Quelle carceri sempre più piene (ma con meno immigrati) di Piero Ferrante gruppoabele.org, 28 maggio 2019 “Non c’è parola più polisemica di pena. Una parola che, nonostante i suoi tanti significati, non rimanda a nulla che ispiri fiducia o buoni sentimenti. Il carcere è una pena, non c’è dubbio che sia una pena. È, purtroppo, la pena per eccellenza. Nel nostro sistema, nonostante le illusioni normative di studiosi e giuristi, è proprio al carcere come pena che vengono affidate le sorti incerte di una società in crisi di valori e identità”. Il senso profondo sotteso alla redazione, da parte dell’associazione Antigone, del XV Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia sta in questa frase. Questa visione sociale sballata del carcere come sola pena, come punizione, come castigo, orienta in effetti la visione della detenzione da secoli, nei fatti restituendo alla società l’idea stigmatica del reo come soggetto irrecuperabile: se delinqui sei contro l’ordine costituito del mondo e, in quanto tale, la reclusione è la sola e unica pena ammessa. Una visione restrittiva e pericolosa che fa a pugni con l’idea di diritto costituzionale. Non è un caso, dunque, che questa edizione del Rapporto dell’associazione presieduta da Patrizio Gonnella s’intitoli Il carcere secondo la Costituzione. Come a voler sottolineare l’urgenza di un’inversione di prospettiva, da attuarsi prima che il sistema deflagri, collassando su se stesso. Lo dicono i numeri, lampanti: 60mila 439 detenuti registrati al 30 aprile significa 800 persone in più rispetto al 31 dicembre 2018 e 8mila rispetto a tre anni e mezzo fa. Un tasso di affollamento oltre il 120%, con il 18.8% delle celle (negli 85 istituti visitati da Antigone) dove manca il rispetto dei 3mq per detenuto (in violazione con quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo rispetto alla dimensione di spazio minima e al di sotto della quale è il rischio di trattamento inumano o degradante). Se cresce il numero dei carcerati, diminuisce in numeri assoluti e in percentuale quello degli stranieri in carcere, il che frantuma l’assioma - politicamente in voga e di facile consenso nelle urne - immigrato-uguale-criminale. Negli ultimi dieci anni, raccontano le stime di Antigone, sono in effetti diminuiti di oltre mille unità i detenuti non italiani nelle carceri, scesi dal 34.27% al 31 dicembre 2017 all’attuale 33.6%. Di più: se nel 2003 su cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’1.16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0.36% (considerando nel numero anche gli irregolari). “Un calo - ha illustrato Gonnella durante la conferenza stampa di presentazione del Rapporto tenutasi a Roma lo scorso 16 maggio - che riguarda in particolare le comunità, come quella rumena, che negli ultimi anni hanno avuto un processo di integrazione maggiore nel nostro Paese, attraverso anche i ricongiungimenti familiari, a testimoniare che il patto di inclusione paga anche dal punto di vista della sicurezza. Resta viceversa allarmante il dato dei suicidi: nel 2018, stando al dato raccolto da Ristretti Orizzonti sono stati 67 (ma il Ministero dell’Interno ne conteggia sei in meno), un tasso di 11.4 suicidi ogni 10.000 detenuti. 31 i morti (per cause naturali o per suicidio) in carcere dall’inizio del 2019. A preoccupare sono soprattutto i 4 morti di Viterbo e Taranto, quest’ultimo il più affollato d’Italia. Inoltre, rimarca Antigone, in carcere ci si uccide quasi 18 volte di più che in libertà. Ad aumentare non sono stati tuttavia solo i suicidi, ma anche gli atti di autolesionismo che nel 2018 si sono attestati a quota 10.368 casi, con un incremento di mille episodi rispetto al 2017 e circa 3.500 rispetto al 2015 (955). Numeri che segnalano un ridotto benessere penitenziario. Lo stesso ridotto benessere di cui parla anche il dato raccolto dall’osservatorio di Antigone secondo il quale il 28.7% dei detenuti presenti in carcere assume terapia psichiatrica sotto prescrizione medica. Per provare a far fronte a questa situazione, Antigone sta per lanciare (nelle prossime settimane al via) la campagna Il carcere è un pezzo di città, che mira a ottenere per i sindaci le stesse prerogative di visita ispettiva negli istituti di pena che attualmente spettano ad altri rappresentanti istituzionali (consiglieri regionali, parlamentari, ecc), aumentando in questo modo il monitoraggio attivo da parte delle amministrazioni locali. Tra i Comuni coinvolti, c’è anche Torino. Una telefonata in carcere ti salva la vita di Carmelo Musumeci welfarenetwork.it, 28 maggio 2019 Il Ministero spenderà milioni di euro per scoprire quei detenuti che dal carcere telefonano all’esterno. Non posso non essere d’accordo con le parole di Stefano Anastasia (Garante dei detenuti per le Regioni Lazio e Umbria) “Quanti soldi sprecati e quanta fatica inutile: ma perché non consentire di telefonare liberamente a tutti i detenuti (la stragrande maggioranza) che non hanno la censura sulla corrispondenza?”. Ecco cosa avevo scritto quando potevo parlare con i miei familiari per soli dieci minuti a settimana: Normalmente telefono di domenica. Verso l’una del pomeriggio. Quando ho più probabilità di trovare tutti i miei familiari a casa. Spero sempre soprattutto di trovare Michael e Lorenzo. Sono i miei due nipotini. Li penso di giorno. E di notte. Poi di notte. E ancora di giorno. Prima di telefonare sono sempre in agitazione. E guardo tutti i momenti l’orologio, e rimango teso dall’ansia fino a quando non faccio il numero di casa. Nel frattempo il pensiero dei miei figli inizia a poco a poco a occuparmi la mente. E il cuore. Finalmente è l’orario. Sono sempre in anticipo di qualche minuto. Non mi preoccupo tanto a casa lo sanno. Corro nella celletta dove c’è il telefono, accosto il blindato. E faccio il numero. Trovo la linea libera. Attendo qualche istante. Poi dalla parte del filo sento trattenere il respiro. Di sottofondo ascolto le voci dei miei due nipotini. Poi sento bisbigliare mio figlio. “Passami il telefono.” Ascolto un rumore di cuscino sbattere. “Sono arrivata prima io.” Subito dopo avverto un grugnito di mio figlio: “Sei una stronza, tanto papà vuole più bene a me che a te perché sono un maschio.” Sento mia figlia sospirare. “Pronto.” Da quando l’ho lasciata bambina è quasi sempre mia figlia Barbara che prende per prima il telefono. “Amore.” Si potrebbe dire che è da venticinque anni che mi aspetta vicino al telefono. “Papà.” È stata la prima cosa bella che i miei occhi hanno visto nella mia vita. “Come stai?” Da quando è nata è l’energia del mio cuore. “Bene papà e tu?” E della mia mente. “Anch’io.” Voglio bene ai miei figli anche perché sono diventate le persone che avrei voluto essere io nella mia vita. “Ti vengo a trovare la prossima settimana.” Spesso ho il senso di colpa di averli fatti crescere senza di me accanto. “Va bene amore.” Ho sempre paura di non essere stato un buon padre. “Cosa vuoi che ti porto da mangiare?” E questo pensiero mi fa stare spesso male. “La focaccia con le cipolle.” Quando telefono sembra che il tempo voli via. “Va bene.” E che non puoi fare nulla per fermarlo. “Amore, adesso passami tuo fratello.” Non ho mai capito perché quando telefono sembra che i secondi volino via come le foglie in autunno. “Papà ti amo.” Non li puoi afferrare. “Anch’io amore.” Con il passare degli anni sembra che i minuti del telefono diventino sempre più brevi. “Papà, come al solito la Barbi s’è consumata tutta la telefonata lei.” Se solo ci dessero più tempo. “Lasciala stare, sai com’è fatta.” E più telefonate. “Papà ci sono i bambini che stanno aspettando.” Mio figlio si lamenta sempre di sua sorella. “Chi ti passo per primo?” L’ho lasciato che aveva sette anni. “Passami Lorenzo.” Ormai è grande. “Ti voglio bene papà.” Continua però lo stesso ad abitare nel mio cuore. “Anch’io figliolo.” Mi ha dato due meravigliosi nipotini. “Ciao nonno Melo.” E adesso che sono anziano sono entrambi loro il centro del mio mondo. “Ciao amore.” Ed il principio del mio universo. “Nonno quando vieni a casa?” Sono il cielo della mia anima. “Presto.” La mia acqua nel deserto. “Ce la fai a venire a casa prima che compio dieci anni?” E i raggi del sole che riscaldano il mio cuore. “Certo, adesso però amore passami tuo fratellino che la telefonata sta per finire.” Quando parlo con i miei due nipotini la loro voce mi accarezza il cuore. “Ciao nonno ti voglio tanto bene.” M’immagino i loro visini. “Anch’io tesoro.” E mi viene ancora più voglia di abbracciarli. “Ciao nonno.” Michael è il più piccolo. “Ciao amore.” E più scalmanato di suo fratello. “Lorenzo dice che le telefonate dove sei tu durano così poco perché le guardie sono cattive.” Muovo la testa da una parte all’altra. “No amore, non sono cattivi.” Poi chiudo gli occhi. “Allora perché non telefoni tutti i giorni?” E penso a come rispondergli. “Perché qua la linea si prende male e dobbiamo fare a turno per telefonare.” Non voglio che imparino ad odiare lo Stato. “Amore adesso passami la nonna perché ormai c’è rimasto poco tempo.” La sua vocina si fa più dolce. “Va bene nonno, ti voglio bene più di Lorenzo.” Spero che i sogni a forza di crederci diventino veri. “Ciao amore.” E mi auguro di vedere crescere almeno loro. Adesso è il turno della mia compagna. “Carmelaccio.” E scatta l’avviso che la telefonata sta per terminare. “Amore Bello.” Fra trenta secondi cadrà la linea. “Il magistrato di sorveglianza ti ha risposto sul permesso che hai chiesto?” Lei è sempre la più scalognata. “Ancora no.” E le rimangono solo una manciata di secondi. “Porca miseria quanto ci mette?” Non capirò mai perché ci danno così poco tempo per telefonare a casa. “Non dire parolacce che le telefonate sono registrate.” Mi sembra una pura cattiveria. “Sono due anni che aspettiamo questa cazzo di risposta.” In fondo la telefonata la paghiamo noi. “Amore lo so, ma che possiamo farci?” La presenza della mia compagna nel mio cuore mi aiuta a vivere giorno per giorno. “A me dispiace per te.” Senza di lei nel mio cuore non ce l’avrei fatta. “E a me per te.” Non ce l’avrei mai potuta fare. “Carmelaccio sbrigati a venire a casa.” Potrei fare a meno della libertà, ma non potrei certo fare a meno del suo amore. “Penso che questa volta sia quella buona.” Vivo grazie o per colpa del suo amore. “Mandami un bacino.” È stato facile amarla. “Prima mandamelo tu.” Impossibile smettere di amarla. Cade la linea. E mi arrabbio perché come al solito io e la mia compagna non abbiamo avuto il tempo di mandarci neppure un bacio o di dirci qualche parola affettuosa. Sospiro. Mi sento di nuovo solo. In compagnia solo di me stesso. E contro tutto il resto del mondo. Ho il cuore pesante. Mi sento frustrato. E penso che le telefonate potrebbero essere più lunghe e più numerose. Ritorno nella mia cella come un lupo bastonato pensando al motivo perché il carcere ha così paura e terrore dell’amore dei nostri familiari e ci proibisce le telefonate libere e i colloqui riservati come accade negli altri paesi. Non riesco a trovare una risposta razionale. Penso solo che i buoni quando puniscono non sono meno spietati dei cattivi. Dalla Cassa Ammende oltre 10 milioni di euro a Regioni e Province autonome regioni.it, 28 maggio 2019 Serviranno per finanziare programmi di inclusione dei detenuti e sostegno a vittime di reato. Dieci milioni di euro a disposizione di Regioni e Province autonome per la formazione professionale e l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, adulti e giovani adulti, e ulteriori 500mila euro destinati ad enti pubblici territoriali per la realizzazione di programmi a sostegno delle vittime di reato, lo sviluppo della giustizia riparativa e la mediazione penale. È la somma che il Consiglio di amministrazione della Cassa delle Ammende ha deliberato di stanziare in attuazione dell’Accordo, stipulato nel luglio 2018, con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome per la promozione condivisa di interventi in favore delle persone in esecuzione penale. L’iniziativa è frutto di una collaborazione con regioni, province autonome, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Le aree di intervento a cui dovranno tendere i progetti in favore della popolazione detenuta riguardano i percorsi di formazione professionale, di inclusione sociale o di inserimento lavorativo nonché gli interventi di assistenza in caso di soggetti con figli minori. Inoltre avranno accesso ai finanziamenti anche quelle proposte che riguarderanno lo sviluppo di servizi pubblici per il sostegno alle vittime di reati, per la giustizia riparativa e la mediazione penale. A seguito di tale delibera e con una comunicazione diramata oggi, Cassa delle Ammende ha quindi invitato regioni e province autonome a presentare, entro il prossimo 18 settembre, specifiche proposte progettuali della durata minima di 18 mesi, in accordo con i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria e gli Uffici interdistrettuali dell’Esecuzione Penale Esterna, che abbiano come finalità una o più delle aree di intervento previste. Ogni proposta dovrà illustrare il fabbisogno dell’utenza del territorio e le azioni che si intendono realizzare