Misure alternative: l’Italia in coda tra i paesi europei. Prima l’Olanda di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2019 Per il Rapporto Space II del Consiglio d’Europa siamo 25esimi su 33 stati monitorati. Cresce in Europa il numero di persone che scontano pene alternative rispetto alla detenzione, come l’arresto domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà o libertà condizionata. Ma il nostro Paese si pone al 25° posto sui 33 Paesi monitorati. Secondo il Rapporto Space II che il Consiglio d’Europa ha pubblicato recentemente, al 31 gennaio 2018 c’erano in Europa 1.810.357 persone in situazione di pena alternativa (una media di 169 persone su 100mila abitanti). A fronte di ciò è calato il numero di detenuti in Europa (102,5 su 100mila abitanti). Complessivamente aumenta il ricorso alle misure alternative: 1.810.357 quelli che ne beneficiavano al 31 gennaio 2018 mentre erano 1.540.578 secondo il rapporto del 2016. Quanto all’Italia, il ricorso a queste misure in rapporto alla popolazione carceraria ci pone al 25° posto sui 33 Paesi monitorati. Il primo per concessione di misure alternative al carcere? L’Olanda, poi l’Inghilterra e la Romania. Quella delle pene alternative è stata una battaglia che il Consiglio d’Europa ha portato avanti in questi anni, come percorso che può “contribuire efficacemente all’integrazione degli autori di reati nella società, migliorare il funzionamento delle carceri e prevenire il sovraffollamento”. Lo studio è stato presentato alla Conferenza dei direttori di istituti di pena e responsabili dei servizi sociali che si è concluso mercoledì scorso. In realtà, la raccomandazione del Comitato dei ministri agli Stati membri sulle norme europee in materia di sanzioni e misure comunitarie era stata adottata più volte, l’ultima nel 2017. Anche l’Italia, tramite l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, aveva promesso di implementare le misure alternative tramite la riforma che era in itinere. Ciò aveva fatto scampare l’Italia dalle sanzioni. Ma andiamo con ordine. Nel 2016, la Corte europea per i diritti umani (Cedu) aveva comunicato che è stata archiviata in maniera definitiva la vicenda Torreggiani in materia di sovraffollamento delle carceri italiane. È stato apprezzato il lavoro che era stato fatto attraverso le leggi passate come le tanto criticate “svuota carceri, ma soprattutto per la riforma dell’ordinamento penitenziario che era in itinere e conteneva un capitolo dedicato alle misure alternative. La vicenda era cominciata nel 2013 quando la stessa Cedu aveva condannato l’Italia, con la suddetta sentenza Torreggiani, a risarcire un detenuto che aveva passato periodi di reclusione in celle al di sotto dei 3 mq di spazio per persona (violazione dell’art. 3 della Convenzione europea: trattamenti inumani e degradanti). D’improvviso l’Italia scoprì di avere un grosso problema, il sovraffollamento carcerario. La Cedu concesse un anno di tempo per risolverlo. Allora la popolazione ristretta ammontava a 66.685 persone e la capienza regolamentare a 45.000 posti. Il tasso di sovraffollamento toccava quota 142,5%. A maggio 2014 il numero dei detenuti era sceso a 58.871 e i posti letto saliti a 49.797 (Fonte Dap). L’Italia aveva quindi scampato le sanzioni. Il 9 marzo 2016 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organo incaricato di verificare gli adempimenti delle sentenze Cedu, dopo aver monitorato l’effetto delle riforme ha archiviato la sentenza Torreggiani. Rispetto ai 54.252 detenuti registrati il 1° settembre 2014, al 28 febbraio 2016 si contano 49.504 posti, ossia 110 detenuti per 100 posti disponibili (nel 2013 il rapporto era 148 a 100). La ricerca Space I dell’Università di Losanna aveva sintetizzato il cambiamento nel passaggio da 3 a 9 mq di superficie in cella destinata a ciascun detenuto. Per arrivare a questi numeri si sono incrementate proposte alternative alla carcerizzazione, come la custodia cautelare, la messa in prova, l’affidamento e le misure alternative più in generale, senza dimenticare i tentativi di revisione culturale della funzione del carcere (rieducativa e non punitiva) verso l’opinione pubblica e il ripensamento della vita quotidiana in carcere con il lavoro e l’accesso ad attività educative con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, iniziati a maggio 2015 e durati sei mesi che erano serviti per preparare il terreno alla riforma dell’ordinamento penitenziario. La riforma, poi, è stata approvata dal governo attuale, ma togliendo di mezzo il decreto attuativo riguardante l’implementazione delle pene alternative. Ora il sovraffollamento è in aumento: diminuiscono le entrate per via della riduzione dei reati, ma nel contempo però diminuiscono anche le uscite. Ministero Giustizia: al via la formazione degli agenti per l’uso dei jammer dire.it, 25 maggio 2019 Si svolgeranno nel prossimo mese di giugno le sessioni formative per il personale di Polizia Penitenziaria sul funzionamento dei jammer, gli inibitori di telefoni cellulari acquistati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorare la sicurezza degli istituti. Le giornate formative saranno curate dalla ditta aggiudicataria dell’appalto e coinvolgeranno 10 unità di personale per ciascun Provveditorato, che saranno istruite sui principi di funzionamento e sul corretto utilizzo di tali apparecchiature. Il calendario prevede la prima sessione nel Prap di Palermo l’11 giugno; poi, a seguire, sarà la volta di Catanzaro il 13, Padova il 14, Bologna il 17, Firenze il 18, Torino e Napoli il 25, Milano e Cagliari il 26, Roma il 27 e per finire Bari il 28. Sono 165 i jammer per l’inibizione delle frequenze telefoniche che il Dap ha programmato di acquistare nel 2019. Insieme ai 200 rilevatori manuali di telefoni cellulari anche spenti, ai 2 apparati Imsi per la cattura di frequenze telefoniche e ai 65 apparati rilevatori di traffico di fonia e dati, costituiscono la gran parte dello stanziamento di quasi 3,5 milioni di euro per l’anno in corso che il Dipartimento ha investito per la sicurezza degli istituti penitenziari. In particolare, per contrastare, con tecnologie in grado di inibire o isolarne il segnale, l’introduzione abusiva di apparati telefonici mobili negli istituti penitenziari. L’abuso delle parole ha surclassato lo scontro ruspante sull’abuso d’ufficio di Francesco Damato Il Dubbio, 25 maggio 2019 In coerenza, bisogna riconoscerlo, con l’inizio e con tutto il suo svolgimento, questa lunga campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, di un consiglio regionale, quello del Piemonte, e di qualche migliaio di amministrazioni comunali si è conclusa col tema dell’abuso. Che è quello penale d’ufficio, la cui rimozione o riforma, liquidata come “stronzata” dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, è stata proposta dall’omologo leghista Matteo Salvini, convinto forse di andare sul sicuro per avere seguito le orme, o quasi, del presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale sarà sobbalzato pure lui, credo, sulla sedia, già consumata dai cinque anni già trascorsi dei sei del mandato, sentendo prendere a parolacce un tema sollevato con la professionalità di un magistrato nel momento dell’approvazione della legge cosiddetta “spazza corrotti”. La cui applicazione potrebbe confliggere col carattere attualmente non ben definito del reato di abuso, appunto, d’ufficio: tanto poco definito da essere stato paragonato una volta da un amministratore, ed ex ministro, dell’esperienza di Pier Luigi Bersani al sovraccarico di un camion, contestabile con una multa al conducente. Prima ancora che d’ufficio, inteso come reato, questa lunga campagna elettorale è stata una fiera di abuso di parole. Che hanno prodotto più danni anche delle più controverse iniziative del governo, come hanno lamentato, incalzati dallo spread nei mercati finanziari, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, a volte persino il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, sul versante non certo secondario della Confindustria, dal presidente Vincenzo Boccia. Che all’assemblea nazionale degli imprenditori quando ha denunciato le troppe parole della politica come un attentato agli interessi nazionali