Diminuiti i detenuti radicalizzati in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2019 I dati emergono dall’ultimo rapporto di Antigone. Il fenomeno della radicalizzazione in carcere c’è, ma non allarmante tanto da giustificare l’erosione dei diritti. Questo si evince da un capitolo dell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni del carcere. I numeri di cui dispone Antigone rendono conto di un fenomeno in lieve diminuzione rispetto all’anno scorso e con valori assoluti contenuti. Al 31 ottobre 2018 erano 233 i detenuti monitorati con il più alto livello di attenzione. Di questi, 171 erano detenuti comuni e 62 i ristretti in AS2. Sono circa il 4% in meno rispetto all’anno precedente. Erano poi 103 i monitorati con un livello intermedio di attenzione e 142 i cosiddetti “followers”, detenuti considerati fragili e di conseguenza più facilmente avvicinabili a ideologie violente, nella situazione di sofferenza causata dal contesto detentivo. I monitorati erano in tutto 478, circa il 5,5% in meno rispetto al 2017. Di questi, il 27,7% provenivano dalla Tunisia, il 26, 07 dal Marocco, il 6% dall’Egitto e il 4,5% dall’Algeria. Antigone sottolinea l’importanza di tenere alta la soglia dell’attenzione rispetto al pericolo di una progressiva trasformazione delle dinamiche che reggono la vita penitenziaria alla luce di criteri propri delle attività intelligence ma estranee alle finalità della pena, che deve però “sempre volgere al reinserimento di tutte le persone detenute, indipendentemente dalla natura del reato commesso o di cui si è chiamati a rispondere”. Sempre nel rapporto di Antigone viene evidenziato che è importante tenere conto della contenuta presenza numerica di persone detenute coinvolte in un processo di radicalizzazione avanzato, evitando dunque una mobilitazione di mezzi e risorse sproporzionata. “Infine, è necessario prendere in conto il rischio di stigmatizzazione di una parte della popolazione detenuta - spiega Antigone - che sulla base della sua provenienza geografica o della religione di appartenenza può venire ingiustificatamente identificata come bacino di potenziali radicalizzati e di conseguenza monitorata con sospetto”. Aggiunge che a ciò “possono contribuire l’ignoranza dei precetti e delle condotte proprie all’islam, rispetto alle quali sono diffuse visioni stereotipate”. L’Osservatorio di Antigone ha infine rilevato, nel corso delle sue visite, una mancanza di formazione diffusa, sia sul versante linguistico che su quello culturale. “Ciò non può che limitare o impedire - conclude la comprensione delle soggettività recluse e dei loro comportamenti, aumentando il rischio di adozione di criteri stereotipati e una gestione detentiva basata su mere esigenze di sicurezza”. “Non condannateli all’ergastolo: quei ragazzi meritano un’altra possibilità” di Simona Musco Il Dubbio, 24 maggio 2019 Anthony e Nicola Spina sono fratelli. Il primo ha 19 anni, il secondo 24. Giovanissimi, ma già a processo per omicidio. Avrebbero ucciso un compagno di rapine, anche lui giovanissimo, Emanuele Errico. Ma nonostante ciò, “dobbiamo offrire loro una seconda opportunità e provare a rieducarli in carcere, come prevede la Costituzione”. La richiesta non viene da una voce qualunque, ma dalla pubblica accusa, quella che ha chiesto per loro 30 anni di carcere: il pm di Napoli Henry John Woodcock. Tre giorni fa, nelle battute finali del processo per omicidio, celebrato con rito abbreviato, si è rivolto al gup decidendo di rimanere fedele fino in fondo all’articolo 27 della Costituzione, dichiarando deliberatamente di rifiutare per loro, così giovani, anche se colpevoli, l’idea dell’ergastolo. Che pure avrebbe potuto chiedere, date le aggravanti contestate. La motivazione, per quanto semplice, non è per niente scontata: è l’idea della pena come forma di