per favorire l’inclusione sociale dei destinatari degli interventi. I programmi ammessi al finanziamento saranno sottoposti a monitoraggio da parte di regioni e province autonome nonché alla valutazione di Cassa delle Ammende per la verifica dell’efficacia degli interventi realizzati. La pistola fumante della crisi si troverà sulla giustizia di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 28 maggio 2019 In principio fu la “bomba atomica” sui processi paventata dalla ministra Bongiorno a causa della legge spazza-corrotti che ha di fatto abolito la prescrizione, approvata a bocca storta dalla Lega; poi i contrasti sulla riforma della procedura penale che dovrebbe essere varata entro quest’anno ma di cui non è alle viste nemmeno uno straccio di testo condiviso; infine l’abuso d’ufficio che Salvini vuol cancellare dal novero dei reati ma che Di Maio difende invece tenacemente. Questa, per sommi capi, è la cronaca della politica giudiziaria del governo, ma se fino a venerdì lo scontro sulla giustizia poteva essere derubricato solo a uno dei tanti argomenti da gettare in pasto agli elettorati contrapposti dei due partiti di maggioranza, dopo il ribaltone elettorale di domenica - con Salvini che è virtualmente diventato il premier ombra, se non effettivo, del governo gialloverde - potrebbe essere proprio questa la pistola fumante, l’incidente di Sarajevo” in grado di far deflagrare la resa dei conti finale tra Lega e Cinque Stelle. L’abuso d’ufficio sarà infatti uno dei primi dossier “prendere o lasciare” che Salvini potrebbe gettare sul tavolo del prossimo consiglio dei ministri. Per la Lega l’abuso d’ufficio va ormai considerato come un reato “che blocca l’Italia”, perché gli amministratori hanno paura di firmare atti, aprire cantieri e sistemare scuole o ospedali. L’obiettivo è chiaro: togliere lacci e lacciuoli, abbattere i vincoli e soprattutto far prevalere la presunzione d’innocenza, perché sindaci e assessori sono alla mercé delle Procure con la mannaia della legge Severino che incombe su ogni singolo atto. Di Maio, chiudendo la campagna elettorale, aveva replicato in modo sprezzante, accusando Salvini di voler accaparrarsi i voti dei tanti corrotti in giro per l’Italia e soprattutto di voler salvare “qualche amico governatore”, domanda retorica in cui qualsiasi riferimento a Fontana era ovviamente voluto. Difficile che su una questione talmente identitaria - la legalità giustizialista - da essere iscritta nello stesso dna del Movimento, Di Maio possa fare marcia indietro dopo la disfatta elettorale. Questa volta, insomma, la rotta di collisione sembra inevitabile, anche perché Salvini, commentando in diretta televisiva la vittoria alle Europee, e dicendo che ora la prima da fare per il governo sarà la riforma fiscale, ossia la flat tax ideata da Siri, ne ha approfittato per lanciarsi in un lungo monologo sulla necessità, in un Paese civile, di riaffermare il principio costituzionale della presunzione d’innocenza. Non è certo un caso se, proprio nel momento del trionfo elettorale, il leader leghista ha deciso di elevare il sottosegretario al ruolo di vittima sacrificale di un giustizialismo indegno, ribaltando il banco degli accusati e mettendoci sopra Di Maio e Conte, gli altri vertici del governo che proprio sulla cacciata di Siri avevano sperato di mettere le ali alla riscossa grillina. Non ci vuole Nostradamus, quindi, per prevedere quale sarà la prima mina sulla strada del governo Conte, anche perché è ormai imminente la sentenza sul viceministro Rixi per le spese pazze alla Regione Liguria, un caso che Di Maio ha cavalcato strumentalmente in campagna elettorale attirandosi l’accusa della Lega di voler condizionare i giudici. Vedremo se, ancora una volta, a determinare la vita di un governo, più che gli elettori, sarà la magistratura. I “complotti giudiziari” non esistono, ma è necessaria la riforma della giustizia di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 28 maggio 2019 Le indagini dei pubblici ministeri nei confronti di amministratori e politici fanno notizia soprattutto alla vigilia delle elezioni e fanno gridare al complotto giudiziario. Un complotto che, ovviamente, non esiste nei termini ipotizzati, oppure esiste se valutiamo le situazioni da un particolare punto di vista, come è avvenuto nei giorni alla vigilia delle elezioni europee, quando si è gridato al ritorno di “Tangentopoli”. Il rapporto tra politica e giustizia è da sempre critico e anomalo perché si dovrebbe reggere su un equilibrio tra i poteri presenti nella Costituzione e su una distinzione tra i gli stessi che è fortemente contestata. Questo rapporto infatti risulta alterato soprattutto da quando un legislatore scellerato nel lontano 1992 ha abolito l’immunità del parlamentare e quindi ha agevolato l’ invadenza del sistema giudiziario. L’invadenza in un campo diverso da quello strettamente giudiziario si è verificata con le indagini di “mani pulite” negli anni 90 che ha fatto apparire i magistrati come garanti della moralità e della legalità. Ho ripetuto mille volte che i magistrati non garantiscono la legalità, non sono a presidio della “questione morale”, ma “reprimono l’illegalità” e per questo adempiono a una funzione istituzionale. Se la magistratura dovesse “garantire la legalità”, e far prevalere il bene sul male avrebbe una funzione etica molto anomala e pericolosa per il nostro ordinamento. Ritengo molto importante che il presidente dell’Anm. Pasquale Grasso, per primo dopo tanti anni, abbia riconosciuto che Tangentopoli “non è stata una cosa buona e c’è stato un reflusso”. Quel “reflusso” ha determinato uno sconcerto nel Paese e una resa del legislatore che ha lasciato il Parlamento e in definitiva le istituzioni senza garanzie. La perdita dell’immunità da parte del Parlamento ha alterato l’equilibrio istituzionale e ha intaccato il prestigio delle istituzioni. Al di là del significato formale della modifica dell’art. 68 della Costituzione, si è determinata una cultura e potremmo dire un costume, un orientamento della stessa giurisprudenza che ha attribuito un valore diverso al potere giudiziario. Ma vediamo perché si è determinata questa situazione. L’azione del pubblico ministero sembra a tutti prevalente e anticipa il giudizio, soprattutto per la anomalia dell’attuale processo penale che dovrebbe essere un processo accusatorio con la parità delle “parti”: da una parte l’accusa dall’altra la difesa in contraddittorio tra loro. Al contrario l’azione del pubblico ministero, che non è giudice, è universalmente considerata eguale a quella di chi deve giudicare. Il giudice “decide”, la Costituzione gli attribuisce questo compito e la decisione in un sistema democratico è “la verità processuale”, salvo i gravami consentiti dalla legge. Le ragioni che impongono la distinzione tra pm e giudice sono molte, fondamentali e di sistema. Le abbiamo esaminate da anni anche in sede scientifica, ma qui è importante precisare una cosa particolare e di ordine pratico. Se il pubblico ministero avesse riconosciuta la funzione che gli è propria di accusa e non avesse le guarentigie che sono proprie del giudice, la sua attività verrebbe considerata come quella di una parte che, per gli indizi raccolti, ritiene di incolpare qualcuno salvo a farli diventare prova. Il processo accusatorio richiede la parità delle parti di fronte al giudice terzo, dal momento che né il pm né l’avvocato sono terzi. Nel 1989 modificammo il processo penale per realizzare questo risultato! Quindi, al di là delle ragioni giuridiche e ripeto di sistema, la distinzione tra pm e giudice farebbe perdere la sacralità della “comunicazione giudiziaria” che ha valore e significato di “garanzia”, perché fatta da una parte che ha il dovere di “accusare” al primo indizio di un qualunque fatto e ha il dovere di avvisare il presunto indagato. La confusione dei ruoli porta a ritenere che sia un giudice e non una “parte”, cioè il pm, a prendere l’iniziativa per una indagine giudiziaria e la stampa, anche la più accreditata, attribuisce l’iniziativa sempre al giudice e quindi dà informazioni sbagliate e indica sempre il giudice come autore delle iniziative. Tutte le polemiche assurde e pretestuose sul caso Siri sarebbero superate se si rendesse il processo penale coerente con il sistema accusatorio. La semplice “comunicazione” fatta da un pubblico ministero cioè, ripeto, da una parte non avrebbe alcun significato proprio perché non fatta da un giudice. La magistratura anziché auspicare la riforma del pubblico ministero la ostacola duramente da sempre, perché teme che il pm diventi subordinato al potere esecutivo. Un timore che abbiamo tutti, ma che non avrà ragione di esserci, se si disciplina adeguatamente la sua funzione con un Consiglio Superiore di riferimento, con una necessaria autonomia e con indicazioni date dal Parlamento sulle priorità nell’esercizio dell’azione penale. Dunque il “complotto” non esiste ma è considerato tale, per una anomalia che altera il processo penale e lo rende ibrido: né accusatorio né inquisitorio. I tempi sono maturi per fare questo tipo di riforma che eviterebbe le infinite patologie del processo e eviterebbe un rapporto errato nei confronti della opinione pubblica. Auspichiamo questa riforma dagli anni 80 e spero che ormai le patologie e le distorsioni del processo possano convincere anche il potere giudiziario (che non è più “ordine” ma “potere”) della sua bontà. Alla classe politica la responsabilità di credere in questa riforma e non immaginare che la riforma della giustizia sia l’aumento delle pene come panacea per qualunque male e per qualunque avvenimento delittuoso. Si sono fatti già tanti danni nell’ultimo periodo inasprendo le pene le quali invece debbono essere proporzionate per essere giuste e per essere funzionali a recupero del condannato. Quando un magistrato di livello come Gerardo Colombo dice in una intervista di qualche giorno fa che “ha perso sulla corruzione” dimostra la alterazione della funzione del pm che dovrebbe lottare per far vincere il bene sul male quindi attribuendogli, una funzione etica pericolosa per il potere giudiziario. Colombo aggiunge che “nella competizione tra corruzione e leggi ha vinto la corruzione”. Voglio correggere in maniera più istituzionale la sua frase: la legge vince sempre sia quando condanna sia quando ha assolve. E a Colombo dico in maniera particolare: con una vecchia stima, che per “mani pulite”, come lui sa, vi sono state molte tante assoluzioni… tardive! In un periodo in cui si parla di populismo come degenerazione del popolo, del rapporto sano tra il cittadino e le istituzioni, bisognerebbe evitare “il populismo giudiziario che può essere devastante” come un pubblico ministero Edmondo Bruti Liberati, non più magistrato, ha riconosciuto. Fiducia e mediazione, ecco la democrazia secondo gli avvocati di Errico Novi Il Dubbio, 28 maggio 2019 L’anno giudiziario del Cnf. Si può fare a meno degli avvocati? No, in generale. Ma ancor meno in una fase così tellurica per il quadro politico del Paese. È un messaggio che forse l’avvocatura non ha neanche più necessità di veicolare da sola. Saranno probabilmente le istituzioni dello Stato a riconoscerlo, senza particolari sollecitazioni, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, prevista per domani alle 11 a Roma. Parleranno nell’ordine la seconda carica della Repubblica Maria Elisabetta Alberti Casellati, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e i vertici di Cassazione e Consiglio di Stato, vale a dire Giovanni Mammone e Filippo Patroni Griffi. Il presidente del Cnf Andrea Mascherin terrà la sua relazione subito dopo il saluto della presidente del Senato. Ma appunto, il massimo rappresentante dell’avvocatura potrebbe persino non dover provvedere direttamente, nel rammentare l’imprescindibilità della professione forense all’interno del sistema democratico. Nel pieno di un’agitazione così frenetica degli schemi su cui si regge l’assetto istituzionale, il dato è nei fatti e non potrà sfuggire alle autorità chiamate alla cerimonia. I segni di un riconoscimento della funzione dell’avvocato vanno colti in almeno due passaggi. Il primo è la presentazione a Palazzo Madama del ddl che introduce in Costituzione l’esplicito richiamo del ruolo del difensore. Un atto politico chiaro, anche per la sintonia con cui vede schierati i due partiti di maggioranza, Movimento 5 Stelle e Lega, i cui capigruppo al Senato hanno depositato insieme il testo. Non è una scelta di piccolo significato: in una fase che vede la politica, già scossa dall’emergere di due forze che hanno archiviato il vecchio bipolarismo, resa ancor più magmatica dai contrasti nella stesa alleanza di governo, l’avvocatura appare come custode non solo delle garanzie ma anche di una civiltà del confronto basata sul diritto. Più volte lo stesso Mascherin ha indicato nella professione forense il presidio dei valori e delle regole che fanno della democrazia il sistema del confronto e non una lotta consumata nell’odio. Tale funzione è evocata dal ddl sull’avvocato in Costituzione ed è ormai innegabile per chiunque abbia a cuore le sorti dello Stato. Il