Il lavoro rende semi-liberi di Sergio Segio Vita, 26 maggio 2019 La notizia di oggi è che Amazon aprirà due “poli di servizio” in altrettante carceri italiane (Torino e Roma-Rebibbia) con l’impiego di alcuni detenuti come magazzinieri e addetti alla logistica. A dire il vero, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha subito smentito l’annuncio fatto dal direttore dell’istituto piemontese, ma forse solo per la sua intempestività, dato che la firma dell’accordo è (o era) prevista per il 30 maggio. Al momento non è dunque dato di conoscere il trattamento contrattuale ed economico cui saranno sottoposti i dipendenti reclusi. Ma, se tanto ci dà tanto, è facile presumere che non sarà invidiabile, date le pesanti condizioni lavorative e salariali, spesso denunciate, cui sono soggette le maestranze esterne della multinazionale della gig economy, il cui proprietario, Jeff Bezos, viceversa (o magari proprio in ragione di quelle) è rapidamente divenuto uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio personale stimato attorno ai 150 miliardi di dollari. Sugli stessi argomenti, la notizia invece divenuta pressoché quotidiana da qualche tempo a questa parte è la stipula di protocolli d’intesa, oppure la loro implementazione, tra istituti penitenziari, enti pubblici o imprese private che prevedono l’impiego di manodopera gratuita da parte di detenuti ammessi a tale “beneficio”. Il prezzo del riscatto - La più recente (del 22 maggio) riguarda l’intesa sottoscritta dalla direzione della Casa circondariale di Benevento e dal Consorzio ASI (Area di Sviluppo Industriale). Prevede l’invio al lavoro all’esterno di due reclusi - di origina somala, viene precisato - in attività di manutenzione. “Le due unità selezionate dalla struttura penitenziaria presteranno la propria attività a titolo volontario e gratuito per un anno”, ha chiarito il presidente del Consorzio al quale, bontà sua, toccherà l’onere assicurativo e antinfortunistico. Secondo il manager, “ci vuole anche un po’ di coraggio ad intraprendere percorsi insolitamente battuti, ma quando la politica è illuminata dalla volontà di operare nell’interesse della cosa pubblica […], le buone prassi si traducono in concrete opportunità per la collettività”. Non sappiamo se per fruire di lavoro non retribuito sia necessario disporre di un particolare ardimento, ma tanto insoliti questi percorsi per la verità non sono. Anzi. Non passa quasi giorno senza che qualche amministrazione comunale o penitenziaria annunci l’inizio di analoghi “coraggiosi” progetti, che impiegano ormai diverse centinaia di carcerati, anche al di fuori delle norme e limiti previsti dal lavoro di pubblica utilità quale sanzione penale sostitutiva. Enumeriamone qui solo quelli degli ultimi giorni: - Pescara (20 maggio). Firmata una convenzione per la digitalizzazione dei documenti del locale tribunale da parte di detenuti minorenni abruzzesi e di altri giovani reclusi non retribuiti; sottoscrivono: Centro per la Giustizia Minorile per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, Associazione di volontariato Voci di Dentro, Tribunale, Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna, Ufficio di Sorveglianza, direzione della Casa Circondariale. - Genova (17 maggio). Anche la Giunta del capoluogo ligure ha approvato uno schema di accordo-quadro con l’amministrazione penitenziaria per l’utilizzo di detenuti in progetti di pubblica utilità a titolo di “lavoro volontario e gratuito”. Tra i sottoscrittori anche Autostrade per l’Italia. Il progetto “risponde alla duplice finalità del reinserimento e della trasmissione alla comunità di un messaggio di legalità e rispetto di norme e regole”. Evidentemente, tranne quelle che sanciscono (o sancivano) il diritto alla retribuzione del lavoratore, sinora anche di quello detenuto. - Siena (13 maggio). Analogo il progetto cui ha aderito il Comune di Siena per l’utilizzo del lavoro, sempre “volontario” e non retribuito, di detenuti nella manutenzione di spazi pubblici e di aree verdi della città e in interventi connessi alla raccolta dei rifiuti e alla protezione civile L’iniziativa di Genova e Siena si inserisce nel programma ministeriale già in corso in molti luoghi, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Pescara, Palermo, Ragusa, Parma, Viterbo, Livorno, Firenze, Gela e Niscemi, che ha un titolo programmatico ed eloquente (e ambivalente): “Mi riscatto per…”, seguito di volta in volta dal nome della città che aderisce alla “coraggiosa” scelta di impiegare senza compenso manodopera reclusa. Capofila e precursore è stata la città di Roma, che nell’agosto 2018 ha visto le firme sul primo progetto del sindaco Virginia Raggi, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Capo dell’amministrazione Francesco Basentini. Un programma che è stato presto orgogliosamente indicato come “modello”, tanto da venire mutuato persino dal Messico. Incarcerare arricchisce - Il XV Rapporto di Antigone appena pubblicato ci mostra, dati alla mano, che mentre e pur se decresce il numero dei delitti aumenta quello dei detenuti. È un processo analogo a quello in atto negli Stati Uniti dai primi anni Novanta del secolo scorso. Più o meno nello stesso periodo era cominciata l’epoca dell’incarceramento di massa, che ancora continua e che ha reso quel Paese il primo al mondo per numero di reclusi: erano circa un milione nel 1990, sono ora diventati più del doppio, cui andrebbero sommati altri 5 milioni di persone sottoposte a libertà sulla parola o a misure penali all’esterno. Anche in Italia siamo passati dai 31.053 detenuti del giugno 1991 ai 60.439 dell’aprile 2019, oltre ai 58.269 in esecuzione penale esterna. Gli Stati Uniti hanno il 5% della popolazione mondiale ma il 25% di quella carceraria. Alla base dell’ipertrofia vi è quella “war on drugs” inaugurata da Ronald Reagan (e presto importata in Italia da Bettino Craxi), che ha riempito le celle soprattutto di afroamericani e di poveracci, ma pure il sistema delle carceri private: anche quello, come ogni business, tende naturalmente a incrementare sé stesso. E ad ampliarsi: appunto nello sfruttamento della manodopera reclusa e, da ultimo, nelle strutture di trattenimento dei migranti. Oltre la metà del budget federale complessivo destinato al sistema detentivo finisce alle compagnie private, le quali tra la gestione diretta di circa 130 prigioni e la fornitura di servizi, quali ad esempio l’assistenza medico-sanitaria e le mense, intascano più di 40 miliardi di dollari l’anno. Una montagna di denaro che consente alle compagnie più grandi, quotate in borsa, di fare lobbying e di finanziare le campagne elettorali presidenziali, com’è avvenuto da ultimo con quella di Trump, in tal modo influenzando le scelte politiche e legislative a proprio favore. Il modello seguito in Italia, insomma, è quello statunitense, ma per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro da noi si è riusciti a far persino peggio introducendo il lavoro “volontario e non retribuito”. Nelle prigioni USA gestite privatamente il detenuto che lavora nei laboratori interni riceve mediamente 17 centesimi all’ora per un massimo di sei ore al giorno, circa 20 dollari al mese; in pochi casi e carceri, e per mansioni molto qualificate, arriva a percepire una retribuzione oraria massima di 50 centesimi. Insomma, paghe letteralmente da fame; appena un po’ meno nelle prigioni federali, dove è possibile guadagnare 1,25 dollari all’ora per otto ore giornaliere. Il lavoro all’esterno vede compensi simili e, in alcuni Stati, un utilizzo crescente di reclusi. Specie in mansioni pericolose, come ad esempio in California, dove in caso di incendio la sicurezza pubblica è affidata al lavoro di migliaia di carcerati, pagati un dollaro l’ora se addetti alla linea del fuoco e due dollari per un’intera giornata se impiegati nelle retrovie. Le galere fruttuose - Il lavoro gratuito è dunque divenuto l’ultimo gradino nell’infinita scala dello sfruttamento, in un mercato del lavoro che vede ormai il precariato (magari a vita) come architrave indiscussa. Questa è la manifesta tendenza in Italia, ma non solo, dove ha avuto un momento di sperimentazione massiccia nell’Expo di Milano nel 2015, con la messa al lavoro di diverse migliaia di giovani, chiamati al volontariato a beneficio di un ente a fine di lucro, sponsorizzato da organizzazioni non certo filantropiche come le multinazionali McDonald’s o Coca Cola. In attesa di dispiegarsi completamente, quel “modello” si sta applicando con metodo e soprattutto con profitto sugli anelli sociali più deboli e ricattabili: detenuti ma anche richiedenti asilo. Nulla di nuovo, sicuramente. Basti leggere una decretazione del Senato veneziano del 29 settembre 1569: “È benissimo conosciuto da questo Consiglio l’utile e il beneficio che riceve la Serenità nostra dalle galere dei condannati ritrovandosi, massimamente al presente, le prigioni di questa città piene di essi condannati con pericoloso di infermarsi… e sopraggiungendone ogni giorno degli altri… sarà bene non lasciare infruttuosi nelle prigioni detti uomini”. Ora come allora, il prigioniero viene messo al lavoro naturalmente per il suo bene e la sua emenda, per aiutarlo a vincere l’ozio e a riparare il proprio torto. A differenza dei tempi della Serenissima Repubblica, ora vi sono però numerosi Garanti dei diritti dei detenuti territorialmente distribuiti e diverse organizzazioni sindacali. Rimane la curiosità di sapere se e cosa ne pensino di tale fenomeno. Fenomeno diffuso e incontrastata tendenza che, oltretutto, rischiano