziende negli strategici settori delle infrastrutture e la produzione di beni di prima necessità, a subire i tagli sono le classi basse. Colpita da una miseria con pochi precedenti, con il 60% egiziani poveri o sotto la soglia di povertà, la popolazione farà ora i conti con altri tagli e aumenti delle tasse. A luglio tocca all’elettricità: +14,9%. Ad aprile il governo aveva annunciato il taglio del 45% dei sussidi per il carburante, del 75% di quelli per l’elettricità. Bresile. Resa dei conti fra gang nelle carceri: 57 morti negli scontri tra detenuti di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 29 maggio 2019 In palio il controllo del “corridoio d’oro” per il transito della droga nell’Amazzonia. Un cenno con il capo e poi l’inferno. I detenuti che chiudono i padiglioni, isolano due ali del carcere, tirano fuori gli spazzolini da denti affilati come coltelli e punteruoli. Spuntano le corde e i lacci di pelle. Poche armi ma sufficienti a fare quello che devono fare. Lo scontro tra i miliziani dei due Cartelli è feroce, rapido, spietato. Non è una rivolta. È un regolamento di conti. C’è da stabilire chi comanda. All’esterno. Chi controlla il “corridoio d’oro” dell’Amazzonia, quello dove transitano le tonnellate di coca e metanfetamine da spedire negli Usa e in Europa. Alla fine restano a terra in 57. Sgozzati, soffocati, smembrati. Accade in due tempi. In quattro diversi carceri di Manaus, cuore dello Stato di Amazonas, in Brasile. Domenica pomeriggio, giorno di visite, i parenti che si accalcano, abbracciano mariti, fratelli e figli, portano cibo e vestiti. I capi di Primeiro Comando da Capital e Comando Vermelho, i primi dominanti a San Paolo i secondi a Rio de Janeiro, danno l’ordine alle gang che li sostengono. Il carcere finisce nelle mani di due gruppi. La battaglia dura poche ore. Nessuna fuga. Chi può resta in disparte, gli altri si azzannano senza pietà. Si contano 15 vittime. Era accaduto anche due anni fa. Sempre nel penitenziario Anísio Jobim. Con una differenza: la rivolta era una scusa per evadere e nella fuga si erano risolti vecchi conti in sospeso. Nessuno era riuscito a entrare nel carcere per 17 ore, c’erano stati 56 morti. Il ministro della Giustizia, Sergio Moro, l’ex pm di Lava Jato, spedisce sul posto gli agenti dell’unità speciale creata proprio per intervenire nelle sommosse. Arrivano quando tutto è finito. Ma non sanno che è solo il primo tempo. Il secondo scatta lunedì pomeriggio. Questa volta è peggio. È la vendetta. I quattro carceri restano di nuovo in balìa dei due gruppi. Colpiscono con punteruoli e strozzano con le corde. Veri professionisti delle arti marziali, commentano gli agenti dopo aver visionato i video di sorveglianza. Il bilancio è ancora più grave: i morti sono 42. All’esterno si radunano le moglie, le madri, le sorelle e le cugine dei detenuti. Premono sulle recinzioni di metallo, le facce contratte e disperate che guardano verso le mura del carcere. Sanno quello che sta accadendo. Sono impotenti. Sperano solo che i propri cari se la cavino. Moro è sommerso dalle polemiche. Ma scarica la responsabilità sul Dipartimento degli istituti penitenziari di Amazonas. Assicura che manderà la Forza nazionale di sicurezza pubblica, incaricata dal 9 gennaio 2017 proprio di garantire l’ordine nel carcere di Anísio Jobim dove è rinchiuso il vertice dei due Cartelli. I tentativi di disperderli nelle prigioni del paese è sempre fallito. Meglio tenerli tutti insieme. Isolati in Amazzonia. Ma è proprio da qui che continuano a guidare il traffico e a ordinare la conquista di nuovi territori.