ha raccolto applausi simili per intensità a quelli ottenuti, al suo solo arrivo in sala, dal capo dello Stato. Al quale gli industriali avevano chiaramente voluto esprimere così l’entusiasmo e la fiducia immeritati evidentemente dalle altre autorità presenti: a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro abituale in simili occasioni come quello dello Sviluppo Economico, statistica e valutazioni delle agenzie internazionali e organismi comunitari permettendo. Tutto, in questa campagna elettorale, è sembrato travolto dalle parole. Ultimatum e penultimatum si sono rincorsi non a giorni ma a ore, nell’arco qualche volta di una stessa mattina, o di una stessa sera. Non parliamo poi delle notti che hanno scatenato i sogni travestiti o tradotti in retroscena con le solite smentite e precisazioni della credibilità proporzionale alla loro frequenza. Va detto, con franchezza e onestà, che all’abuso delle parole si sono abbandonati non solo i due partiti, leader e comprimari della maggioranza, peraltro scontratisi fra di loro come avversari con un accordo di cartello contro le opposizioni da reclamo, per quanto metaforico, all’autorità della concorrenza. Vi si sono abbandonati anche i partiti, leader e comprimari delle opposizioni titolari legittime di questa funzione per avere votato e votare in Parlamento contro il governo. Cominciamo col versante di sinistra. Dove il povero Nicola Zingaretti ha sudato le proverbiali sette camicie, fuori stagione col tempo capriccioso che fa, per ricucire gli strappi e rendere competitivo il suo Pd almeno col movimento delle 5 stelle, e si è rivisto improvvisamente ricacciato indietro. È avvenuto non solo e non tanto con la rocambolesca vicenda delle dimissioni della presidente della regione Umbria, indagata in una inchiesta costata l’arresto ad altri esponenti e amministratori compagni di partito, quanto - sul piano più generale della linea politica da una sortita del già citato Pier Luigi Bersani. Che, prima ancora di rientrare nel partito da cui era uscito due anni fa con Massimo D’Alema, limitandosi domani a votare per la lista unitaria allestita per l’occasione, si è messo a gridare ai quattro venti che in caso di crisi di governo andrà cercata subito un’intesa con i grillini per strapparli definitivamente all’alleanza con i leghisti. Invece Zingaretti reclama notoriamente le elezioni anticipate. Sul versante di destra, o del centrodestra, dove Salvini sta notoriamente con un solo piede, quello delle amministrazioni locali, avendo messo l’altro nel governo con i grillini, l’indomito Silvio Berlusconi, stanco di aspettare il ritorno del figliol prodigo, ha cercato di ricacciarlo ancora più lontano. In particolare, il Cavaliere ha riaperto i giochi della leadership del centrodestra, dicendo che il capo della Lega avrà pure più voti di Forza Italia, molti di più di quelli che già l’anno scorso gliene consentirono il sorpasso, ma non le qualità politiche necessarie a guidare una coalizione. E così si fa buio anche dall’altra parte, ammesso e non concesso naturalmente che il “capitano” leghista volesse e voglia farla risplendere. Ma quale “nuova Tangentopoli”, servono norme per la buona amministrazione di Enrico Michetti* Il Dubbio, 25 maggio 2019 Invece di parlare di una riforma della giustizia adeguata ai tempi al centro del dibattito c’è la corruzione, utilizzata come elemento distraente. Nella provincia di Milano lo scorso anno si sono registrate 3.800 denunce per rapina, 2.700 per stupefacenti, e 140mila furti, circa 500 per stupro ed altrettante per estorsione, 85 tra omicidi, tentati omicidi ed infanticidi a fronte di qualche decina di persone denunciate per concussione, corruzione o associazione a delinquere finalizzata a reati contro la Pubblica amministrazione. Questi dati lasciano comprendere che criminalizzare un ambiente, quale quello della Pubblica amministrazione, composto a livello nazionale da quasi 4 milioni di persone tra amministratori, funzionari pubblici e altre risorse umane presenti finanche nelle diverse partecipate e controllate pubbliche, non risponde in primis a logiche di proporzionalità, ma soprattutto offre una falsa e fuorviante centralità a dati assolutamente periferici e marginali nel contesto criminologico generale. Tale situazione crea un persistente clima di sfiducia e discredito verso gli operatori pubblici e verso le istituzioni, favorendo lo sviluppo di una amministrazione difensiva e quindi, sempre più immobile e refrattaria ad affrontare la complessità di una legislazione alluvionale e spesso contraddittoria. Al contempo, la classe dirigente politica tende a distrarre l’opinione pubblica dai reali problemi del Paese, con riguardo ai quali gli odierni risultati impietosi sull’occupazione, sulla crescita, sul debito e sul deficit sono la più chiara dimostrazione del danno che reca la promozione strumentale di tale falsa rappresentazione della realtà. Abbiamo il più grande patrimonio artistico, paesaggistico e monumentale al mondo e di parla pochissimo di turismo. Abbiamo un tasso di disoccupazione molto alto, in Europa secondo soltanto alla Spagna e si rigetta ogni azione volta ad incrementare gli investimenti nel settore dei trasporti, della viabilità e dell’ambiente. Raggiungemmo il boom economico grazie a brevetti e prestazioni intellettuali maturate più che nelle fabbriche che nelle Accademie e da settant’anni non si fa nulla per ammodernare i processi di formazione e di specializzazione. Abbiamo un Paese illuminato dal sole e lasciamo un numero sempre più rilevante di appezzamenti incolti in paesini ormai spopolati. Potremmo avviare un serio processo di ringiovanimento delle tecnologie presenti nei nostri sistemi ad iniziare dalla pubblica amministrazione attraverso l’avvento di una reale digitalizzazione che consenta il lavoro a distanza, immaginate che sollievo per le economie locali e per i cittadini con l’azzeramento degli spostamenti e delle file. Avremmo bisogno di ridurre drasticamente la burocrazia contenendo ad un decimo l’attuale palinsesto normativo, epurandolo di tutto ciò che sia vetusto, contraddittorio, poco chiaro,... riducendo al contempo, anche le fonti normative prima ancora degli enti. Avremmo bisogno di una riforma seria, ed adeguata ai nuovi tempi, della giustizia. Ma, nessuno si preoccupa di tutto ciò. Anzi nessuno ne parla perché al centro delle preoccupazioni imposte c’è il distraente per eccellenza: la corruzione, che peraltro non è quasi mai causa, bensì effetto del degrado prodotto dalla totale assenza di politiche adeguate. Ecco pertanto, la nuova Tangentopoli, pronta a terrorizzare il Paese. Evocarla e centralizzare ogni forma di attenzione soltanto su tale argomento significherebbe affermare che 140mila furti, 3.800 rapine, 500 stupri ed altrettante estorsioni oltre alle diverse decine di omicidi... dopotutto non siano un problema degno di nota o comunque secondario al cospetto di ben altra grave impellenza. La politica per legiferare con profitto e reale utilità ha necessità di mantenere sempre ben presente l’orizzonte dettato dalla logica, dalla proporzione, dell’armonia e dall’intelligente ponderazione... Un primo e significativo passo potrebbe essere rimuovere quell’onta indegna che dispone norme per l’anticorruzione nelle pubbliche amministrazioni (norma che intende la corruzione non come fatto eventuale, bensì assurdamente congenito, sistemico e persistente), anche perché rispettando rigidamente le proporzioni dovremmo allora parimenti scrivere norme antiladri per l’Italia. Mi chiedo, ma non sarebbe più corretto e forse più civile scrivere: Norme per la buona amministrazione pubblica, che dopotutto è quello che legittimamente dovrebbero attendersi i cittadini. *Direttore della Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana Non vollero tornare in Libia: assolti. E Salvini è smentito di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2019 Riconosciuta la legittima difesa agli africani che “dirottarono” un mercantile: era il primo caso Diciotti. Se l’intento del Viminale, con il decreto Sicurezza bis, era quello di multare con 5 mila euro le Ong per ogni migrante salvato in acque internazionali vicino alla Libia e portato in Italia, il Tribunale di Trapani