rieducazione. Un’idea in netto contrasto con l’invito a “buttare le chiavi” diventato ormai slogan politico. La speranza di Woodcock è che quei giovani possano rifarsi una vita una volta scontata la pena, cioè quando i due avranno rispettivamente 49 e 54 anni, anno più, anno meno. La storia sullo sfondo è quella di tre ragazzi, tre amici che vivono ad una manciata di passi di distanza e che insieme, anziché dare calci ad un pallone, mettono a segno rapine. Emanuele Errico, alias “Pisellino”, viene ucciso nel Rione Conocal di Ponticelli, a Napoli, il 26 aprile 2018. La sua morte ha una ragione semplice quanto tremenda: una ritorsione per aver dato fuoco allo scooter di proprietà dei due fratelli Spina. Ci sono pochi dubbi sulla dinamica di quella notte, perché l’omicidio viene ripreso dalle telecamere di sorveglianza di un supermercato, le stesse telecamere grazie alle quali Anthony e Nicola, il giorno prima, scoprono che a bruciare il loro motorino è stato proprio Emanuele. I tre amici, infatti, da giorni litigano per la spartizione del bottino di una rapina. E dalle parole e dalle minacce sono passati, in poco tempo ai dispetti. Fino all’ultimo, quello del 25 aprile, giorno in cui Emanuele decide di dare fuoco al motorino parcheggiato davanti casa Spina. Il fumo invade l’appartamento e tutta la famiglia è costretta a scendere in strada. Anthony e Nicola pensano subito a lui, Emanuele, e così chiedono al titolare del supermercato di poter controllare le immagini del circuito di videosorveglianza. Bingo: quello che vedono è proprio il loro ex compagno compiere la sua ultima ripicca. Lo riconoscono dall’andatura un po’ dondolante, non hanno dubbi e allora decidono di vendicarsi. Ma sono maldestri e superficiali, perché pur sapendo perfettamente che quelle telecamere sono lì le ignorano. Davanti all’occhio della videosorveglianza, senza alcuna cautela, i due fratelli entrano in azione. È Anthony, il più piccolo, a premere il grilletto e colpire alla schiena l’ex amico. Con Emanuele ci sono anche altri due ragazzi, uno dei quali rimane ferito ad una gamba, ma i due ne escono sani e salvi, alla fine. Nicola, materialmente, con l’omicidio non c’entra. Ma secondo l’accusa, ci mette del suo, preparando l’agguato assieme al fratello, appoggiandolo e scappando con lui fino in Calabria, a Scalea, dove la loro famiglia ha una casa per le vacanze. La madre di Emanuele, intanto, fa i loro nomi, dice di averli visti uccidere suo figlio. E i due, con la loro fuga, sembrano confermare tutto quanto. Prima di arrivare in provincia di Cosenza spariscono dal quartiere, poi fanno una tappa a Castel Volturno, poi da alcuni parenti in via Nazionale. Alla fine prendono l’autostrada e scendono di qualche chilometro lungo lo stivale, rifugiandosi nella casa al mare. Teoricamente è un nascondiglio momentaneo: l’obiettivo è andare fuori, in Germania, dove rifugiarsi e poi cercare una soluzione. Sperano solo di avere il tempo di organizzare tutto, di prendere fiato un attimo e poi far perdere ogni traccia. Ma trovarli, per gli investigatori, è abbastanza semplice: nessuno, in famiglia, fa mistero della situazione e tutti ne parlano al telefono come se nulla fosse. Confermano le responsabilità, rivelano dove si trovano. Insomma, nessuno li aiuta, anche questa volta maldestramente. La moglie di Nicola, che ha anche dei figli, sa che “il pensiero che la galera se la deve fare lo tiene”. Il padre dei due, invece, anche lui arrestato per furto giorni fa, si lamenta della fuga dei figli con il bottino, “senza pensare a nessuno”. Il pm ha pochi dubbi sulle responsabilità. Ci sono i filmati, ci sono le intercettazioni, i testimoni. E ci sono pure le aggravanti della premeditazione, dei motivi futili e abietti e dell’utilizzo di armi detenute illegalmente. L’unica cosa che non c’è sono i clan: la camorra non c’entra, dice