Quando borse e biscotti sono “Made in Carcere” di Rosanna Lampugnani Corriere del Mezzogiorno, 27 maggio 2019 Il marchio creato da Luciana Delle Donne che ha lasciato l’alta finanza milanese per tornare al Sud e oggi lavora “dietro le sbarre”, da Trani a Nisida. L’ultimo premio - per l’impegno civile - è arrivato qualche settimana fa, consegnato a Firenze nelle mani di Luciana Delle Donne. Il primo é del 2007, ma i più importanti sono due: quello di ambasciatrice delle imprenditrici pugliesi, assegnato a Bruxelles nel 2009 e quello di “ambassador” per Expo 2015. Ciò nonostante Luciana, salentina di 57 anni, non dorme sugli allori, anzi: entra ed esce dalle carceri di Lecce, di Trani, di Matera e da qualche tempo anche dai minorili Nisida e Fornelli. Un andirivieni affatto sospetto perché Luciana ha scelto vent’anni fa di abbandonare i vertici dell’alta finanza milanese (è stata la prima in Italia a “inventare” la banca on line) per tornare a Sud e occuparsi degli ultimi, cioè dei carcerati. Così si è inventata un marchio, “Made in carcere”, perché è lì, dietro le sbarre che le donne - e a Matera anche gli uomini - confezionano borse e gadget, mentre ai ragazzi di Napoli e Bari è affidata la preparazione di “Scappatelle”, biscotti quasi integralmente bio, di grande qualità e molto buoni per il palato, lo stomaco e l’anima. Tutto questo daffare ha uno scopo: “Aiutare chi vuol provare a ricostruirsi una vita, offrire una seconda chance - e i numeri ci dicono che l’80% di chi lavora dietro le sbarre una volta in libertà non sgarra più. Inoltre siamo noi che comprando i prodotti “Made in carcere” ci contaminiamo con la consapevolezza di ciò che é il mondo carcerario e questo genera benessere, per questo le nostre cose sono belle e fanno bene”. Luciana lavora con un paio di società e insieme decidono le strategie aziendali della cooperativa sociale e assumano i lavoratori, che guadagnano tra i 600 e i 900 euro al mese: li scelgono grazie alla “domandina” che i detenuti presentano o alle indicazioni che arrivano dalle direzioni carcerarie, e a quel punto inizia il corso di formazione di 3 mesi. “Insegniamo a utilizzare il materiale di scarto (per esempio abbiamo iniziato a collaborare con il carcere di Matera perché il divanificio Calia ci dà i suoi tessuti) e a cucire in modo semplice, non più ad alto livello”. Una scelta dovuta, perché il carcere é “un luogo di lavoro aleatorio”: dopo sei mesi dall’inizio dell’attività, nel 2006, le 15 sarte di “Made in carcere” grazie ad un indulto uscirono di prigione portandosi via competenze, professionalità acquisite. Imparata la lezione “Made in carcere” nel frattempo è diventato un brand apprezzato innanzitutto dai marchi della grande distribuzione, dalle università, da Granarolo, Slow food, Action aid ed altre associazioni no profit. Anche la Rai, che in occasione dell’inaugurazione di Matera capitale europea della cultura ha apprezzato le borse, i portafogli, i contenitori per materiale tecnologico e i porta passaporti di “Made in carcere”, si è rivolta al negozio on-line delle “ragazze” salentine, acquistando oggetti belli, colorati e “che fanno bene alle persone anche se costano un po’ di più”, insiste Luciana. Vendere, per la cooperativa, significa anche realizzare progetti sociali (come quello per la barca Mediterraneo che aiuta gli emigranti) e anche per questo da 6 anni la Luiss di Roma invia a Lecce un gruppo di studenti per comprendere cosa significa la vita dietro le sbarre. E l’hanno capito anche i dirigenti di Nisida e Fornelli: “I minori sono devastati dall’ambiente in cui crescono, ma fare i biscotti con prodotti di alto livello significa essere rispettati, perché nelle loro mani vengono affidate preziosità”. Il pestaggio del giornalista Origone e la memoria di Genova 2001 di Lorenzo Guadagnucci* Il Manifesto, 27 maggio 2019 A Genova centinaia di persone furono picchiate come il cronista di Repubblica per strada senza motivo e spesso anche arrestate. Il pestaggio di giovedì ci consegna una polizia di stato vittima dei suoi antichi fantasmi, ancora a disagio con i limiti tipici delle democrazie più sane. Siamo ancora distanti dal voltare pagina. Con una semplice operazione di taglia e incolla potremmo prendere le sequenze del pestaggio inflitto a Genova al giornalista di Repubblica Stefano Origone e inserirle in uno dei tanti documentari sul G8 di Genova 2001. Decine, forse centinaia di persone furono picchiate come lui per strada senza motivo e spesso anche arrestate. Fra tanti episodi, documentati anche in tribunale, potremmo ricordare i pestaggi di piazza Manin, poco lontano dal luogo dell’aggressione al cronista di Repubblica: numerosi attivisti della Rete Lilliput furono aggrediti, picchiati, portati via. Di fronte all’ipotetico taglia e incolla non ci accorgeremmo del trucco, perché trucco in fondo non c’è. Se nel 2019 assistiamo a scene che sembrano del 2001 è perché la polizia di stato non ha mai davvero considerato con vergogna e quindi rinnegato la polizia di Genova G8. Perciò non possiamo sorprenderci troppo di fronte alla vicenda del cronista di Repubblica e semmai dovremmo domandarci se ci sarebbe stata altrettanta eco mediatica se al posto di Origone ci fosse stata un’altra persona, un anonimo cittadino senza tessera dell’ordine dei giornalisti. Ce lo dovremmo chiedere anche per le incredibili - letteralmente non credibili - affermazioni lette sui giornali, cioè che il pestaggio sarebbe stato fermato da un vicequestore perché questi avrebbe riconosciuto il giornalista. Non può essere andata così; se tale ricostruzione fosse vera, significherebbe che il pestaggio di un uomo a terra, già ridotto all’impotenza, sarebbe proseguito se si fosse trattato di una persona comune, fuori dalle conoscenze del vicequestore. Il quadro sarebbe anche più grave di come appare, ma siamo certi che il cronista e il vicequestore smentiranno davanti ai magistrati questa ricostruzione. Allarma tuttavia che essa sia fatta propria da media, politici e osservatori vari, come se l’atto di fermare un brutale pestaggio fosse comprensibile solo in caso di riconoscimento della vittima come persona perbene e innocente. Le cronache dicono che il questore di Genova ha visitato il giornalista in ospedale, chiesto scusa e assicurato un’inchiesta rapida ed efficace: è un gesto certamente apprezzabile, ma non possiamo dimenticare che le parole di scuse possono forse bastare a risolvere una lite, un diverbio, anche un incidente violento fra privati cittadini, ma non sono sufficienti in caso di relazioni asimmetriche, di abusi di potere, di azioni sbagliate compiute in nome della collettività. Le scuse, in questi casi, devono essere accompagnate da gesti concreti, a tutela della dignità e credibilità dell’istituzione: il questore dovrebbe insomma dimettersi e con lui il capo della squadra mobile. Dopo un gesto del genere, si potrebbe aprire una discussione seria sullo stato di salute democratica della polizia di stato; potremmo indagare davvero su quel filo nero che lega il disastro del 2001 ai fatti del 2019. Scopriremmo probabilmente che il filo non si è mai spezzato per l’atteggiamento tenuto in questi anni dai vertici della polizia di stato, che hanno rifiutato, appoggiati da governi e maggioranze di ogni colore, di assumersi piena responsabilità dei fatti e di accettare fino in fondo le sentenze della magistratura, incluse quelle della Corte europea dei diritti umani, che prescrivevano fra l’altro l’introduzione dei codici di riconoscimento sulle divise e l’esclusione dalla polizia dei funzionari condannati nel processo Diaz, oltre che una legge sulla tortura. L’Italia, come sappiamo, ha scelto la via della fuga dalle responsabilità: una legge sulla tortura è stata sì approvata, ma scritta in modo da renderla inefficace e sostanzialmente inutile, o forse peggio che inutile; i codici di riconoscimento e l’esclusione dei condannati sono stati bellamente ignorati, accampando fasulle motivazioni tecnico-giuridiche. Alla fine possiamo dire che il caso di Stefano Origone (al quale va la mia piena e sentita solidarietà; credo di sapere, memore della notte dei manganelli alla Diaz, che cosa intenda quando dice: “ho avuto paura di morire”), il pestaggio genovese, dicevo, ci consegna una polizia di stato vittima dei suoi antichi fantasmi, ancora a disagio con le regole, i limiti, le norme di trasparenza tipici delle democrazie più sane. Genova 2001 ha insegnato poco e siamo ancora distanti dal voltare pagina: è questo l’amaro messaggio che ci arriva dai manganelli abbattuti sul corpo di un malcapitato cronista. *Comitato Verità e Giustizia per Genova Protezione internazionale solo se c’è un danno grave di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 27 maggio 2019 La protezione internazionale può essere concessa nel solo caso in cui venga provato il pericolo di un danno grave al richiedente. La Corte di cassazione con sentenza n. 10108/2019 pone un principio di diritto per il quale sia possibile la concessione della protezione internazionale nel solo caso in cui venga provato il pericolo di un danno allo straniero qualora permanga nel paese di provenienza. Uno straniero di origine gambiana ricorreva al tribunale di Napoli avverso la decisione della Commissione territoriale che aveva rigettato sua richiesta di protezione