secondo elemento che attesta il riconoscimento di un ruolo strategico della professione forense per il sistema democratico è nelle parole più volte pronunciate dal guardasigilli Bonafede sul Cnf come suo “punto di riferimento costante”. Il ministro ne ha parlato, solo per citare l’occasione più recente, anche nel suo intervento alla prima seduta giurisdizionale del nuovo Consiglio nazionale forense, svoltasi nella sede di via Arenula, dunque all’interno dello stesso ministero della Giustizia. In quella occasione, lo scorso 16 maggio, Bonafede ha indicato la massima istituzione dell’avvocatura come un fattore di equilibrio e di stabilità nei rapporti tra la politica e il sistema giustizia. E tale riconoscimento ha tanto più valore se si considera la distanza, che pure esiste, in materia di politica giudiziaria, tra la stessa avvocatura e l’attuale esecutivo. “Ci sono cose che condividiamo e altre che non condividiamo, ma il rapporto deve essere basato sulla lealtà e sull’offrire un’alternativa valida quando non siamo d’accordo”, ha detto Mascherin in quell’occasione. Proprio considerata la differenza tra le vedute degli avvocati e quelle del governo, in particolare sul processo penale, il riconoscimento del guardasigilli dimostra come il ruolo dell’avvocatura sia comunque irrinunciabile. L’inaugurazione di domani si terrà a Villa Aurelia, a partire dalle 11, e dopo la cerimonia vera e propria si svolgerà un confronto su un tema che forse dà sostanza e contenuto proprio a quel ruolo di mediazione civile prima ricordato. Il titolo, “Garantismo: un’idea di Stato”, rimanda a un intervento firmato l’ 11 maggio da Mascherin sul Corriere della Sera, in cui il presidente del Cnf argomenta, da una parte, la distinzione tra garantismo e innocentismo e, dall’altra, il valore profondo che la cultura delle garanzie ha non solo rispetto alla mediatizzazione del processo penale, ma anche riguardo al più generale rapporto tra Stato e cittadino. È questa un’idea riecheggiata più volte negli interventi di Mascherin alle cerimonie inaugurali della giustizia, e in particolare in quella svolta il 15 febbraio scorso presso la Corte dei conti. Come aveva detto anche altre volte, Mascherin ha ribadito in quella occasione che la cultura del sospetto è il peggior antidoto all’illegalità, e che passi avanti contro i fenomeni di criminalità economica si compiono solo con “un contratto tra Stato e cittadino fondato sul reciproco affidamento”, anziché sulla riserva del sospetto. Proprio in tale principio è il nucleo ultimo della differenza tra avvocatura e attuale governo anche sulla giustizia penale. Fidarsi è l’opposto che vedere ovunque l’insidia della corruzione. Alcuni provvedimenti contestati dall’avvocatura, come diverse delle norme della “spazza corrotti”, scontano lo scarto fra le due visioni ricordate. Un rapporto costruttivo fra politica e avvocatura non basta, ma è il presupposto indispensabile perché quella visione basata sulla diffidenza si rovesci nel suo contrario. Non è alle viste un cambio di strategia, da parte di Bonafede e del suo Movimento, dalla repressione del malaffare alla cultura dell’affidamento, ma i riconoscimenti arrivati, da parte del ministro, nei confronti dell’avvocatura, sono appunto un primo indispensabile passo. Alla Consulta il nuovo reato di lesioni personali stradali di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019 Tribunale di Milano, Quinta sezione penale, ordinanza 24 maggio 2019 nel procedimento RG 2249/19. Era fra i reati per i quali si sarebbe dovuto procedere solo su querela di parte e invece è rimasto procedibile d’ufficio. Per questo sulle lesioni personali stradali, introdotte poco più di tre anni fa dalla legge 41/2016 assieme all’omicidio stradale, il Tribunale di Milano (Quinta sezione penale, ordinanza del 24 maggio) ha sollevato questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. I dubbi riguardano solo l’ipotesi in cui le lesioni derivino da un’infrazione “comune” al Codice della strada (nel caso dell’ordinanza, una mancata precedenza) e non da violazioni gravi come quelle su alcol o droga. Situazioni “prive - si legge nell’ordinanza - di quel peculiare disvalore che caratterizza le condotte di guida più azzardate e pericolose” e in cui per soddisfare le esigenze di risarcimento della vittima (e contemperarle col diritto di imputati accusati di fatti non gravi) può bastare la polizza Rc auto, che è obbligatoria. Anzi, quando c’è un processo il risarcimento diventa più lento. Tutto ciò va visto nell’ottica della deflazione dei processi, cercata con la riforma penale fatta nella scorsa legislatura (legge 103/2017), che delegava il Governo alla “più ampia estensione sistematica del regime di procedibilità a querela”, prevedendola per i reati contro la persona puniti con pena pecuniaria o detentiva non superiore nel massimo a quattro anni. Salvo che per la violenza privata e i reati contro il patrimonio o quando il danno è di rilevante gravità oppure la persona offesa è incapace per età o infermità. Quest’ultimo caso aveva indotto il Governo a escludere le lesioni stradali dai reati da far diventare a querela di parte, quando ha esercitato la delega (Dlgs 38/2018). Ma per il giudice di Milano la legge 103/2017 si riferiva a infermità precedenti al sinistro (e il pm ha aderito a questa tesi). Di qui la questione di legittimità per possibile violazione all’articolo 76 della Costituzione (quello sulla delega legislativa). L’attribuzione di una falsa qualità personale integra il reato di sostituzione di persona Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019 Delitti contro la fede pubblica - Falsità personale - Sostituzione di persona - Qualità della persona falsamente attribuite - Falsa qualità di avvocato - Configurabilità del reato. Posto che la professione va considerata una “qualità personale” cui l’ordinamento giuridico attribuisce effetti giuridici in quanto individua un soggetto nella collettività sociale, è indubbio che colui il quale si presenti falsamente come avvocato commetta il reato di sostituzione di persona di cui all’art. 494 c.p., fattispecie che fa appunto riferimento alle qualità giuridicamente rilevanti nella sfera soggettiva. Ciò che rileva è che la persona si sia qualificata falsamente come soggetto con specifiche competenze per un proprio interesse, costituito dall’incameramento di una somma di denaro che diversamente non gli sarebbe stata versata. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 17 maggio 2019 n. 21705. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità personale - Sostituzione di persona - Attribuzione di falsa qualità personale cui la legge non ricollega alcuno specifico effetto giuridico - Reato - Sussistenza - Esclusione - Fattispecie. Non integra il delitto di sostituzione di persona la condotta di chi si attribuisce una falsa qualità personale cui la legge non ricollega alcuno specifico effetto giuridico. (Fattispecie in cui l’imputato si era presentato come agente dell’Ucigos, ufficio che, già all’epoca dei fatti, non rappresentava più un’articolazione della pubblica sicurezza, per essere stato sostituito dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 21 aprile 2016 n. 16673. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità personale - Sostituzione di persona - Falsa attribuzione di una qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici - Sussistenza del reato - Fine di esercitare illegalmente la professione - Necessità - Esclusione - Fattispecie. La falsa attribuzione della qualità di esercente una professione integra il reato di sostituzione di persona atteso che la legge ricollega a detta qualità gli effetti giuridici tipici della corrispondente professione intellettuale, mentre non è necessario che il fatto tenda all’illegale esercizio della professione o che miri alla mera soddisfazione di una vanità personale, essendo sufficiente che venga coscientemente voluto e sia idoneo a trarre in inganno la fede pubblica. (Fattispecie, nella quale l’imputato si qualificava come collega del medico curante della persona offesa). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 10 luglio 2014 n. 30229. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità personale - Sostituzione di persona - Falsa attribuzione della qualità di lavoratore dipendente a tempo determinato - Reato - Sussistenza. Integra il reato di sostituzione di persona la falsa rappresentazione della qualità di dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto la legge attribuisce a tale rapporto determinati effetti, tra cui il diritto alla retribuzione. (Nella specie il reo, al fine di monetizzare un assegno bancario privo di copertura, aveva rassicurato il prenditore sulla copertura del titolo qualificandosi come dipendente della ditta “Bartolini”, indicando suggestivamente alla vittima un furgone di colore rosso parcheggiato davanti al suo negozio). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 22 dicembre 2010 n. 44955. Modena: detenuto morto nel carcere di Sant’Anna, disposta l’autopsia Il Resto del Carlino, 28 maggio 2019 Dopo la denuncia presentata dai parenti dell’uomo, invalido al 75%. Sarà disposta l’autopsia sul corpo di un detenuto di 42 anni, A.L., morto nel carcere di Sant’Anna lo scorso venerdì. A disporre la consulenza tecnica la procura a seguito della denuncia presentata dai parenti della vittima, che era invalida al 75%. L’uomo, bolognese d’origine, era finito in carcere a seguito di una condanna per violenza sessuale; fatti commessi sempre a Bologna. I parenti chiedono però di far luce su quanto accaduto, ipotizzando che il 42enne non abbia ricevuto le cure idonee visto il precario stato di salute. Secondo gli accertamenti dei sanitari, avvisati dalla direzione del carcere Sant’Anna, l’uomo si sarebbe spento a causa di un arresto cardiocircolatorio. L’esame autoptico fornirà risposte certe sul decesso del 42enne. Tolmezzo (Ud): per un’ora sotto gli idranti e lasciato una notte nella cella allagata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 maggio 2019 L’episodio raccontato al Garante nazionale dei detenuti, che lo ha denunciato all’autorità giudiziaria. Una pratica che sfiora la tortura sarebbe avvenuta nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Per un’ora intera, alcuni agenti penitenziari avrebbero utilizzato degli idranti contro un detenuto straniero recluso in cella di isolamento, allagando tutta la stanza e poi sarebbe stato lasciato lì, nell’acqua, per tutta la notte. Un episodio che il detenuto stesso ha denunciato al Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, durante l’ultima visita a sorpresa nel carcere di Tolmezzo per constatare la vicenda degli internati al 41 bis, ma anche per verificare di persona proprio questo caso visto che gli erano giunte segnalazioni a tal proposito. È il 21 maggio scorso quando il Garante trova il detenuto, un cittadino straniero in isolamento, in una cella completamente fradicia: cuscini, lenzuola, le mura, tutto ancora completamente bagnato. Il Garante ha chiesto spiegazioni e il detenuto ha riferito che gli agenti sarebbero intervenuti con gli idranti d’acqua nella cella attraverso lo spioncino e che lo avrebbero lasciato con l’acqua fino alle caviglie per tutta la notte. Gli agenti avrebbero giustificato questa pratica con il fatto che il detenuto preso da una evidente esagitazione - aveva rotto il portellino dello spioncino e loro volevano che lui consegnasse il pezzo di ferro e il fornelletto che aveva in dotazione. Siccome lui non aveva eseguito l’ordine, gli agenti avrebbero aperto l’idrante, indirizzando il getto d’acqua in ogni angolo della cella. Durante la visita, Mauro Palma aveva infatti notato - e fatto notare - che mancavano i bocchettoni degli idranti. L’episodio si sarebbe verificato solo due giorni prima della visita del Garante, e ciò ha reso possibile raccogliere elementi che, acquisiti, sono stati trasmessi con la denuncia in Procura. In occasione della comunicazione all’Autorità giudiziaria, il Garante ha precisato di voler essere considerato come parte offesa nel procedimento che sarebbe stato aperto, e di attendersi dunque di essere messo al corrente di ogni notizia spettante di diritto alla parte offesa dal reato. L’utilizzo degli idranti è in parte giustificato per sedare, come già accaduto nel passato, le insurrezioni nelle carceri, oppure - come lecito - nelle ipotesi in cui i detenuti appiccano il fuoco. Una pratica di contenimento per colpire le rivolte, o spegnere incendi, ma non deve essere mai applicata sul singolo detenuto. Questo episodio, se verrà confermato attraverso le indagini delle autorità giudiziaria, potrebbe rendere ancora più credibile un’altra denuncia, riportata a gennaio da Il Dubbio su un altro presunto grave episodio nei confronti di un detenuto avvenuto sempre nel carcere di Tolmezzo. Fu l’avvocato Giuseppe Annunziata del foro di Salerno a raccontare a Il Dubbio del presunto pestaggio avvenuto in cella di isolamento nei confronti del suo assistito, Domenico Tamarisco, detenuto nella sezione di alta sicurezza del carcere di Tolmezzo. Era andato a fargli visita