l’accusa. Sarebbe semplicissimo, però, chiedere e ottenere una condanna al fine pena mai. Buttare la chiave, dunque, come si fa con gli assassini della peggior specie, coi criminali incalliti. Ma Woodcock li guarda e ci pensa: sono chiaramente tutto fuorché dei professionisti. Anzi, forse non potrebbero esserlo mai. E sono pure, fondamentalmente, due ragazzini. Magari proprio per questo, avrà pensato il magistrato, salvarli dal loro destino non è del tutto impossibile. “Quando usciranno dal carcere - ha detto guardando al gup - avranno 50 anni o poco più. Le bambine di Nicola saranno donne, probabilmente madri. Loro potranno, se lo vorranno, rifarsi una vita in maniera onesta”. Adesso toccherà alla difesa, rappresentata dagli avvocati Roberto Saccomanno e Sergio Simpatico, discutere, poi la palla passerà al giudice. Che nel decidere la pena deciderà anche se Anthony e Nicola, e forse non soltanto loro, hanno la possibilità di cambiare. Il nuovo fronte sulla giustizia può aprire la crisi di governo di Marco Conti Il Messaggero, 24 maggio 2019 Lo scontro investe la riforma del processo penale. E ora la Lega teme per le inchieste. Conte disposto a ritoccare l’abuso d’ufficio, così salva il lombardo Fontana e il suo posto. A Giuseppe Conte si è rotto il metodo. Eppure, anche se con qualche strattonamento, sino a prima che divampasse la campagna elettorale, il meccanismo aveva funzionato. La regola era che ogni ministro - contratto alla mano - si occupava delle materie relative alla sua delega e non erano ammessi sconfinamenti di altri. Arbitro, del rigoroso rispetto del principio, era il presidente del Consiglio al quale toccava limare qua e là qualche asperità contenuta nei provvedimenti e portare il tutto in Consiglio dei ministri. Poi la Lega votava ciò che il M5S predisponeva sulle materie di competenza dei ministri grillini e viceversa. È così, per esempio, che il Carroccio ha piegato la testa sullo “spazza-corrotti” - bocciando anche la riforma dell’abuso d’ufficio, come ricorda l’azzurro Enrico Costa - e il M5S ha ingoiato a fatica la “legittima difesa”. Stessa sorte per il “decreto crescita” che i grillini hanno imposto alla Lega che aveva già incassato il “decreto sicurezza”, costato al M5S un lungo travaglio interno e autorevoli defezioni di senatori. Le invasioni di campo sono invece ora quotidiane. L’ultima quella del ministro dell’Interno Matteo Salvini sulla riforma dell’abuso d’ufficio. Un tema di competenza del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede al quale invece la Lega di recente ha anche proposto una sorta di riforma del processo penale tutta “made in Bellerio”. È sempre più evidente quali siano, al di là del teatrino quotidiano al quale assistiamo da giorni, i due temi sui quali la maggioranza e il governo rischiano di entrare in crisi. Uno è lo spread e la critica situazione dei conti pubblici. L’altro è quello che Salvini pochi giorni fa ha definito “lo snodo fondamentale”: la riforma del processo penale. A tutti gli effetti il tema della giustizia torna ad essere brandito come una dava. Salvini si sente sotto assedio dalle procure e prova a reagire non avendo né i “sensori” che hanno i Cinque Stelle tra le toghe, né la resistenza di Berlusconi. Un intreccio tra minacce di riforme, accuse, processi in corso e possibili tensioni sui mercati che rischia di riproporre lo scenario del 2011. Non a caso ieri è intervenuto lo stesso Conte che ha in sostanza appoggiato l’idea di Salvini di modifica dell’abuso di ufficio da inserire, per l’appunto, nella riforma del processo penale. Ma gli argomenti per nuove tensioni non mancano. Il mese prossimo alla Camera si discuterà di conflitto di interessi e della responsabilità delle toghe per ingiusta detenzione. Una contrapposizione tra M5S e Lega che rispolvera i fasti di una mai sopita