ha disinnescato qualsiasi velleità. L’argomentazione è insormontabile: i due “dirottatori” della Vos Thalassa, il rimorchiatore che 1’8 luglio 2018 soccorse 67 migranti, sono stati assolti e scarcerati perché - come anticipato ieri dal Corriere della Sera - “il fatto non costituisce reato” in quanto è “scriminato dalla legittima difesa”. Tra i primi a chiedere l’arresto di Ibrahim Tijani Bushara e Ibrahim Amid fu proprio Matteo Salvini. Secondo le accuse i due, quando il comandante della Vos Thalassa decise di indirizzare il rimorchiatore verso la Libia, si rivolsero a lui facendogli un segno che si poteva interpretare come una gola tagliata. Un segno che l’accusa interpretò come una minaccia di morte. E che innescò l’accusa di dirottamento del rimorchiatore. Secondo la difesa, invece, quel segno stava a significare ben altro: tornare in Libia equivaleva a morire. Salvini in quei giorni dichiarò che erano “delinquenti” e dovevano “scendere in manette” e finire in “galera”. A Salvini si accodò il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, che chiedeva la loro punizione “senza sconti”. Infatti sono stati in carcere dieci mesi. Ora però, secondo il Tribunale di Trapani, i due non commisero alcun reato. Anzi. Era “legittima difesa”. E questo significa che, tornare in Libia, per il Tribunale di Trapani era pericoloso per la loro incolumità. Un’argomentazione che da oggi in poi varrà per qualsiasi Ong decida di non riportare i migranti soccorsi sulle coste libiche. E che disinnesca qualsiasi velleità di multare i volontari con multe che dissanguerebbero le casse delle Ong. La sentenza del giudice Piero Grillo, che dopo aver assolto i due “dirottatori” ne ha ordinato la scarcerazione immediata, ha quindi un immediato riflesso sulla politica del governo gialloverde sull’immigrazione. E probabilmente non sarà l’unica. Nei prossimi giorni, infatti, si attendono gli sviluppi dell’inchiesta della Procura di Agrigento sul comandante della Mare Jonio, Pietro Marrone, e del capo missione della Ong Mediterranea, Luca Casarini, indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver portato in Italia, dopo averli soccorsi a marzo, 50 naufraghi nelle acque libiche. Interrogato dal procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, Casarini ha dichiarato che non avrebbe mai portato i naufraghi in Libia perché non ritiene che Tripoli disponga di un porto sicuro. Sulla base di queste dichiarazioni, la procura siciliana ha avviato un’indagine per verificare se davvero, la Libia, sia nelle condizioni di offrire un porto sicuro oppure no. Per questo motivo è stato contattato anche l’Imo, l’organizzazione marittima internazionale. Se la Procura di Agrigento dovesse stabilire con una sentenza che la Libia non è in grado di fornire un porto sicuro, sarà impossibile contestare ai volontari delle Ong la decisione di non obbedire alla richiesta della Guardia Costiera libica, quando coordina l’intervento di soccorso e chiede il trasporto dei naufraghi sulle coste della Libia. E non si potrà contestare loro, in questa situazione, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sentenza del tribunale di Trapani, sebbene con altre motivazioni giuridiche, già anticipa questo scenario: ribellarsi alla decisione di essere riportati in Libia, per i migranti, non è un reato ma, appunto, esercizio della “legittima difesa”. Non si tratta quindi né di “delinquenti”, come sosteneva Salvini, né di “facinorosi da punire senza sconti”, come sosteneva Toninelli, ma solo di persone che tentano di salvarsi dal pericolo di essere ricondotti in un luogo dove, come sostiene da tempo anche l’Onu, i diritti umani non sono garantiti e la probabilità di subire violenze è altissima. Lecce: tragedia a Borgo San Nicola, detenuto 31enne si impicca in cella leccesette.it, 25 maggio 2019 Il corpo del giovane ritrovato in una cella di isolamento alle 22 di ieri. Il giovane, di Lizzanello, era finito nel processo per la morte di Gabriele Manca come testimone. Si è impiccato in una cella del carcere di Borgo San Nicola dove era recluso da alcune ore. Il corpo del 31enne di Lizzanello, Matteo Luca Tundo, che era stato accompagnato in carcere per evasione dagli arresti domiciliari (il terzo tentativo nell’ultimo anno) è stato ritrovato alle 22 di questa notte in una delle celle di isolamento ed ora si trova nella camera mortuaria del Vito Fazzi a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il giovane detenuto era sottoposto ad una cura farmacologica ed era soggetto ad abuso di stupefacenti (la causa del tentativo di evasione sarebbe proprio quella di una crisi di astinenza): per questo la famiglia vuole vederci chiaro sulle ore che hanno preceduto il tragico gesto e se si sia fatto il possibile per evitare la crisi che lo ha portato alla morte. La madre, pertanto, ha presentato denuncia. A breve, con ogni probabilità, su disposizione del pubblico ministero, si provvederà all’esame autoptico (forse già domani mattina), per chiarire molti aspetti della vicenda. Il giovane suicida, nella sua vita, stava provando a cambiare vita dopo una serie di errori, ma la sua figura aveva assunto un certo rilievo, quando era stato indicato tra i testimoni del processo che sta cercando di far luce sull’omicidio di Gabriele Manca, assassinato nel 1999 a soli 20 anni. Indagato per un altro procedimento, nel 2015, il 31enne di Lizzanello aveva sostenuto davanti ai magistrati di aver assistito a un’aggressione da parte di Omar Marchello (uno degli imputati nel processo), insieme ad altri due soggetti, a un uomo per questioni di droga, e, nella circostanza, di essere stato minacciato di non rivelare nulla per non subire la fine che aveva fatto fare a Manca. Poco dopo, lo stesso Tundo aveva poi smentito questa versione, autodenunciandosi per calunnia, per poi ritrattare ancora, motivando il tutto con la paura di ritorsioni. Lecce: i familiari sporgono denuncia “non gli hanno somministrato i farmaci” Corriere Salentino, 25 maggio 2019 Nuovo suicidio nel carcere di Lecce. E scatta subito la denuncia dei familiari della vittima, per accertare le modalità della morte del detenuto e se vi sia stata la giusta attenzione nei confronti di un giovane che soffriva di crisi d’astinenza e forti stati d’ansia. Il dramma si è consumato attorno alle 22 di ieri in una cella d’isolamento del carcere di Borgo San Nicola, dove il 31enne M.L.T., di Lizzanello, si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola. Nonostante gli sforzi profusi dal personale del 118, per il giovane non c’è stato nulla da fare. La madre del ragazzo ha sporto denuncia presso il posto fisso di polizia dell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, dove si trova custodita la salma dello sfortunato 31enne, in attesa che venga disposta l’autopsia da parte della magistratura. Il giovane, fuggito dai domiciliari due giorni fa pare per procurarsi cocaina di cui è dipendente, era stato rintracciato il giorno successivo e processato per direttissima. Dunque era stato accompagnato in carcere, poiché si trattava della terza evasione in pochi mesi. Nella tarda serata di ieri, purtroppo, la tragedia. Adesso sarà la magistratura a dover appurare le esatte cause della morte del giovane, se il personale carcerario gli abbia riservato la giusta attenzione e se, inoltre, gli siano stati somministrati quei medicinali che gli avrebbero consentito di avere uno stato psicologico diverso, da evitare il tragico gesto. Circostanza, quest’ultima, che solo l’esame necroscopico potrà appurare. Civitavecchia (Rm): 64enne colto da un malore muore nel carcere di Borgata Aurelia civonline.it, 25 maggio 2019 Un malore improvviso. Un infarto. È morto così nel pomeriggio di oggi, poco dopo le 17, Sergio Presutti. Il portuale, ex presidente della squadra di calcio Cpc2005, si è sentito male al carcere di Borgata Aurelia, dove si trovava detenuto da fine febbraio, quando venne arrestato dalla Polizia con l’accusa di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente. Presutti era molto conosciuto in città per i suoi trascorsi in ambito sportivo e per il lavoro in ambito portuale. La notizia della sua morte ha fatto il giro della città in pochissimo tempo, appresa con dolore soprattutto all’interno della Compagnia portuale. Nonostante tutto lasci supporre una morte naturale, l’avvocato Daniele Barbieri, che ha assistito Presutti nel corso delle ultime vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto, presenterà domani una richiesta in Procura per poter far svolgere un esame autoptico per chiarire le esatte cause del decesso del 64enne. Nonostante i soccorsi tempestivi non c’è stato nulla da fare; una volta sul posto il personale dell’ambulanza non ha potuto fare altro che constatarne il decesso. Tolmezzo (Ud): arrivano i fondi per il lavoro, ma come si conciliano internati e 41bis? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2019 Il Garante nazionale dei detenuti ricorda che la misura di sicurezza risale al Codice Rocco. Visita a sorpresa nel carcere di Tolmezzo da parte del Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma per una verifica di un episodio specifico, dopo una importante segnalazione, sia per visitare in particolare il settore degli internati al 41bis, che recentemente avevano posto alla sua attenzione il problema della assoluta carenza di lavoro, in una sezione che dovrebbe configurarsi come casa di lavoro. Una criticità che Il Dubbio ha affrontato più volte. Il problema del lavoro riguarda anche i detenuti: c’era stato un cospicuo taglio dei fondi per il pagamento dei compensi a coloro che lavorano e la riduzione delle ore lavorative per gli addetti alla cucina, i detenuti impegnati nella distribuzione del cibo, nelle pulizie e nella manutenzione dei fabbricati. Un carcere che teoricamente, ricordiamo, è anche una “casa lavoro” per gli otto internati trasferiti proprio in quell’istituto penitenziario perché c’è una serra. Ma da mesi che non è in funzione. Gli otto internati avevano anche intrapreso uno sciopero della fame, ma sono poi stati costretti a riprendere a mangiare perché rischiavano la vita. Il Garante, raggiunto da Il Dubbio, ha fatto sapere che proprio il giorno prima della sua visita sono arrivati i fondi per sistemare la serra, circa 54mila euro, e anche altri soldi per pagare la mercede ai detenuti che fanno i lavori interni al carcere, quelli non professionalizzanti. Quindi, teoricamente, gli internati potrebbero a breve ricominciare a lavorare, anche se due di loro non sono in condizione fisiche di farlo. Quindi tutto bene ciò che finisce bene? Nient’affatto. Rimane ancora il problema di come conciliare l’internato con la condizione del 41 bis. Come poi si possa conciliare la funzione che la legge assegna alla Casa di lavoro e la sua funzione di facilitazione nel rientro sociale con la previsione di internamento in regime speciale del 41 bis, risulta assolutamente non chiaro al Garante nazionale Mauro Palma che intravede in tale previsione il rischio di un mero prolungamento della situazione detentiva speciale per motivi di sicurezza. Inoltre, la Casa di lavoro dovrebbe essere luogo ben distinto e distinguibile dal normale Istituto di detenzione: molto difficile che lo sia quando si tratti di una sezione di una Casa circondariale (come il caso di Tolmezzo) o di reclusione. Ricordiamo che proprio a Tolmezzo sono stati ospitati Salvatore Bizzi, Massimo Carminati e Roberto Spada, quest’ultimo ancora detenuto nell’istituto friulano. Il poco lavoro è un problema sicuramente enorme, visto che toglie al magistrato lo strumento per valutare o meno la fine della misura di sicurezza nei confronti di una persona che ha comunque già finito, da tempo, di scontare la pena. Però il problema a monte è la mancata rivisitazione della norma prevista dal codice Rocco per quanto riguarda la figura stessa dell’internato. “Se non si riesce ancora a ripensare totalmente il doppio binario - si legge infatti nel rapporto del Garante nazionale del 2018 - se si continua a privare della libertà non in base al principio di stretta legalità sintetizzato nel quia prohibitum, né da quello sostanzialista del quia peccatum bensì da un principio, discrezionale e neutralizzante sintetizzato nel ne peccetur ; se ancora non si è in grado di mutare tutto ciò, forse il tempo è ormai urgente per ripensare le forme in cui tutto ciò si realizza affinché almeno le parole ritrovino il loro significato”. Aosta: al carcere di Brissogne è di nuovo allarme sovraffollamento aostaoggi.it, 25 maggio 2019 Celle sovraffollate, condizioni igieniche da migliorare, problemi gestionali, predominanza di stranieri e un forte turn over: la situazione della casa circondariale di Brissogne è ben lontana dal migliorare. A mettere l’accento ancora una volta sulla condizione precaria del carcere valdostano è il Garante dei diritti dei detenuti, Enrico Formento Dojot. Nel 2018 la struttura è tornata ad ospitare più persone di quelle che potrebbe: 221 a fronte di 181 posti regolamentari. 153 sono stranieri, poi ci sono i collaboratori di giustizia italiani. “Nel corso del 2018 una sezione è stata chiusa e quelle aperte, di conseguenza, sono più affollate”, spiega Formento Dojot. L’eccessiva popolazione carceraria è soltanto uno dei problemi della casa circondariale. Per usare le parole di Formento Dojot, “Brissogne oggi più che mai riveste il ruolo di “polmone” rispetto a criticità di affollamento di altre istituti limitrofi”. Quando cioè altre carceri italiane sono al collasso, i detenuti vengono spostati a Brissogne per il tempo necessario. Poi vengono ritrasferiti provocando “un elevato turn over e un’abbondante presenza di stranieri”. Tanti detenuti che cambiano spesso, mancanza di spazi, problemi con le docce e, a livello di gestione, nessuna linea di azione ben definita. “L’assenza di una precisa identità - dice a tal proposito Formento Dojot - si ripercuote anche sulle iniziative promosse in tema di lavoro e di formazione”, quelle che aiutano i detenuti a rifarsi una vita lontana dall’illegalità una volta scontata la condanna. “È statisticamente provato - sottolinea il Garante - che l’acquisizione di abilità e la loro spendibilità al ritorno alla vita libera è di gran lunga il migliore antidoto alla recidiva, che viene abbattuta drasticamente. Spesso i detenuti mi confidano di voler cambiare vita, ma quando si lasciano alle spalle le mura dell’istituto si scontrano con concrete e impellenti difficoltà nel rinvenire mezzi di sostentamento per sé e per i loro cari”. Viterbo: “dietro le sbarre troppi detenuti che potrebbero scontare pene alternative” tusciaweb.eu, 25 maggio 2019 Avvocati in visita ai reparti detentivi di Mammagialla: carenza di spazi compensata con le “celle aperte”, bene le attività rieducative. Si è tenuta giovedì 23 maggio presso la casa circondariale di Viterbo, la programmata visita dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Unione della camere penali italiane, l’associazione che riunisce gli avvocati penalisti Italiani, in collaborazione con la camera penale di Viterbo “Ettore Mangani Camilli”. Erano presenti il responsabile nazionale, avvocato Riccardo Polidoro ed i responsabili regionali per il Lazio, avvocato Roberta Giannini di Roma e avvocato Marco Russo di Viterbo che ha costituito da collettore con la locale camera penale, rappresentata da tutto il consiglio direttivo in persona del presidente Roberto Alabiso, dal vice Remigio Sicilia e dagli avvocati Ada Baiocchini e Carlo Mezzetti. Era altresì presente il past-president Mirko Bandiera ed alcuni giovani avvocati iscritti (avvocati Corrado Cocchi, Ilaria Biscetti e Rachele Fazzi). L’Osservatorio Carcere, costituito nel 2006, è una struttura che si prefigge l’obiettivo di studiare i problemi normativi e pratici dell’ordinamento penitenziario e della realtà carceraria, seguire la produzione legislativa in materia penitenziaria, organizzare ed attuare il monitoraggio della situazione carceraria attraverso le visite dei singoli istituti penitenziari. Ha stabilito in questi anni un rapporto permanente con le associazioni che si occupano di carcere, al fine di consolidare il proprio ruolo politico attraverso lo scambio di esperienze e conoscenze nel settore e per promuovere dibattiti e convegni. La visita si è protratta per circa tre ore ed è stata particolarmente approfondita ed ha riguardato i reparti detentivi (ad eccezione del famigerato reparto del 41 bis contrariamente a quanto avvenuto