e prima di vederlo, il comandante della polizia penitenziaria lo aveva messo al corrente che c’erano stati problemi con il suo cliente. “Pensavo semplicemente che ci fosse stata una semplice tensione, ma appena ho visto Tamarisco al colloquio, sono rimasto scioccato per i lividi che presentava”, ha raccontato l’avvocato. Ai suoi occhi il detenuto presentava evidenti ecchimosi al volto, in particolare l’occhio sinistro tumefatto, compreso altre tumefazioni alle orecchie ed ecchimosi alla gamba sinistra e al braccio destro. Cosa gli era accaduto? Il detenuto ha raccontato all’avvocato che sarebbe stato aggredito dal personale della polizia penitenziaria in due diverse occasioni, alla mattina e al pomeriggio, mentre era rinchiuso in cella di isolamento. L’avvocato spiega che Tamarisco già da alcuni giorni aveva avuto delle discussioni accese con gli agenti, motivo per il quale aveva subito il provvedimento disciplinare dell’isolamento. L’avvocato per primo ha denunciato subito e con l’esposto ai carabinieri ha chiesto “l’immediata apertura di un provvedimento che possa chiarire quanto accaduto”, ma soprattutto ha chiesto che “vengano accertate le condizioni di salute del signor Domenico Tamarisco attraverso la nomina di un medico”. Sì, perché il detenuto ha riferito all’avvocato di non essere stato sottoposto a una Tac o comunque a cure mediche dirette a verificare le sue condizioni di salute. A quel punto l’avvocato, dopo aver fatto un esposto ai carabinieri, si è recato in Procura per fare richiesta urgente di un medico per cristallizzare la situazione delle lesioni procurate. Cosa è accaduto per davvero nel carcere di Tolmezzo? Non possiamo saperlo. È sempre la magistratura che sta verificando cosa sia davvero successo e a cosa siano dovute le lesioni che presentava il detenuto. Il carcere di Tolmezzo nasce il 30 gennaio del 1992. La Casa Circondariale venne destinata alla popolazione femminile e maschile appartenente al circuito della media sicurezza. Nel 1999 fu soppressa la sezione femminile. Dal 2014 l’istituto è destinato ai detenuti maschili appartenenti al circuito dell’alta sicurezza legati alla criminalità organizzata. Il carcere ha anche una sezione dedicata al 41bis dove ci sono anche otto persone non detenute, ma internate. Parliamo di persone che avevano finito di scontare il carcere duro, ma che alla fine della pena sono stati raggiunti da una misura di sicurezza da espletare sempre al 41 bis e che hanno problemi per la mancanza di lavoro. Una situazione non facile al carcere di Tolmezzo, conosciuto per aver ospitato al 41bis persone come Massimo Carminati, e dove nel frattempo è recluso Salvatore Buzzi condannato al secondo grado per i fatti di “mafia capitale” e in attesa della sentenza della Cassazione. Viterbo: “un carcere depotenziato dalla mancanza di risorse umane ed economiche” camerepenali.it, 28 maggio 2019 Comunicato stampa dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali e della Camera Penale di Viterbo. Una struttura depotenziata dalla mancanza di risorse umane ed economiche, con un enorme contrasto tra la manutenzione degli Uffici e lo stato fatiscente dei luoghi in cui vivono i detenuti. Stanze con muri umidi e pareti scrostate, pochissime docce funzionanti in ambienti con muffa e muri sporchi. I detenuti lamentano la presenza di blatte e topi. I colloqui con il Magistrato di Sorveglianza, a mezzo video, sono tenuti alla presenza della Polizia Penitenziaria. Vietata la visita al reparto dove vi sono detenuti in regime di 41 bis. L’istituto potrebbe essere un’eccellenza per gli ambienti in cui si svolge l’attività scolastica e lavorativa e per i grandi spazi all’aperto. Falegnameria e sartoria, ben attrezzate, dove si lavora per produrre beni per l’amministrazione penitenziaria, nessuna commessa esterna. Una potenzialità sprecata che dovrebbe essere meglio gestita. Duecento piante di ulivo. L’olio prodotto viene venduto allo spaccio ed il ricavato destinato all’Ente Assistenza del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria. Due serre, per la coltivazione di semi e germogli. Solo sei detenuti impegnati per ciascuna attività, con tempi ridotti per mancanza di risorse economiche. Per la costante richiesta si svolgono turni, ma sono pochissimi i detenuti a cui è consentito tale attività. Presenti 572, con una capienza regolamentare di 431 unità. Ma non è il sovraffollamento il male peggiore dell’istituto. Il passaggio dalla zona uffici e laboratori a quella detentiva è raccapricciante. Le piccolissime stanze che ospitano i detenuti sono in condizioni vergognose e le docce in comune, di cui solo la metà funzionanti, sono in uno stato inimmaginabile dove la muffa è dappertutto. Due detenuti per stanza, non vi sarebbe la possibilità di una terza presenza. Forse si raggiungono i 3 mq. di spazio a testa, ma comprendendo anche il mobilio. Alcuni detenuti lamentano la presenza di blatte e topi e per quello che è stato visto, vanno creduti. Materassi e cuscini di gommapiuma lercia e rotta. Stato igienico complessivo propedeutico per malattie infettive ed altro. Possibilità per il Magistrato di Sorveglianza di avere il colloquio con il detenuto dal suo ufficio, a mezzo video, mentre l’interessato si trova in una stanza attrezzata per il collegamento. Sorprende che a tale attività assista personale della Polizia Penitenziaria. Preoccupante il divieto di visitare gli spazi di detenzione del reparto destinato al 41bis. I Responsabili dell’Osservatorio Carcere Ucpi: Avv.to Riccardo Polidoro, Avv.to Gian Paolo Catanzariti. I Responsabili per il Lazio: Avv.ti Roberta Giannini e Marco Russo. La Camera Penale di Viterbo: il Presidente, Avv.to Roberto Alabiso Asti: nuova palestra per i detenuti di Alta sicurezza di Manuela Macario La Stampa, 28 maggio 2019 Nuovi attrezzi, pesi, cyclette e tapis roulant per i 215 detenuti del carcere di massima sicurezza di Quarto d’Asti che hanno una palestra completamente ristrutturata. È verde salvia ed è stata inaugurata il 27 maggio dal direttore, Francesca Daquino alla presenza di rappresentanti delle forze dell’ordine, polizia, guardia di finanza, carabinieri, del prefetto Alfonso Terribile e di alcuni amministratori e consiglieri comunali. “La nuova sala - ha detto Daquino - è stata ristrutturata con il contributo della società civile, grazie al volontariato e al Comune di Asti”. Tra le attività collaterali che svolgono i detenuti, invece, c’è la digitalizzazione, prima delle licenze di edilizia e oggi le delibere comunali, grazie all’associazione Effatà. Prosegue il corso di teatro e la collaborazione con il festival Asti Teatro e sono in corso d’opera invece strumenti musicali creati con materiale di riciclo che, con l’associazione Aso, vengono distribuiti nelle scuole. Il direttore ha consegnato 15 attestati ad altrettanti detenuti che ora possono svolgere lavori di manutenzione all’interno della casa di reclusione. Mantova: educazione alla salute e biodanza in carcere www.asst-mantova.it, 28 maggio 2019 L’équipe di medicina penitenziaria di Asst di Mantova propone incontri di educazione alla salute e di biodanza per i detenuti della carcere di Mantova e per gli operatori penitenziari. Educazione alla salute e biodanza per gli operatori penitenziari e la popolazione detenuta. L’équipe di medicina penitenziaria di Asst di Mantova sta proponendo dallo scorso aprile il progetto Enpowerment, nato nel 2017 a Milano, nell’Istituto Penale Minorile (Ipm) Cesare Beccaria. Laura Mannarini, medico coordinatore sanitario per Asst della casa circondariale di Mantova, ha strutturato strategie di intervento per la promozione di corretti stili di vita e il disincentivo ad abitudini dannose per la salute. In base al profilo epidemiologico dei detenuti si definiscono i percorsi di intervento, con vari moduli di “terapia informativa” a differenti livelli di competenza, in una logica di integrazione tra diverse discipline. Le persone aumentano il controllo sulla propria salute se hanno maggior conoscenza e consapevolezza. Questa capacità cresce quando il contesto socio-sanitario le aiuta e le sostiene in questa direzione. Le azioni di prevenzione primaria valorizzano il concetto di “enpowerment”, una strategia che attraverso l’educazione sanitaria e la promozione dei comportamenti favorevoli alla salute fornisce alle persone gli strumenti per prendere le decisioni migliori per il loro benessere, riducendo così le disuguaglianze culturali e sociali. Un’opportunità per ridurre l’asimmetria, sul piano della conoscenza, tra l’operatore sanitario e il paziente. Nella Casa Circondariale di Mantova si stanno proponendo alla popolazione detenuta incontri riguardanti l’igiene alimentare, l’igiene personale e degli ambienti, l’igiene orale e disincentivo al sedentarismo. Per gli operatori penitenziari, si punta su incontri per diminuire lo stress correlato al lavoro e prevenire il rischio biologico in ambienti di lavoro confinati come il carcere. Gli incontri prevedono lezioni teoriche o pratiche e successiva offerta di counselling individuale o di gruppo. Viene inoltre donato ai partecipanti un gadget al fine di favorire la memorizzazione di alcuni concetti chiave (ad esempio la mela verde è stata offerta ai partecipanti all’incontro sull’igiene alimentare come alimento ad “elevato potere saziante”, contrapposto al “junk food”, che favorisce l’insorgenza di malattie come l’obesità). Contro la sedentarietà, è stata introdotta la Biodanza - Disciplina Bionaturale. Si tratta di una attività motoria di gruppo con l’obiettivo di coinvolgere i detenuti e gli operatori sanitari attraverso la musica e il movimento per offrire uno stimolo continuo a muoversi con gioia, migliorare la relazione con gli altri e avere il coraggio di esprimersi, percepire i propri ritmi e conquistare maggiore stima e fiducia in sé stessi e negli altri. Per realizzare il progetto è necessario disporre di un servizio di medicina penitenziaria a “bassa soglia”, cioè di facile accesso, ispirato ai principi della sanità pubblica e della riduzione del danno, dove l’obiettivo primario è quello di alleviare i sintomi, nonché di migliorare la qualità della vita dei pazienti. Il servizio è centrato sui bisogni individuali degli utenti, e lascia la possibile confrontarsi e mettersi in discussione utilizzando dinamiche informali e libere da patti terapeutici. L’integrazione delle aree trattamentali operanti all’interno dell’istituto (Area Sanitaria, Area Educativa, Area Sicurezza) è essenziale per vivere l’esperienza detentiva come momento di educazione sociale e alla salute. Il percorso prevede a breve una evoluzione in “peer to peer education”, e la sua realizzazione alla Casa Circondariale di Milano San Vittore per il gruppo “Giovani Adulti”, sempre con Laura Mannarini, referente del Progetto Enpowerment per Asst Mantova e per Asst Santi Paolo e Carlo Milano. Ci si basa sull’idea di Medicina di iniziativa e di opportunità, cioè un modello assistenziale di gestione delle patologie croniche che non aspetti il sintomo e la richiesta del paziente, ma agisca con azioni di educazione con interventi adeguati e differenziati in rapporto al livello di rischio. Siena: “Fuori dal buio”, i detenuti diventano scrittori Redattore Sociale, 28 maggio 2019 Coordinati dalla giornalista Cecilia Marzotti, un gruppo di reclusi del penitenziario senese hanno sperimentato per la prima volta in un carcere il metodo della scrittura industriale collettiva ideato da Vanni Santoni. Si chiama “Fuori dal buio” ed è un racconto breve scritto a più mani da un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Siena coordinati dalla giornalista Cecilia Marzotti. Il libro è nato dall’idea di sperimentare per la prima volta in un carcere il metodo della scrittura industriale collettiva (SIC), ideato da Vanni Santoni, noto al grande pubblico per aver scritto una serie di romanzi di successo, e Gregorio Magini. Il principio sul quale si fonda il metodo è che tutti gli scrittori, coordinati da una sorta di “direttore artistico”, redigono tutte le parti del racconto/romanzo. La creazione del testo avviene attraverso la compilazione, da parte di ciascun autore, di schede, ognuna delle quali riguarda un aspetto della produzione (un personaggio, un luogo, una scena, ecc.). La scrittura industriale collettiva non consiste, dunque, in una semplice divisione del lavoro, ma, attraverso un’innovativa modalità di composizione, genera una vera e propria rete di scrittori. L’utilizzo di tale metodo narrativo, che sinora ha prodotto in Italia diversi racconti e un romanzo a ben 230 mani, conferisce pertanto un tocco di originalità a “Fuori dal buio”, che rappresenta un primo, valido esperimento di scrittura condivisa da parte di detenuti. Con “Fuori dal buio” i principi della stesura partecipata di un testo hanno trovato concreta applicazione grazie alla appassionata supervisione della giornalista Cecilia Marzotti che, senza alterare l’originalità dei contributi individuali e delle illustrazioni che fanno da corredo al testo, ha coordinato gli scrittori in erba nella redazione dell’elaborato finale. Il libro, la cui trama si snoda tra realtà e