contrapposizione. Con il leader grillino Di Maio costretto a smettere per qualche ora la versione moderata per tornare a rispolverare alcuni principi giuridici grillini - che fanno spesso a pugni con la Costituzione - e attaccare l’alleato al quale fa l’elenco delle inchieste che lo riguardano. “Salvini - dice Di Maio - parla da leader di una forza politica che ha un sindaco arrestato per corruzione (a Legnano, ndr), un senatore indagato per corruzione che è Siri e un presidente della Regione indagato per abuso d’ufficio” che è Fontana. Stavolta il ministro grillino si è però dimenticato di citare il processo che vede coinvolto il viceministro dei Trasporti Edoardo Rixi e che il 30 dovrebbe andare a sentenza. Di Maio ha già chiesto le dimissioni dell’esponente leghista in caso di condanna anche perché con Rixi il Movimento ha un conto aperto che va dalla Tav agli emendamenti al decreto “sblocca-cantieri”. Ma la battaglia di fine-mondo sarà sul governatore della Lombardia. Infatti un eventuale assalto politico-giudiziario ad Attilio Fontana rischia infatti di scatenare il Nord leghista che da tempo spinge Salvini per rompere con il M5S. Conte ne è consapevole e modificare l’abuso di ufficio per salvare Fontana significa, dopotutto, salvare il governo. Altro che “str...”!. Più legalità, come rovinare una ricetta che è giusta di Luca Ricolfi Il Messaggero, 24 maggio 2019 Può darsi che le imminenti elezioni europee mi smentiscano, ma ho l’impressione che il voto potrebbe riservare alla Lega un risultato inferiore alle aspettative del suo leader, drogate da mesi e mesi di sondaggi esaltanti. Dicendo questo non sto pensando al cosiddetto “effetto-winner”, per cui il vincitore annunciato di un’elezione riceve nei sondaggi più consensi di quelli che raccoglierà effettivamente alle urne. Né sto pensando all’effetto, potenzialmente disastroso, che potrebbero produrre il caso Siri, la “tangentopoli lombarda”, o lo scandalo che ha travolto uno dei principali alleati di Salvini in Europa, il vice- cancelliere austriaco Heinz Christian Strache, accusato (come Salvini) di trafficare con la Russia in cambio di sostegno finanziario al proprio partito. No, quello cui sto pensando è il lento ma inesorabile appannamento della figura di Salvini di cui è responsabile lui stesso. In che modo? Si possono fare innumerevoli esempi, ma il loro denominatore comune è molto semplice: è la rinuncia a rivolgersi a tutti gli italiani, anziché esclusivamente alla platea dei suoi sostenitori più accesi. Questa rinuncia si manifesta in innumerevoli forme e attraverso innumerevoli episodi: l’uso di un linguaggio aggressivo, l’occupazione sistematica delle piazze e della tv, la ridotta presenza al Viminale. Ma anche l’uso strumentale dei simboli religiosi (avevate mai visto un ministro dell’Interno agitare un rosario a un comizio?), la mancanza di rispetto per il presidente del Consiglio, i due pesi e due misure nell’attuazione degli sgomberi, la tendenza a strumentalizzare i temi della fede e della religione, con tanti saluti alla tradizione laica della Lega. E non solo: anche la tendenza a liquidare con una battuta, anziché con una spiegazione, molte ragionevoli obiezioni che riceve, da destra prima ancora che da sinistra. Perché ha preferito anteporre quota 100 alla flat tax? Perché aumentare ancora il debito pubblico, scaricando sulle generazioni future la fame di consenso elettorale di Lega e M5S? Come mai i rimpatri sono così pochi? Perché non si occupa di firmare nuovi accordi coni Paesi africani, come aveva promesso in campagna elettorale? Così facendo Salvini si sta sempre più riconfigurando come il punto di riferimento di una parte soltanto degli italiani, di cui spesso non fa che esasperare gli animi, e di fatto sta rinunciando a convincere la maggioranza dei cittadini delle sue buone ragioni. E un