nella precedente visita del 2013) anche grazie alla collaborazione dell’ufficio comando rappresentato dal vice comandante commissario Tullio Volpi e della responsabile dell’area del trattamento, dottoressa Natalina Fanti. Le buone notizie derivano da una palpabile attenzione al trattamento rieducativo dei detenuti. Numerose le attività sia lavorative che di studio che consentono ad un numero a rotazione di detenuti di impiegare il tempo proficuamente in vista di un futuro reinserimento nel tessuto sociale. Certamente il privilegio non è per tutti e la annosa carenza di fondi porta ad un impiego limitato della forza lavoro, rispetto alle esigenze concrete dell’istituto. Veri fiori all’occhiello sono apparsi il laboratorio di falegnameria, le coltivazioni in serra di germogli, la produzione di olio e miele. Nelle sale dei colloqui familiari, si è avvertita una particolare attenzione ai minori, figli dei detenuti, che accedono in carcere in sale confortevoli ed adeguate dove trascorrono in un ambiente consono le ore di colloquio con i genitori ristretti. Altra iniziativa lodevole è costituita dall’attività di rivendita di piccoli generi alimentari di bar e lavaggio auto posta all’ingresso del carcere e nella quale sono impiegati i detenuti che beneficiano del lavoro all’esterno. Alcune evidenti criticità sono state invece riscontrate nei reparti detentivi. In alcuni casi la precarietà di taluni locali è palpabile in conseguenza delle riferita carenza di fondi per le ristrutturazioni che vengono impiegati nel tempo e contingentati; inadeguati i locali docce di alcuni reparti, in altri casi, ristrutturati di recente. Le cosiddette camere di pernottamento, nome con il quale vengono oggi indicate le celle, pagano il prezzo della atavica carenza di spazio vitale per i detenuti. Pur non potendosi definire il carcere di Viterbo, un carcere sovraffollato le celle sono state originariamente pensate per accogliere un solo detenuto, pur essendo oggi tutte occupate da due persone in uno spazio di tre metri per due, da cui va detratto lo spazio per gli arredi. Tale percepibile carenza di spazio è solo in parte compensata dal rimedio compensativo delle cosiddette celle aperte. La possibilità cioè per i detenuti di socializzare tra loro per alcune ore aggiuntive rispetto a quelle deputate al cosiddetto passeggio. Dopo la nota condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea nella vicenda Torreggiani, si è pensato infatti di compensare la carenza di spazio nei locali di contenzione, con maggiori libertà di movimento all’interno dei singoli reparti, con risultati che tuttavia non appaiono sempre confortanti. La sensazione che la visita ha lasciato in tutti i partecipanti è che certamente vi è tanto da fare in un ottica di attuazione concreta ed effettiva del precetto costituzionale che affida all’esecuzione della pena una finalità di rieducazione, piuttosto che di vendetta sociale. Oggi sembra procedersi in una direzione opposta. Tra gli obiettivi precipui dell’Osservatorio Carcere vi è proprio quello di avvicinare l’opinione pubblica alle problematiche relative alla detenzione, per una grande sfida culturale di modifica del concetto di esecuzione della pena. Spesso si finisce con il confondere il piano della certezza della pena con quello dell’esecuzione penale che passa attraverso una concreta attuazione dell’ordinamento penitenziario e degli strumenti alternativi che, ove attuati, hanno dimostrato di funzionare con un bassissimo grado di recidiva. L’Italia è certamente all’avanguardia nel mondo. L’emergenza riguarda l’ingiustificata esecuzione in carcere di tante pene che potrebbero e dovrebbero essere eseguite attraverso misure alternative. La situazione di Viterbo che va verso un sovraffollamento ritenuto ancora tollerabile, è paradigmatica di una situazione più generale che a livello nazionale, vorrebbe privilegiare l’esecuzione carceraria a discapito dei principi fondanti la nostra carta costituzionale. Bologna: la Camera penale “alla Dozza celle piccole e troppi detenuti” La Repubblica, 25 maggio 2019 Sovraffollamento, anche se comunque “le celle non ospitano più di due detenuti ciascuna, ma sono molto piccole e con notevoli carenze igieniche”. E poi poco cibo, di qualità scadente, e una “carenza di personale sanitario specializzato nel contenimento di detenuti para- psichiatrici”. Gli avvocati di Bologna hanno visitato il carcere della Dozza e hanno incontrato la direttrice Claudia Clementi, secondo la quale il numero dei detenuti presenti si aggira mediamente sulle 800 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 500. Sei detenuti su dieci sono stranieri. Il problema più grave segnalato dalla direttrice è “la carenza di personale sanitario specializzato a contenere detenuti para-psichiatrici”. Sulla questione dei bimbi in cella con le madri, invece, gli avvocati segnalano che “è in itinere un progetto per asilo nido nella sezione femminile”. La delegazione ha poi visitato la sezione “Alta sicurezza”, riscontrando anche qui alcune criticità: “C’è il problema della capienza effettiva delle celle, tutte composte da due posti letto che, assieme agli altri arredi, consentono un limitato spazio vitale. Nei i bagni non ci sono finestre l’acqua non è riscaldata, per cui l’igiene risulta altamente compromessa, visto che anche le stoviglie sono lavate con acqua fredda e in prossimità dei bagni”. Come se non bastasse, “è stato riscontrato che le luci rimangono accese giorno e notte”. Le celle, puntualizza infine la Camera penale, “sono aperte circa sette ore al giorno, e la chiusura avviene alle 18”. Anche la sezione “Nuovi giunti”, che ospita 16 detenuti, di cui due italiani, presenta qualche problema. “La permanenza qui è di 15-20 giorni, mentre la normativa di riferimento prevede la collocazione dei detenuti per non più di una settimana”. Infine, i detenuti nell’infermeria sono 30, dove “le celle più piccole sono di soli 10 metri, a fronte di una capienza di due-tre persone, mentre quelle più grandi hanno sei posti letto”. Andria (Bat): don Riccardo Agresti “così rieduco i detenuti con il lavoro” di Carlandrea Poli dire.it, 25 maggio 2019 Il lavoro può rappresentare lo strumento più potente per offrire una opportunità concreta di rieducazione e di reinserimento nella società di un condannato. Il progetto “Senza sbarre” della diocesi di Andria si spinge oltre. A raccontarlo è don Riccardo Agresti, nell’ambito della IV Conferenza nazionale dell’associazione italiana giovani avvocati (Aiga) dedicata alla “Difesa dei non difesi”. Agresti, parroco da 26 anni, da 12 è impegnato a stretto contatto coi detenuti. È partito da una riflessione: nell’esecuzione penale in Italia l’aspetto rieducativo è spesso assente. Per questo insieme alla diocesi e alla Caritas ha dato vita a “Senza sbarre”, creando una comunità alle pendici del Castel del monte, luogo riconosciuto come patrimonio Unesco. “Le statistiche ci stanno dimostrando che sono sempre di meno le persone che avendo diritto alla misura alternativa al carcere non rimangono dentro - rileva don Agresti. Ostinatamente stiamo proponendo un modello di comunità. All’interno del carcere i detenuti passano tante ore senza far niente. Noi diciamo: fateli uscire, fateli inserire nelle comunità e quindi nel nostro progetto, perché vogliamo proporre loro anche il lavoro”. Gli imprenditori si sono messi a disposizione, spiega, “così abbiamo creato anche un pastificio, dove sono i detenuti che producono la pasta che inizieremo a commercializzare”. La strada che intende seguire il progetto ha un duplice ancoraggio: al Vangelo e alla Costituzione. “Il Vangelo buono ingloba tutti - ricorda - mentre la Carta costituzionale proietta tutto sulla rieducazione della pena”. Cagliari: detenuti al lavoro a Monte Claro, accordo per il reinserimento sociale sardiniapost.it, 25 maggio 2019 È stato firmato a Palazzo Regio il protocollo d’intesa tra la Città Metropolitana di Cagliari, la Casa circondariale di Uta e la Proservice Spa con l’obiettivo di agevolare il reinserimento sociale, magari anche con un lavoro, dei detenuti attraverso progetti di pubblica utilità sul territorio metropolitano. La Proservice Spa, società in house della Città Metropolitana e della