internazionale. Il ricorrente deduceva come nel proprio paese di origine, ove aveva effettuato il servizio militare a seguito del rifiuto di eseguire l’ordine di un superiore era stato fatto oggetto di un comportamento persecutorio, da parte dei suoi superiori che lo avevano addirittura incarcerato e torturato. Il procedimento continuava il proprio corso per Cassazione ove veniva deciso da parte degli ermellini. La domanda di annullamento della sentenza di secondo grado veniva rigettata, difettandone i presupposti per il suo accoglimento ed in particolare la prova dello stato di pericolo e l’idoneità della situazione del ricorrente, a potere ritenere probabile il pericolo di un danno grave alla sua persona. Il ricorrente infatti, osservavano gli ermellini, non era stato in grado di adempiere all’onere probatorio che gli competeva a seguito della richiesta di un intervento dello Stato italiano a proprio favore, che gli impone di svolgere un attività diretta a provare la situazione che rende necessario un provvedimento di protezione internazionale. Nel caso di specie, osservavano gli ermellini, in atti non vi era alcuna prova circa la situazione di grave rischio per il ricorrente. Non solo, ma ad ogni modo, si legge nella motivazione, la situazione rappresentata dal ricorrente che si fondava su di un attività persecutoria della quale era già stato fatto oggetto tempo addietro, non poteva far ritenere probabile un danno alla sua persona nel caso di rientro nel paese d’origine, con il venir meno pertanto di uno dei presupposti fondamentali richiesti dalla normativa per l’emissione del provvedimento. Consulta: no alla confisca del prodotto del reato per abuso di informazioni privilegiate di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2019 Corte costituzionale - Sentenza 2 aprile - 20 maggio 2019 n. 122. La Corte costituzionale con la sentenza n.112 del 2019 pubblicata il giorno 15 del corrente mese dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58 -Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria - nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto 2018 n. 107, recante “Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE” nella parte in cui dispone l’applicazione della confisca nella forma diretta o per equivalente anche al prodotto del reato e non solo al suo profitto. Il caso specifico - Il caso di specie trae origine dalla contestazione a carico di un cittadino dell’abuso di informazioni privilegiate ottenute nella sua qualità di consigliere di amministrazione di una società, all’accertamento della condotta illecita conseguiva l’applicazione di una sanzione pecuniaria e la confisca di alcuni beni immobili di cui lo stesso era il titolare. La corte d’appello rigettava la richiesta di annullamento delle sanzioni applicate tanto che il procedimento proseguiva per Cassazione, il ricorrente preliminarmente eccepiva la palese illegittimità costituzionale della norma il cui contenuto violava in maniera evidente gli articoli 3 e 42 della Costituzione. L’obiezione di legittimità, si fondava sull’asserita violazione del dettato costituzionale della disposizione nella parte in cui consente la confiscabilità del prodotto del reato, vale a dire all’equivalente della somma del profitto dell’illecito (ossia la plusvalenza ritratta dalle illecite operazioni di trading) e dei mezzi impiegati per realizzare l’illecito (ossia il denaro o le altre utilità impiegate dall’agente per finanziare dette operazioni di trading)”. La questione veniva ritenuta fondata e gli atti trasmessi alla Corte costituzionale per il suo esame. La decisione della Consulta - La tesi difensiva viene ritenuta fondata da parte dei giudici della Consulta i quali ravvisano nel contenuto dell’articolo 187-sexies una palese violazione del dettato costituzionale e della normativa sovranazionale. Osservano i giudici della Consulta come la norma oggetto del procedimento presenti un contenuto contrastante con i criteri ritenuti necessari per la norme penali al fine di potere essere ritenute costituzionali. Infatti al fine di presentare tale carattere gli illeciti penali debbo contenere pene determinate nella loro entità in maniera proporzionata alla gravità dell’illecito al quale conseguono. Nel caso invece dell’articolo 187-sexies, secondo i giudici la pena determinata pare evidentemente eccessiva e assolutamente sproporzionata rispetto alla condotta illecita, con un evidente contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, non solo ma l’applicazione estesa al prodotto del reato pare determinata in violazione dell’art. 49, paragrafo 3, del Cdfue. Peraltro proseguono i magistrati della Consulta un ulteriore aspetto d’illegittimità viene rilevato anche dal contrasto con il diritto di proprietà previsto dall’articolo 42 della Costituzione, infatti ove venisse consentita una confisca estesa anche al prodotto del reato, il diritto di proprietà verrebbe sicuramente compromesso al di fuori dei limiti previsti dal dettato costituzionale. I giudici della Corte costituzionale pertanto dichiarano con la sentenza 122/2019 l’illegittimità costituzionale dell’articolo 187- sexies del decreto legislativo n. 58/1998 nella parte in cui prevede che la confisca venga applicata non al solo profitto del reato ma anche al suo prodotto. Il concetto di frode nell’inadempimento contrattuale nelle pubbliche forniture Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2019 Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti dei privati contro la Pa - Frode nelle pubbliche forniture - Malafede contrattuale - Elemento qualificante. Deve ritenersi integrata la fattispecie di frode in pubbliche forniture di cui all’art. 356 cod. pen. quando l’inadempimento del contratto è fraudolento, nel senso che si possa rinvenire una malafede contrattuale intesa come espediente malizioso o ingannevole, tale da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 maggio 2019 n. 21777. Frode nelle pubbliche forniture - Reato ex art. 356 c.p.- Esecuzione del contratto - Consegna di cose in tutto od in parte difformi dalle caratteristiche convenute - Configurabilità del reato - Sufficienza. Integra il delitto di frode in pubbliche forniture la condotta dolosa di colui che consegna cose in tutto o in parte difformi dalle caratteristiche convenute, senza che occorra necessariamente la dazione di “aliud pro alio” in senso civilistico. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 7 luglio 2016 n. 28301. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Frode nelle pubbliche forniture - Inadempimento fraudolento degli obblighi contrattuali - Rilevanza - Condizioni - Fattispecie. Il delitto di cui all’art. 356 cod. pen. presuppone un inadempimento fraudolento che si ponga come momento di una complessiva inesecuzione della prestazione, letta nella sua integralità e non parcellizzata tramite i singoli momenti attraverso i quali si realizza, salvo che gli stessi assumano un rilievo essenziale rispetto alla corretta esecuzione degli obblighi assunti. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto non configurabile il delitto in esame, con riferimento ad una esternalizzazione di servizi regionali a favore di una società privata, in presenza di un singolo inadempimento costituito dall’essere stato un dipendente adibito ad una funzione diversa da quella pattuita). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 13 dicembre 2013 n. 50334. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti dei privati contro la P.A. - Frode nelle pubbliche forniture - Concorso nel reato. Risponde di concorso nella fraudolenta inesecuzione dei contratti di pubbliche forniture anche chi, pur non rivestendo il ruolo di interlocutore immediato della Pubblica amministrazione interessata, fornisca prodotti, energie lavorative e quant’altro direttamente impiegato dall’impresa appaltatrice per l’esecuzione dell’opera o del servizio pubblico oggetto della prestazione contrattuale, sempre che abbia la consapevolezza che la cosa fornita sia impiegata direttamente nell’esecuzione dell’opera pubblica e si ponga rispetto a essa come elemento essenziale per la sua realizzazione. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 13 dicembre 2013 n. 50334. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei privati - Frode nelle pubbliche forniture - Elemento oggettivo - Mero inadempimento contrattuale - Irrilevanza - Malafede contrattuale - Necessità - Criteri - Indicazione - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del delitto di frode nelle pubbliche forniture, non è sufficiente il semplice inadempimento del contratto, richiedendo la norma incriminatrice un “quid pluris” che va individuato nella malafede contrattuale, ossia nella presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tali da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso la consegna di “aliud pro alio” nelle forniture a numerosi comuni di apparecchi per la rilevazione automatica dell’infrazione al rosso semaforico, osservando che il mancato controllo della scheda preposta alla trasmissione del segnale alle telecamere di ripresa non fu dovuto a frode o ad errore, ma alla motivata convinzione dell’autorità amministrativa che l’accertamento tecnico sugli apparecchi in questione dovesse riguardare il solo dispositivo, con esclusione dei relativi accessori). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 11 febbraio 2011 n. 5317. Padova: volontariato e non profit, la vera ricchezza “dentro” di Tatiana Mario La Difesa del Popolo, 27 maggio 2019 Con un rapporto quasi di uno a uno tra volontari e detenuti, la Casa di Reclusione di Padova rappresenta un unicum nazionale. Il volontariato e il non profit sono un valore aggiunto senza il quale l’umanizzazione della pena e la rieducazione sarebbero un’utopia. Intervista al direttore Claudio Mazzeo. Ciò che appare immutabile, granitico a chi lo osserva da fuori, è invece un organismo vivo, di cui prendersi cura e con cui stare al passo. Il carcere, ogni carcere, cambia repentinamente, si evolve, è diverso da qualsiasi altro. Claudio Mazzeo, da ventisei anni è direttore di istituti di pena prima al Sud, nella sua terra d’ordine in Sicilia nelle Case circondariali di Trapani, al Piazza Lanza di Catania e a Caltagirone, poi al Nord, prima a Cuneo (con il reparto di massima sicurezza) e ora da quasi un anno e mezzo alla Casa di reclusione Due Palazzi di Padova e al circondariale di Rovigo. “Oggi mancano fondi per qualsiasi cosa - è l’amara considerazione di Mazzeo - Il trattamento detentivo ha un costo che gli istituti italiani faticano sempre di più a sostenere e, dunque, l’umanizzazione della pena è possibile fino a un certo punto. Ma Padova è una realtà fortunata, forse unica nel panorama nazionale, perché da decenni esiste una profonda sinergia tra il carcere e il territorio. Questo significa riuscire a fare molto anche in assenza di risorse. Penso alle associazioni che garantiscono le esigenze primarie ai detenuti più poveri fino alle attività culturali come lo studio, il teatro, lo sport, la musica… Alle cooperative che danno lavoro a 150 detenuti (altri 130 sono impiegati direttamente dall’amministrazione penitenziaria, ndr). Senza dimenticare la Chiesa di Padova che con la parrocchia assicura cinque messe festive frequentate da circa 250 persone ogni settimana, la catechesi, l’accompagnamento spirituale, la formazione ai sacramenti”. Com’è cambiato il carcere da quando nel 1993 ha iniziato la sua carriera? “Le faccio un esempio emblematico: al circondariale di Caltagirone ho visto il primo volontario. Era una suora. Oggi al Due Palazzi abbiamo 500 volontari per una popolazione di circa 600 persone di una decina di nazionalità diverse: quasi un rapporto di uno a uno. Allora i detenuti non avevano grandi opportunità, trascorrevano tutto il tempo in cella con le conseguenze negative che questo comporta. Pian piano in Italia le cose si sono trasformate, con una consapevolezza diversa, più vicina al dettato costituzionale della pena intesa come rieducazione. Il carcere sarà sempre un luogo di sofferenza, ma è necessario aprirlo sempre di più, sebbene questo comporti maggiori rischi da fronteggiare per garantire la legalità; le persone detenute hanno bisogno di relazioni positive, non possono vivere senza. Solo da qui può innescarsi il loro cambiamento interiore”. Come stanno i detenuti al Due Palazzi? “A Padova la situazione non è così grave come in altre parte d’Italia però i problemi psichiatrici e psichici continuano a esserci; le patologie, che sono nella maggior parte dei casi strettamente legate alla pena, sono alte e numerosi detenuti seguono terapie antidepressive. Avendo però la possibilità di muoversi, di uscire dalla cella per frequentare la scuola, il lavoro, le attività in generale, si avverte meno il peso della detenzione. Al Due Palazzi ci sono anche parecchi anziani (il più vecchio ha 78 anni) con patologie cardiocircolatorie, ipertensione, diabete. Tra i maggiori problemi c’è il caldo d’estate che rende insopportabili le condizioni di vivibilità. Lo scorso anno siamo riusciti a sostituire i televisori e ad acquistare frigoriferi e ventilatori per chi non poteva permetterselo. L’istituto, che risale agli anni Ottanta, avrebbe bisogno di un’importante e generale ristrutturazione”. Il lavoro basta? “Ne servirebbe sicuramente di più per garantire una maggiore rotazione tra i detenuti, impiegandone un numero superiore. Cambierebbe tutto: non solo il lavoro è rieducazione, ma aiuta il detenuto a mantenersi, a contribuire al sostegno della famiglia e, una volta scontata la pena, la recidiva si abbassa notevolmente. Inoltre, il detenuto povero studia qualsiasi mezzo illecito per guadagnare”. Quale dovrebbe essere il rapporto del carcere con la città di Padova? “Il 10 giugno ho invitato il sindaco a far visita ai suoi 600 cittadini che vivono qui, a fermarsi con loro, a parlare di diritto di cittadinanza, di lavoro, di reinserimento sociale… di ciò che vuole pur di avviare una relazione con loro. Personalmente mi piacerebbe che i detenuti del Due Palazzi si prendessero cura della loro città in forma volontaria, con attività di pubblica utilità che aiutassero Padova a essere ancora più bella e in ordine. Sarebbe un doppio vantaggio”. Dal calcio al centro di documentazione Per rendersi conto della portata non profit al Due Palazzi, bastano due esempi. Poco più di un mese fa la polisportiva Pallalpiede, dopo essersi aggiudicati per anni la coppa disciplina, ha vinto il campionato di terza categoria: 31 giocatori detenuti di dieci etnie diverse. Ristretti Orizzonti da oltre vent’anni pubblica “da dentro” Ristretti, il periodico d’informazione e cultura sul Due Palazzi, cura il centro di documentazione nazionale, coordina le attività di prevenzione che coinvolgono migliaia di studenti ogni anno che, da tutto il Veneto e non solo, varcano le porte del carcere per ascoltare la testimonianza di chi sta scontando la pena e ha rielaborato i propri reati. Anche quest’anno, il 10 maggio Ristretti orizzonti ha organizzato la tradizionale giornata di studi all’interno del Due Palazzi su “La cultura della prevenzione, l’incultura dell’emergenza”: un centinaio i partecipanti e una decina di ospiti di rilievo, una su tutti la toccante testimonianza di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo Borsellino ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992. Campobasso: la rivolta dei detenuti per la dignità di Laura Fazzini osservatoriodiritti.it, 27 maggio 2019 Oltre 170 detenuti in una prigione fatta per 106. Il 60% trattato con psicofarmaci, rispetto al 25% a livello nazionale. Strutture fatiscenti. Attività ai minimi termini. Ecco perché è scoppiata la rivolta nel carcere di Campobasso. Meno attività in prigione. Meno associazioni. Meno visite mediche. Tanto che Antigone, l’associazione per i diritti dei detenuti, lo aveva denunciato già alcune settimane fa: il clima è incandescente tra i detenuti. Fino ad arrivare alla sera del 22 maggio, quando nel carcere di Campobasso è scattata la rivolta, con materassi bruciati e sedie rotte. La rivolta, iniziata da un recluso che ha minacciato di ferirsi con un taglierino, è scoppiata nella seconda sezione destinati ai reati comuni. Dopo aver chiuso l’ingresso del reparto con materassi e suppellettili, 20 detenuti hanno dato fuoco a parte dei mobili, tenendo così in ostaggio l’intero piano. Una situazione terminata dopo diverse ore grazie all’intervento del vicecomandante. Gian Antonio Fazzini, referente regionale di Antigone per il Molise, parla da mesi delle difficoltà interne all’istituto. “L’attuale supplente dirigente Irma Civitareale ha dato una stretta a tutte le attività, creando un clima di tensione e malumore che non aiutano a migliorare una situazione già difficile di sovraffollamento”. Il carcere, infatti, ha una capienza di 106 posti ma ospita attualmente oltre 170 detenuti, in una vecchia struttura dell’Ottocento a forma panottica, di difficile gestione per la sua ampia estensione in cinque edifici fatiscenti. “La sezione dove è scoppiata la rivolta è fatta da persone trasferite dalle grandi carceri romane. Da quando è stata fatta la riforma delle macroregioni (che ha accorpato i dipartimenti penitenziari di tre regioni, in questo caso unendo Lazio, Abruzzo e Molise, ndr), le carceri più piccole vengono usate come discarica. I casi più difficili di Rebibbia vengono portati qui”, denuncia Fazzini. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap), che non ha risposto alle domande poste da Osservatorio Diritti sull’evento di Campobasso, ha attuato una politica di smistamento dei detenuti tale da portare a un’alta percentuale di stranieri, con il 45% nel capoluogo molisano rispetto a una media nazionale del 33% e una presenza del 60% di detenuti trattati con psicofarmaci, rispetto al 25% nazionale. “Si è creata una vera e propria galera, con situazioni precarie sia per la salute che per la dignità umana. Speriamo vivamente che questo evento drammatico porti a un cambio di regia, confermando l’arrivo della nuova dirigente entro pochi giorni”, conclude Fazzini. Anche Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute e già fondatore di Antigone, si è recato presso il carcere per verificare la difficile situazione. Nei giorni scorsi l’associazione Antigone ha presentato il nuovo rapporto sulla realtà detentiva in Italia, sottolineando le criticità attuali. “Le pene aumentano e quindi aumentano i detenuti, malgrado gli accessi in carcere diminuiscano”, spiega Alessio Scandurra, relatore dello studio. Al 30 aprile 2019 sono 60.439 i detenuti, per una capienza regolare di 50 mila posti. Un sovraffollamento al 129%, che si avvicina alla cifra sanzionata dalla Corte Europea nel 2013. Un aumento dovuto anche al decreto sicurezza che ha allungato il periodo detentivo per molte condanne. Le problematiche evidenziate dal lavoro di Antigone sono legate soprattutto al diritto alla salute, che non vede ancora uniformate le norme dell’Ordinamento penitenziario alla riforma della sanità penitenziaria del 2008. Le Asl territoriali quindi non possono accedere negli istituti liberamente, obbligando così i detenuti a lunghe attese e richieste specifiche per visite mediche generiche. “Abbiamo un governo che fa campagne sulla sicurezza, criminalizzando indistintamente e creando difficoltà a chi opera come noi da anni per adempiere al mandato costituzionale”, dice Scandurra. Malgrado ci sia un’estensione delle pene alternative alla detenzione, rimane una grande differenza tra Nord e Sud come dignità intramuraria e rispetto dei diritti dei detenuti. “A Siracusa da diverso tempo non funziona il telefono. Per un detenuto che deve stare dentro pochi anni questa è una condanna nella condanna. Come facciamo a dare dignità alle persone quando mancano i diritti fondamentali?”, conclude il responsabile di Antigone. Spoleto (Pg): alta tensione in carcere, esplode la rivolta dei detenuti perugiatoday.it, 27 maggio 2019 Altissima tensione nel carcere di Spoleto, dove alcuni detenuti hanno dato vita a una rivolta. A denunciarlo è Fabrizio Bonini, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Altissima tensione nel carcere di Spoleto, dove alcuni detenuti hanno dato vita a una rivolta. A denunciarlo è Fabrizio Bonini, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Si è trattato di una rivolta in due Sezioni comuni del reparto giudiziario dove sono ubicati una grande maggioranza di detenuti stranieri di religione islamica. Poco dopo le 15 i detenuti si sono barricati ed hanno iniziato a distruggere tavoli carrelli per il vitto, finestre e suppellettili vari. La situazione è stata gestita con grande professionalità in primis dal personale in servizio in quelle sezioni e poi da tutto il personale intervento”. E ancora: “La situazione è stata molto complicata per la sicurezza interna”. Carinola (Ce): segate sbarre della cella, due detenuti evasi nella notte quotidiano.net, 27 maggio 2019 Due detenuti sono evasi dal carcere Novelli di Carinola, provincia di Caserta. La fuga sarebbe avvenuta tra l’una e le 3 della scorsa notte. La polizia penitenziaria ha subito avviato le ricerche dei due reclusi, nazionalità albanese, rispettivamente di 26 e 28 anni. I due erano in cella per sequestro di persona, concorso in ricettazione, rapina, lesioni e furto. Hanno segato le sbarre e si sono dileguati complice l’oscurità. Per far luce sull’ennesimo grave episodio è stata avviata una indagine della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, in parallelo è in corso un’indagine interna per ricostruire le modalità dell’evasione. Le ricerche dei due pregiudicati sono state estese ai territori delle province di Caserta e Napoli con il supporto di Carabinieri e Polizia di Stato. La Casa circondariale di Carinola, come hanno sottolineato alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria, è da tempo carente sotto il profilo del personale e dell’allarme perimetrale, segno che sono sempre più numerosi i criminali immigrati da tenere in custodia in Italia, in proporzione agli agenti. Torino: “in quarant’anni di carcere ho imparato a non giudicare” Di Dario Basile Corriere della Sera, 27 maggio 2019 Da 40 anni don Domenico Ricca è cappellano del carcere minorile “È cambiata la città e sono cambiati i giovani: oggi sono meno violenti”. “Dietro le sbarre ho imparato a non giudicare”. È diventato il cappellano del carcere minorile di Torino esattamente quarant’anni fa e, da dietro le sbarre, ha visto la città cambiare. Don Domenico Ricca, per tutti Meco, ha uno sguardo severo che si scioglie in un sorriso gentile. Oggi, settantaduenne, continua a dedicare la sua vita ai ragazzi reclusi. Entrò in carcere per la prima volta nel 1979. “La prima impressione fu traumatica. Il direttore mi accolse dicendomi: caro reverendo io non insegnerò mai a lei come si fa il cappellano e lei non mi insegnerà come si fa il direttore”. “Dietro le sbarre ho imparato a non giudicare”. È diventato il cappellano del carcere minorile di Torino esattamente quarant’anni fa e, da dietro le sbarre, ha visto la città cambiare. Don Domenico Ricca, per tutti Meco, ha uno sguardo severo che si scioglie in un sorriso gentile. Oggi, settantaduenne, continua a dedicare la sua vita ai ragazzi reclusi. Che ricordo ha del suo primo ingresso nel carcere nel 1979? “La prima impressione fu traumatica. Il direttore mi accolse dicendomi: caro reverendo io non insegnerò mai a lei come si fa il cappellano e lei non mi insegnerà come si fa il direttore. Gli interni del penitenziario erano veramente brutti, era una struttura molto simile a quella degli adulti. Mi trovai davanti ottanta detenuti, tutti maschi”. Chi erano i ragazzi incarcerati? “Una ventina provenivano dai campi nomadi della città, gli altri erano tutti italiani. Principalmente ragazzi di periferia, provenivano da Vallette, Falchera e Mirafiori”. Perché i ragazzi finiscono in carcere? “In quegli anni c’era ancora molta povertà, degrado, mancanza di cultura. Io, da chierico, passavo davanti al carcere Le Nuove e vedevo i parenti che facevano la fila per le visite. Erano persone povere, sofferenti. Se tu oggi vai davanti al Ferrante, in quei due giorni alla settimana in cui ci sono i colloqui, il panorama non è molto cambiato. Il carcere è la discarica. Lì vanno a finire quelli che non hanno avuto risorse o che non sono stati in grado di saperle cogliere. Perché gli mancano gli strumenti. Io prima di entrare al Ferrante, insegnavo in una scuola di periferia e molte mattine andavo a svegliare i ragazzi per portarmeli a scuola, perché nessuno badava a loro”. Qual è la responsabilità dei genitori? “Io vado sempre cauto nel dare delle responsabilità ai genitori perché so quanto sia faticoso il mestiere di allevare i figli, ieri come oggi. Forse si può dire che il problema è l’incapacità di capire cosa stia cambiando nei loro ragazzi. Quello che i genitori non fanno mai abbastanza è indagare la vita relazionale dei loro figli, che incide tantissimo. Ma questo vale anche per i ceti medi. Gli omicidi in ambito famigliare avvengono in quegli ambienti. A volte i ragazzi non si fan seguire, a volte il rapporto si è rotto fin dall’infanzia. Il papà di un ragazzo omicida mi ha chiesto: padre dove abbiamo sbagliato? Io non gli ho risposto niente, l’ho abbracciato e abbiamo pianto insieme”. Lei è stato vicino ad Erika ed Omar, protagonisti di un fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica. “In quel periodo la gente mi chiedeva se quei due ragazzi erano normali. Perché volevano sentirsi dire che non erano normali, così i loro figli erano salvi. Ma in queste cose distinguere la normalità dall’anormalità è un assurdo, perché quei due ragazzi potevano essere i nostri figli. Quella vicenda mi ha insegnato che non bisogna mai giudicare”. Come ha visto cambiare la città da dentro il carcere? “Quando sono arrivato, il territorio soffriva ancora molto. Erano anche anni di grandi proteste. Ricordo i picchetti davanti alla Fiat, la marcia dei quarantamila. Poi alla fine degli anni Ottanta la riforma del Codice penale ha letteralmente svuotato il carcere, siamo arrivati ad avere un solo detenuto. Nel decennio successivo, gli arrivi erano legati principalmente al dilagare della droga. Sono anni di reati molto gravi, come gli omicidi. In quel periodo si sentiva forte la collaborazione del territorio. C’erano diversi artigiani che assumevano questi ragazzi per fargli fare dei tirocini, la gente era abituata a venire a vedere i tornei in carcere, a partecipare. Poi il cambiamento più grosso arriva negli anni Duemila. Con l’immigrazione sono arrivati i ragazzi stranieri e la cittadinanza ha incominciato a distaccarsi. Come è cambiata la città così sono cambiati i ragazzi: rispetto a ieri, oggi sono molto meno violenti. Io dico sempre che i giovani del Ferrante non sono tanto diversi da quelli che sono fuori”. Chi sono oggi i ragazzi reclusi? “In questo momento abbiamo una quarantina di ragazzi. Uno su tre è italiano. Gli altri sono stranieri, anche comunitari. Gli immigrati sono più esposti perché hanno meno risorse, meno tutele, meno garanzie di diritti”. Servirebbe lo ius soli? “Avessimo lo ius soli potremmo lavorare più facilmente sulla prevenzione”. Non deve essere semplice fare il cappellano tra i ragazzi musulmani. “All’inizio alle mie celebrazioni venivano solo i cattolici, adesso partecipano un po’ tutti. Anche se mi sono battuto e ho ottenuto che avessimo un imam una volta ogni quindici giorni”. Il carcere minorile andrebbe superato? “Io sono dell’idea che per i reati come i furti, dove non ci sono violenze sulle persone, dovrebbe essere totalmente superato. E per gli altri reati bisognerebbe pensare di più alla giustizia riparativa. Ti accorgi che certi sono proprio piccoli, ma che cosa ci stanno a fare là? Invece per alcuni, paradossalmente, è un momento di pace, dove si fermano un po’. I ragazzi hanno una grandissima adattabilità