vero peccato, perché quelle ragioni, disgiunte dal modo brutale e talora volgare con cui sono affermate, esistono e sono condivise da moltissime persone, indipendentemente dal fatto che elettoralmente scelgano la Lega o un altro partito. Di tali ragioni, probabilmente la più importante è la richiesta di legalità e ordine. Agli italiani, popolo tradizionalmente propenso a ignorare o aggirare le regole, piace sempre di meno vivere in un Paese in cui gruppi sempre più ampi e spregiudicati di persone, italiane e straniere, se ne infischiano della legalità, e spesso di tale atteggiamento si mostrano persino fiere. Migranti che entrano disordinatamente in Italia per lo più senza avere alcun diritto allo status di rifugiato. Gruppi, di italiani e di stranieri, che spadroneggiano nelle periferie delle nostre città. Occupanti di case popolari che si appropriano di alloggi cui altri avrebbero diritto. Forze politiche che teorizzano che chi difende una buona causa ha tutto il diritto, e forse addirittura il dovere, di non rispettare le leggi, come è successo di recente coni sindaci che si rifiutano di applicare il decreto sicurezza, ma anche con il consenso che il “reato a fin di bene” dell’elemosiniere del Papa (ridare la corrente a chi non paga le bollette) ha ricevuto a sinistra. Ebbene, tutto questo ha stancato una parte considerevole degli italiani. Salvini, ha avuto il merito di intercettare e dare una voce a questo sentimento collettivo, che è di esasperazione ma anche di rivolta morale contro una situazione giudicata ingiusta. Non si capisce perché la maggioranza dei cittadini debba rispettare le leggi, fino al punto di accettare le innumerevoli vessazioni cui vengono sottoposti dalla burocrazia, dal fisco e da una giustizia lenta e farraginosa, e altri cittadini possano invece sottrarsi ad ogni regola, o incassare tutti i benefici della benevolenza pubblica e privata senza sottostare ad alcun dovere. Non si capisce perché in certi territori lo Stato si comporti in modo vessatorio, e in altri non osi neppure mettere piede. Non si capisce perché chi commette ripetutamente reati quasi mai sconti una pena in carcere. Non si capisce perché a decine, forse centinaia di migliaia di stranieri, sia consentito girare senza documenti, o con documenti falsi, mentre da tutti gli altri si esige che abbiano i documenti in regola. Questi pensieri e questi vissuti, contrariamente a quanto amano pensare le persone più accecate dall’ideologia, non sono appannaggio di una minoranza ultra-politicizzata, xenofoba e razzista, ma sono condivisi dalla maggior parte degli italiani, e segnatamente dai ceti popolari, che hanno una visione concreta dei problemi. Quante volte abbiamo sentito, in questi mesi, operai ed ex militanti comunisti dichiarare convintamente di votare Salvini, senza per questo cessare di definirsi comunisti, di sinistra, progressisti. È questo che, fin dall’inizio, ha sempre fatto la forza della Lega, un partito che già nei primi anni 90 veniva votato da impiegati e operai “con in tasca la tessera della Cgil”. Ora tutto questo rischia di appannarsi. Se continuerà sulla strada imboccata negli ultimi mesi, quella di rivolgersi essenzialmente alla parte più radicale ed esasperata del suo elettorato, sollecitandone gli istinti peggiori, Salvini difficilmente potrà mantenere il consenso che ha rapidamente conquistato in un anno di governo. Perché quel consenso non era solo dovuto alla sua capacità di parlare chiaro, e di comprendere lo stato d’animo di tanti italiani, ma anche alla sua volontà di rivolgersi a tutti, non solo ai suoi fan più accesi. Insomma, radicalizzando ed esasperando il suo volto feroce, Salvini rischia non solo di perdere consensi, ma anche di infliggere un duro colpo alle idee generali che hanno guidato la sua azione. Non sarebbe una buona cosa, perché una