finzione, narra la storia di quattro uomini che si incontrano per caso in una località di villeggiatura e incrociano sulla loro strada un personaggio losco che li condurrà a varcare i cancelli di un carcere; tutti, simultaneamente, paiono essere vittime di un ineluttabile destino, ma alla fine riescono a prevalere sulla malasorte e si ritrovano “fuori dal buio”, animati dalla prospettiva di un futuro più roseo. “La scrittura in carcere - ha detto il direttore del carcere Sergio La Montagna - assume una valenza, a mio parere, terapeutica, oserei dire catartica: attraverso di essa i detenuti hanno l’opportunità di raccontare, ma soprattutto di raccontarsi. Spesso lo fanno per rimuovere il loro passato, per chiuderlo in un cassetto e nel contempo per dar voce alle proprie ragioni. Anche in carcere è quindi possibile creare un tempo ed uno spazio in cui prendere la parola e coscienza della propria esistenza. Iniziative come quella del carcere da me diretto e che fioriscono in tanti istituti della pena della Repubblica hanno lo scopo precipuo di fare luce su una realtà troppo spesso dimenticata; servono a ridare dignità a persone che si avvalgono anche della scrittura per dare un senso al tempo della pena. Perché come dice Tabucchi “La letteratura può essere il mezzo per caricare di senso una cosa di per sé insensata come l’esistenza”. Viterbo: le metamorfosi di Ovidio al carcere di Mammagialla di Daniele Camilli tusciaweb.eu, 28 maggio 2019 In scena all’istituto penitenziario uno dei capolavori dell’antichità grazie agli attori della compagnia “Disorganizzata” di Francesco Cerra. “I doni, credi a me, conquistano uomini e dei”. Ovidio, le Metamorfosi. Opera messa in scena qualche giorno fa, davanti ai detenuti, dalla compagnia teatrale “Disorganizzata”. Entrata però nella casa circondariale Mammagialla. Il carcere di Viterbo. Uno spettacolo frutto di un anno di laboratorio integrato. Regia, Francesco Cerra. Una compagnia fatta di professionisti, educatori, disabili e volontari del servizio disabile adulto della Asl, l’Uosdda. Da ottobre a giugno, ogni anno, si incontrano al centro diurno comunale di piazza San Carluccio. Poi la pausa estiva. A maggio lo spettacolo. Dopo un anno di lavoro. Quest’anno al carcere di Viterbo, al centro, nei mesi scorsi di diverse polemiche sulle condizioni di vita denunciate da alcuni detenuti attraverso lettere spedite all’associazione Antigone e poi alla stampa. Al centro, infine, di una manifestazione organizzata da gruppi anarchici che lo scorso fine settimana sono andati sotto le mura dell’istituto penitenziario a portare la loro solidarietà ai carcerati. Come succedeva quarant’anni fa. In tutt’altri clima e temperie. “Il progetto - racconta il regista Cerra - nasce grazie a una consolidata rete territoriale costituita dalla Asl di Viterbo, le politiche sociali del comune, le cooperative sociali Gli anni in tasca e Universale 2000 (Consorzio Il Mosaico), La Compagnia Tetraedro e l’associazione Eta Beta”. Metamorfosi, storie di uomini, piante dei e animali. Mutano forma e natura. Affreschi senza tempo uniti dal tema portante della trasformazione. Ovidio, “gentile maestro in fatto di amore”, come lo definì il drammaturgo e commediografo francese Louis-Benoît Picard. Nello spettacolo portato in carcere dalla compagnia “disorganizzata” tutti gli episodi sono trattati come origine delle cinque grandi forze motrici del mondo antico. Amore, ira, invidia, paura e aletheia, la ricerca che svela. In trasformazione continua. La metamorfosi dove sia le azioni degli uomini che degli dei sono spinte da motori invisibili. “Corpi dissolti dalle fiamme del rogo - come li definisce Cerra - o dai guasti del tempo. Anime che si insediano in un nuovo corpo e così continuano a vivere. Tutto si evolve, senza che nulla si distrugga”. Il teatro disorganizzato delle metamorfosi. Cagliari: “PGNR”, Giovanna Maria Boscani e le forme d’arte tra le carceri sarde di Salvatore Uccheddu unicaradio.it, 28 maggio 2019 Un viaggio surreale, sorprendente e a tratti malinconico attraverso le carceri sarde: Giovanna Maria Boscani, artista sassarese, e Joe Perrino, musicista cagliaritano, a bordo di una vecchia Ape Piaggio, hanno raggiunto tutte le case circondariali dell’Isola. L’obiettivo? Incontrare i detenuti e farsi affidare storie, ambizioni e sogni sotto forma di ex-voto. Il documentario PGNR (Per Grazia Non Ricevuta) ora cerca fondi per la distribuzione tramite una campagna di crowdfounding. Da Uta a Nuchis, da Bancali a Badu e Carros passando per Massama, Isili, Alghero e Is Arenas, l’Ape è diventata la casa per disegni, scritti, oggetti realizzati dai carcerati. Questo è il racconto di Per Grazia Non Ricevuta, film documentario attualmente in montaggio, per la regia di Davide Melis e prodotto dalla società cagliaritana Karel. Il film è alla ricerca di sostenitori che supportino la produzione e distribuzione: dal 1 aprile è partita la campagna di crowdfounding insieme a Banca Etica che ha selezionato Per Grazia Non Ricevuta sul bando “Impatto +”, creato per progetti culturali. L’obiettivo di Karel è raggiungere 15 mila euro: si potranno inviare donazioni diverse. Chi farà una donazione al film riceverà un premio come la locandina del documentario autografata dai protagonisti. Come ricompensa è possibile riceverà anche il dvd nel formato semplice o nel cofanetto speciale. Ma è disponibile anche il modello in scala dell’Ape Piaggio decorata a mano dall’artista Giovanna Maria Boscani. Chi farà una donazione speciale sarà menzionato come produttore associato. “Per Grazia Non Ricevuta” è realizzato con il contributo della Regione Sardegna; e il supporto della Fondazione Sardegna Film Commission. Qui il link per la campagna crowdfounding https://www.produzionidalbasso.com/project/per-grazia-non-ricevuta-docufilm/ Milano: città in bianco e nero, i racconti dei senzatetto in mostra di Roberta Scorranese Corriere della Sera, 28 maggio 2019 Tra scelte difficili e amori sbagliati. Dario e gli altri: il riscatto in una macchina fotografica. “Ecco il mondo visto da chi non ha una casa”. Dario ha 45 anni, una famiglia borghese che vive in Argentina e una macchina fotografica. E se non ci fosse il dormitorio di viale Ortles, a Milano, non saprebbe dove trascorrere la notte: una serie di errori, un amore sbagliato, scelte difficili lo hanno trasformato in un senzatetto. E i suoi, dall’altra parte del mondo, non sanno nulla: “Mi vergogno”, confessa, “non voglio che scoprano come vivo, per loro sarebbe un colpo troppo duro”. Raccontare la città - Però gli resta la macchina fotografica, con la quale ha scoperto di saper leggere e raccontare la città. E così, da oggi, i suoi scatti sono in mostra in uno dei “salotti” culturali più importanti di Milano, le Gallerie d’Italia Piazza Scala, nella mostra 13 Storie dalla Strada. Fotografi senza fissa dimora. Oltre a Dario, altri dodici homeless hanno fotografato la città, soprattutto le realtà difficili o quelle che affrontano un faticoso riscatto, in un progetto sostenuto da Fondazione Cariplo, da tempo in prima linea nell’aiuto nelle situazioni disagiate, e da Ri-Scatti Onlus, che promuove progetti di integrazione sociale attraverso la fotografia. Le foto - “La mia casa è sempre stata tutta la città”, racconta Dario, che è partito proprio dalla sua vertigine di “sradicato” per documentare i bambini del Parco Trotter, posto difficile: in un certo senso anche loro sono alla ricerca di radici più solide, che si riuniscono attorno a laboratori creati per loro, per farli giocare e per farli disegnare. Scorrendo le immagini, affiora una Milano fatta di murali ghignanti dai muri della metro, di famiglie che provano a condividere il peso dei giorni in esperimenti di co-housing, di una palestra dove tirare di boxe vuol dire salvarsi dalla perdizione. Ma anche un laboratorio di restauro e un orto collettivo. Sulla strada - C’è tanta strada, insomma, quella che Dario e gli altri vivono ogni giorno. Massimo, per esempio, ha 56 anni e tre figli. Si sveglia la sera al dormitorio e “non posso credere di essere davvero lì”, racconta. Perché quasi tutti, prima, avevano vite che consideravano normali. Poi, il buio. Però il riscatto, per loro, arriva anche dalla macchina fotografica: il progetto della Onlus ha permesso loro di seguire dei corsi. Molti non ce l’hanno fatta, gli altri sono nella mostra curata da Dalia Gallico. E per qualcuno le cose cominciano a girare: Dario ha da poco trovato un impiego notturno, Massimo si aggrappa a un piccolo contratto che spera si possa rinnovare. Tutti, però si augurano di vivere di fotografia. Impossibile? No, la strada sa sorprendere tutti. Torino: lo street food arriva in carcere, detenuti a scuola di cucina con MasterChef food-lifestyle.it, 28 maggio 2019 Imparare a cucinare per il reinserimento sociale. È questa la nuova scommessa di MasterChef Italia che, in collaborazione con la Cooperativa Sociale Liberamensa, ha ideato un progetto che è stato sviluppato nella Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. Protagonisti i detenuti, sotto la direzione del vincitore di MasterChef All Stars Michele Cannistraro che li ha affiancati per insegnare loro a creare i menù di street food gourmet. Come riportato da AdnKronos, una selezione di 16 creazioni tra focacce, panini, pizze e patate farcite sarà distribuito e commercializzato nei diversi punti di ristori gestiti da Liberamensa nel capoluogo piemontese, tra cui la caffetteria del tribunale, quella del museo Egizio, il bar agenti della casa circondariale e una nuova locazione alla periferia nord del capoluogo piemontese. Le ricette sono sia estive che invernali, e prevedono piatti anche piatti vegetariani. Si tratta di un’iniziativa il cui obiettivo è la possibilità di dare un impiego ai detenuti che escono dal carcere nei settori ristorazione e panificazione. Soddisfazione da parte dello chef, Michele Cannistraro, che ha commentato così questa esperienza social: “Realizzare questo menu è stata un’esperienza bellissima che mi ha dato l’opportunità di lavorare con quattro ragazzi molto motivati. Come a me, dopo essere arrivato ottavo alla terza edizione di Masterchef è stata data una seconda possibilità con la partecipazione a Masterchef All Star, e credo sia importante poter dare una seconda opportunità anche a chi ha sbagliato e sta pagando per gli errori commessi”. Scontare una pena deve avere una meta da raggiungere, che è appunto quello del reinserimento sociale. E l’unica via per poter rendere concreta questa possibilità, è dare un obiettivo ben preciso. “Creare occasioni di inserimento lavorativo - ha sottolineato il direttore del carcere, Domenico Minervini - è importante e utile per gli stessi detenuti, che quando verranno scarcerati avranno una continuità lavorativa e il settore del food è uno dei settori su cui siamo impegnati”. Il Papa: “La paura rende intolleranti e razzisti” di Sergio Valzania Il Dubbio, 28 maggio 2019 Bergoglio nella Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. È stato presentato ieri mattina il messaggio del Santo Padre Messaggio a quanti parteciperanno alla Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà il prossimo 29 settembre, il cui tema sarà “Non si tratta solo di migranti”. L’ammonizione: “Non si tratta solo di migranti” ricorre martellante nel documento. Papa Francesco non si stanca di ricordarci che è impossibile vivere un cristianesimo destrutturato, del quale si accoglie quello che piace e si scarta ciò che pesa, che appare difficile, che mette alla prova. La cultura dello scarto è il rovescio dell’antropologia cristiana, fondata sull’incontro, sulla condivisione e sulla ricchezza delle identità, che arrivano ad essere fungibili. La parabola del Buon Samaritano è raccontata da Gesù per spiegare chi sia il prossimo. Si conclude con una domanda “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” Soccorso e soccorritore si confondono nel rapporto d’amore, di dare e ricevere. Nel suo messaggio Papa Francesco propone quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare e avverte che non vanno riferiti solo ai migranti. Questi ultimi sono solo un caso particolare, di evidenza estrema, dell’esclusione e dello scarto degli ultimi, atteggiamenti che sono posti alla base di una concezione errata, ma diffusa, della società umana. Proprio perché più prossimi, i migranti ci interrogano con maggiore intensità, parlandoci di loro quanto di noi, del nostro egoismo e della nostra indisponibilità a fare quello che con ogni evidenza appare giusto. Il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”, ricorda papa Francesco. La riflessione del pontefice si allarga e abbraccia le problematiche che determinano l’emigrazione e quindi la presenza dei migranti, buona parte delle quali si annidano negli egoismi internazionali, nell’esportazione della guerra e nella vendita di armi a paesi ai quali viene negata in questo modo la possibilità stessa dello sviluppo. “Non si tratta solo di migranti” rifiuta quindi di essere un invito a sviluppare atteggiamenti superficiali di accettazione. Richiede per prima cosa di riconoscere le nostre responsabilità negli squilibri esistenti nel sistema delle relazioni internazionali e rifiuta come non cristiana ogni concezione che tenda a immaginare un’umanità divisa in entità statuali antagoniste e conflittuali. Nella visione cristiana il destino dell’umanità è chiaro, si tratta della salvezza raggiunta in comune, in quanto popolo di Dio, all’interno del quale non sono concepibili distinzioni fra essere umano ed essere umano. Il valore di ciascuno dei figli di Dio è infinito. In riferimento ai piccoli, in ogni senso, Papa Francesco ha voluto inserire nel testo del messaggio una citazione evangelica di delicatezza poetica “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli” (Mt 18,10) E si sa quanto sia importante il volto di Dio, il parlare con lui faccia a faccia nella tradizione profetica. Alcuni vogliono vedere nella decisione di presentare oggi il documento pontificio un distinguo per l’atteggiamento disinvolto nei confronti della cultura e della tradizione cattoliche che ha caratterizzato alcuni comportamenti messi in atto durante la campagna elettorale. Certo papa Francesco non intende polemizzare con chi ha convocato i santi e la stessa Madonna nei ranghi dei propri sostenitori durante un comizio. Scrivendo in chiusura che attraverso i migranti “il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio” il pontefice ha fatto un discorso più ampio e complesso. Sarebbe ingiusto e sbagliato riferire ad altri un monito che convoca tutti, ciascuno per la propria parte. Con il giusto desiderio di essere compresi nella benedizione conclusiva del messaggio, offerta in questi termini “per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio”.