di strumentalizzare e svilire la nobile esperienza e categoria del volontariato, vale a dire della libera (quella sì!) scelta di utilizzare parte del proprio tempo e competenze a beneficio della collettività e in specie dei più bisognosi. Tra i quali dovrebbero rientrare proprio e anche i carcerati. Cui invece, oltre alla libertà, si arrivano così a togliere la dignità e le prerogative del lavoratore. “Italia, modello di lotta alla corruzione grazie all’Anac”. Lo dice l’Onu Il Dubbio, 26 maggio 2019 “Giudizio positivo” nel rapporto delle Nazioni Unite. Presentato alla Farnesina lo screening che smentisce il mito della tangentopoli infinita e i tanti pm che nell’autorità di Cantone vedono un ente inutile. Italia patria della corruzione? Tutt’altro: casomai è un modello nelle strategie con cui la contrasta. E al centro di tale sistema esemplare c’è l’Anac: authority che ha svolto “un’azione efficace” e che si muove nel quadro di una normativa coerente con “tutte le disposizioni” concordate dalla comunità internazionale. Il giudizio non è di un qualsiasi osservatore indipendente privato, ma addirittura dell’Onu. È contenuto nel secondo “Rapporto di valutazione” a cui l’Italia è stata sottoposta da quando, nel 2005, è pienamente entrata in vigore la “Convenzione di Merida”, ossia il patto anticorruzione delle Nazioni unite al quale lo Stato italiano ha aderito assieme ad altri 182 Paesi. Un quadro in aperta contraddizione con l’idea di una Tangentopoli permanente riproposta negli ultimi giorni dalle indagini (non sentenze, ma indagini) di alcune Procure. Il Rapporto è stato presentato ieri pomeriggio alla Farnesina, dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi e dal guardasigilli Alfonso Bonafede, alla presenza del vertice dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone. Il modello incentrato sull’Anac, spesso definito “inutile” da magistrati di grande autorevolezza come Piercamillo Davigo, soddisfa, per l’Onu, “tutto quanto prescritto dall’intesa in materia di prevenzione e di recupero di beni”. Una “aderenza” alla “Convenzione di Merida” che giustifica il giudizio “ampiamente positivo” delle Nazioni unite. Va apprezzato “lo sviluppo di un modello di controllo sugli appalti” in grado di impedire “l’infiltrazione criminale”. E fa bene l’Anac a coinvolgere, nel proprio “modello di prevenzione”, tutti “gli enti della Pa”. Cantone ne ricava un “motivo di orgoglio” perché, dice, “il Rapporto Onu mostra quanto sia importante un’azione di sistema: la repressione non può essere disgiunta dalla prevenzione”. È il suo pallino, spesso contestato dai colleghi pm, molti dei quali ritengono di essere i soli possibili antagonisti del malaffare. Anche Moavero rivendica la “logica di sistema” seguita dall’Italia e il ministro della Giustizia Bonafede segnala la “convinta e fattiva adesione” all’intesa internazionale, anche se “non bisogna abbassare la guardia”. L’Anac insomma non è un ente inutile. E anzi ha fatto in modo che l’Italia diventasse un Paese virtuoso, almeno per l’Onu. Anche se, a leggere i giornali, sembra vero il contrario. “Spazza-corrotti” bocciata dal tribunale di Potenza di Simona Musco Il Dubbio, 26 maggio 2019 Esecuzione della pena sospesa in attesa della Consulta. L’avvocato Vitale “Il mio assistito è stato giudicato in 5 mesi con quattro norme diverse. Alcuni profili di questa legge sono palesemente incostituzionali”. L’ultimo colpo alla spazza-corrotti arriva, ancora una volta, dalle aule di un tribunale. In attesa della pronuncia della Corte costituzionale, il tribunale collegiale di Potenza, ribaltando la decisione del tribunale di Sorveglianza di Salerno, che aveva applicato la nuova norma, ha disposto l’inefficacia temporanea dell’ordine di carcerazione che aveva portato in carcere un avvocato 47enne, accusato di corruzione in atti giudiziari. Una storia singolare, ha spiegato il legale del professionista, Giovanni Vitale. L’entrata in vigore della norma, a fine gennaio, ha reso infatti inapplicabili le misure alternative al carcere, portando ad una revoca delle sospensioni degli ordini di carcerazione e, quindi, al carcere. Provvedimenti contro i quali molti sono stati i ricorsi, poi risultati vincenti. Ma nel caso in questione, la procura di Salerno, anziché sospendere l’ordine di carcerazione, emesso prima dell’entrata in vigore della legge, ha spedito il legale condannato davanti alla Sorveglianza, applicando, di fatto, la vecchia norma. Lì, però, i giudici hanno optato per la spazza-corrotti e l’uomo si è consegnato nel carcere di Matera, dov’è rimasto per tre mesi. Una decisione contro la quale Vitale ha presentato istanza di incidente d’esecuzione davanti al tribunale collegiale di Potenza, che ha stabilito, dunque, l’inefficacia temporanea dell’ordine di carcerazione, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza. Dove, intanto, era stata fissata la camera di consiglio per la misura alternativa, di fatto riesumando la vecchia norma. “In pratica, il mio assistito è stato giudicato nel corso di 5 mesi con quattro norme diverse e questo non è legge, ma barbarie”, spiega Vitale. L’ordine d’esecuzione, ora, rimane congelato fino alla nuova decisione, che sia del tribunale di sorveglianza, a settembre, o della Corte costituzionale. Per Vitale, “non si tratta di vincere o perdere, ma di giustizia. È importante che il legislatore, nel fare le leggi, tenga presente che queste norme possono avere un impatto immediato nella vita dei cittadini, soprattutto quando si parla di esecuzione penale. Serve un indirizzo omogeneo su questa problematica e, ad oggi, tutti i tribunali si sono dimostrati cauti”. Il suo non è un giudizio sulla norma: “Non ho interesse a farlo - dice - Ogni governo ha deciso di inasprire qualche reato, ma le carte in tavola non possono essere cambiate mentre stiamo giocando”. Ma non solo: “Se la spazza-corrotti venisse applicata alla lettera, il mio cliente potrebbe accedere alle misure alternative solo collaborando. Ma come potrebbe per fatti commessi 11 anni fa e per i quali tutti gli altri imputati hanno finito di espiare la pena? - conclude. È inutile. L’incostituzionalità di alcuni profili della legge è palese”. “La mia Livia, sparita nel fumo dopo la bomba di piazza della Loggia” di Walter Veltroni Corriere della Sera, 26 maggio 2019 Manlio Milani e la strage di Brescia: “Le sollevai la testa, ma lei non mi vedeva più. Una notte l’ho sognata, aveva una grossa valigia e camminava sempre. Vagava senza sosta. Vorrei poterle dire: fermati, abbiamo trovato la verità”. La sera prima sono a cena tutti insieme. Manlio e Livia, Clementina e Alberto, Lucia e Giorgio. Quasi tutti insegnanti. Hanno attorno a trent’anni. Passano insieme molte ore, coppie giovani, unite dagli stessi valori, dalle stesse rabbie, dagli stessi sogni. Quella sera discutono della manifestazione del giorno dopo. Il comitato provinciale antifascista l’aveva convocata, promuovendo uno sciopero provinciale, a seguito di una lunga serie di violenze che avevano insanguinato la città e la provincia. Qualche giorno prima, dopo una catena di attentati a sedi sindacali e politiche, era morto, per l’esplosione della bomba che portava sulla moto, un terrorista di estrema destra e, ai suoi funerali, c’era stata una selva di braccia levate in segno di saluto romano e una aggressione alla sezione del Pci. C’era un clima brutto, in quei giorni di maggio del 1974. Quella sera Manlio e Livia vanno a trovare i genitori che abitano nella loro stessa palazzina. La mamma di Livia appare preoccupata: “Non è che domani succede qualcosa? State attenti”. Manlio la tranquillizza. “I pericoli non ci sono mai quando le manifestazioni sono così grandi”. Manlio è l’unico che non insegna. Lui viene da una famiglia umile. Ha cominciato a lavorare a dieci anni, a quattordici aiutava il proiezionista del Supercinema. Portava con la bici le bobine da un cinema all’altro della città. Ricorda che quando proiettavano i melò italiani, “Tormento” e “Catene”, la sera non dovevano pulire a terra perché le lacrime degli spettatori avevano dilavato il pavimento. Poi aveva lavorato due anni, con contratti mensili, nell’azienda di trasporti. Il suo contratto era da muratore, faceva la stessa mansione degli elettricisti, ma costava la metà degli altri. Non poteva ribellarsi perché il rinnovo del rapporto di lavoro dipendeva dai capi. Non poteva ribellarsi da solo. Dei suoi soldi a casa c’era bisogno. Suo padre era disoccupato. Lo chiamavano per asfaltare La Maddalena, la strada fatta dai disoccupati. “Quando non pioveva pensavo: oggi si mangia!”