Provincia del Sud Sardegna, individuata come soggetto esecutore del protocollo d’intesa, inserirà i detenuti in quattro progetti: manutenzione e conservazione delle aree verdi nel compendio di Monte Claro, nelle sedi istituzionali e nelle scuole. Al lavoro anche nelle strade di pertinenza della Città Metropolitana di Cagliari, nel monitoraggio delle manutenzioni ordinarie impiantistiche (elettriche e idrauliche) o edili, nella gestione tecnico-amministrativa della Proservice Spa, con incarichi di archiviazione e riordino magazzino. In ciascun progetto, le attività lavorative di ciascun detenuto risulteranno articolate su cinque giorni settimanali con un massimo di sei ore giornaliere, per un periodo complessivo di sei mesi, eventualmente prorogabili per altri sei. La società potrà ospitare contemporaneamente un massimo di quindici detenuti durante l’attuazione dei progetti lavorativi. Roma: Mattia (Consigliere regionale) “la scuola in carcere va salvaguardata” controluce.it, 25 maggio 2019 “Con docenti e detenuti il mio impegno a tutela di un sacrosanto diritto costituzionale”. “È stata un’esperienza molto toccante, conclusa con il mio impegno ufficiale a fare in modo che a questi ragazzi venga garantito pieno diritto allo studio. Di fronte a me, nel teatro di Rebibbia, i docenti e oltre 120 studenti del corso di informatica dell’IISS “J. Von Neumann” di Roma, che studiano presso la sede carceraria. Per l’occasione, la professoressa Barbara Battista e gli altri colleghi hanno messo in evidenza le straordinarie attitudini degli alunni detenuti, frutto di quel percorso di rieducazione del condannato sancito dall’articolo 27 della Costituzione”. Lo dichiara Eleonora Mattia, presidente della IX Commissione consiliare del Lazio Diritto allo studio, a commento della partecipazione all’incontro sulla pace che si è tenuto presso il Teatro di Rebibbia, al Nuovo complesso della Casa Circondariale “Raffaele Cinotti”, con la premiazione di Madi Ferrucci, Flavia Grossi e Roberto Persia quali vincitori del premio Morrione 2018, per il giornalismo d’inchiesta rivolto a giovani under 30. “Una scuola - aggiunge la Mattia - che a Rebibbia esiste dal 1989 e quest’anno ha avuto un numero di iscritti di ben 425 unità, a fronte delle quali sono state però concesse classi per soli 270 studenti, impedendo così a 155 detenuti di frequentare, privandoli di un diritto sancito dalla Costituzione. Credo sia urgente ragionare con l’Ufficio scolastico regionale sulla particolarità di questa scuola che, per ovvi motivi, non può essere assoggettata alle medesime regole e agli stessi indici di un qualunque istituto del Lazio, perché i fattori che determinano l’iscrizione ad una classe anziché ad un’altra non sono legati esclusivamente alla data di nascita dello studente ma anche, e soprattutto, vincolati al genere, agli interessi e al reparto di assegnazione”. “Sono certa - auspica la Mattia - che, insieme all’Usr, troveremo una soluzione che tenga conto dell’esigenza dello Stato di fare economia ma non perda mai di vista il diritto primario allo studio e alla rieducazione che abbiamo il dovere di garantire a tutti i detenuti”. Volterra (Pi): petizione del Garante regionale per un teatro nel carcere Redattore Sociale, 25 maggio 2019 È la richiesta avanzata dal garante toscano dei detenuti Franco Corleone: “Trent’anni di attività teatrale della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra meritano la realizzazione di un teatro”. “Costruiamo un teatro nel carcere di Volterra”. È la petizione lanciata su change.org dal garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone per chiedere nuove attività culturali nel penitenziario in provincia di Pisa. “Trent’anni di attività teatrale della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra meritano la realizzazione di un teatro - è scritto nella petizione. L’impegno di quanti da anni si battono perché finalmente siano create le condizioni strutturali per svolgere con pienezza tutte le attività che concernono lo svolgimento del lavoro teatrale, ha portato allo stanziamento di un finanziamento specifico da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma i diversi progetti che sono stati presentati hanno trovato il parere avverso delle autorità competenti. Noi chiediamo che sia trovata una soluzione che risponda a tutte le esigenze presenti affinché sia finalmente reso possibile lo sviluppo di tutte le potenzialità che l’attività teatrale nella Casa di reclusione di Volterra contiene”. “Occorre aver chiaro un fatto - continua il testo della petizione - Nell’esperienza di alto valore artistico che è stata costruita c’è un lavoro professionale che ha permesso a tanti detenuti di acquisire competenze tecniche e avere un’occupazione. Questo lavoro si è sviluppato con enorme fatica in locali di fortuna del tutto inadeguati (una cella di tre metri per nove) e gli spettacoli interni alla fortezza hanno potuto svolgersi teatralizzando cortili dell’aria e altri ambienti di servizio. Coloro che hanno presente la complessità del lavoro teatrale sanno dell’importanza di poter disporre, oltre che di passione ed energia, anche delle condizioni e degli spazi appropriati che l’attività teatrale richiede per la sua preparazione come per la sua fruizione. Ma un altro fatto è importante: la lunga esperienza della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra, sviluppata a partire dal 1988, ha modificato geneticamente un carcere che in passato era noto per la sua durezza e il suo isolamento. Ha attraversato lo spazio della pena, la sua struttura e le sue funzioni, i suoi linguaggi e le sue relazioni, ha costruito ponti con la società esterna, ha realizzato una metodologia di lavoro teatrale apprezzata e studiata a livello internazionale. Ma ora occorre trasformare ancora, superare i limiti in cui la pratica artistica si è potuta svolgere, per raggiungere nuovi risultati con i detenuti e con la società”. A firmare la petizione insieme a Corleone anche Corrado Marcetti e Grazia Zuffa. Bollate (Mi): “Cucinare al fresco”, il libro di ricette firmato dalle detenute winenews.it, 25 maggio 2019 La cucina si conferma come strumento in grado di raccontare percorsi di vita e costruire nuove speranze. Da qualche mese, nella casa circondariale di Bollate, una decina di detenute sono impegnate a scrivere, parlare, preparare i piatti della loro vita, che ricordano gli incontri in famiglia, ma anche più semplicemente, dei piatti per rendere un po’ meno pesante la loro reclusione: una chiacchierata che ha dato vita al primo libro di ricette “Cucinare al fresco”. L’iniziativa rientra in un percorso più ampio che si concretizza in una collana di libri di cucina, un’idea partita dalla casa circondariale di Como e ora approdata a Bollate e a Varese, in procinto di “partire” anche a Opera e a Brescia. Il ricettario è quindi una sperimentazione di idee, odori e sapori messi insieme dalle detenute che, attraverso mille conflittualità e tanta voglia di riprovarci, hanno accettato la sfida di scrivere una parte di loro con una ricetta. Proprio con il cibo, questo percorso ha portato a un risultato e anche la cucina si è confermata uno strumento per accomunare i mille volti del mondo. L’iniziativa ha trovato spazio negli Istituti a seguito di qualche chiacchierata condivisa con i detenuti, che hanno manifestato quanto sia importante per loro cucinare e condividere ogni piatto con i concellini, che rappresentano una sorta di famiglia e di momento di confronto. Da qui la voglia di impegnarsi per “fare qualcosa di buono”, sia in cucina che nella vita. Parole, sapori, profumi, ingredienti sono il “sale della vita”, fattori in grado di unire e di sviluppare nuove sensazioni e nuovi bisogni come quello di raccontarsi. Si tratta di una sorta di esperienza di conoscenza e di esternazione dei sentimenti in chiave enogastronomica. Dagli ingredienti del carrello, a quelli della spesa, passando da quanto entra dall’esterno, il ricettario è un percorso di vita e di speranza. La cucina, la preparazione di un piatto è un linguaggio che ha accomunato i detenuti del carcere. L’intero ricavato dalla vendita del libro sarà reinvestito per nuovi ricettari e per la realizzazione di un periodico dedicato