e così si abituano anche al carcere. È la loro salvezza”. Pisa: “Misericordia tua”, una casa dove i carcerati possono iniziare una nuova vita di Francesco Paletti toscanaoggi.it, 27 maggio 2019 Si chiama “Misericordia Tua”, la casa d’accoglienza per carcerati in permesso ed ex detenuti di Calci, l’opera segno della Chiesa pisana per l’Anno Giubilare della Misericordia, realizzata grazie ai fondi dell’8xmille e della Fondazione Pisa. Scrive Gaffon Romeo, 40 anni, gli ultimi dodici dei quali trascorsi nelle carceri di mezza Italia. Poesie. O, più semplicemente, “pensieri in versi” per usare le sue parole. “Ho cominciato dietro le sbarre - racconta: lì c’è molto tempo e anche, spesso, il bisogno di guardarsi dentro e fare i conti con la propria storia”. E legge: “Mi piacciono le autobiografie, le storie vere, prediligo le testimonianze di chi è riuscito a cambiare la propria vita, a dargli un senso quando sembrava non averla più”. E costruisce orologi con materiali di scarto, trasportati dal mare: un tronco strappato dal vento, una lastra di ferro levigata dalle onde. Ridà senso e forma alle cose buttate. Ha cominciato a Pianosa, il “carcere aperto” dell’arcipelago toscano. Con la sua vita, invece, ha iniziato prima: “Oltre al crimine che ho commesso in sé, aver soppresso una vita, privato dei figli del loro padre e una moglie del marito, la cosa più brutta è stato il castello di bugie che mi ero costruito: sapevo benissimo ciò che avevo fatto, ma lo negavo, non ho ammesso subito le mie responsabilità. Fino a che un giorno, dopo un colloquio con un educatore e con il comandante della polizia penitenziaria, tornato in cella mi sono guardato allo specchio e non ce l’ho più fatta. Non potevo e dovevo più mentire: così chiesi un nuovo incontro e dissi tutto”. C’è Jasmine nella vita di Gaffon. Si sono conosciuti venti anni fa in Romania, si sono sposati e non si sono più lasciati, nonostante tutto. E c’è Vittorio, un omone dalle mani grandi e il sorriso buono. Di cognome fa Cerri e a Pisa è un’istituzione: 33 anni spesi dentro le carceri della Toscana, come direttore, diciotto dei quali alla guida di quello della sua città. Oggi è in pensione ed è il coordinatore di “Misericordia Tua”, la casa d’accoglienza per carcerati in permesso ed ex detenuti di Calci, l’opera segno della Chiesa pisana per l’Anno Giubilare della Misericordia. Lo fa come volontario, a titolo totalmente gratuito: “Che ci faccio ancora qui, con i detenuti? Non saprei dove altro potrei essere: non sarei l’uomo che sono senza i “miei ragazzi”“. È lì, in quella canonica della parrocchia di Sant’Andrea a Lama, frazione di Calci, abbandonata da venti anni e ristrutturata con fondi Cei otto per mille e un finanziamento della Fondazione Pisa, che le vite di Vittorio e Gaffon si sono incrociate nuovamente dopo quella prima volta nel 2014 a Pianosa, dove il primo fu mandato a riaprire una struttura penitenziaria dismessa e il secondo era uno dei trenta detenuti in regime di lavoro esterno. “Misericordia Tua” si estende su due piani: salotto e cucina a piano terra, le quattro camere e i bagni al primo. È stata inaugurata qualche mese fa anche se il primo inquilino è stato proprio Gaffon, arrivato a metà maggio in permesso premio. “In autunno spero di tornare e rimanere più a lungo, magari espiando qui il resto della pena” dice timidamente. Perché Gaffon, nonostante i quattro abbonati per buona condotta, di anni deve ancora scontarne dodici. E da Calci è convinto si possa ripartire. La casa, invece, è stata ristrutturata anche grazie alle mani sapienti di Marius, 39 anni, pure lui rumeno, stessa condanna di Gaffon. Ha lavorato come operaio specializzato per la ditta che ha eseguito tutti gli interventi con un contratto a termine che, da gennaio, è stato trasformato in uno indeterminato. È semilibero: quando non lavora, vive qualche centinaio di metri più su, nella parrocchia di Castelmaggiore, stesso comune, con i padri Marfi Pavanello, Elio Della Zuanna e Oliviero Cattani, la comunità dehoniana responsabile anche della cappellania carceraria della diocesi di Pisa e che si occupa pure dell’assistenza pastorale e spirituale delle persone accolte a “Misericordia Tua”. “Fino alle 22 - dice - poi- torno in carcere e per uscire la mattina: vengo dai padri, mi cambio e vado al lavoro”. Gaffon, invece, potrebbe occuparsi di rimettere a coltura il piccolo oliveto e la vigna accanto alla canonica di Sant’Andrea a Lama: “Sarebbe l’ideale per lui, date le competenze che ha acquisito a Pianosa” dice Vittorio Cerri. E intanto progetta un libro sulla sua storia. Un capitolo sarà dedicato al perdono: “Tante volte ho pensato di chiederlo ai familiari della vittima, o quanto meno di fargli sapere che sono consapevole del male che ho fatto e che ne soffro ogni giorno. Non l’ho fatto per non aggiungere ulteriore sofferenza a quella che ho già provocato. Lo chiedo ogni giorno a Dio e penso di averlo ricevuto: solo lui sa cosa provo davvero”. Piacenza: dal carcere alla tavola, le fragole del progetto Ex Novo agensir.it, 27 maggio 2019 Cinquemila piantine in campo e mille in serra “fuori terra”, di cui si prendono cura ogni giorno Marco e Antonio, due detenuti della casa circondariale di Piacenza. In cella non si marcisce, si sboccia. Lo ricorda l’articolo 27 della Costituzione, in cui si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Fragole dal colore rosso brillante, dolcissime e a chilometro zero che dalla casa circondariale Le Novate, entro 12 ore dalla raccolta, arrivano sugli scaffali dell’Ipercoop Gotico di Piacenza. Fragole clery e murano rifiorente, coltivate secondo le indicazioni dei ricercatori del Centro di ricerca per l’agricoltura sostenibile della facoltà di agraria dell’università Cattolica e della società di consulenza Geoponica. Cinquemila piantine in campo e mille in serra “fuori terra”, di cui si prendono cura ogni giorno Marco e Antonio, due detenuti della casa circondariale di Piacenza, che sono stati adeguatamente formati e da un anno lavorano al progetto Ex Novo. Quelle piantine rappresentano per Marco e Antonio una nuova possibilità e un’occasione di riscatto. Un’occasione per iniziare un percorso di rieducazione alla responsabilità e per porre - grazie alla remunerazione ricevuta - le basi di una futura stabilità economica. Sono un’opportunità per Marco e Antonio, ma lo sono anche per la società. La storia delle fragole del progetto Ex Novo è raccontata sulla pagina Facebook della cooperativa L’orto botanico. Le fragole coltivate da Marco e Antonio hanno il profumo della libertà. Il campo di 1.200 metri quadrati e la serra si trovano nel perimetro del carcere, ma fuori dalla cinta muraria. Tutte le mattine, quando vanno a lavorare, escono fuori dalle mura del carcere e sentono l’odore della vita, che corre libera lungo la strada, qualche metro più in là della grande rete che circonda il campo. Le fragole del progetto Ex Novo hanno i colori della natura. Sono coltivate seguendo misure ecosostenibili. I pesticidi tradizionali sono stati sostituiti da microorganismi e insetti utili al contenimento dei parassiti. L’irrigazione è gestita attraverso computer, così da evitare sprechi d’acqua. Anche il packaging delle fragole che vengono messe in vendita è in materiale ecosostenibile. Le fragole coltivate da Marco e Antonio, hanno il sapore del futuro. La cooperativa sociale “L’orto botanico” conta di ampliare il progetto delle fragole e triplicare la produzione, così da offrire già nei prossimi mesi una possibilità di riscatto anche ad altri detenuti. Frutti del lavoro dal carcere di Piacenza - come recita il sottotitolo del progetto ExNovo - le fragole coltivate da Marco e Antonio ci ricordano che nella vita si sbaglia ed è giusto che chi sbaglia paghi per i propri errori. Ma a marcire in cella devono essere solo gli errori e i pregiudizi che, divenendo concime, permettono alle persone di tornare a sbocciare e portare nuovo frutto. Verona: il riscatto dei detenuti tra i fornelli, sfida gastronomica carcerati-cuochi ladige.it, 27 maggio 2019 Nella sala da pranzo il profumo del timo che accompagna la tagliata di manzo si mescola a quello delle lasagne al forno. Il tintinnio delle posate è il classico sottofondo di un locale affollato. Qui, però, non siamo in un ristorante, ma al piano terra dell’ala femminile del carcere di Montorio, a Verona. E ieri, il pranzo preparato per una settantina di ospiti, aveva tutto il sapore del riscatto e la bellezza della dignità, spesso calpestata. Cuochi d’eccezione, per una sfida culinaria che segna un’anteprima nazionale, i detenuti delle carceri di Trento e Verona: da una parte quattro studenti della classe interna all’istituto di pena della Scuola alberghiera “A. Berti” e dall’altra la brigata composta da uno studente del carcere di Spini dell’Istituto alberghiero di Rovereto e Levico Terme e altri tre compagni, che con lui si sono cimentati nella preparazione dei piatti. L’idea di una gara in cucina è stata lanciata dalla Camera penale veronese ed accolta subito con entusiasmo da quella di Trento, che in autunno ospiterà la “gara” di ritorno. Ai fornelli - per la cronaca - hanno vinto i veronesi, battendo sul filo di lana la squadra di Trento. L’avventura, per i cuochi trentini, inizia di buon mattino. Alle 7.30, per Mohamed, tunisino, 27 anni; Marian, 32 