. Una volta, con i soldi dei primi lavori, Manlio si comprò un pollo. Disse alla madre che voleva mangiarselo tutto lui, che aveva fame e se lo meritava. La mamma lo cucinò e glielo mise sul piatto, a tavola, davanti al suo posto. “Entrai nella sala, vidi i miei fratelli con la solita zuppa e, insomma, dividemmo il pollo”. Da solo Manlio non poteva ribellarsi. Ma con altri sì. Per questo “in un giorno solo decisi di iscrivermi alla Cgil, al Pci e di dichiarare, a me stesso, che ero ateo. Io, che avevo vinto da piccolo il premio del catechismo, davo seguito ai miei dubbi”. Piove forte a Brescia, quella fine di maggio. Fa freddo. Gli amici si mettono in corteo. Giorgio, il marito di Lucia, esce presto per fare i picchietti davanti alle fabbriche. Lui si occupa del servizio d’ordine sindacale. Lucia è la sorella gemella di Clementina. Gemelle non monozigote, neanche nei caratteri. “Clem era più determinata di me, più capace di farsi ascoltare e rispettare, anche in casa, anche da mio padre”. Si mettono nel corteo. Clem parla con dei ragazzi delle scuole. Arrivano in piazza della Loggia. Sono quasi le dieci di quel 28 maggio di quarantacinque anni fa. Ora dobbiamo fermarci e immaginare. I testimoni, o meglio i sopravvissuti, che ho ascoltato nella casa di Lucia, raccontano la loro storia di quei momenti. Dice Lucia: “Stavamo in mezzo alla piazza. La pioggia era forte, fastidiosa. Qualcuno ha suggerito di spostarci verso i portici. Lo abbiamo fatto. Alberto, Clem, Livia ed io eravamo vicini l’uno all’altro, quasi pressati. Una persona, credo fosse Bartolomeo Talenti, si era appoggiato ad un cestino. Chiacchieravamo su quello che avremmo fatto dopo. Alle dieci ha iniziato a parlare Franco Castrezzati, della Cisl. Poi sarebbe toccato a Adelio Terraroli, del Pci, a nome dei partiti”. Manlio: “Ero con Livia. Stavamo cercando gli altri, in piazza. Li abbiamo visti, sotto i portici. Un compagno mi ha fermato per chiedermi qualcosa. Gli ho risposto. In quel momento ci siamo separati. Lei è andata verso Clem, Alberto, Lucia. Dopo aver risposto mi sono diretto anche io verso di loro. Livia mi ha visto, i nostri occhi si sono incrociati. Io le ho sorriso, l’ho salutata. Lei ha alzato la mano per ricambiare”. Redento Peroni lavorava nella stessa ditta di Manlio. Aveva fatto sciopero contro il fascismo. “Io prendevo 100.000 lire al mese, ne pagavo 27.000 di mutuo. Perdere un giorno di salario era un sacrificio grosso. Quel giorno non lo facevo per i miei diritti, ma per la libertà di tutti. Scioperavo per gli altri, non per me stesso. Quella mattina un collega mi indica un fascista che era in piazza. Strano, penso. Comincio a seguirlo. E nel frattempo guardavo nella fontana, nelle griglie a terra, se c’era qualcosa. Poi l’ho perso di vista. Ero sotto la pioggia, vicino al cestino. Poi un uomo, in dialetto, mi ha detto “ragazzo vieni sotto i portici, non ti fradiciare. Mi sono spostato”. Franco Castrezzati ha appena detto la parola “Milano”. È lì che la strategia della tensione è cominciata. Il finto anarchico Bertoli, che si scoprirà essere stato informatore di Sid e Sifar e affiliato alla Gladio, aveva seminato solo un anno prima il panico con una bomba tirata alla questura. La questura di Milano, città martire dello stragismo. Dopo quella parola, “Milano”... Manlio: “Vidi il volto di Livia sparire nel fumo di uno scoppio terribile. Quando ho capito mi sono messo a cercarla, in mezzo ai corpi martoriati. L’ho trovata, le ho sollevato la testa, non mi vedeva, non mi parlava. Una foto riprende quell’istante. Pensavo solamente a lei, ai nostri anni insieme. Ero disperato. In quel momento per me, in quella piazza devastata, esisteva solo lei. Ho dimenticato tutti gli altri. Provo da allora un grande senso di colpa per questo. Cercavo un’ambulanza, nell’illusione che quel corpo a brandelli potesse ritrovare la vita perduta”. Lucia: “Ho sentito quel botto terribile e mi sono trovata sotto a un mucchio di corpi. Non riuscivo a muovermi. Ho pensato di aver perso le gambe. Ma poi ho sentito che rispondevano. Ho visto a terra un braccio staccato. Ho pensato, in un flash, che fosse di un compagno che quella mattina mi aveva mostrato il suo nuovo giaccone blu. Ricordo un silenzio assurdo. Nella mia testa. Vedevo le persone che si agitavano, sembravano urlare, ma io non sentivo nulla. La bomba mi aveva sfondato il timpano. Nessuno veniva a tirarmi fuori. Sono svenuta. Mi sono svegliata per il dolore degli schiaffi. Ho sentito che dicevano: “Questa è l’unica sopravvissuta”. In ospedale mi hanno mentito, dicendomi che Clem e Alberto erano in rianimazione. Mio marito era al bar, si è precipitato in piazza. Era sconvolto. Diceva a tutti che era sicuro che io fossi andata a casa. Mi ha visto mentre mi mettevano in ambulanza, ma non mi ha riconosciuto”. Redento: “Quando è scoppiata la bomba il corpo dell’uomo che mi aveva fatto spostare, Bartolomeo Talenti, e quello di Euplio Natali mi hanno fatto da schermo, salvandomi. Avevo i timpani rotti, schegge ovunque, ero fradicio di sangue. I miei colleghi mi hanno detto che mi hanno visto rialzare e cominciare a correre urlando. Ho fatto trecento metri, loro mi inseguivano per fermarmi. Io piangevo e urlavo. Ricordo solo che mentre correvo ho sbattuto su qualcosa che mi ostacolava. Pensavo fosse un pezzo di legno. Era un braccio. Poi i miei amici mi hanno placcato e con un secchio d’acqua mi hanno lavato, mentre piangevo. Quello che non riesco a perdonarmi è di essere scappato, di aver corso lontano. Ero lì, potevo aiutare, forse salvare qualcuno. Magari Bartolomeo, il cui figlio Paolo oggi è un pezzo della mia vita”. Adelio Terraroli, ora ottantottenne, aveva preparato la sera prima, nella casa in cui mi riceve, il suo discorso. Quello di cui restano appunti a mano, come usava una volta, e basta. Perché quelle parole non sono mai state pronunciate. “Avevo avuto un’ischemia nel 1973. Quello sarebbe stato il mio primo comizio da allora. Eravamo tutti angosciati dal clima che c’era nel nord. La piazza era piena. Dopo lo scoppio pensai fosse un petardo. Ci precipitammo sotto i portici. C’erano decine di corpi a terra. Sangue ovunque. I feriti, i manifestanti che erano scappati, tornavano indietro per aiutare. Noi non sapevamo se ci fossero altre bombe e dicemmo a tutti di andare a Piazza della Vittoria. Capimmo subito quello che era avvenuto. Io avevo mia moglie e mio figlio in piazza, Castrezzati vide il fratello portato via. Eravamo noi, ci conoscevamo tutti. Ci riunimmo in provincia, allora presieduta da Tarciso Gitti. Durante la riunione lui venne sapere che tra le vittime c’era la moglie del suo assessore Luigi Bazoli, Giulietta Banzi, anche lei insegnante. Organizzammo la presenza nelle fabbriche e l’autogestione della piazza che uno sciagurato vice questore, non so se incapace o complice, aveva fatto ripulire subito dopo l’attentato, impedendo la raccolta di elementi decisivi per l’inchiesta. Nulla fu più come prima, dopo Brescia”. Quella bomba scosse il Paese. La testimonianza sonora dello scoppio che interruppe il comizio antifascista rese ancora più forte l’impatto emotivo. Ma c’era qualcosa di più. Nell’Italia che solo due settimane prima aveva celebrato la vittoria del No al referendum sul divorzio per la prima e unica volta, nella storia del dopoguerra, una bomba devastante viene fatta esplodere durante una manifestazione politica. Gli stragisti avevano e avrebbero colpito banche, treni, stazioni, monumenti. Ma mai erano stato compiuto un attentato in una piazza. Era un salto di qualità. I funerali rispecchiano questa coscienza. Lucia: “In ospedale ho voluto vedere alla tv i funerali. Sono stati un modo per sentirmi meno sola. Per alleviare la mia disperazione. I volti lividi di Leone e Rumor subissati di fischi erano lo specchio della coscienza, poi confermata nelle sentenze definitive, che quella strage non fosse solo di fascisti, ma avesse una rete di collaborazioni e forse persino l’ideazione in pezzi dello Stato che lavoravano contro la democrazia”. Redento: “Il giorno dei funerali avevano cambiato le lenzuola e tirato a nuovo le stanze. Noi feriti ci eravamo messi d’accordo. “Quando vengono Leone e Rumor, il primo di noi che gli stringe la mano non la deve più mollare. Ci devono guardare negli occhi, dire la verità”. Una suora aveva sentito e riferì. Ci spostarono tutti. Io mi ritrovai nel reparto maternità. Per anni non ho mai parlato della strage, neanche con mia moglie. Poi un giorno i mei nipoti seppero dalla madre che ero stato tra i feriti. Mi chiesero di raccontargli. Io inventai una scusa. Poi però li invitai a fare una passeggiata in montagna. Fu così che mi aprii. Ricordo che la sera me li misi vicino, nel lettone, e risposi a tutte le loro domande. Da allora non smetto di girare per le scuole. È il mio modo di onorare le vittime”. Manlio: “Io non accettai l’obitorio, mi sembrava assurdo che la vita di Livia dovesse finire lì. Il pomeriggio tornai, solo, in Piazza della Loggia. Il dolore non ha finito di inseguirmi. Per mesi ho dormito con la luce accesa. Alla fine il segretario della Fiom, Claudio Sabattini, venne a stare da me. La mamma di Livia per anni ha avuto una grande foto della figlia nel salone. Le parlava. Si era convinta che fosse fuori per un po’. Che sarebbe tornata, prima o poi. Non accettava quella morte inaccettabile. In tutti questi anni mi sono battuto per la verità. Sono diventato vecchio ma ora, con la sentenza della Cassazione, è stata fissata la verità storica. È stata dura, ho avuto anche momenti di frizione con il mio partito, il Pci, che all’inizio sposò un’inchiesta sbagliata della magistratura. Ma ora c’è una sentenza definitiva. Nel condannare Maggi e Tramonte la Corte scrive: “Dagli atti processuali emerge, in effetti, la prova certa di comportamenti ascrivibili ai vertici territoriali dell’Arma dei Carabinieri e ad alti ufficiali del S.I.D., che sono incompatibili con ogni principio di lealtà e fedeltà ai compiti istituzionali loro affidati... L’ottica seguita, almeno per ciò che riguarda i Servizi segreti, non è stata certo quella di consentire agli inquirenti di fare luce sull’accaduto, sulle trame sottostanti, sui responsabili. È doveroso domandarsi: cui prodest? La risposta è fin troppo ovvia, ove si tenga conto del contesto politico dell’epoca e dell’attenzione che pezzi importanti dell’apparato, civile e militare dello Stato, e centrali di potere occulto prestavano all’evoluzione del quadro socio-politico del Paese, condividendo l’interesse - comune