alla cucina. “Il libro - raccontano le detenute del corso - è una memoria gustosa fatta di profumi e di sentimenti che si provano ai fornelli dietro alle sbarre. Sono una raccolta di idee e di sensazioni, di esperienze e di idee che si vivono quotidianamente. Vogliamo spiegare come cuciniamo in cella con i pochi strumenti che abbiamo, ma, nel frattempo, raccontiamo un’avventura, un’ispirazione, un ricordo. Attraverso un linguaggio semplice portiamo in tavola un sorriso”. Stati Uniti. Se la giustizia e crudeltà: in isolamento per 36 anni di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 25 maggio 2019 É morto Thomas Silverstein, condannato all’ergastolo, dal 1983 non ha avuto contatti con nessun essere umano. Il “buco” è una gabbia di 18 metri quadrati del carcere di massima sicurezza di Leavenworth (Kansas city); all’interno una branda, il water, il lavandino e una piccola scrivania, al soffitto, attaccate alle barre di acciaio, le luci, abbacinanti, in funzione 24 ore su 24. Per trentasei anni il “buco” è stato l’unico orizzonte di Thomas Silverstein, condannato all’ergastolo per due omicidi e sepolto vivo nella Special Housing Unit, una “prigione nella prigione” come viene chiamata dai detenuti. Trentasei anni senza avere nessun contatto umano e sotto la continua sorveglianza delle guardie carcerarie. “Avete presente il suono snervante dell’acqua che gocciola da un rubinetto nella notte? Qui la vita è così, la senti gocciolare impietosa assieme ai minuti, alle ore, ai giorni, alle settimane, agli anni, tutto gocciola, senza fine e senza sollievo”, scrisse qualche anno fa Silverstein in un articolo inviato al giornalista Pete Earley, un freelance autore di importanti inchieste per il Washington Post e il New York Times e soprattutto di The Hot House: Life Inside Leavenworth Prison il libro in cui racconta l’esistenza distopica del prigioniero Silverstein, sepolto vivo dal 1983 da Norman A. Carlson, il direttore nazionale del Bureau of Prisonsn (Bop) ma mai del tutto piegato nello spirito. Ha avuto una gioventù balorda Thomas Silvertein, nato nel 1952 a Long Beach (California) da una famiglia piccolo borghese ma molto turbolenta, a 14 anni è già dipendente dall’eroina e ha già conosciuto il riformatorio, e la vita è tutto un susseguirsi di espedienti, con i piccoli furti, lo spaccio, i primi pestaggi da parte della polizia. A 23 anni viene arrestato per una rapina a mano armata che compie assieme allo zio e viene condannato a 15 anni da scontare nel penitenziario federale di San Quintino. Tra le sbarre Silverstein scopre la “politica”, si unisce alla Fratellanza Ariana un gruppo suprematista radicale in guerra permanente con le gang afroamericane che spadroneggiano nel carcere. Nel 1979 viene accusato e condannato all’ergastolo per l’uccisione di un detenuto nero, un delitto che non ha mai commesso come emergerà da indagini più accurate quando ormai era troppo tardi. Troppo tardi perché Silverstein nel frattempo è diventato un vero assassino e nel 1981 uccide a coltellate Robert Chappell, membro di una gang che lo aveva più volte minacciato. Appena due anni dopo la furia di Silverstein si riversa sulla guardia carceraria Merle Clutts che poi accuserà di continue vessazioni. Quest’ultimo omicidio colpisce molto l’opinione pubblica, i tabloid più popolari lo sbattono in prima pagina e lo descrivono come un mostro, una specie di Hannibal Lecter ante litteram. È il 1983 e il Bop decide di metterlo in isolamento totale, prima nel carcere di Atlanta, poi in quello di Marion, infine a Leavenworth, nel “buco”, ribattezzato dai media con fatuo sadismo The Silverstein’s suite. Nel corso del tempo ha ottenuto qualche “privilegio”, come una tv in bianco e nero, dei fogli e dei colori per disegnare, libri (inizialmente poteva consultare solo la Bibbia): “Se non ti fanno delle concessioni poi non hanno nulla da toglierti, anche questo fa parte della strategia di controllo”, spiega Earley. L’isolamento di Silverstein si è interrotto due volte, la prima, paradossale per un convinto sostenitore del “white power”, durante una rivolta capeggiata da una gang cubana che lo libera per tre giorni, la seconda per un’infezione ai denti in cui viene trasferito nell’ospedale della prigione incatenato con gli schiavettoni e scortato da 15 secondini (sic). Negli ultimi anni di detenzione si è appacificato, ha abbandonato la Fratellanza, ha praticato lo yoga, ha realizzato centinaia di disegni, e soprattutto ha messo a fuoco la sua condizione di esilio esistenziale: “È più umano essere uccisi dal boia che la tortura che ho subito, ma non sono diventato pazzo, ho resistito e oggi non provo più rabbia”, ha detto nella sua ultima intervista. Thomas Silverstein si è spento la scorsa settimana a 67 anni per un improvviso attacco cardiaco, verrà ricordato per il più lungo isolamento carcerario della storia americana. Gli Usa incriminano Assange, rischia 170 anni di carcere di Marina Catucci Il Manifesto, 25 maggio 2019 Sono 17 i capi d’accusa sulla base dell’Espionage Act, mai usato contro un giornalista. Nel mirino di Washington i documenti e i file sui crimini commessi contro i civili iracheni che WikiLeaks pubblicò. Julian Assange è stato incriminato negli Stati uniti sulla base dell’Espionage Act e rischia dieci anni di carcere per ognuno dei 17 capi di accusa che gli sono stati affibbiati dal Dipartimento di Giustizia Usa per avere cospirato al fine di ottenere e pubblicare informazioni classificate con la collaborazione attiva dell’ex analista dell’intelligence militare Chelsea Manning. “Le azioni di Assange hanno messo seriamente a rischio la sicurezza nazionale degli Stati uniti e portato benefici ai nostri avversari - si legge nei documenti depositati dal Doj - Assange, Wikileaks e Manning hanno condiviso l’obiettivo comune di sovvertire le restrizioni legali sulle informazioni riservate”. Per gli Usa Assange sapeva che Chelsea Manning gli stava fornendo illegalmente dei documenti riservati riguardanti informazioni sulla difesa nazionale degli Stati uniti, e, pubblicando su WikiLeaks i nomi delle fonti, avrebbe creato “un grave e imminente rischio per delle vite umane”. Le nuove accuse fanno parte di una più vasta mossa legale dell’amministrazione Trump che ha alzato significativamente la posta in gioco nel caso legale contro Assange, che a Londra sta combattendo contro un procedimento di estradizione sulla base delle accuse di hacking da parte dei procuratori federali del Nord Virginia, gli stessi che hanno incarcerato due volte Chelsea Manning per essersi rifiutata di testimoniare contro Assange e WikiLeaks davanti a un gran giuri. L’ultima svolta di una carriera in cui Assange è passato da crociato per la trasparenza radicale dell’informazione a braccato da un’indagine svedese per aggressione sessuale, a strumento delle interferenze elettorali russe nelle elezioni Usa del 2016, fino a imputato criminale negli Stati uniti. Anche se non è un giornalista convenzionale, molto di ciò che ha fatto su Wikileaks è difficilmente distinguibile in modo giuridicamente significativo da quello che fanno le organizzazioni giornalistiche tradizionali. Per cui, come ha fatto notare l’organizzazione giornalistica tradizionale per antonomasia, il New York Times, è la prima volta che l’Espionage Act è usato per incriminare un giornalista. Dello stesso parere del Nyt è anche Aclu, l’associazione statunitense per la difesa delle libertà civili, che da quando Trump è alla Casa bianca ha visto moltiplicate esponenzialmente le cause per cui deve battersi. “Per la prima volta nella storia del nostro Paese - ha scritto su Twitter Ben Wizner, direttore di Aclu - il governo ha intentato accuse penali contro un editore a causa della pubblicazione di informazioni vere. Questo stabilisce un pericoloso precedente che potrà essere usato per colpire tutte le organizzazioni giornalistiche ritenute responsabili dal governo”. Il caso per cui Assange ha ricevuto i 17 capi di accusa non ha nulla a che fare con le interferenze elettorali di Mosca nel 2016, quando WikiLeaks pubblicò le email del comitato democratico che la Russia avrebbe rubato per aiutare l’elezione di Trump, ma è tutta rivolta al ruolo di Assange nella pubblicazione di