anni, rumeno, Salvatore, 50 anni, napoletano e Pietro, 64 anni, mantovano, si apre il cancello di Spini. Partono per Verona con un permesso premio. Con loro ci sono due volontarie dell’Apas, Sabrina e Giulia, il presidente della Camera penale di Trento, Filippo Fedrizzi, l’avvocato Sara Morolli, che fa parte del direttivo e i due professori dell’alberghiero di Rovereto che insegnano all’interno del carcere: lo chef Giuliano Pilati e Giovanlorenzo Imbriaco, docente di scienze alimentari. In macchina, bastano poche battute con loro per rompere il ghiaccio e accorciare le distanze tra chi si trova in carcere e chi sta fuori. “L’insegnamento in carcere è un’esperienza che consiglio a tutti, perché ti cambia la prospettiva”, dice Imbriaco. La pioggia battente che accompagna il viaggio non spegne l’entusiasmo e la leggerezza che si respira è quella di una gita. Una boccata di ossigeno, che spezza la routine della vita in carcere. Verso le 9.30 il gruppo è davanti ai cancelli del carcere di Montorio. La cassetta che contiene 10 chili di carne “salada”, offerta da Segata, è saldamente nella mani di Pietro. Superati i controlli di rito possono raggiungere la cucina. Gli “sfidanti” sono già al lavoro. “Ci hanno accolti bene e il clima era molto bello”, racconta Mohamed. Tra loro c’è anche Malik. L’abbraccio con Salvatore e con i due docenti dell’alberghiero raccontano la felicità di chi si ritrova: “Era uno studente a Trento davvero molto bravo e preparato”, spiega Imbriaco. Ma è tempo di rimboccarsi le maniche e così, infilato il grembiule, la squadra trentina si mette al lavoro con lo chef Pilati. Fuori, intanto, il cielo si apre e la pioggia, che poi torna a battere su Verona, concede un periodo di tregua. Nel cortile, se non fosse per l’alto muro che delimita il perimetro della struttura, lo scenario non sembra nemmeno quello di un carcere. Sulla strada che corre lungo il complesso ci si imbatte in un paio di agnellini appena nati, che camminano incerti, accanto alla mamma. Ma ci sono anche cavalli, tartarughe e cani (è stato aperto un canile, che funge pure da pensione). Sul prato un gruppo di detenuti sta seguendo un corso per ottenere l’attestato di operatore del canile. Nel complesso, le attività organizzate all’interno del carcere danno lavoro ad un centinaio di detenuti. Alle 12.30 gli invitati - ci sono anche gli avvocati dell’Osservatorio nazionale carceri - vengono accolti per un aperitivo (il ricavato del pranzo va al reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale Borgo Trento). La sfida si gioca su due piatti: carpaccio di carne salada con cappuccio, mela Golden e petali di Trentingrana e tagliata di manzo al ginepro e rosmarino, per la squadra trentina. La brigata del carcere di Verona, invece, sforna lasagna al forno con radicchio di Verona e Monte veronese invecchiato e risotto con asparagi e chiude con il semifreddo all’amaretto. Per ogni piatto la giuria, guidata dallo chef Andrea Cesaro, giudica presentazione e gusto. “Grazie, mi avete dato tantissimo. Oggi ho imparato molto”, le sue parole. Il dolce porta Verona alla vittoria. Ma partecipare non è stato mai così bello. “Sono stati trattati da persone, lo chef ha parlato loro come a dei colleghi. E questo ti ridà dignità”, evidenzia l’avvocato Fedrizzi. Ieri Salvatore, Pietro, Mohamed e Marian erano cuochi. Erano persone. Non numeri di matricola. Catanzaro: sport e reinserimento sociale, il Leo Club incontra la realtà del carcere minorile weboggi.it, 27 maggio 2019 La Corte d’Appello di Catanzaro ospita il convegno sul recupero dei detenuti nelle carceri minorili. Spesso si sente parlare della funzione rieducativa della pena, del recupero e del conseguente reinserimento sociale dei detenuti. Ma quali programmi rieducativi è possibile elaborare nei confronti dei detenuti nelle carceri minorili? Può lo sport essere il volano di una rieducazione del minore? Sono queste le domande alle quali i ragazzi del Leo Club Catanzaro Host hanno voluto dare delle risposte, come si legge nel comunicato, nell’ambito della giornata del 25 maggio, dedicata interamente allo sport quale strumento di reinserimento sociale dei detenuti nelle carceri minorili. L’iniziativa è stata ideata dal dott. Alessio Russo, socio del Leo Club Catanzaro Host, che ha incontrato il pieno appoggio del Presidente del Leo Club Catanzaro Host, dott. ssa Maria Caterina Zito, e ha visto la collaborazione dell’AIGA sezione di Catanzaro. Durante la prima parte della giornata, si è tenuto un convegno presso la Corte d’Appello di Catanzaro. Il convegno è stato aperto dall’intervento del dott. Russo, che ha spiegato le ragioni di un’iniziativa di questo tipo, sottolineando la diversità del detenuto minore rispetto a quello adulto, diversità che impone una necessaria diversificazione dei metodi di rieducazione e reinserimento sociale del ragazzo. Altresì presenti, per un indirizzo di saluto, l’Avv. Marco Mirigliani, Presidente dell’AIGA sezione di Catanzaro, e la dott.ssa Marzia Colace, Giudice onorario del Tribunale dei Minori di Catanzaro. In particolare, sull’argomento convegnistico è intervenuto il Direttore dell’Istituto Penale per i Minorenni di Catanzaro, Francesco Pellegrino, il quale ha sottolineato la funzione del carcere come luogo di recupero dei ragazzi, i quali nella maggior parte dei casi provengono da esperienze di privazione. Tuttavia - ha continuato Pellegrino - la maggior parte di loro intraprende percorsi di rivalsa, che li porta ad un pieno recupero sociale. Pellegrino ha, poi, posto l’accento sul ruolo che le regole hanno all’interno dello sport. Il pieno rispetto di queste è l’unico modo per aiutare i ragazzi a formare la personalità che li accompagnerà per tutta la vita. Inoltre, il Direttore ha sottolineato l’importanza non solo degli sport di squadra, ma anche delle arti marziali, le quali sono attività formative che portano all’autodisciplina, in un percorso che induce a vedere l’altro non come nemico ma come avversario. A seguire, l’Avvocato Generale Procura Generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro, dott. Beniamino Calabrese, è intervenuto mettendo a disposizione dell’uditorio la propria esperienza ventennale nella giustizia minorile. Calabrese ha rappresentato come per molto tempo lo sport sia stato visto come mero strumento per abbassare l’ansia dei detenuti. Ma in realtà - ha spiegato - lo sport è fondamentale perché consiste nel rispetto delle regole e ciò mi ha indotto ad inserirlo nei progetti rieducativi e di recupero nelle carceri minorili. Sport, tuttavia, non come approccio generalista, ma professionale, come sistema di regole. L’Avvocato Generale ha affermato che il mondo sportivo è speculare alla giustizia: se si rispettano le regole, si ottiene il risultato; se rispettano le regole, i ragazzi possono vincere la partita della loro vita. Inoltre, le regole sportive sono universalmente riconosciute e accettate: abbattono le barriere culturali ed etniche. Valori universali che portano a stare insieme, alla condivisione di valori quali la lealtà e il rispetto dell’avversario. Lo sport può, così, essere realmente uno strumento di educazione, maturazione e autoregolazione del detenuto minore. Il convegno ha visto, altresì, il contributo della dott.ssa Emilia Merante Critelli, psicologo clinico esperto in psicologia giuridica-forense, la quale ha parlato, appunto, dello sport come strumento per ridurre lo stress, l’ansia, ossia stati mentali che potrebbero essere somatizzati. “Quando si parla di aspetto psicologico dello sport - ha spiegato la dott.ssa Merante Critelli - bisogna guardare alla costruzione di un obiettivo comune tra persone che sono costrette a convivere. Inoltre, all’interno del carcere, i ragazzi possono avvicinarsi, tramite lo sport, al mondo esterno”. In conclusione, la psicologa ha letto la lettera di un ragazzo detenuto nel carcere minorile, il quale ha spiegato i benefici che lo sport produce nei confronti di soggetti costretti in spazi limitati. Il convegno si è concluso con l’intervento dell’Avv. Gregorio Casalinuovo, Vice Presidente dell’Aiga sezione di Catanzaro, il quale ha dapprima ricordato il compianto dott. Carlo Caruso, per l’apporto fornito in vita alla giustizia minorile a Catanzaro; successivamente, l’Avvocato ha parlato del ruolo dell’avvocato minorile, il quale dovrebbe, per il compito che è chiamato a svolgere, avere una formazione specialistica. In realtà, - ha continuato Casalinuovo - solo i difensori d’ufficio sono obbligati a seguire corsi di preparazione specifici, mentre per i difensori di fiducia non è previsto un obbligo simile. Ciò porta, inevitabilmente, a figure che non hanno la sensibilità richiesta dal ruolo. Il Presidente del Leo Club Catanzaro Host, dott.ssa Maria Caterina Zito, ha moderato il convegno, ponendo domande ai relatori e affermando il ruolo fondamentale, anche dal punto di vista strettamente della salute, che lo sport svolge nella vita di ognuno. Inoltre, alcuni detenuti del carcere minorile di Catanzaro, presenti in aula, hanno avuto l’occasione di manifestare il proprio interesse per l’iniziativa, fornendo un riscontro fattivo ai programmi di rieducazione basati sullo sport. La seconda parte della giornata ha visto i ragazzi del Leo Club Catanzaro Host e una rappresentativa dei detenuti del carcere minorile