a potenze straniere che godevano di un osservatorio privilegiato grazie alla massiccia presenza sul territorio di basi militari e di operatori dei Servizi di intelligence - a sostenere l’azione della destra, anche estrema, in chiave anticomunista”. Non sappiamo chi ha messo materialmente la bomba, chi ha deciso che l’attentato si facesse. Ma conosciamo i responsabili della trama che ha portato all’attentato ed è codificato un giudizio storico. Noi non vogliamo vendetta. Io da anni ho avviato, con Agnese Moro, Benedetta Tobagi ed altri, un dialogo con i terroristi che hanno riconosciuto le loro colpe. Ci siamo incontrati, abbiamo usato le parole. Quelle che le armi e le bombe fanno tacere per sempre. Ho dedicato la mia vita alla verità. Cerco ancora. Lo faccio per Giulia, Clementina, Alberto, Euplo, Bartolomeo, Luigi, Vittorio. E per Livia. L’ho sognata, una notte. Lei era in casa, con altri amici. Aveva una grossa valigia in mano e camminava senza mai fermarsi. Vagava con un moto circolare, senza pause, senza meta. Vorrei poterle dire un giorno: “Fermati, riposati. Questa è la verità. Ci siamo arrivati”“. La rivolta dei magistrati onorari: “Noi, pagati appena 9 euro all’ora” La Repubblica, 26 maggio 2019 Dopo l’approvazione del disegno di legge, lettera aperta al ministro Bonafede: “Il provvedimento non è che una pallida ombra delle richieste avanzate al tavolo tecnico”. Il disegno di legge sulla magistratura onoraria, approvato dal Consiglio dei ministri, non piace affatto ai giudici che con il loro lavoro danno una mano, spesso decisiva, al funzionamento della giustizia civile e penale. E che nei mesi scorsi hanno proclamato più volte lo stato di agitazione. Ai magistrati onorari, in particolare, non sono andate giù, le “entusiastiche dichiarazioni” del ministro Bonafede su giornali e social. Soprattutto in considerazione dei compensi riservati alla categoria, “98 euro lordi per otto ore di svolgimento delle funzioni; udienza o attività di supporto alla magistratura professionale”. In una lettera che hanno cominciato a firmare molti dei cinquemila professionisti in servizio, si ricorda al Guardasigilli che “ci viene riconosciuto il diritto a “conservare” l’indennità allo stato vigente ma prevedendone il raddoppio non più al superamento delle cinque ore, ma addirittura delle otto ore e con un compenso orario che sfiora i 9 euro!”. “Anomalo - si legge nella lettera aperta al ministro la cui prima firmataria è il magistrato onorario Giulia Bentley - è che lei riconosca che “la magistratura onoraria rappresenta una delle colonne portanti della giustizia” e, al contempo, ritenga equo e dignitoso un compenso del genere. E se ci fermassimo a pensare che per affrontare una udienza è necessario uno studio preliminare e un impegno anche successivo per la redazione delle sentenze (sinora mai retribuito ai Giudici onorari!) il compenso si riduce ulteriormente”. Nella lettera aperta, si fa notare che il disegno di legge approvato non è che “una pallida ombra” delle richieste avanzate al tavolo tecnico, condivise apertamente dalla magistratura di ruolo e il cui accoglimento avrebbe significato il vero superamento “dell’affronto ricevuto dalla categoria con l’approvazione della cosiddetta Riforma Orlando nel 2017”. Il disegno di legge, sottolineano i magistrati onorari, non prevede alcun investimento economico, trattandosi di provvedimento a finanza invariata: “I 30 milioni di euro dichiarati disponibili per apportare le dovute modifiche al sistema retributivo e previdenziale dove sono finiti?” si chiedono nella lettera. E in attesa della risposta del ministro, in tanti sono pronti nuovamente a tornare sulle barricate. In sella sull’e-bike da ubriaco: patente revocata, ma la Cassazione lo aiuta di Paolo Grillo* La Repubblica, 26 maggio 2019 Si è sempre detto che lo sport nazionale degli italiani è il calcio. Nessuno lo nega, ma questa affermazione è vera soltanto a metà. Non dobbiamo infatti dimenticare il ciclismo, che forse nella storia nazionale ha persino qualche merito in più. La passione per le due ruote è stata celebrata anche al cinema e sul piccolo schermo: da “Ladri di biciclette” a “Fantozzi contro tutti”. A quei tempi, però, il povero ragioniere non doveva fare i conti con la bici elettrica. Su di essa, infatti, si è espressa nelle ultime ore la Corte di Cassazione. A dover invocare l’intervento dei supremi giudici è stato un cittadino toscano, che prima ha patteggiato una pena per aver pedalato in stato di ebbrezza e poi ci ha ripensato, dato che il tribunale di Massa, nell’accogliere la sua richiesta di definizione del procedimento, gli ha anche revocato la patente. La vicenda ha del particolare, perché la bici che il ciclista inforcava dopo aver alzato il gomito non era una bicicletta qualsiasi: si trattava, infatti, di una bici con pedalata assistita, oggi molto di moda per via di quel motore elettrico che aiuta il ciclista a non sforzarsi troppo. La questione sollevata - con successo - dal suo difensore è sostanziale, perché esiste un regolamento europeo del 2013 che equipara le biciclette a pedalata assistita con potenze superiori a 250 W ai veicoli a motore (sia pure elettrico), con conseguente obbligo di guida con patente, di immatricolazione e di assicurazione Rca. Se la potenza, invece, è inferiore la classificazione di competenza è quella dei velocipedi, cioè dei veicoli la cui propulsione è umana e nei quali il motore elettrico rappresenta un semplice ausilio ai muscoli di chi pedala. La difesa sollevata fa centro e la Cassazione annulla la sentenza di patteggiamento limitatamente alla sanzione amministrativa della revoca della patente dato che il giudice di primo grado non si è preoccupato di accertare quale fosse la potenza sprigionata dalla bicicletta condotta dall’imputato. Un nuovo giudizio, quindi, attende adesso chi aveva montato sul sellino con troppo alcool in corpo e c’è da augurargli che quella due ruote non fosse animata da un motore troppo “spinto”, perché in quel caso l’assimilazione alla categoria dei veicoli a motore leggeri non lascerebbe scampo alla sua patente. *Avvocato di Diritto e Giustizia Latina e Velletri, carceri che scoppiano. Morti sospette e manutenzione assente ilcaffe.tv, 26 maggio 2019 Le carceri del Lazio hanno tutte un problema di sovraffollamento, ma a Latina ci sono punte particolarmente significative. È quanto viene fuori dalla relazione del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio che ha diffuso i dati relativi al 2018. Non è l’unico dei problemi presenti: spesso è il decoro a mancare, o spazi per i colloqui con i figli o ancora c’è un problema relativo ad un alto numero di sospetti morti in cella, come è accaduto a Velletri. A Latina la maglia nera nel Lazio per il sovraffollamento. Si colloca nell’ultimo posto della classifica con un indice del 173%, che è di gran lunga superiore alla media italiana (118%). Male anche Velletri il cui indice di sovraffollamento è del 136%. Per capire a cosa equivalgono le percentuali, basta comprendere alcuni dati: nel carcere di Latina ci sono 77 posti, ma sono presenti 168 persone di cui 35 donne e 42 stranieri. A Velletri la capienza è di 411 persone, ma ne sono presenti 561 (tutti uomini) di cui 185 stranieri. Altro elemento che caratterizza la situazione di alcuni istituti di pena regionali è la presenza di detenuti stranieri sul totale della popolazione carceraria. Nel totale degli istituti della Regione, al 31 dicembre 2018 la percentuale era leggermente più alta che sul territorio nazionale (40,2% invece di 34,0%). A Latina e a Velletri la percentuale è in linea con la media nazionale: 31,6% nel primo e 33% nel secondo. Uno dei problemi maggiori riguarda lo stato di manutenzione degli edifici e delle sezioni detentive. Quasi tutti gli edifici non sono di recente costruzione, alcuni addirittura sono vere e proprie strutture “storiche”. Alcuni istituti come quelli di Cassino e Latina, entrambi ubicati all’interno del tessuto urbano e costruiti nella prima metà del secolo scorso, presentano invece problematiche diverse di non minore importanza, sia per i pochi spazi a disposizione che per le condizioni di detenzione. Il problema del riscaldamento delle stanze detentive, come dell’inadeguatezza degli impianti o dei tempi di accensione è continuamente segnalato da parte dei detenuti anche a Latina. A Velletri le docce sono presenti nelle camere del nuovo padiglione, mentre nel vecchio padiglione è presente una sala docce ogni 5 camere, in molti casi necessita di rinnovamento a causa di muffa e muri scrostati. Le stanze del vecchio padiglione sono in cattive condizioni con muri scrostati e muffa, necessiterebbero di interventi di ristrutturazione e di adeguamento. Le sale socialità sono anguste e disadorne. La sezione di isolamento è divisa in due parti, una sola delle quali è stata ristrutturata. Per i colloqui con i figli minori in alcuni istituti sono previste delle sale ludoteca, ambienti dedicati a mitigare l’impatto del minore con la struttura detentiva e a favorire la relazione genitore-figlio. Lo spazio a disposizione può variare a seconda delle caratteristiche delle strutture stesse. A Latina non sono presenti. Gravi informazioni a Velletri in tema di morti in cella e suicidi. Nel 2017 ci sono stati due decessi ed in entrambi i casi si trattava di suicidi e nel 2018 quattro decessi, di cui un suicidio. l’autorità giudiziaria ha avviato procedure di indagine per verificare la sussistenza di eventuali responsabilità di terzi. Al di là di quanto è stato o sarà