centinaia di migliaia di documenti e file militari del Dipartimento di Stato forniti da Manning e riguardanti i crimini americani contro civili iracheni. I funzionari del Dipartimento di Giustizia che hanno incriminato Assange a distanza di quasi dieci anni da quella pubblicazione non hanno spiegato perché abbiano deciso di usare l’Espionage Act, passo che era stato discusso anche dall’amministrazione Obama ma che non era stato intrapreso proprio a causa del primo emendamento e delle implicazioni con la censura giornalistica. Non solo Assange: la guerra giudiziaria americana contro i whistleblower di Daniele Salvini Il Manifesto, 25 maggio 2019 Gli Usa lamentano un danno alla sicurezza nazionale e vogliono segnare un precedente, intervenendo dove e su chiunque disturbi le loro attività militari. Le nuove accuse degli Usa, per le quali Assange rischia 175 anni di carcere, sono basate sull’Espionage Act, un legge della prima guerra mondiale, creata nel 1917, per perseguitare i traditori che rilasciano informazioni riservate. Rispolverata prima dall’amministrazione Bush e poi in crescendo da Obama e Trump, è la prima volta che viene usata per incriminare un giornalista, neanche americano. La legge riguarda lo spionaggio e non riconosce il ruolo del giornalista nell’informare per l’interesse pubblico, oggetto del primo emendamento della costituzione Usa. L’Espionage Act viene usato come test e potrebbe non sopravvivere lo scrutinio della corte suprema se usata contro un giornalista, ma questo in democrazia e non in una società militarizzata. Con la richiesta di estradizione, la war zone americana si è allargata fino all’Europa. La libertà d’informazione è una delle sue prime vittime e la guerra colpisce oggi i whistleblower. Assange non è il solo. Mentre viene trasportato di peso fuori dall’ambasciata dell’Ecuador, proprio in Ecuadro viene arrestato Ola Bini. È uno sviluppatore svedese di software libero e un attivista dei diritti civili. Non è formalmente imputato ma il governo dichiara che è stato arrestato per sospetta partecipazione al crimine di assalto all’integrità di un sistema informatico. Viveva a Quito da sei anni. Ola Bini è amico di Julian Assange. Il quotidiano svedese Aftonbladet pubblica una lettera aperta di Noam Chomsky, Yanis Varoufakis, Arundhati Roy e Brian Eno che chiede al governo svedese di intervenire per la sua liberazione. Il sito freeolabini.org ospita le firme di solidarietà e le sue lettere dal carcere. Il 10 maggio viene rilasciata Chelsea Manning, prima di essere nuovamente incarcerata il 15 maggio. L’analista che ha denunciato nel 2010, usando WikiLeaks, i crimini di guerra americani in Afghanistan e che ha scontato sette anni di carcere militare durante i quali è stata torturata, come dichiara Amnesty International. Aveva ricevuto clemenza dal presidente uscente Barack Obama ma era nuovamente in prigionia da due mesi in Virginia per il suo rifiuto a testimoniare davanti a un gran giurì proprio sul caso WikiLeaks. La sua scarcerazione è dovuta allo scioglimento del gran giurì, ma uno nuovo si è già formato notificandole un secondo mandato di comparizione con scadenza il 16 maggio e rifiutando di testimoniare è tornata in carcere con l’aggiunta di una multa di 500 dollari per ogni giorno dopo i primi 30 giorni, che aumenterà a mille dopo due mesi. Chelsea afferma di non voler contribuire all’abuso che il processo e la segretezza del grand giurì rappresenta: “Ho la scelta tra tornare in prigione o tradire i miei principi. La seconda ipotesi rappresenta una prigione ben peggiore di quella che il governo mi può costruire”. Assange è stato condannato a 50 settimane di carcere in Inghilterra per non essersi presentato alla polizia nel 2012 per rispondere alle richieste svedesi sulle accuse di stupro, rifugiandosi invece nell’ambasciata ecuadoriana. Il 9 maggio, ancora in Virginia, è stato arrestato sempre via Espionage Act, Daniel Hale, 31 anni ed ex analista dei servizi, per aver fornito informazioni classificate sull’uso dei droni da guerra ai giornalisti di The Intercept, sito di giornalismo investigativo cofondato da Glenn Greenwald, il giornalista che ha rivelato il programma di sorveglianza globale di Uk e Usa, tramite i documenti forniti da Snowden e con l’aiuto di WikiLeaks. Il 13 maggio è stata riaperta in Svezia l’inchiesta sull’accusa di violenza sessuale che grava su Assange del 2010. Il magistrato ha dichiarato che la nuova circostanza, la detenzione inglese, ora permette di chiedere l’estradizione in Svezia e l’interrogatorio è richiesto per completare l’inchiesta che era stata chiusa nel 2017. Se Assange darà il consenso, dichiarano le autorità svedesi, potrebbe avvenire nella prigione inglese. WikiLeaks dichiara che sarà l’occasione per Assange di pulire il suo nome. Sarà un giudice inglese a decidere a quale richiesta di estradizione dare precedenza, Svezia o Usa, nell’irrisolto contesto della Brexit. Gli Usa stanno dando un chiaro monito a whisteblower e giornalisti. La guerra in corso li spinge alla criminalizzazione degli strumenti crittografici e alla censura, ma chiedere l’estradizione di un giornalista straniero in relazione alla divulgazione tramite WikiLeaks di oltre 1 milione di informazioni militari e documenti diplomatici è essenzialmente una richiesta per giornalismo scomodo che segna un precedente pericoloso. Julian Assange viene difeso da Baltasar Garzòn, il giudice spagnolo scelto da WikiLeaks, ricordato per aver tentato di arrestare Pinochet e di interrogare Kissinger sul caso Condor. Le attuali accuse da parte Usa non riguardano il caso delle email dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, trafugate dai servizi russi e divulgate tramite WikiLeaks che hanno avvantaggiato Trump, ma sono confinate alla divulgazione dei crimini di guerra segnalati da Chelsea Manning nel 2010. Il caso Assange riguarda la libertà di stampa e diritti umani. L’amministrazione Trump, pur correndo il rischio di riportare l’attenzione sulle scorse elezioni presidenziali, sta colpendo entrambi i diritti. Venezuela. Rivolta in carcere: almeno 30 detenuti morti negli scontri con polizia La Repubblica, 25 maggio 2019 Almeno 30 detenuti sono morti in scontri con la polizia in un carcere in Venezuela. Quattordici poliziotti sono rimasti feriti negli scontri, avvenuti ad Acarigua, nell’ovest del Paese. A fornire le cifre è stato il direttore dell’ong “Una ventana de libertad”, che si occupa di difendere i diritti dei prigionieri, Carlos Nieto. La sparatoria, riferisce il quotidiano “El Nacional”, sarebbe iniziata alle 10 della mattina nel Centro di reclusione preventiva di un commissariato nello stato settentrionale di Portuguesa. Per sedare il tentativo di insurrezione sarebbero accorsi sul posto funzionari della Polizia nazionale bolivariana, del Comando nazionale anti-estorsioni e sequestro e della Polizia dello stato Portuguesa. Australia. Impennata dei tentativi di suicidio tra i richiedenti asilo di Manus di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 maggio 2019 Dal 2013 l’isola di Manus, appartenente allo stato di Papua Nuova Guinea, è utilizzata dall’Australia come “parcheggio” di richiedenti asilo: le politiche di esternalizzazione della gestione delle domande d’asilo prevedono infatti che le persone dirette via mare verso l’Australia per chiedere protezione vengano trasferite in luoghi remoti (un altro è l’isola di Nauru) dove rimangono spesso a tempo indeterminato. La situazione a Manus è drammatica: l’80 per cento dei richiedenti asilo presenta acuti problemi di salute mentale. I tentativi di suicidio (12 dei quali portati a termine dal 2013) sono frequenti e hanno conosciuto un’impennata negli ultimi giorni: dal 19 maggio altre 12 persone hanno cercato di togliersi la vita e almeno cinque sono state ricoverate in ospedale. Un anno e mezzo fa il governo australiano ha sospeso le terapie per le vittime di traumi e torture. Il primo ministro Scott Morrison, fresco vincitore delle elezioni, ha annunciato l’abolizione del “Medevac bill”, la legge sull’evacuazione medica entrata in vigore appena tre mesi fa, che prevede il trasferimento in Australia dei richiedenti asilo di Manus e Nauru che hanno urgente bisogno di cure mediche.