di Catanzaro protagonisti di una partita di calcio. Un’iniziativa che ha riscosso grande successo, grazie ai molteplici spunti di riflessione forniti dai relatori, e che ha rappresentato un’occasione di incontro e di rispettiva crescita tra i ragazzi del Leo Club Catanzaro Host e i detenuti del carcere minorile di Catanzaro. Como: cucinare al fresco, alla libreria Ubik due libri di ricette realizzati dai detenuti comocity.it, 27 maggio 2019 Lunedì 27 maggio alla Ubik di Piazza S. Fedele a Como ci sarà la presentazione del progetto “Cucinare al fresco” con i due libri di ricette realizzati interamente dai detenuti del carcere del Bassone e di quello di Bollate. Dal “Mandato di cottura”, al “Diario dei sapori”, per approdare ad “Assapori(amo) la libertà”. Sono i tre laboratori che condividono un unico e solo progetto: Cucinare al fresco, ovvero una raccolta di ricette realizzate rigorosamente dietro alle sbarre. Autori dell’iniziativa non grandi chef e nemmeno scrittori di professione, ma tre gruppi di detenuti che si sono messi in gioco per realizzare una pubblicazione dedicata al food. Una sperimentazione avviata lo scorso anno all’interno dell’Istituto del Bassone che ora è entrata anche nel carcere di Bollate e in quello di Varese, in attesa di replicarsi anche nelle due strutture di Brescia e di Opera. Proprio per condividere con l’esterno i sapori e i profumi della cucina, lunedì 27 maggio alla libreria Ubik di Como è in programma la presentazione dei due libri con una ricchissima e gustosa selezione di ricette sia in versione maschile che in quella femminile con Arianna Augustoni coordinatrice del progetto e Carla Santandrea, ex direttore dell’Istituto di Como, ora a Varese che ha sostenuto l’iniziativa. L’iniziativa è nata per caso, da una fortuita chiacchierata coi detenuti, una conversazione che in poco tempo ha reso partecipi tutti i presenti e tutti quanti hanno deciso di impegnarsi per “fare qualcosa di buono”, sia in cucina che nella vita. Parole, sapori, profumi, ingredienti sono il “sale della vita”, fattori in grado di unire e di sviluppare nuove sensazioni e nuovi bisogni come quello di raccontarsi. Si tratta di una sorta di esperienza di conoscenza e di esternazione dei sentimenti in chiave enogastronomica. Oltre a raccontare la preparazione di ogni piatto, viene spiegato come ci si deve arrabattare per costruire e mettere in pratica una ricetta, con quali strumenti e con dei tempi molto dilazionati, nell’arco della giornata. Le donne e i loro diritti a rischio di Elíf Shafak* La Repubblica, 27 maggio 2019 Ho trascorso la mia infanzia in parte ad Ankara e in parte a Madrid. Spostarmi come una pendolare tra Spagna e Turchia all’inizio degli anni Ottanta fu un’esperienza bizzarra. Dopo la dittatura, la prima era tornata alla democrazia, mentre la seconda aveva appena vissuto un ennesimo colpo di Stato. Entrambi i Paesi erano ai confini estremi dell’Europa. Né l’uno né l’altro facevano parte dell’Unione europea. Adoravo la Spagna. L’ho conosciuta e vissuta come un Paese straordinario, vivace, dalla popolazione generosa, accogliente e cordiale. Dietro la sua magnifica cultura, tuttavia, si percepiva in sottofondo l’ansia. Ogni tanto sentivo qualcuno sostenere che sotto il regime franchista “le cose non erano andate poi così male”, e che a quei tempi “quanto meno c’erano ordine e stabilità”. In genere, erano gli anziani a dire queste cose, provocando nei più giovani una reazione di insofferenza. La Spagna era pronta per la democrazia. Era pronta per entrare a far parte dell’Europa. Quanto avrei voluto che la Turchia, la mia madrepatria, facesse altrettanto. A Madrid, un giorno, mentre mi recavo a scuola, vidi i muri di una strada tappezzati di manifesti con immagini di neonati morti gettati nei bidoni della spazzatura. Ne fui paralizzata. Quelle immagini agghiaccianti erano state affisse da un’organizzazione cattolica ultraconservatrice. Mi allontanai, ma il ricordo è rimasto dentro di me. Su uno dei manifesti c’era scritto che le femministe si erano spinte troppo oltre. Il Paese stava cambiando rapidamente, il cambiamento suscitava paure in alcune persone, e la paura faceva emergere una forte nostalgia per il passato, una nostalgia per il “vecchio ordine”. Le elezioni generali di fine aprile in Spagna ci hanno dimostrato che quella nostalgia si è fatta ancora più forte: per la prima volta da11978, un partito dell’estrema destra, Vox, ha guadagnato posizioni in modo considerevole. Allarmante è che il partito, fondato nel 2013, sia stato il movimento a più rapida crescita nel Paese. Ai nazionalisti populisti piace avere nemici immaginari, e Vox non fa eccezione alla regola. Tra i suoi nemici più importanti ci sono le femministe. Usando parole incandescenti - con le quali dichiarano che gli uomini stanno soffrendo per mano delle “nazi-femministe” e che le femministe estremiste stanno addirittura mettendo a repentaglio il tessuto sociale - i leader del movimento propongono a più riprese di tornare al passato, a un’epoca idilliaca nella quale uomini e donne sapevano “qual era il loro posto”. I capi di Vox aspirano a una riconquista con la quale strappare il controllo del Paese dalle mani degli elementi estranei. Puntano a “riconquistare” il Paese a cominciare dall’Andalusia, e vogliono riportare in auge i valori tradizionali, incluse alcune pratiche controverse come le corride. I temi su cui Vox ha fatto campagna elettorale, riuscendo a inserirli nella politica mainstream spagnola, sono simili a quelli abbracciati dai nazionalisti populisti altrove: la lotta all’immigrazione, alla diversità, al matrimonio tra gay e ai diritti di Lgbt. E ciò, naturalmente, si somma al loro desiderio bellicoso di tornare a un mitico e aureo passato. Tenuto conto che io sono di origini turche, la retorica misogina del movimento nazionalista populista spagnolo mi è stranamente familiare. Proprio come è riuscito a fare sotto Erdogan l’Akp, il Partito della giustizia e dello sviluppo, Vox si ripropone anche di trasformare l’attuale ministero per le pari opportunità nel ministero della famiglia. Finora i politologi hanno dato per scontato in modo compiaciuto che esistessero parecchi Paesi nei quali il fascismo non avrebbe fatto mai più ritorno. Si riteneva che in cima a quell’elenco ci fossero Germania e Spagna: essendo già passate attraverso le atrocità del fascismo e della dittatura, sarebbero state immuni nei confronti delle false promesse dell’estrema destra. Le elezioni generali in Spagna, invece, ci hanno già dimostrato quanto fossero sbagliate quelle supposizioni. Se è vero che i Paesi possono scivolare all’indietro e precipitare nel dispotismo, nel nazionalismo populista e nell’estremismo religioso, allora noi donne dobbiamo stare maggiormente in guardia. Perché donne e minoranze saranno le prime a perdere i loro diritti. Ovunque saranno ín ascesa il nazionalismo, il populismo e il tribalismo, vi sarà un aumento del sessismo. Di conseguenza, non è un caso se una delle prime iniziative dei nazionalisti populisti in Italia è stata l’organizzazione di una “conferenza sui diritti della famiglia”. I temi trattati sembrano tratti dallo stesso copione che Orban ed Erdogan devono aver studiato. Erdogan chiama “omicidio”, l’aborto e considera il controllo delle nascite una cospirazione contro la grande nazione turca. Chiama “subnormali” le donne che non hanno figli. “Le famiglie forti danno vita a nazioni forti, e ogni membro della nazione dovrebbe mobilitarsi per raggiungere questi grandi obiettivi”. Ai nazionalisti populisti la cooperazione internazionale piace. Erdogan ha ricevuto un’accoglienza calorosa da Orban. Matteo Salvini, capo della Lega in Italia, approva Vox e ha già auspicato l’unione delle forze “nell’Europa che stiamo costruendo”, ha detto. Sì, è proprio questo che stanno facendo: stanno costruendo l’Europa. Non una nuova Europa. E nemmeno una vecchia Europa, bensì un’Europa monolitica. Se qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio nei confronti della natura dei cambiamenti politici ai quali stiamo assistendo oggi nel mondo, dovremmo illuminarlo e fargli comprendere che la maggior parte degli scontri dei quali siamo testimoni stanno avvenendo in ambito culturale. La nostra è un’epoca di scontri culturali, e le battaglie multiple che si stanno combattendo all’interno dei singoli Paesi, dei continenti, lacerano le società e polarizzano la politica in misura tale da alterare in modo drastico la politica mainstream. Perché nessun Paese può considerarsi immune dal ritorno dell’estrema destra. *Traduzione di Anna Bissanti Migranti. Ad asfaltare il decreto sicurezza adesso ci pensa una sentenza dell’Ue di Andreas Solaro linkiesta.it, 27 maggio 2019 La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che uno straniero non può essere espulso se nel proprio Paese rischia di essere perseguitato. Nei giorni scorsi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che uno straniero non può essere espulso dal Paese in cui si trova “fintanto che (…) abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d’origine o di residenza”. In Italia il principio di non refoulement già trova applicazione, come ha spiegato Matteo Villa (Ispi), quindi la pronuncia non è destinata ad avere un particolare impatto. Basti pensare che tra il 2013 e il 2017, sono