appurato, resta il richiamo alla responsabilità di ciascuno degli attori istituzionali coinvolti per la prevenzione di simili, tragici, eventi. Nel 2018 la Direzione regionale della Formazione, con il contributo del Garante e in raccordo con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, ha programmato lo svolgimento di alcuni corsi. In tutti gli istituti si sono svolti corsi per installatore e manutentore sistemi elettrico-elettronici, assistente familiare, operatore alla ristorazione e aiuto cuoco, tecniche di stampa e serigrafia, operatore del legno e dell’arredamento, HACCP. A Latina si sono svolti corsi per operatore della ceramica artistica e a Velletri corso sulle tecniche di digitalizzazione dei documenti. Dal monitoraggio svolto dall’Ufficio del Garante, è emerso il quadro delle lavorazioni attive nel 2018 negli Istituti penitenziari del Lazio. A Latina i detenuti sono impiegati in soli servizi e lavori interni alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e si tratta di servizi domestici e ordinaria manutenzione. A Velletri gli stessi, ma anche servizi di lavanderia e attività agricole. A Latina l’istruzione primaria e secondaria è di competenza del Cpia di Latina-Aprilia. Sono attivi un corso di alfabetizzazione e un corso di scuola secondaria di primo livello per 3 classi (Alta Sicurezza, media sicurezza, precauzionali). Sebbene pochi detenuti riescano a conseguire il titolo, è invece elevato il numero di detenuti che partecipano alle lezioni come “auditori”; che si inseriscono nelle classi ad anno scolastico iniziato, per via dei numerosi nuovi ingressi che caratterizzano l’Istituto, o che non riescono a completare l’anno scolastico, a causa di trasferimenti e sfollamenti. Le 4 aule scolastiche sono state tutte dotate di LIM. È stato attivato un corso extracurriculare di espressione artistica attraverso l’utilizzo di colori. A Velletri, invece, ci sono lezione per la scuola primaria, secondaria di 1° livello, secondaria di 2° livello - Istituto Agrario. Prevista l’attivazione per il prossimo anno di un corso anche per la sezione precauzionale e di un Polo universitario denominato Uniliberi in una sezione specifica che sarà dedicata ai soli detenuti studenti con 4 postazioni informatiche complete anche di collegamento Skype. La Direzione intende avviare anche un corso di scuola secondaria di 2° livello con indirizzo alberghiero. Lecce: morte in carcere; prime conferme sul suicidio, resta il nodo dei farmaci lecceprima.it, 26 maggio 2019 Il 32enne di Lizzanello trovato morto in cella, aveva assunto i medicinali adeguati, considerando la sua instabilità psichica? Si è svolta in giornata l’autopsia sul corpo di Matteo Luca Tundo, il 32enne di Lizzanello trovato morto in una cella d’isolamento del carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, dov’era stato confinato in seguito all’arresto eseguito dai carabinieri per via di un’evasione dai domiciliari. A eseguirla è stato lo specialista Roberto Vaglio, designato dal pubblico ministero Giovanni Gallone, alla presenza della consulente incaricata dalla famiglia, il medico legale Sara Sablone. Il decesso, stando alle prime constatazioni, sarebbe compatibile con il suicidio provocato da impiccagione. Il giovane si sarebbe procurato la morte usando alcune lenzuola e creando così una sorta di rudimentale corda. Ma non è questo l’aspetto più rilevante. La famiglia, rappresentata dall’avvocato Roberto De Matteis - una denuncia è stata presentata dalla madre - intende capire se Matteo abbia ricevuto o meno un trattamento terapeutico. L’avrebbe indicato senza indugio la stessa madre, al momento dell’ingresso in carcere del figlio, tanto da proporsi di lasciare alcuni medicinali, per stabilizzare le condizioni del giovane; cosa impossibile, senza una prescrizione medica. Considerando il probabile lo stato d’astinenza da cocaina (sembra che la fuga stessa, usando l’auto della madre, sia stata alimentata proprio dalla ricerca della sostanza), l’instabilità psichica e quanto rilevato dal 118 al momento dell’arresto eseguito dai carabinieri dopo un inseguimento, un forte stato d’ansia e vertigini, per la famiglia un trattamento sarebbe stato più che auspicabile: un dovere. Ma per avere un quadro preciso, bisognerà attendere l’esito delle analisi e il deposito di una relazione. Il decesso risale alle 22 circa del 23 maggio. Inutile l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria e dei medici del 118, arrivati in carcere per soccorrerlo. Vano ogni tentativo di rianimazione. E quello del giovane salentino, è stato solo l’ultimo caso in ordine di tempo, nelle carceri pugliesi. “Un bilancio che lascia amarezza e perplessità in un quadro sempre più drammatico”, ha commentato ieri Domenico Mastrulli, segretario nazionale della federazione sindacale del Cosp. “La polizia penitenziaria, il cui organico è ormai allo stremo, paga il prezzo più alto in termini di carichi di lavoro dovuti all’incremento dei servizi di controllo delle postazioni in rapporto all’elevato numero di reclusi da sorvegliare per garantire la sicurezza di tutti”. Lucca: nel carcere di San Giorgio detenuti imparano l’arte del taglio di capelli luccaindiretta.it, 26 maggio 2019 Lo scorso 6 maggio, all’interno del carcere San Giorgio di Lucca, ha preso il via il progetto Che Barba! che propone la realizzazione di moduli formativi al fine di offrire ai detenuti delle competenze professionali di base nel settore del taglio dei capelli e della barba. La durata della prima parte del progetto sarà di due mesi (maggio e giugno) al termine dei quale i partecipanti avranno appreso le competenze necessarie per poter autonomamente iniziare a fare tagli base di capelli per uomo. L’idea è quelle di offrire la possibilità di imparare un nuovo mestiere ai detenuti: un progetto pilota che possa creare un percorso di reinserimento professionale che parte dalla formazione professionale all’interno della struttura penitenziaria. La scelta del segmento barber shop dimostra l’attenzione verso la ricerca dell’integrazione con il mondo del lavoro, tentando cioè di indirizzare la formazione professionale sui fabbisogni del mercato del lavoro. “All’interno del nostro istituto, stiamo sperimentando varie progettualità finalizzate ad aumentare le offerte e le opportunità formative per i detenuti - dice Santina Savoca, direttore della casa circondariale. Il progetto Che Barba persegue appieno questo obiettivo, pertanto speriamo che, dopo questa prima fase sperimentale, si possa pensare e riuscire a sistematizzare questa esperienza tra le proposte rieducative del carcere”. Il progetto è promosso dalla casa circondariale di Lucca e da Studio Creativa in collaborazione con Cencos srl e Linea L. Lamberto Abate si occuperà della direzione tecnica e della realizzazione dei moduli formativi, vista la sua trentennale esperienza nel settore. Tanti i partner dell’iniziativa che hanno voluto contribuire con le proprie esperienze nel settore professionale dell’hair beauty: Tricobiotos Spa, azienda leader nella produzione e distribuzione di prodotti cosmetici parrucchieri; Selective Professional che con la sua linea uomo Cemani sarà il partner tecnico principale fornendo prodotti ed accessori; Wahl Clipper Corporation, leader nel settore della rasatura professionale e domestica fin dal 1919, anno della sua fondazione, che fornirà le attrezzature. “La formazione è una delle aree di maggior focus per Wahl e siamo onorati di poter dare il nostro contributo a un percorso importante e significativo come quello di Che Barba. I valori della solidarietà e del rispetto per tutti costituiscono le fondamenta della nostra cultura aziendale” ha dichiarato Carolina Braina, communications specialist di Wahl Italia. Palermo: successo per le visite al carcere Ucciardone durante la Settimana delle Culture blogsicilia.it, 26 maggio 2019 In occasione della Settimana delle Culture il carcere Ucciardone ha aperto le porte ai visitatori. “Siamo entusiasti e emozionati per il grande successo che ha riscosso questa nostra iniziativa. Il plauso più grande va al Direttore della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone e a tutto il personale dell’Amministrazione Penitenziaria per la possibilità di aprire le porte del Carcere alla popolazione civile”. Lo dice il presidente dell’Associazione Clio, organizzatore dell’evento, Ruggero D’Amico. Continua D’Amico: Una menzione speciale merita l’Ufficio Educatori e il personale della Polizia Penitenziaria per l’enorme supporto datoci durante i due weekend di visita, accompagnando sia noi che la popolazione civile alla scoperta del mondo dietro le mura del Carcere ottocentesco. Un percorso di rieducazione e reinserimento svolto con professionalità e coinvolgimento da tutti coloro che vivono l’Ucciardone quotidianamente”. Conclude D’Amico: “Ringraziamo calorosamente e sentitamente tutta la popolazione civile per aver accolto entusiasticamente le nostre visite: i messaggi lasciati nel registro preparato dagli educatori hanno riempito i nostri cuori e soprattutto quelli dei detenuti. Ma soprattutto i visitatori hanno capito e apprezzato il grande lavoro che c’è dietro tutte le varie attività che si portano avanti. Questo è ciò che più ci ha reso felici. La nostra speranza è che si ripetano sempre più appuntamenti del genere, per offrire un punto di vista più realistico rispetto alla realtà detentiva che talvolta si riscontra nell’immaginario collettivo”. Verona: la rieducazione in cucina, detenuti trentini e veronesi si sfidano ai fornelli di Chiara Marsilli