parte di quelle idee, prima fra tutte l’esigenza di mettere un freno all’anarchia della società italiana, erano sacrosante, e condivise da un pubblico che va ben aldilà del perimetro della Lega. Salvini: “Abolire l’abuso di ufficio”. Scontro Lega-M5s di Barbara Fiammeri e Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2019 L’ultimo duello è sull’abuso d’ufficio, il reato che più colpisce sindaci e amministratori pubblici. Matteo Salvini torna alla carica sin dal mattino. A chi gli chiede se vada cancellato risponde lapidario: “Assolutamente sì. Bisogna togliere burocrazia, aprire cantieri”. Davanti alla dura reazione di Luigi Di Maio (“Più lavoro e meno str...”), il leader della Lega si fa scudo con le posizioni espresse in passato tanto dal premier Giuseppe Conte quanto dal presidente Anac, Raffaele Cantone. Nell’ultimo libro di Bruno Vespa, il premier aveva anticipato che il Governo “è pronto a riformare il Codice degli appalti e a valutare la riforma dell’abuso d’ufficio dopo aver potenziato le norme anticorruzione”. Una riforma da studiare assieme alle Procure in un tavolo ad hoc (si veda l’articolo accanto). Sulla stessa linea anche Cantone, che precisa: “Sono assolutamente contrario all’abolizione del reato, ma come ho già detto un anno fa, c’è lo spazio per pensare a una modifica”. Il numero uno dell’Anac ricorda che “c’è una quantità enorme di provvedimenti che non arrivano a condanna, che non arrivano a sentenza, per cui è evidente che qualcosa sulla norma non funziona”. Il vicepremier della Lega poi chiarisce. Non parla più di abolizione ma di “modifica” perché bisogna punire “i veri colpevoli ma lasciare lavorare serenamente cittadini e funzionari pubblici”. Di Maio ne approfitta subito: “Mi fa piacere che Salvini abbia fatto marcia indietro. C’è una bella differenza tra abolire e modificare”. Ed è questa la linea del M5S e del premier. Anche questa partita è rinviata a dopo le europee di domenica. Ma intanto il vicepremier M5S continua a lanciare bordate su quello che ritiene il nervo scoperto della Lega: la giustizia. E attacca: “È forse un modo per chiedere il voto ai condannati o per salvare qualche amico governatore? Torniamo alle leggi ad partitum?”. Il riferimento è al presidente della Lombardia Attilio Fontana, indagato proprio per abuso d’ufficio. Salvini non vuole rimanere confinato nel ring costruito dal suo alleato-rivale e sposta il tiro, rilanciando la flat tax: “Se la Lega sarà il primo partito, sarà la priorità”. Un avvertimento al M5S, che va al di là della tassa piatta e lascia intravedere la volontà di invertire i rapporti di forza e di dettare l’agenda di Governo. La carne al fuoco è parecchia. Subito dopo le urne ci saranno da decidere gli emendamenti al Dl sblocca cantieri, dalle opere da commissariare alle modifiche chieste proprio per alleggerire i pubblici amministratori dal rischio di danni erariali. Il dossier si intreccia con il destino della Tav, che la Lega chiede di commissariare per accelerare i lavori. Ma anche sul decreto crescita non mancano gli attriti. Senza contare i Dl appena annunciati, sicurezza bis e famiglia, su cui al di là dei dubbi del Quirinale e dei problemi di copertura non c’è intesa tra i soci di Governo. Soltanto da lunedì, una volta svelata l’ampiezza della forbice tra i due partiti di maggioranza, si comincerà a capire se la durezza dello scontro è destinata ad ammorbidirsi. Oppure se al contrario prevarrà la volontà di rottura. Che continua a serpeggiare nella Lega, come dimostrano le recenti dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti. “Io penso che stiano giocando al poliziotto buono e a quello cattivo”, commenta Di Maio: “Mentre Salvini dice “per me il Governo deve andare avanti”, Giorgetti dice “buttiamo giù tutto”“. L’ipotesi più accreditata è un rimpasto, che potrebbe portare a un