stati emessi 23.045 ordini di espulsione verso Paesi che possono essere considerati insicuri - come la Siria, l’Iraq, la Somalia, l’Eritrea o il Sudan - ma solo il 4% di questi ordini è stato effettivamente eseguito. Tuttavia, nonostante non sia innovativa, la sentenza merita un rilievo particolare: recenti misure in tema di immigrazione, ispirate da un clima politico ad essa avverso, rendono essenziale ribadire certi principi essenziali. È necessario, innanzitutto, spiegare il contenuto della decisione, che interpreta una direttiva e, quindi, vincola i giudici dei Paesi Ue per i casi analoghi. Essa fa chiarezza fra disposizioni non conformi: da un lato, la direttiva 2011/95/UE, in tema di protezione internazionale, consente di revocare o negare il riconoscimento dello status di rifugiato a chi per seri motivi rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova oppure, a causa di una sentenza definitiva per un reato di particolare gravità, costituisca un pericolo per la collettività, ma vieta che egli possa essere espulso se nel luogo di destinazione rischia di essere sottoposto a tortura o a pene e trattamenti inumani o degradanti (in conformità alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE); dall’altro lato, la Convenzione di Ginevra invece legittima l’allontanamento anche verso Paesi non sicuri se lo straniero rappresenta un pericolo o una minaccia per lo Stato ospitante. A fronte di questa differenza normativa, la Corte ha deciso che lo straniero vada tutelato dai rischi che correrebbe tornando in patria e, pertanto, anche se ha perso lo qualifica di rifugiato, non può comunque essere espulso. Come si accennava, nonostante la sentenza ribadisca un principio già applicato in Italia - cioè il divieto di respingimento verso Paesi in cui la vita o la libertà possano essere minacciate - essa merita di essere evidenziata. Perché in un periodo in cui l’immigrazione è oggetto, da un lato, di disposizioni che paiono andare oltre i paletti dell’ordinamento, dall’altro, di atteggiamenti politici comunque ostili, non si può avere la certezza che principi rispettati in passato continuino a esserlo anche in futuro. Ad esempio, prima del governo in carica non si sarebbero potute immaginare norme come quelle contenute nel cosiddetto decreto sicurezza, che presentano profili di legittimità dubbia: dalla perdita della cittadinanza per lo straniero che commette determinati reati, con disparità di trattamento rispetto agli italiani, i quali non perdono la cittadinanza anche se compiono i medesimi reati; alla possibilità di espulsione, a seguito del diniego di asilo, dell’immigrato sottoposto a procedimento penale per alcune violazioni di legge, pur in assenza di una condanna definitiva e anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale, con buona pace del principio di non colpevolezza e del diritto alla presenza in giudizio. Ancora in tema di espulsioni, assume un significato particolare pure la previsione, sempre nel primo decreto sicurezza, di un elenco di “Paesi sicuri”, da adottare con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, per velocizzare l’iter delle domande di protezione internazionale, ma anche dei respingimenti. Come osservato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), a decidere quale Paese possa essere considerato “sicuro” “sarà di fatto la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, che non è organo amministrativo indipendente ed è fortemente connesso per composizione e struttura organizzativa al potere politico”: pertanto, il rischio è che certe valutazioni possano non essere oggettive. Inoltre, fino a qualche tempo fa sarebbe stata impensabile una lettera come quella in cui l’ONU rimarca “il clima di ostilità e xenofobia” che il governo italiano sta creando nei confronti dei migranti con le direttive sui salvataggi in mare del Viminale e la bozza di decreto sicurezza bis, a causa di un “approccio adottato dal ministro dell’Interno” che incide “seriamente” sui diritti umani e criminalizza “le operazioni di ricerca e salvataggio” delle ONG. Dunque, a fronte di quanto sta accadendo in tema di immigrazione - sotto il profilo normativo e non soltanto - forse appare più chiaro che lo spazio dato dai media alla sentenza può essere servito a rendere il pubblico più consapevole del principio da essa affermato e di eventuali tentativi politici di superarlo: del resto, il ministro dell’Interno ha già affermato che procederà al rimpatrio anche di coloro i quali secondo la Corte non sono rimpatriabili. Detto questo, sul piano giuridico quale potrebbe essere in Italia la sorte di colui al quale sia stato revocato o negato lo status di rifugiato, ma che non possa essere espulso perché proveniente da uno Stato non sicuro? La pronuncia della Corte afferma che chi si trovi in questa situazione continua comunque a “godere di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra”, cui la direttiva 2011/95/UE rimanda (ad esempio, il diritto di adire i tribunali e l’educazione pubblica). E poiché è necessario un titolo che attesti tale situazione e consenta la fruizione di quei diritti, è presumibile che allo straniero possa essere accordato un permesso per “protezione speciale” - della durata di un anno (rinnovabile finché dura il pericolo nel Paese di provenienza) - che viene rilasciato dalla questura quando non sia possibile concedere la protezione internazionale né procedere all’espulsione per il rischio di persecuzioni o torture in patria. Chissà se tale soluzione sarà adottata o se lo straniero non rimpatriabile resterà fra gli irregolari (che intanto continuano ad aumentare). Anche per questo motivo la sentenza è importante: per non perdere di vista la distanza che può esservi tra la realtà e il diritto. Libia. Nel centro di detenzione di Zintan: “siamo innocenti, ma condannati a morte” di Giulia Bosetti La Repubblica, 27 maggio 2019 Ci sono cumuli di rifiuti in decomposizione infestati da insetti e parassiti. Mancano acqua ed elettricità e non ci sono condizioni igieniche sufficienti. Vivono così circa settecento persone, per la maggior parte eritrei e somali, rinchiuse in condizioni disumane in un capannone nel centro di detenzione di Zintan, 170 chilometri a sud-est di Tripoli. Tra i reclusi, molti dei quali malati di tubercolosi, ci sono anche quattordici donne e tre bambini. Il dramma quotidiano dei detenuti: dopo cinque giorni senza mangiare e bere, hanno ricevuto una scatola di cibo ogni due persone. Amnesty International ha documentato che negli ultimi dodici anni decine di migliaia di rifugiati e migranti sono stati imprigionati ingiustamente, le donne violentate, gli uomini costretti ai lavori forzati. Francia. Diffamò due poliziotti: oggi il ricorso di difensore dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 maggio 2019 Inizierà oggi alle 14 presso la corte d’appello di Douai l’esame del ricorso di Loan Torondel, un difensore dei diritti umani francese, condannato in primo grado per diffamazione a una multa di 1500 euro (poi sospesa) e al rimborso di 500 euro per danni e 475 per spese processuali. Nel gennaio 2018 Torondel aveva pubblicato sul suo profilo Twitter la foto di un migrante e di due agenti di polizia intenzionati a sequestrare un sacco a pelo nonostante la temperatura rigida. Nel testo, ironico, Torondel proponeva un dialogo immaginario tra uno degli agenti e il migrante: “Ma fa due gradi!, “Forse, signore, ma noi siamo la Nazione francese”, rifacendo il verso a un’affermazione simile del presidente Macron. All’epoca Torondel faceva il volontario nel gruppo “L’albergo dei migranti” a Calais. Se la condanna sarà confermata, si tratterà di un pericoloso precedente che stabilirà il principio che chi agisce con umanità e compassione deve pagare (concretamente) un prezzo: lo stesso principio che era comparso in una prima bozza del cosiddetto “decreto sicurezza bis” proposto dal ministro dell’Interno italiano. Come dimostra l’altra vicenda di un volontario francese raccontata pochi giorni fa in questo blog, sono sempre più frequenti, in Francia e non solo, i casi di persone che praticano la solidarietà alle quali lo stato risponde con multe e carcere. Iraq. Tre francesi dell’Isis condannati a morte La Stampa, 27 maggio 2019 Hanno 30 giorni per presentare l’appello. È la prima condanna del genere nei confronti di foreign fighter d’oltralpe. Tre francesi accusati di appartenere all’Isis, arrestati in Siria lo scorso febbraio, sono stati condannati a morte da un tribunale iracheno. Lo riferiscono fonti giudiziarie ad al Jazeera. Si tratta della prima condanna del genere per dei foreign fighter francesi. I tre hanno 30 giorni per presentare appello. Nel febbraio scorso, l’Iraq ha ricevuto 85 jihadisti dell’Isis di nazionalità francese che si sono arresi in Siria. La consegna all’Iraq dei jihadisti arresisi in Siria fa parte dell’accordo raggiunto a inizio mese tra il governo di Baghdad e quello di Parigi. Durante la sua visita nella capitale francese a inizio anno, il presidente iracheno Barham Salih aveva assicurato alla Francia che questi jihadisti non saranno rimpatriati ma che saranno processati e giustiziati nel Paese mediorientale. In Iraq è prevista la pena di morte per impiccagione. Lo scorso anno, la francese Melina Boughedir, 28 anni, era stata condannata all’ergastolo.