` Tutela della privacy: per i colossi del web ora l’Europa fa scuola di Massimo Sideri Corriere della Sera, 28 maggio 2019 Per l’Europa pur in ritardo sulla tecnologia rispetto a Usa e Cina, la possibilità di definire le regole del gioco della vita online rimane, comunque, un grande risultato. Sabato, prima del voto e delle analisi che in queste ore stanno tentando di decifrare politicamente i risultati delle urne, l’Europa a suo modo, con uno stile fin troppo sobrio, aveva già vinto: il 25 maggio è stato l’anniversario dell’entrata in vigore della Gdpr, il regolamento europeo sulla privacy dei dati. Il 25 maggio del 2018 era esploso da poche settimane lo scandalo di Cambridge Analytica che aveva coinvolto Facebook. I due eventi erano stati così vicini che ancora oggi rimane il legittimo sospetto di una sorta di caso esploso ad orologeria per evitare conseguenze peggiori proprio con l’entrata in vigore della Gdpr che prevede sanzioni fino al 4 per cento del fatturato mondiale delle società. Di fatto, con quasi mezzo milione di cittadini coinvolti, abbiamo assistito al più grande test di difesa delle informazioni online dell’era moderna. E se un anno fa l’ingresso della regolamentazione era stato visto come un ulteriore obbligo burocratico oggi possiamo parlare di scuola europea. Come ha ricordato il garante Ue della privacy al Corriere pochi giorni fa, il magistrato Giovanni Buttarelli, anche gli Stati Uniti hanno iniziato a comprenderne l’importanza. L’autoregolamentazione sta fallendo: le società online, spesso monopoliste, si comportano come nuovi leviatani onnivori che assorbono tutto, anche al di là delle singole volontà manageriali. E così anche campioni del liberismo come Mark Zuckerberg di Facebook e Tim Cook di Apple, quest’ultimo grazie all’intercessione dello stesso Buttarelli, hanno chiesto una Gdpr made in Usa. Per l’Europa spesso maltrattata dai sovranisti e dimenticata da tutti gli altri è una soddisfazione non solo morale: pur in ritardo sulla tecnologia rispetto a Usa e Cina, la possibilità di definire le regole del gioco della vita online rimane, comunque, un grande risultato. Tanto da lasciare intravedere un suo ruolo stabile nella geopolitica dell’innovazione. Ucraina. La denuncia dei detenuti di Odessa si trasforma in rivolta di Yurii Colombo Il Manifesto, 28 maggio 2019 Accuse alla Guardia Nazionale di aver provocato l’incendio per stroncare la protesta in atto contro le condizioni di vita estreme nel penitenziario. La protesta dei detenuti del carcere di Odessa N.51, iniziata già cinque giorni fa per denunciare le condizioni di vita nel penitenziario, si è trasformata da ieri pomeriggio in vera e propria ribellione. Secondo quanto riporta l’agenzia moscovita Interfax “la protesta avrebbe assunto un carattere di insorgenza quando sono stati rapite tre guardie carcerarie e tre paramedici”. Secondo quanto è trapelato anche quattro secondini sarebbero stati feriti con armi rudimentali. Subito dopo, secondo il capo del servizio penitenziario statale ucraino Sergey Starenky, i rivoltosi avrebbero appiccato degli incendi nelle celle e costruito delle barricate. “Approfittando della confusione 15 detenuti, tra cui alcuni reclusi per reati politici, sarebbero riusciti a evadere” ha aggiunto il funzionario. Secondo alcuni testimoni oculari sarebbero circa un centinaio i detenuti barricati nell’edificio. Il giornale odessita Dumskaya informa inoltre che autopompe mobili e ambulanze sono state già rese operative al fine di spegnere l’incendio e portare in salvo eventuali feriti. La protesta dei detenuti era iniziata la scorsa settimana in modo pacifico. I reclusi intendevano protestare per lo stato di abbandono delle celle e la cattiva qualità del vitto. Secondo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti che ha visitato le carceri ucraine nel 2018, la situazione al loro interno sarebbe “drammatica”. Per il Comitato il numero delle accuse per maltrattamenti rimane allarmante. La situazione della maggior parte delle strutture “è in costante deterioramento” mentre il sovraffollamento delle celle renderebbe “inumana” la vita dei detenuti. Che “continuano a essere tenuti in stanze comuni dove non esiste alcuno spazio privato e la dignità umana è calpestata”, si legge nel rapporto. In serata è stato reso noto che la Guardia nazionale dopo aver circondato l’edificio lo avrebbe assaltato liberando gli ostaggi e ponendo fine alla rivolta. Secondo il giornale ucraino Strana tra i detenuti ci sarebbe almeno un morto e molti feriti. Gli avvocati difensori di alcuni degli insorti accusano ora la Guardia Nazionale di aver provocato criminalmente essa stessa l’incendio per poi poter adire a una prova di forza contro i rivoltosi. Secondo i legali un detenuto sarebbe morto dopo essersi tagliato le vene in segno di protesta, al momento dell’assalto delle forze speciali. Venezuela. Amnesty: accertare cause morte di 30 detenuti nel carcere di Acarigua di Milena Castigli interris.it, 28 maggio 2019 “Esempio della violenza costante e dell’abbandono cui è sottomessa la popolazione carceraria”. “Accertare le cause perché non esiste ancora una spiegazione plausibile” in riferimento a quanto avvenuto nel carcere venezuelano di Acarigua lo scorso venerdì quando 30 detenuti sono morti e 19 poliziotti sono rimasti feriti nel corso di una rivolta carceraria che secondo alcune voci sarebbe proseguita per dieci giorni. Lo chiede Amnesty Internacional insieme a diverse altre associazioni umanitarie locali e nazionali. Il carcere di Acariguas, stato di Portoguesa circa 300 chilometri a sudovest di Caracas, è sovraffollato e da anni i prigionieri denunciano abusi da parte del personale. Le autorità carcerarie hanno parlato di tentativo di evasione di massa. Secondo Oscal Valero, capo della sicurezza dello stato del Portuguesa, a causare la morte dei detenuti sarebbe stata un tentativo di fuga. Il suo racconto parla di carcerati che avrebbero lanciato “una pioggia di proiettili”, facendo addirittura esplodere tre bombe contro gli agenti. Ma le cause e la dinamica dei fatti non sono in realtà state chiarite e le ong sollevano dubbi sulla veridicità della versione ufficiale. Amnesty in un comunicato ha sottolineato che è “dovere dello Stato vigilare sui diritti delle persone private di libertà e non affrontare con forza eccessiva le loro richieste”. La mancanza di spiegazioni sulla morte di persone “in custodia dello Stato” fa sì che “il Governo di Nicolás Maduro sia il principale responsabile di queste morti”. Quanto avvenuto rappresenta, perciò, “un ulteriore esempio della violenza costante e dell’abbandono cui è sottomessa la popolazione carceraria in Venezuela”, conclude Amnesty. Secondo l’Observatorio Venezolano de Prisiones la rivolta dei detenuti sarebbe scattata dopo una “retata” della polizia e l’uccisione di un detenuto. Brasile. Guerra tra gang in carcere, 15 vittime in Amazzonia di Victor Castaldi Il Dubbio, 28 maggio 2019 Sotto accusa la disumanità del sistema penitenziario. L’istituto di Copanj era già stato teatro due anni fa di una rivolta sanguinosa che provocò la morte di oltre 55 persone. Una vera e propria guerra all’arma bianca, un’esplosione di ferocia incontrollata che fotografa il degrado assoluto che regna nella carceri brasiliane, tra le più affollate e disumane del pianeta e sempre più spesso teatro di truculenti fatti di cronaca. Sono almeno 15 le vittime di una brutale battaglia scattata tra due gruppi di detenuti del complesso penitenziario Anisio Jobim (Compaj) nella capitale dello stato brasiliano dell’Amazzonia, Manaus, città sperduta nella giungla. L’informazione è stata confermata nel corso di una conferenza stampa del segretario all’amministrazione penitenziaria dello stato, colonnello Marcos Vinicius Almeida, secondo cui le violenze sono scoppiate durante le ore di visita. Secondo i primi rilievi dei tecnici dell’Istituto di medicina legale di Manaus, le vittime sono state uccise per asfissia o accoltellate con diversi oggetti, addirittura con degli spazzolini da denti. Ci vuole molta forza e molta selvaggia determinazione per uccidere un essere umano con uno spazzolino da denti. “Non si è trattato di una ribellione contro le guardie carcerarie ma una lotta interna tra diversi gruppi, un regolamento di conti. Mai si erano registrati omicidi durante le visite. Alcuni sono stati uccisi nelle proprie celle a sbarre chiuse, altri hanno commesso gli omicidi davanti ai familiari nelle sale colloquio”, ha aggiunto Almeida. Il segretario ha anche detto che nessun secondino è stato preso in ostaggio, non ci sono stati feriti tra gli agenti e nessun detenuto ha tentato la fuga dal perimetro del penitenziario. Per stabilire i motivi e le rispettive responsabilità delle violenze, il segretario all’amministrazione penitenziaria ha riferito che sarà l’inchiesta aperta sul caso a fare luce sulle cause dei disordini e che, grazie alle telecamere interne che hanno ripreso tutto, sarà possibile accertare l’identità dei responsabili. Il governo amazzonico ha riferito di aver rinforzato i controlli della polizia all’esterno del presidio e sulle strade limitrofe, e che tutti nei centri di detenzione dello stato sono stati inviati rinforzi. Il Copanj è lo stesso istituto di pena dove a gennaio del 2017 un violentissimo scontro tra fazioni criminali avverse aveva causato la morte di 56 persone nel corso di quella che fu definita come “la più grande strage del sistema carcerario brasiliano” con scene infernali e diversi detenuti uccisi tramite decapitazione con i machete. All’epoca gli scontri furono causati da una lotta per la conquista del controllo del traffico di droga dentro e fuori il penitenziario tra il Primeiro comando da capital (Pcc) di San Paolo e la Familha do Norde, gruppo criminale locale affiliato al Comando vermelho (Cv) di Rio de Janeiro. Lo stato allarmante delle prigioni brasiliane era stato fotografato dall’Ong Usa Human Right Watch nel suo ultimo rapporto: “Nel corso degli ultimi decenni, le autorità brasiliane hanno sempre abdicato alle loro responsabilità di mantenere l’ordine e la sicurezza. Questo fallimento viola i diritti dei prigionieri ed è una manna per bande, che fanno uso di prigioni come terreno di reclutamento”. Argentina. “Basta grilletti facili di Stato”, nelle piazze esplode la rabbia di Serena Chiodo Il Manifesto, 28 maggio 2019 Quattro giovanissimi uccisi dalla polizia, la ministra della sicurezza Bullrich sotto accusa. In tre anni sono state 1303 le vittime della violenza istituzionale. E le madri chiedono giustizia in piazza. Il corteo di protesta che ha sfilato venerdì scorso nelle strade di Buenos Aires. Il dolore per la morte di quattro giovanissimi uccisi dalla polizia. La rabbia, tanta, e l’esasperazione. Si respirava questo, nella marcia convocata dal Comitato delle famiglie delle vittime del gatillo facil, il nome (“grilletto facile”) con cui in Argentina si indica la violenza istituzionale. Un corteo che ha visto sfilare migliaia di persone la sera di venerdì 24 maggio a Buenos Aires, da Congresso a Plaza de Mayo. “Basta grilletto facile / basta repressione / non è solo un poliziotto / è tutta l’istituzione”, uno degli slogan più urlati. L’omicidio dei quattro ragazzi - tre erano minorenni - è avvenuto a San Miguel del Monte, paese a meno di cento chilometri dalla capitale. Secondo le prime ricostruzioni, i quattro si trovavano in auto la mattina di lunedì 20 maggio, quando la polizia ha iniziato un inseguimento immotivato, terminato