Corriere della Sera, 26 maggio 2019 L’iniziativa ieri a Verona. Fedrizzi: così si costruisce uguaglianza. Formazione, professione, sfida, riscatto. Sostenere l’istruzione alberghiera in carcere per dare futuro ai detenuti. Nasce da qui la “Sfida ai fornelli 2.0” che ieri ha visto fronteggiarsi alcuni detenuti del carcere di Spini di Gardolo e di Montorio a Verona impegnati in un percorso di formazione professionale. Un’amichevole gara di cucina ospitata nel veronese che ha visto vincere, di poco, la squadra di casa, in una gara di tutto rispetto: una settantina di coperti, una giuria che contava anche lo chef di Cuochi d’Italia Andrea Cesaro e tre ore per preparare un menu di quattro portate. L’iniziativa, ideata dalla Camera penale di Verona, è stata immediatamente accolta e fatta propria dalla Camera penale di Trento grazie all’interessamento del presidente, l’avvocato Filippo Fedrizzi, e dall’avvocatessa Sara Morolli. Un progetto ambizioso e unico in Italia che prende le mosse da una semplice consapevolezza: permettere ai detenuti di apprendere un mestiere durante il periodo di pena aiuta a dare un senso alle giornate, introduce al mondo del lavoro rendendo meno traumatizzante il reinserimento nella società civile e riduce di molto il rischio di recidive. Della squadra trentina l’unico che frequenta l’istituto alberghiero in carcere è Salvatore, 50enne di “Napoli città”, già iscritto allo stesso corso di studi da ragazzo. Insieme a lui, a seguire le indicazioni dello chef Giuliano Pilati, altri tre detenuti senza formazione specifica ma con un certo gusto per la cucina. Mohammed ha 27 anni, viene dalla Tunisia, sogna dei piatti “fusion” tra la sua terra d’origine e quella italiana ma il ramadan lo costringe a non assaggiare nulla di quello che prepara; Marian, rumeno di 32 anni, aspetta con ansia il fine pena per tornare a casa dai suoi figli, due gemelli di nove anni, dalla moglie e dal suo giardino; Pietro ha 64 anni, è nato in provincia di Mantova e legge il mondo attraverso un filtro di sottile ironia. Per tutti il fine pena è vicino, dai due ai nove mesi. Per tutti la grande incognita è quello che succederà dopo e la difficoltà di tornare a vivere ed agire al di fuori del contesto iper regolamentato del carcere. Incognita che può essere placata da una formazione ad hoc. A Montorio c’è una sorpresa: della squadra veronese fa parte anche Malik, uno dei detenuti trentini allievi dell’alberghiero che in seguito alla rivolta di dicembre è stato trasferito a Verona. “Quando abbiamo saputo del trasferimento ci siamo attivati perché Malik potesse essere inserito nel programma di formazione del carcere di Verona. In questo modo può continuare a studiare e prendere il diploma - spiega Gianlorenzo Imbriachi, docente di Scienze alimentari a Rovereto e parte del corpo insegnanti di Spini da 5 anni-Insegnare in carcere è un’esperienza che consiglierei a tutti perché aiuta a mettere le cose in una prospettiva diversa, ma molti si fanno spaventare dal pregiudizio”. Proprio il pregiudizio è l’ostacolo che questo progetto vuole abbattere. “Al di là del risultato-spiega Filippo Fedrizzi - iniziative di questo tipo permettono ai detenuti di essere trattati alla pari, non per la loro storia ma come individui. Vogliamo continuare su questa strada coinvolgendo sempre più imprenditori locali come abbiamo fatto con Segata, che ci ha fornito i 10 chili di carne salada necessari per preparare l’antipasto della squadra trentina”. Pensiero condiviso anche da Domenico Luigi Bongiovanni, direttore dell’istituto alberghiero di Verona Angelo Berti: “Il traguardo massimo è nobilitare il lavoro e attraverso esso permettere il reinserimento definitivo nella società dell’ex detenuto, realizzando cioè la finalità più alta: una volta scontata la pena ed estinto il debito, ricominciare in condizioni di opportunità uguali”. A Verona la casa circondariale ferve di vita attiva. Dei 600 detenuti, circa un centinaio sono coinvolti nei diversi progetti lavorativi. Quelle che saltano maggiormente agli occhi sono le attività che coinvolgono gli animali e uniscono la formazione professionale a una sorta di pet therapy. Il canile, convenzionato con il comune di Verona, ospita alcuni randagi, può essere utilizzato come pensione a pagamento da chi ha bisogno di affidare il proprio animale domestico durante le ferie e i detenuti inseriti nel progetto ricevono un diploma utile per trovare un impiego. Ma non solo. Dentro le mura della casa circondariale cavalli, pecore e agnelli brucano placidi sotto lo sguardo attento di alcuni detenuti impegnati nella cura dell’orto destinato all’autoproduzione. Il futuro della detenzione passa anche da qui e dalla gara di ritorno, in programma a novembre a Trento. Cremona: Vivicittà-Porte Aperte, corsa podistica Uisp con anche detenuti e studenti cremonaoggi.it, 26 maggio 2019 La Casa Circondariale di Cremona ha ospitato oggi, sabato 25 maggio, la sedicesima edizione del “Vivicittà - Porte Aperte”, la corsa podistica riservata ai detenuti, ma aperta anche alla società civile, rappresentata in tale circostanza dalle società sportive esterne e dagli studenti degli istituti superiori cittadini. Tra questi, alcuni ragazzi e ragazze dell’Istituto Aselli accompagnati dal prof. Franco Guarneri ed una qualificata rappresentanza cittadina dell’Asd Triathlon-Duathlon, per un totale di circa 40 persone. Un’edizione baciata dal sole visto il periodo di pioggia di questi giorni, che ha fatto da scenario agli oltre sessanta detenuti partecipanti alla corsa. Il Pres. Territoriale Uisp di Cremona Luca Zanacchi ha ringraziato i volontari Uisp e gli agenti della polizia penitenziaria che hanno reso possibile la corsa, i partecipanti, e la Direttrice dell’Istituto dott.ssa Padula e il Presidente dell’Amministrazione Provinciale Davide Viola. La corsa, sviluppatasi su un circuito interno di ottocento metri circa da ripetersi sei volte, ha visto primeggiare il marocchino Saidi con il tempo di 26 minuti e 33 secondi. Un Vivicittà - Porte Aperte “quanto mai internazionale - fanno sapere dalla Uisp - specchio fedele dei processi di globalizzazione, che si è svolto in altre trenta Case Circondariali d’Italia, e che ha concluso la rassegna di iniziative collegate alla corsa podistica giunta alla trentaseiesima edizione”. Roma: “Colori dolenti” nelle opere dipinte dai detenuti di Lilli Garrone Corriere della Sera, 26 maggio 2019 Una cella-atelier nel carcere di Rebibbia. Non poteva che chiamarsi così, “Colori dolenti”, la mostra dei quadri dipinti dai detenuti che si trovano nell’ala di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. Sono esposti nel Complesso monumentale di San Cosimato (via Emilio Morosini 30). E la prima volta che questi quadri, dipinti all’interno di un laboratorio della sezione del “G12”, nato nel 2015 su iniziativa di alcuni detenuti e sostenuto dalla direttrice Rossella Santoro, vengono mostrati: una prima inaugurazione è stata all’interno dello stesso carcere di Rebibbia, e adesso escono all’esterno, in una esposizione organizzata dal professor Alessandro Reale, docente al liceo scientifico Teresa Gullace e responsabile del laboratorio, e dal commissario Luigi Giannelli. Il laboratorio di pittura di Rebibbia è all’interno di una cella correlata di elementi molto semplici: alcuni tavoli, poche sedie, le pareti adorne dei quadri dipinti dai detenuti nel corso del tempo. Ma per chi lo frequenta questo spazio è diventato importantissimo, un punto di riferimento dove intraprendere un percorso di introspezione e di crescita personale. “All’interno di questo spazio - racconta Alessandro Reale - le diversità caratteriali e culturali si intrecciano come a fornire un unico ordito perché la finalità è eguale per tutti: cercare e ritrovare qualcosa di bello per sé stessi e gli altri, realizzarlo e mostrarlo”. E infatti i quadri nonostante il “dolore” hanno speso colori brillanti, riproducono paesaggi mai dimenticati o visionari, hanno grande accuratezza nel disegno. “Nel corso del tempo - racconta ancora Reale - il laboratorio ha mutato sempre più la sua condizione, sino ad arrivare ad assumere un aspetto legato ad un vero e proprio studio artistico. E l’esercizio della creatività applicata in un particolare contesto ambientale come quello dell’alta sicurezza, assume molteplici valori, ma qui, negli spazi angusti di una cella del carcere, ogni produttore è autore di un “nuovo autentico” se stesso liberato da una “vita nervosa” e da una “città dolente”. E qui che viene realizzata, nel corso di una ricerca artistica, una propria interpretazione “del bello” attraverso una esercitazione mentale delle esperienze vissute nel passato”. Il romanzo-memoir di un detenuto entra nelle scuole della Calabria e della Basilicata di Antonio Lufrano quotidianosociale.it, 26 maggio 2019 Sulla linea… il romanzo-memoir di un detenuto entra nelle scuole della Calabria e della Basilicata grazie al progetto per la lettura della Fondazione Carical. La storia vera, straordinaria e dura di un detenuto, condannato a un “fine pena mai”, che racconta il potere dell’illegalità, la crudeltà del clan, la via d’uscita e la forza del cambiamento. Sulla linea… La mia vita dietro le sbarre il romanzo-memoir, scritto da Francesco Carannante, in collaborazione con M. Letizia Guagliardi, pubblicato dalla Ferrari Editore, è tra le opere selezionate dalla Fondazione Carical per la XV edizione del progetto Incontro con l’Autore. Uno degli eventi culturali più importanti del nostro paese. Un laboratorio creativo che offre a oltre 300 