Conte bis. Ma Di Maio dà voce a un sospetto: “Non escludo che la Lega voglia sfiduciare il premier”. Una via ritenuta impraticabile dal M5S, comunque vadano le elezioni. E su questo i pentastellati sono convinti di avere il sostegno del capo dello Stato Sergio Mattarella. Oggi Conte vedrà a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk: in ballo la complessa partita delle nomine dei top job ai vertici delle istituzioni europee, su cui l’Italia vuole dire la sua. I due vice invece chiuderanno la campagna elettorale, dopo la maratona di interviste in radio e Tv. Di Maio ha scelto piazza della Bocca della Verità a Roma, Salvini invece sarà a Castel San Giovanni (Piacenza). Per la Lega le amministrative di domenica saranno anche il test per mettere nel mirino le Regioni “rosse”: in autunno andranno alle urne Emilia, Calabria e Umbria. Poi toccherà alla Toscana. Lotta alle mafie e battaglie di legalità. Una questione nazionale di Antonio Maria Mira Avvenire, 24 maggio 2019 Dopo le stragi di Capaci e via d’Aurelio niente è stato più come prima. Niente doveva essere come prima. Ma non tutto è andato così, e non sempre. Non è un gioco di parole, è un’amara constatazione. Le terribili esplosioni, quell’enorme cratere sull’autostrada, il palazzi sventrati, il fuoco, le sirene, sono stati un drammatico pugno allo stomaco che ha svegliato l’Italia intera da torpori colpevoli, da un quieto vivere col male dentro. La strategia stragista decisa dai corleonesi ha tolto alibi, e illusioni di convivenza con le mafie. Cosa nostra mostrava a tutti il suo volto di morte uccidendo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Morti che hanno provocato un sussulto nel Paese, un ricompattarsi contro un nemico comune. Un Paese che rischiava di sgretolare se stesso sotto i colpi rivelatori dell’inchiesta Mani Pulite, che aveva scoperchiato il calderone della corruzione politica, seppe reagire unitariamente contro la violenza mafiosa. Anche la politica ritrovò orgoglio e capacità per concrete iniziative. Riavvolgiamo i film della memoria. La i t morte di Falcone e Borsellino, e poi le stragi di Roma, Firenze e Milano, spingono a realizzare finalmente le proposte dei due magistrati, dalla Procura nazionale antimafia alla Dia, dal rafforzamento dello strumento della confisca dei beni al carcere duro, il 41bis, per i mafiosi. Certo è amaro che ci siano volute quelle stragi per concretare i loro sogni. Ed è ancora più amaro riscontrare che è quasi sempre stato così. Solo l’uccisione di Pio La Torre e quella del generale Carlo Alberto dalla Chiesa portarono il Parlamento a uno scatto di dignità approvando la proposta Rognoni-La Torre che introduceva il reato di associazione mafiosa, il 416bis, e la confisca dei beni. Era il 1982. Dieci anni dopo la storia si ripeteva come se il Paese, o almeno una sua parte, e le sue istituzioni, ondeggiassero tra bruschi risvegli e repentine dimenticanze. E la storia, purtroppo, non è cambiata. Le mafie, pur colpite duramente proprio grazie a quegli strumenti, almeno nella componente “ militare”, sono tutt’altro che sconfitte. Anzi sono cresciute e si sono allargate, risalendo la Penisola e andando anche oltre le Alpi come aveva previsto ai primi del Novecento un prete e politico attento e sensibile come don Luigi Sturzo. Non mettono bombe, non fanno stragi, quasi non uccidono più, anche se quando serve sono pronte a farlo. Le mafie oggi, ancor più di allora, sono nell’economia e nella politica, soprattutto nei territori, quelli di origine e quelli colonizzati. Lo fanno inquinando mercati ed enti locali, lo fanno coi soldi accumulati con le attività illecite e ripuliti in quelle legali. Lo fanno al Sud e soprattutto in un Nord che per troppo tempo ne ha negato la presenza e che in parte ancora insiste a farlo. Usano la corruzione, e gli appalti. Forze