con diversi colpi di pistola sparati dai poliziotti contro i giovani, che hanno perso il controllo del veicolo. Sono morti così Camila López (13 anni), Gastón Domínguez (14), Danilo Sansone (13) e Aníbal Suárez (22). Un’altra tredicenne, Rocío Guagliarello, è in ospedale in gravissime condizioni. Tredici poliziotti al momento sono stati sollevati dall’incarico. Quattro sono in arresto con l’accusa di omicidio aggravato. E mentre proseguono le indagini, si allarga la rosa delle persone che potrebbero essere coinvolte, anche nell’occultamento di prove. Da oggi è in stato di fermo il vicecommissario della polizia bonariense Franco Micucci. In prima fila al corteo, un gruppo di madri, le organizzatrici della manifestazione. Tutte con indosso una maglia: “Lo Stato è responsabile” scritto sulla schiena, e un giovane volto stampato sul petto. Tutte hanno perso un figlio per mano della polizia. E tutte sono ancora in attesa di giustizia. Secondo il Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale (Correpi), sono 1303 le persone uccise dalla polizia negli ultimi tre anni di governo Cambiemos. Lo stato uccide una persona ogni 21 ore. La maggior parte delle vittime sono minorenni, provenienti da villas miserias, le favelas argentine, e periferie. In particolare la ministra della Sicurezza Patricia Bullrich è stata indicata dai manifestanti come responsabile. Proprio il suo ministero nel dicembre 2018 ha reso operativa la risoluzione che amplia i casi in cui si permette alle forze dell’ordine di usare le armi. Per denunciare questo e le sue drammatiche conseguenze, sono più di 280 le famiglie che marciano ogni 27 di agosto, chiedendo giustizia. Solo poche ore prima della manifestazione di venerdì, Bullrich affermava che “il caso Chocobar è un esempio di come devono agire le forze dell’ordine”: si riferiva a Luis Chocobar, il poliziotto che nel febbraio 2018 sparò alle spalle, e uccise, un giovane coinvolto nell’aggressione a un turista. Un atto legittimato e difeso tanto dalla ministra della Sicurezza quando dallo stesso presidente Mauricio Macri, che ricevette il poliziotto presso la Casa Rosada, sede del potere esecutivo, congratulandosi per il suo operato. “Il caso di Luciano Arruga è una costruzione, come il caso di Santiago Maldonado”, ha proseguito Bullrich. “Che ci venga a spiegare perché l’autopsia di Luciano lo indica come un uomo bianco e adulto! Che mi spieghi perché ho trovato mio figlio 5 anni e 8 mesi dopo che l’hanno ucciso!”, è stata la risposta dalla piazza di Raquel Alegre, madre di Luciano Arruga, ucciso dalla polizia nel 2009, a 16 anni, e il cui corpo venne seppellito in un cimitero come “NN”. Proprio a seguito della posizione assunta da Patricia Bullrich, diverse organizzazioni chiedono ora la rimozione della ministra. “Ciò che la ministra rivendica costituisce il peggior passo indietro della democrazia, dopo l’indulto concesso ai genocidi della dittatura”, si legge nel comunicato diffuso dalle Madri di Plaza de Mayo insieme a tanti altri gruppi. Turchia. Concluso sciopero della fame dei detenuti contro isolamento di Ocalan ansamed.info, 28 maggio 2019 Dopo aperture Ankara a leader Pkk, protesta di 3 mila detenuti. Si è concluso dopo oltre sei mesi in Turchia lo sciopero della fame di circa tremila detenuti contro l’isolamento in carcere del leader del Pkk curdo Abdullah Ocalan. Lo ha annunciato la deputata dell’Hdp Leyla Guven, diventata un simbolo della protesta, che era giunta a 200 giorni di digiuno. La decisione è giunta su sollecitazione dello stesso Ocalan, dopo che il governo di Ankara gli ha permesso nell’ultimo mese di incontrare due volte i suoi legali, che non vedeva dal 2011, e ha assicurato che potrà ricevere visite regolari degli avvocati nell’isola-prigione di Imrali sul mar di Marmara, dove è detenuto da vent’anni. “La nostra resistenza con lo sciopero della fame ha raggiunto il suo scopo. Ma la nostra lotta contro l’isolamento e per la pace sociale continuerà in tutti i campi”, ha spiegato Guven in una nota. Dopo l’incontro con gli avvocati, Ocalan aveva anche lanciato un appello per un ritorno a un “metodo di negoziazione democratico”, suggerendo la necessità di “prendere in considerazione” le “sensibilità” della Turchia nella regione, incluso in Siria. Secondo alcuni analisti, l’apertura a sorpresa verso “Apo” del governo di Recep Tayyip Erdogan sarebbe legata al tentativo di recuperare il consenso dell’elettorato curdo in vista della ripetizione del cruciale voto per l’elezione del sindaco di Istanbul del 23 giugno, dopo l’annullamento della vittoria del candidato dell’opposizione Ekrem Imamoglu. Iraq. Lo spettro di un nuovo Camp Bucca di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 maggio 2019 Migliaia di miliziani iracheni e stranieri nelle prigioni di Stato e dei servizi segreti. Che ora rischiano di diventare i nuovi centri della radicalizzazione. Intervista a giornalista iracheno Salah al Nasrawi. Sono trascorsi cinque anni da quando lo Stato islamico prese Mosul, in Iraq, e Abu Bakr al Baghdadi annunciò la nascita del “califfato”. Cinque anni in cui milioni di iracheni sono finiti a vivere sotto il controllo amministrativo e militare di Daesh, intere città sono state rase al suolo e le istituzioni irachene hanno mostrato una volta di più di non essere in grado di garantire sicurezza e stabilità a un paese già collassato. Nel dicembre 2017 l’allora premier iracheno Al-Abadi annunciava con malcelata soddisfazione la sconfitta dello Stato islamico, ma da allora con cadenza regolare cellule di Daesh fanno saltare in aria kamikaze imbottiti di esplosivo nel paese, a cominciare dalla capitale Baghdad. Presente con il sangue, l’Isis lo è anche nelle insufficienti e già stracolme prigioni di Stato con decine di migliaia di miliziani già condannati a morte o in attesa di giudizio. Tra loro almeno 20mila foreign fighters che i paesi di origine non vogliono indietro. Ma i rischi sono consistenti: processi farsa, pena di morte, evasioni e il pericolo concreto di ricreare un nuovo Camp Bucca, il famigerato centro di detenzione statunitense che durante l’invasione dell’Iraq divenne la culla di Daesh, il centro di organizzazione, reclutamento e radicalizzazione del futuro Stato islamico. Qui era detenuto al Baghdadi, insieme ad altri otto futuri leader del “califfato”, tra cui colui che poi sarà chiamato alla gestione dei foreign fighters, Abu Qasim. Secondo le stime affidate nel decennio scorso al Washington Post dal capo di polizia Saad Abbas Mahmoud, il 90% dei detenuti rilasciati sarebbero tornati a combattere sotto la bandiera del jihad qaedista. Eppure il rischio non sembra preoccupare i paesi di origine dei foreign fighters. Per una Gran Bretagna che ha revocato la cittadinanza a oltre 100 miliziani per non doversene prendere carico, c’è una Francia che sotto banco tenterebbe accordi con Baghdad, i miliziani francesi dietro le sbarre in cambio di sostegno economico e militare. Ne abbiamo parlato con Salah al Nasrawi, analista e giornalista iracheno. Quanti foreign fighters dell’Isis sono detenuti in Iraq? E quanti loro familiari, mogli e figli? Le autorità irachene non hanno reso noto il numero esatto di miliziani dell’Isis né rivelato le loro nazionalità e il loro status. Numeri ufficiosi forniti da diverse fonti, compresi i gruppi per i diritti umani, parlano di circa 20mila miliziani, compresi 8mila già condannati a morte o alla prigione. La maggior parte sono detenuti in campi o in carceri in giro per l’Iraq, altri sono detenuti dagli apparati dell’intelligence o della polizia federale nei loro centri di detenzione in attesa di interrogatorio. Si ritiene che centinaia di miliziani siano sotto il controllo del Krg (governo del Kurdistan iracheno), molti in campi a Dohuk, Erbil e Suleymaniya. Mancano numeri precisi sulle donne straniere e i minori. I due miliardi a miliziano che Baghdad avrebbe chiesto ai paesi di origine per gestire i foreign fighters è una provocazione o un’idea concreta? Negli ultimi mesi l’Iraq ha detto di aver ricevuto decine di foreign fighters e di aver intenzione di portarli a giudizio. Il 13 febbraio l’agenzia irachena Nas ha riportato di preparativi per avviare il processo, in un campo militare vicino Baghdad, di 328 miliziani dell’Isis di diverse nazionalità, consegnati dalle forze della coalizione. Diversi media hanno citato la presunta offerta dell’Iraq, ovvero “accogliere” questi miliziani - tra cui migliaia di stranieri, uomini, donne e bambini - e giudicarli in cambio di denaro. Alcuni articoli parlano di una richiesta di 10 miliardi, altri di un miliardo l’anno. Non ci sono dichiarazioni ufficiali da parte del governo di Baghdad ma diversi parlamentari hanno protestato e chiesto all’esecutivo di chiarire. In una conferenza stampa del 13 aprile alcuni deputati hanno chiesto al governo di rifiutare la richiesta di ospitare in Iraq i miliziani stranieri. Media e organizzazioni per i diritti umani parlano di processi di massa, udienze di pochi minuti che terminano molto spesso con la pena di morte, anche per le donne... Le corti irachene sono state spesso nel mirino dei gruppi per i diritti umani per la mancata garanzia di giustizia e di processi equi. In molti casi, il processo non dura che pochi minuti e gli imputati sono condannati a morte sulla base di confessioni estorte sotto tortura. Simili processi rendono difficile per i governi europei affidare all’Iraq propri cittadini, senza reali garanzie. L’Iraq ha una strategia nel trattare questo fenomeno? L’Iraq manca di una strategia nazionale per affrontare il problema sul piano legale, politico e di sicurezza. Finora non è riuscito a implementare la risoluzione Onu 2379 del 2017 che avrebbe dovuto aiutare Baghdad a gestire il fenomeno con sostegno nelle indagini e raccolta delle prove per i crimini commessi dall’Isis. L’Iraq dovrebbe lavorare all’ampliamento dello spazio d’azione del team Onu nato da quella risoluzione. Ma sfortunatamente le autorità irachene finora hanno fallito nel costringere il Consiglio di Sicurezza ad agire per sviluppare un meccanismo internazionale che giudichi i combattenti Isis e dia giustizia alle loro vittime. La scorsa settimana il governo iracheno ha nominato Salama Al-Khafaji rappresentante dell’Iraq nel team Onu. Al Khafaji è una dentista ed ex membro del Consiglio governativo creato dagli Stati uniti dopo l’invasione del 2003. Non ha esperienza legale o investigativa. Dunque Baghdad non è in grado di gestire tale situazione... L’Iraq non è il posto migliore in cui detenere i miliziani dell’Isis e processarli, è mal equipaggiato per la detenzione di questi terroristi: dal 2003 le evasioni sono state la routine, nel 2014 circa 4mila terroristi sono fuggiti da tre prigioni per poi unirsi all’Isis in Iraq e Siria. La corruzione e l’aiuto da parte dei secondini sono stati indicati come cause della fuga: se si può pagare per tenere dei terroristi in prigione, si può anche pagare per farli scappare. Lo scorso dicembre 21 miliziani Isis sono fuggiti dal campo di detenzione di Susa, a Suleymaniya. Funzionari del governo curdo hanno poi fatto sapere che 15 di loro sono stati arrestati mentre cercavano di uscire dal Kurdistan iracheno. Krg e governo federale si coordinano nella gestione dei detenuti? Il coordinamento è minimo tra Krg e governo di Baghdad, non esiste una politica nazionale. Le due parti tentano solo di massimizzare i benefici e minimizzare i costi. Egitto. Gravi violazioni e crimini di guerra nel Sinai settentrionale hrw.org, 28 maggio 2019 L’esercito e le forze di polizia egiziane nella penisola del Sinai stanno commettendo gravi e dilaganti abusi a danno dei civili, ha dichiarato Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi. Alcuni di questi abusi, parte di una campagna in corso contro membri di un gruppo locale associato all’Isis, costituiscono crimini di guerra. Il rapporto di 134-pagine, “If You Are Afraid for Your Lives, Leave Sinai! Egyptian Security Forces and Isis-Affiliate Abuses in North Sinai”, offre uno sguardo dettagliato sul conflitto, di cui non si parla a sufficienza, che ha ucciso e ferito migliaia di persone - tra cui civili, militanti e membri delle forze di sicurezza - da quando le ostilità si sono inasprite nel 2013. L’indagine di Human Rights Watch, durata due anni, ha documentato crimini come arresti arbitrari di massa, sparizioni forzate, tortura, esecuzioni extragiudiziali, ed attacchi verosimilmente illegali, via aria e via terra, a danno di civili. Benché l’esercito e le forze di polizia egiziane siano responsabili per la maggioranza degli abusi documentati nel rapporto, anche i militanti estremisti hanno commesso crimini orribili, come il rapimento e la tortura di numerosi abitanti, l’assassinio di alcuni di loro, e l’esecuzione extragiudiziale di membri delle forze di sicurezza in detenzione. “Anziché proteggere gli abitanti del Sinai, le forze di sicurezza egiziane hanno mostrato, nella loro lotta ai militanti, totale disprezzo per le vita dei residenti, trasformando la loro quotidianità in un incubo ininterrotto di abusi” ha dichiarato Michael Page, vicedirettore per il Medio Oriente e