studenti, provenienti da diversi istituti superiori della Calabria e della Basilicata, la possibilità di conoscere il piacere della lettura, favorendo la capacità di analisi e critica. Gli studenti sono coinvolti direttamente come lettori ma anche come critici, attraverso la stesura di una recensione di alcune opere di narrativa contemporanea, selezionate dalla Fondazione. Una commissione scientifica, nominata ad hoc, composta da giornalisti e rappresentanti del mondo della cultura, valuta e premia i migliori elaborati degli studenti. Le recensioni più votate vengono pubblicate sulle pagine di Gazzetta del Sud e Il Quotidiano della Calabria. “È una grande soddisfazione per tutta la nostra redazione sapere che un libro congeniale all’intento educativo, perché racconta la realtà, sia entrato nelle scuole grazie al progetto della Fondazione Carical. Leggere questo romanzo può essere un valido aiuto per molti giovani che si lasciano abbagliare dalla criminalità organizzata, quasi sempre per denaro e per il fascino del potere” commentano Settimio Ferrari e Francesca Londino (rispettivamente fondatore e co-fondatrice della casa editrice). L’evento finale del progetto, si svolge sabato 25 maggio 2019, alle ore 10.30, presso il Parco degli Enotri, a Mendicino (CS). Gli autori - Francesco Carannante, originario della Campania, è uno scrittore detenuto. Dopo molti anni trascorsi nella Casa di reclusione di Rossano (CS), è stato trasferito in Sardegna. In carcere ha conseguito la laurea in Sociologia e collabora attivamente nei progetti teatrali come attore e voce recitante. “Sulla linea… La mia vita dietro le sbarre” è il suo primo libro. Un intenso e forte memoir che ripercorre la sua vita, scritto in collaborazione con M. Letizia Guagliardi, docente, blogger, appassionata di letteratura e coordinatrice di diversi progetti di teatro sociale per il carcere. La violenza dei padri di oggi di Massimo Recalcati La Repubblica, 26 maggio 2019 Abbiamo conosciuto tutti, nel tempo dove ancora dominava l’ideologia patriarcale, la violenza disciplinare del padre-padrone. Il suo mezzo era sadico, il suo fine pedagogico: moralizzare la vita del figlio. I terribili delitti di cui si sono recentemente macchiati diversi padri nei confronti dei loro piccoli figli inermi non appartengono però più a questo paradigma. Un padre è tenuto a sopportare l’angoscia dei figli o di quella che la vita dei figli può suscitare. In generale il compito dei genitori è quello di sopravvivere all’angoscia “dei” figlio “per” i figli. In questi passaggi all’atto atroci incontriamo invece la totale incapacità dei padri di sopportare questa angoscia, di sopportare il grido “naturalmente” inquieto della vita del figlio. I protagonisti di questi crimini efferati non sono, dunque, padri anche se sono i genitori naturali della vita dei loro figli. Essi non sono padri perché non hanno assunto la responsabilità illimitata che comporta ogni paternità: accogliere e sostenere la vita del figlio, sopportarne l’angoscia. Ma, ancora più precisamente, questi padri non sono padri perché sono ancora figli; figli incapaci di sopportare la minima frustrazione. Non sono padri perché sono solo genitori biologici, cosiddetti eterosessuali, ovvero naturali, che non hanno però mai fatto davvero il passo simbolico della paternità e della responsabilità che questo passo comporta. Per questo possono, anziché proteggerne la vita, trasmettere la morte ai loro figli. Non più però come accadeva nel tempo del padre-padrone folle che nel Novecento spingeva i suoi figli alla morte gloriosa nel nome della Causa. Questi nuovi padri insofferenti, o, meglio, questi nuovi figli-padri, annientano la vita del figlio più semplicemente, come fosse il fastidio di una mosca o di un rumore molesto che disturba impunemente il loro sonno pacifico. La loro violenza sconcertante è sorella della loro più inaudita fragilità. Nessuna epoca come la nostra ha mai dedicato così tanta cura e attenzione al bambino, ai suoi bisogni e ai suoi desideri. L’antropologia parla addirittura di una “mutazione” fondamentale intervenuta negli ultimi decenni: mentre nel tempo del patriarcato era il bambino che doveva adattarsi alle leggi simboliche della famiglia, oggi pare che siano le leggi simboliche della famiglia a doversi piegare di fronte ai capricci anarchici del bambino. Tuttavia, la serie recente di questi delitti ci confronta con un’altra faccia della stessa verità: i padri contemporanei sono figli fragili, egoisti, spaventati, concentrati solo su se stessi, incapaci di un’autentica donazione. L’esito di questa fragilità - come insegna la clinica della famiglia contemporanea - è, innanzitutto, l’abdicazione a sostenere il peso dell’educazione dei propri figli. Questa abdicazione è la matrice comune del fenomeno del “bambino re” che piega le leggi della sua famiglia alle leggi del suo capriccio e di quei genitori che, calpestando la loro funzione simbolica, aggrediscono i loro figli anziché tutelarne la vita. Ecco apparire in tutta evidenza un paradosso del nostro tempo: da una parte i figli comandano sui genitori, dall’altra i genitori possono mostrare una radicale insofferenza alla loro esistenza, all’irregolarità naturale della loro vita. Lo vediamo, pur senza i toni traumaticamente brutali di questi crimini efferati, ovunque: smarriti nella loro funzione educativa, l’esigenza impellente che i genitori rivolgono agli educatori (insegnanti, psicologi, pedagogisti) è quella di rendere il proprio figlio normale, di sedare, in altre parole, l’irrequietezza “naturale” della sua vita, di calmare il suo pianto, di dormire in pace. L’onda nera contro migranti e ong di Carlo Lania Il Manifesto, 26 maggio 2019 L’alba della stagione anti migranti del governo giallo verde spunta il 10 giugno 2018 quando Matteo Salvini, da appena otto giorni ai vertici del ministero degli Interni, vieta l’approdo alla nave Aquarius della ong Sos Mediterranée. A bordo ci sono 629 migranti tratti in salvo in sei operazioni di soccorso compiute dalla stessa nave della ong francese oltre che da un mercantile e dalla Guardia costiera italiana. Anche se non è nuovo il fatto che una nave carica di migranti incontri problemi nel farsi assegnare un porto sicuro per lo sbarco (due casi si erano verificati in precedenza, a marzo dello stesso anno e nel 2014), è la prima volta che lo slogan “porti chiusi alle navi con i migranti” si trasforma nella pratica politica di un governo. Prima di allora solo l’Ungheria di Viktor Orbán aveva osato alzare muri sui confini per fermare i migranti che cercavano di raggiungere il Nord Europa. Tra i disperati che sull’Aquarius sognano l’Italia - all’epoca un sogno ancora possibile - ci sono 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte che insieme a tutti gli altri e all’equipaggio della ong resteranno bloccati in mare per nove giorni prima di riuscire a sbarcare a Valencia, in Spagna, grazie all’apertura, per altro temporanea, voluta dal governo di Pedro Sanchez. L’Aquarius è stata solo la prima vittima della guerra alle ong scatenata dal ministro leghista. In undici mesi di governo sono stati 18 i casi di navi che si sono viste negare l’approdo e costrette a rimanere in mare con il loro carico di naufraghi. Per lo più si è trattato di navi di ong (una decina quelle coinvolte, quasi tutte straniere), ma anche mercantili e perfino una nave della Guardia costiera italiana, la Diciotti, vicenda per la quale Salvini è stato accusato dal Tribunale dei ministri di Catania di sequestro di persona aggravato. Ma la politica dei porti chiusi è stata soprattutto l’avvio di una serie di provvedimenti che hanno avuto come obiettivo la criminalizzazione dell’immigrazione e prodotto l’isolamento dell’Italia in Europa, tanto che l’impossibilità di raggiungere un accordo comune sugli sbarchi porterà a marzo di quest’anno alla decisione di privare la missione europea Sophia, fin dal 2015 sotto il comando italiano, delle sue navi. Dopo i porti chiusi, il passo successivo si chiama decreto sicurezza, fortemente voluto da Salvini e con il quale viene abrogata la protezione umanitaria e si amplia notevolmente la gamma di ipotesi di reato per le quali è possibile revocare o negare a un richiedente asilo la protezione internazionale (tra queste la violenza o minaccia a pubblico ufficiale e il furto aggravato). Ma si ridisegna anche il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo prevedendo che all’interno degli Sprar, il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati- strutture gestite dai Comuni - possano essere accolti solo quanti si sono visti riconoscere lo status di rifugiato e i minori non accompagnati. Tra le altre misure previste anche il divieto per i possessori di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo di iscriversi all’anagrafe dei Comuni (divieto non applicato da alcuni sindaci e recentemente bocciato da un sentenza del tribunale di Bologna). È ancora un decreto l’ultimo atto dello scontro tra il titolare del Viminale e le organizzazioni umanitarie. Bloccato dagli alleati 5 Stelle, contrari a far incassare all’alleato leghista un successo alla vigilia delle elezioni europee, il decreto sicurezza bis potrebbe arrivare in consiglio dei ministri la prossima settimana. Tra le altre misure il nuovo testo prevede il sequestro e multe tra i 10 mila e i 50 mila euro per le navi che non rispettano il divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque territoriali, attribuendo la decisioni sulle sanzioni al prefetto. Un organo che dipende dal ministero degli Interni. Venezuela. È strage per la rivolta in carcere: 29 uccisi Avvenire, 26 maggio 2019 È di almeno 29 morti il bilancio di una rivolta scoppiata nel carcere venezuelano di Acarigua, a Caracas. Lo rendono noto le autorità locali che riferiscono di pesanti scontri tra detenuti e la polizia che ha tentato di frenare una protesta di massa scatenata dalla morte di un detenuto la scorsa settimana. Durante gli scontri sono rimasti feriti anche 19 agenti. Il capo della polizia, Oscar Valero, ha spiegato che si sarebbe trattato di un tentativo di evasione di massa. La violenza sarebbe iniziata nel momento in cui i prigionieri hanno preso in ostaggio alcuni visitatori. I detenuti erano armati e hanno iniziato a sparare contro la polizia e a lanciare granate. Secondo fonti di polizia tra i prigionieri uccisi ci sarebbe anche uno dei leader della rivolta Wilfredo Ramos. Versione contestata dalla Ong Osservatorio venezuelano, perché tra i motivi della protesta ci sarebbe piuttosto la situazione delle carceri in Venezuela, dove il cibo è scarso e dove i detenuti hanno da sempre denunciato abusi. I detenuti avrebbero richiesto da settimane di essere trasferiti in altre prigioni nel Paese. Il carcere di Acarigua, creato per ospitare 60 detenuti, ne accoglie 500. La protesta per le condizioni delle prigioni in Venezuela sono sfociate in diverse rivolte interne e numerosi sono stati gli appelli internazionali per il rispetto dei diritti umani. Arabia Saudita. Non solo Khashoggi, le violenze contro i giornalisti di Roberto Vivaldelli insideover.com, 26 maggio 2019 L’Arabia Saudita, come confermato da Reporter senza Frontiere - l’organizzazione non governativa e no-profit che promuove e difende la libertà di informazione e di stampa - ha arrestato e incarcerato altri due giornalisti stranieri. Si tratta del giornalista yemenita Marwan al-Muraisi e di Abdel Rahman Farhaneh, un cronista giordano di 60 anni, scomparso alla fine di febbraio a Dammam, una città nella parte orientale dell’Arabia Saudita, dove ha vissuto per più di tre decenni. È stato corrispondente di Al Jazeera, almeno fino a quando Riad non ha interrotto le relazioni diplomatiche con Doha, e si è spesso occupato del conflitto israelo-palestinese. Per quanto riguarda Farhaneh, secondo quanto dichiarato da Reporter senza Frontiere, la sua famiglia sarebbe stata informata dall’ambasciata giordana che le autorità saudite lo avrebbero “presto rilasciato”, anche se non è stata comunicata alcuna data. Di fatto, una conferma che il reporter scomparso era stato arrestato dal Regno dopo mesi di silenzio. L’Arabia Saudita e i giornalisti in carcere o dispersi - Il giornalista yemenita al-Muraisi è riuscito, soltanto di recente, a parlare al telefono con la moglie a 11 mesi dalla sua scomparsa. È la prima volta che ad al-Muraisi è stato consentito di contattare un familiare. Come ha spiegato la moglie in un tweet, il reporter ha confermato di stare bene, pur non sapendo indicare dove si trovasse e dove fosse detenuto. Reporter senza Frontiere e altre associazioni umanitarie hanno inviato nel settembre 2018 una lettera indirizzata alle autorità saudite chiedendo di fare chiarezza sullo stato di salute del giornalista yemenita. Dopo il recente rilascio del blogger Hatoon Al-Fassi, Reporter senza Frontiere e le organizzazioni per i diritti umani continuano a chiedere la liberazione di altri 29 giornalisti e blogger detenuti in Arabia Saudita. Almeno due sono i giornalisti dispersi di cui non si sa nulla in un Paese che, nella classifica redatta da Rsf sulla libertà di stampa, si piazza nelle ultimissime posizioni. Che il Regno wahabita sia tra i regimi più brutali e totalitari del pianeta, lo dimostra l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, assassinato all’interno del consolato saudita di Istanbul lo scorso 2 ottobre. Come riporta Middle East Eye, qualche settimana fa il New York Times confermava inoltre l’esistenza di una vera e propria “squadra della morte” saudita, coinvolta nella sorveglianza, nel rapimento, nella detenzione, nella tortura e nell’assassinio di cittadini sauditi - incluso l’editorialista del Washington Post Khashoggi. La squadra ha operato sotto la guida e la supervisione di Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita. Secondo il New York Times, la Saudi Rapid Intervention Group (Srig) sarebbe coinvolta in una dozzina di operazioni che il Regno avrebbe orchestrato contro i dissidenti. La corte federale diffonde i documenti su Khashoggi - Come scrive il Washington Post, più di sei mesi dopo che gli agenti del governo saudita hanno brutalmente assassinato Jamal Khashoggi, l’amministrazione Trump deve ancora rivelare pubblicamente ciò che sa sul crimine e come ha gestito l’inchiesta. Tuttavia, un giudice federale sta facendo pressione sul governo affinché le informazioni sull’omicidio vengano diffuse al più presto. Il giudice distrettuale degli Stati Uniti Paul A. Engelmayer, ha richiamato il governo e ha dato tempo fino al 29 maggio affinché le agenzie producano la loro documentazione e completino il lavoro. Secondo l’Onu, il responsabile dell’omicidio è senza dubbio il Regno. L’équipe Onu, recatasi lo scorso 28 gennaio in Turchia al fine di ricostruire la luttuosa vicenda fin nei minimi dettagli ha comunicato di avere a disposizione “prove sufficienti” ad attribuire a “ufficiali della Casa reale saudita” la “pianificazione” e l’”esecuzione” dell’omicidio di Khashoggi. In un incontro con i media occidentali svoltosi di recente a Ginevra, Agnes Callamard, funzionario a capo del gruppo di investigatori internazionali, ha infatti stabilito, sulla base delle informazioni raccolte grazie alla collaborazione con le autorità di Ankara, che nell’uccisione del giornalista del Washington Post sarebbero stati coinvolti “almeno 15 agenti speciali di Riyad”, tra i quali figurerebbe anche un “ufficiale medico”. Brasile. L’omofobia diventa reato, il verdetto della Corte suprema che non piace al governo di Daniele Mastrogiaco La Repubblica, 26 maggio 2019 Da ieri qualsiasi discriminazione verso le persone Lgbt e l’omofobia, sono un crimine, che sarà processato sulla base delle leggi in vigore per gli atti di razzismo. Una sentenza storica traccia in Brasile un nuovo solco a difesa dei diritti civili. Il Tribunale Superiore Federale ha deciso a maggioranza (sei voti su undici) di equiparare l’omofobia e la transfobia al razzismo. Saranno entrambi considerati reati e potranno essere puniti fino a 3 anni di carcere. Il verdetto pronunciato dal Supremo accoglie due ricorsi dell’Associazione brasiliana lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersex (Abglt) e del Partito socialista popolare (PPS) promossi nel 2012 e il 2013. Il dibattito era iniziato nel febbraio scorso. Il voto ha stabilito la pena ma le conclusioni dovrebbero arrivare il 5 giugno quando il Tribunale tornerà a riunirsi. Il verdetto segna un punto importante nella battaglia per il rispetto dei diritti civili soprattutto per quel che riguarda la sfera e l’orientamento sessuale. Gay e lesbiche restano persone ghettizzate e perseguitate, vittime di violenza e di aggressioni. Solo quest’anno sono state uccise 141 tra uomini e donne che fanno parte del folto popolo Lgbt. Ma il pronunciamento della quinta sezione del Tribunale Superiore Federale è anche un segnale della sua indipendenza e del suo ruolo guida sui principi costituzionali che apre un nuovo conflitto nei rapporti già tesi con il governo di Jair Bolsonaro e il fronte conservatore del Congresso. I giudici chiedono al Supremo di sollecitare il Parlamento ad approvare una legge contro l’omofobia e la transfobia ma stabiliscono da subito che sono reati uguali al razzismo. Tra potere giudiziario e potere legislativo c’è stata una corsa contro il tempo. Un disegno di legge sull’identità di genere è stato portato al Senato due giorni fa e poi approvato in sede di Commissione Costituzionale e Giustizia. Estende il reato di razzismo anche alle discriminazioni sull’identità di genere. Il Congresso voleva anticipare la discussione e il voto del Tribunale Superiore. Ci è riuscito ma solo in parte. Ma questo gli ha consentito di non trovarsi spiazzato e di inviare una nota di precisazione al Supremo con la quale sosteneva di aver già affrontato il tema. Si trattava di decidere se attendere l’iter legislativo, e quindi rispettare l’autonomia del Parlamento, oppure votare subito e fissare un principio costituzionale. Il presidente del TSF, Antonio Dias Toffoli, ha portato il caso al plenum. C’è stata una lunga discussione, con il consigliere Luís Roberto Barroso che spingeva per il voto spiegando che “tutti quelli che sono attaccati e discriminati non possono attendere” e Toffoli, favorevole ad una sospensione per non infiammare i rapporti con il Congresso, che replicava: “Tutti i dati dicono che c’è già una diminuzione dell’aggressività e della violenza”. Ma alla fine hanno prevalso i voti a favore di un verdetto. La destra si è infuriata. Alcuni parlamentari hanno chiesto l’impeachment dei consiglieri del TSF che hanno votato a favore. Sono gli stessi che hanno promosso la “marcia della pazzia” di domenica a sostegno di Bolsonaro. Lo scontro tra Supremo e Congresso è al culmine. In ballo c’è l’altro grande tema: quello sulla droga. La settimana scorsa il Senato ha approvato una legge che rafforza le pene sull’uso e la detenzione della maconha, la marijuana brasiliana. E questo proprio alla vigilia di una sentenza del Tribunale Superiore Federale che puntava invece alla depenalizzazione.