Nord Africa a Human Rights Watch. “Questo orribile trattamento ai danni della popolazione del Sinai dovrebbe essere un altro campanello d’allarme per Paesi come gli Stati Uniti e la Francia che approvano ciecamente le operazioni antiterrorismo dell’Egitto.” Per il rapporto, Human Rights Watch ha intervistato, tra il 2016 e il 2018, 54 abitanti del Sinai settentrionale oltre ad attivisti, giornalisti e altri testimoni, tra cui due ex-ufficiali dell’esercito, un soldato, e un ex-soldato che hanno lavorato nel Sinai settentrionale, e un ex-funzionario statunitense per la sicurezza nazionale con esperienza su questioni egiziane. Human Rights Watch ha anche esaminato numerose dichiarazioni ufficiali, post su social media, inchieste della stampa e decine di immagini satellitari per identificare demolizioni di abitazioni e strutture detentive segrete dell’esercito. L’esercito è riuscito, di fatto, a bandire il giornalismo indipendente nel Sinai settentrionale e ha imprigionato molti giornalisti attivi nell’area. Human Rights Watch ha riscontrato che le ostilità nel Sinai settentrionale, con combattimenti sostenuti tra forze organizzate, si sono inasprite fino al livello di conflitto armato non-internazionale, e che le parti in causa hanno violato leggi internazionali di guerra così come leggi locali ed internazionali sui diritti umani. La presa di mira dei civili e la violenza da essi subìta, così come la mancata distinzione, da entrambi i lati, tra civili e combattenti, ha annientato i diritti fondamentali dei civili e distrutto uno spazio significativo per la mobilitazione politica pacifica o per l’opposizione. Gli abusi hanno anche contribuito alla crescente militarizzazione del conflitto e allo sfollamento della popolazione. “Perché tutto ciò? Dobbiamo portare armi e stare dalla parte dei militanti, o quella dell’esercito, o dobbiamo vivere come vittime? Siamo alla mercé di tutti,” ha detto un abitante a Human Rights Watch, descrivendo come l’esercito lo avesse punito distruggendo la sua casa dopo che militanti dell’Isis (noto anche come Stato Islamico) lo avevano rapito e torturato. Da gennaio 2014 fino a giugno 2018, 3076 presunti militanti e 1226 membri di esercito e polizia sono rimasti uccisi in combattimento secondo quanto riportato da comunicati governativi e dalla stampa. Le autorità egiziane non hanno pubblicato cifre delle perdite civili, né pubblicamente riconosciuto di aver compiuto violazioni. Human Rights Watch ha scoperto che le autorità egiziane hanno frequentemente annoverato vittime civili tra i presunti militanti uccisi, e che centinaia di civili sono stati uccisi o feriti. Human Rights Watch ha concluso, sulla base di dichiarazioni dell’esercito e della stampa egiziana, che l’esercito e le forze di polizia hanno arrestato più di 12mila abitanti del Sinai settentrionale da luglio 2013 fino a dicembre 2018. L’esercito ha riconosciuto ufficialmente circa 7300 arresti, ma solo raramente ha rilasciato i nomi degli arresati o le accuse. Human Rights Watch ha scoperto che molte di queste persone sono state arrestate arbitrariamente e fatte sparire, e che altre sono state condannate a morte al di fuori di un processo giudiziale. Migliaia di persone hanno probabilmente lasciato il governatorato negli anni recenti, per fuggire dal conflitto oppure espulse con la forza dall’esercito. Il Sinai settentrionale è un governatorato scarsamente popolato, con meno di 500mila abitanti, confinante con Israele e la striscia di Gaza. Gruppi armati sono presenti nel Sinai settentrionale da tempo, ma attacchi contro installazioni governative, forze dell’esercito e truppe israeliane sono cominciati ad aumentare dopo la rivolta del 2011 che portò alle dimissioni di Hosni Mubarak, presidente egiziano per decenni. Le violenze si inasprirono drammaticamente dopo luglio 2013, quanto l’esercito egiziano obbligò il presidente Mohamed Morsy a dimettersi e lo arrestò. Un gruppo di militanti locali, Ansar Bayt al-Maqdis, promise fedeltà all’Isis a fine 2014, cambiano nome in Wilayat Sina (“Provincia del Sinai”). Come risposta, l’esercitò dispiegò oltre 40mila membri delle forze armate, comprese unità navali, d’aviazione e di fanteria. L’Egitto ha coordinato tali dispiegamenti con Israele e, stando a resoconti della stampa, avrebbe permesso a Israele di condurre raid aerei all’interno del Sinai mirati ai militanti. In questo rapporto, Human Rights Watch ha documentato almeno 50 arresti arbitrari, tra cui 39 persone che probabilmente sono state fatte sparire con la forza dall’esercito o dalla polizia. Quattordici di loro sono ancora catalogate, oltre tre anni più tardi, come persone scomparse. L’esercito ha tenuto detenuti in isolamento e in condizioni orrende, ben lontano da qualunque tipo di supervisione giudiziaria. L’esercito e la polizia hanno detenuto bambini di appena dodici anni insieme ad adulti, ma solitamente hanno detenuto le donne separatamente. Nel corso degli ultimi anni, ha riscontrato Human Rights Watch, l’esercito potrebbe aver detenuto in segreto fino a mille detenuti nella base militare di al-Galaa, uno dei tre principali centri di detenzione individuati dal rapporto. Ex-prigionieri hanno testimoniato che le condizioni di detenzione, sia sotto l’autorità dell’esercito sia quella della polizia, includevano carenza di cibo, acqua, cure mediche, e i detenuti erano rinchiusi in piccole celle sovraffollate. Soldati e funzionari hanno torturato molti tra i detenuti, anche tramite pestaggi e scariche elettriche. Human Rights Watch ha documentato il decesso di tre persone avvenuto durante la loro detenzione. L’esercito e la polizia hanno ucciso alcuni di coloro che erano stati segretamente detenuti nel deserto senza processo, dichiarando più tardi che erano rimasti uccisi in delle sparatorie. Human Rights Watch ha documentato 14 casi del genere e ne ha documentati altri quattro in precedenza. L’esercito egiziano ha reclutato residenti del Sinai settentrionale per formare delle milizie che hanno svolto un ruolo notevole nelle violazioni, ha riscontrato Human Rights Watch. Queste milizie irregolari e non ufficiali hanno aiutato l’esercito - il quale era privo di esperienza significativa nel Sinai settentrionale precedentemente al conflitto - fornendo intelligence e svolgendo missioni per suo conto. I membri delle milizie usano i loro poteri de facto per arrestare arbitrariamente residenti, e regolare conti e dispute personali. Hanno anche partecipato a torture ed esecuzioni extragiudiziali. Provincia del Sinai, il braccio locale dell’Isis, si è radicato in un piccolo angolo del Sinai settentrionale lungo il confine Gaza-israeliano e vi mantiene una presenza persino dopo anni di combattimenti prolungati. I suoi militanti hanno commesso crimini orribili, hanno detto alcuni intervistati, tra i quali il rapimento di numerosi abitanti e membri dell’esercito e della polizia, e l’uccisione di alcuni di loro al di fuori di un processo giudiziale. Gli attacchi indiscriminati di Provincia del Sinai, per esempio con l’uso di ordigni esplosivi improvvisati in aree popolose, hanno ucciso centinaia di civili e condotto allo sfollamento forzato degli abitanti. Il gruppo ha anche deliberatamente attaccato dei civili. Membri di Provincia del Sinai furono probabilmente responsabili, nel novembre 2017, dell’attentato alla moschea al-Rawda nel Sinai settentrionale che uccise almeno 311 persone, compresi bambini, in quello che fu l’attentato più letale che si ricordi perpetrato da un gruppo armato non affiliato a uno stato nella storia moderna dell’Egitto. In alcune parti di Rafah e Sheikh Zuwayed, due villaggi nel Sinai settentrionali, il gruppo ha imposto i propri tribunali di Sharia (legge islamica) che hanno presieduto “processi” iniqui, ordinato posti di blocco, e attuato alcuni regolamenti islamici. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e la Commissione Africana sui Diritti dell’Uomo e dei Popoli dovrebbero aprire commissioni d’inchiesta indipendenti per fare chiarezza sugli abusi in Sinai, dato il fallimento delle autorità egiziane al riguardo. I partner internazionali dell’Egitto dovrebbero bloccare immediatamente tutta l’assistenza militare e di sicurezza fino a che l’Egitto non ponga fine ai suoi abusi. I crimini di guerra, secondo il diritto internazionale, possono essere perseguiti senza alcun limite di tempo e molti stati, secondo il principio di giurisdizione universale, permettono sul proprio territorio l’arresto e il processo d’individui per crimini commessi ovunque nel mondo. “Il braccio di Isis nel Sinai settentrionale merita la condanna che ha ricevuto a livello globale e dovrebbe rispondere appieno dei suoi abusi atroci, ma la campagna dell’esercito, macchiata da violazioni altrettanto gravi, tra cui crimini di guerra, andrebbe a sua volta apertamente criticata, non lodata” ha detto Page. “Gli alleati più stretti dell’Egitto dovrebbero fermare il loro sostegno ad una campagna militare violenta che ha lasciato una scia di migliaia di vittime civili”. Le violenze del Sahel e le sue prigioni reali di Mauro Armanino Avvenire, 28 maggio 2019 Per visitare i detenuti di Marassi a Genova i cancelli telecomandati da varcare erano sette. A Kollo, prigione a una trentina di chilometri da Niamey, le porte da passare sono appena tre. Una recinzione metallica, abbellita da un’artistica porta di ferro appena pitturata, annuncia il primo controllo dell’identità del visitatore. Segue poi un cortile di sabbia che conduce all’ingresso della prigione. Il secondo controllo è più accurato da quando, tra i detenuti, ci sono centinaia di sospetti militanti o simpatizzanti di Boko Haram da anni in attesa di giudizio. E più ancora da quando la prigione di massima sicurezza di Koutoukalé è stata attaccata da presunti salafiti che volevano liberare alcuni compagni lì detenuti. Si raggiungono e si passano, infine, le due ultime porte che permettono l’accesso al piccolo cortile interno di forma rettangolare. In alto, c’è il percorso di ronda delle guardie, si vedono un muretto e uno scampolo di filo spinato arrotolato, sul quale si posa il cielo. Ma qui, e in tutto lo spazio del Sahel, le peggiori prigioni sono altre. Per esempio quella della violenza disarmata di cui l’ingiustizia costituisce la fonte di approvvigionamento principale. Proprio l’ingiustizia, trasformata in fenomeno naturale o culturale, è alla radice dell’esclusione sociale della maggior parte dei cittadini del Paese. Chi non ha (denaro, beni e, dunque, potere) non è nessuno, e la sparizione forzata di persone nel Sahel rende visibile quanto la società stava già producendo. La presa in ostaggio dell’educazione statale, svuotandone il senso di luogo di trasmissione creativa e critica del sapere in funzione del bene comune, data ormai da alcuni lustri. Il sistema sanitario esprime la stessa radicale selettività: solo chi ha soldi in quantità sufficiente può sperare di essere accolto, visitato e accudito. Ma è il rapimento del futuro alle nuove generazioni a costituire il peggiore reato di cui dovranno rendere conto gli amministratori della politica. Un crimine reso finora impunito. Anche la violenza armata sta diventando - e non da oggi - la più visibile, assumendo il monopolio di tutta la violenza. E costituisce un’abusiva ma reale prigione per migliaia di persone. Prima di tutto per quanti continuano a perpetrare atti di morte e di terrore. Prigionieri incatenati a una logica basata sul tradimento del fattore umano che accomuna gli abitanti di questo strano pianeta chiamato Terra, casa comune per tante generazioni. E poi la prigione delle vittime, costrette a fuggire per salvarsi od occupate a seppellire i morti. Centinaia di migliaia, milioni di esseri umani costretti ad abbandonare le case, i campi e la speranza di una vita differente. Una prigione mentale e ideologica che vede nelle armi, sempre più sofisticate, e nei soldati, sempre meglio equipaggiati e preparati, la chiave della vittoria finale. La prigione del pan-militarismo del Sahel è una trappola a forma di carcere nella quale siamo da tempo caduti. La prigione della paura è quella che, tra tutte, appare come la più subdola e pericolosa. Si è andata formando col tempo e le traversie post e neo-coloniali. Una sorta di contagio che ha infettato gli intellettuali, i militanti più agguerriti, i partiti di opposizione, i sindacati e buona parte della società civile. Si è andata affermando l’autocensura del pensiero, della parola e infine dell’azione. Pochi i mezzi di comunicazione passati indenni da questa triste malattia, che ha espunto la verità dal proprio bagaglio di viaggio. Le complicità autoctone si sono viste confermate da strategie esteriori che sotto la minaccia economica e finanziaria hanno debellato ogni velleità di autonomia politica. Financo la religione, manipolata a uso e abuso del potere, si è lasciata imbavagliare. Per codardia e interesse, ha venduto l’assoluto del messaggio della misericordia divina che umanizza per la stabile tranquillità di chi è al potere. Nel carcere di Kollo un detenuto oggi era contento perché, dopo 15 anni, ha per la prima volta ricevuto la visita di un cugino.