dell’ordine e magistratura, loro sì, non si sono mai distratti e utilizzando quegli strumenti “sognati” da Falcone e Borsellino, non hanno mai abbassato la guardia. E necessario, ma non basta. La mafia è o no al centro del dibattito e, soprattutto, dell’azione politica ma anche della riflessione e delle iniziative del mondo economico? Purtroppo no, tutt’altro. Non basta allora la memoria di questi giorni, peraltro necessaria. Non bastano arresti e sequestri. Le mafie si sconfiggono con la cultura e con la scuola, come ripeteva convintamente il “papà” del pool di Palermo, Antonino Caponnetto. Ma bisogna investire e non poco. Le mafie si sconfiggono col lavoro, vero e pulito. E sono per questo preoccupanti le critiche del mondo imprenditoriale, molto silente sul tema mafie, a due importanti norme come la legge sugli eco-reati e quella contro il caporalato. Quest’ultima criticata anche da ministri importanti che, come dimostrano le recenti sortite del responsabile dell’Interno, Matteo Salvini, contro il reato di abuso d’ufficio, denotano un’insofferenza ai controlli di legalità, perché rallenterebbero l’economia... Ci pensi e ripensi, il signor ministro. Legalità, una parola che, come ripete don Luigi Ciotti, “ci hanno rubato”. Chi è contro la legalità? Nessuno, a parole. Anche gli amici e complici dei mafiosi. Imprenditori, politici, liberi professionisti. Una mafia sostenibile, ma ancor più pericolosa perché inserita, come un tumore col quale si pensa di poter convivere e, magari, farci affari. Tanto non uccide. Anche per questo è un segnale preoccupante un anniversario come quello del 23 maggio vissuto tra polemiche, divisioni, scomuniche incrociate. L’unità è l’arma migliore contro le mafie, per creare anticorpi veri e duraturi. Ma un’unità sincera, nei fatti. Non basta dire di essere contro le mafie, di volerle sconfiggere. Diteci come e, per favore, realizzatelo. Altrimenti davvero il ricordo di Falcone e Borsellino, e delle tante vittime, sarebbe solo uno sterile rito. Intercettazioni e tecnologia, i pericoli da evitare di Antonello Soro* Il Messaggero, 24 maggio 2019 I recenti sviluppi del “caso Exodus” ripropongono, sotto aspetti diversi, il tema delle intercettazioni. La notizia dell’accesso agli atti di centinaia di inchieste e dell’intercettazione di altrettanti cittadini del tutto estranei ad indagini dimostra il grado di pericolosità di strumenti investigativi fondati, come nel caso dei trojan, su tecnologie particolarmente invasive. Per un verso, infatti, i software utilizzati a questi fini presentano un’intrinseca pericolosità, potendo concentrare, in un unico atto, una pluralità di strumenti investigativi, in alcuni casi non lasciando tracce o alterando i dati acquisiti. Si realizza, così una sorveglianza ubiquitaria, ogniqualvolta tali captatori siano installati su dispositivi mobili, che ci accompagnano in ogni momento della vita. Per le loro stesse caratteristiche, dunque, i trojan, sfuggendo alle tradizionali categorie gius-processuali, rischiano di eludere le garanzie essenziali sottese al regime di acquisizione probatoria nei sistemi accusatori. Peraltro, se la prova decisiva risulta viziata, successivamente alla sua acquisizione, l’intero risultato processuale che su essa si fondi rischia di esserne travolto. Ulteriore elemento di criticità è, per altro verso, l’esternalizzazione di queste operazioni investigative, dovuta al loro elevato tasso di tecnologizzazione. Ciò rende, infatti, assai più permeabile la filiera su cui si snoda l’attività di indagine, coinvolgendovi una pluralità di soggetti e spesso privi dei requisiti professionali, organizzativi e persino dell’affidabilità, necessari per svolgere un’attività così delicata quale quella intercettativa. Così anche il più rigoroso rispetto, da parte degli uffici giudiziari, delle misure di sicurezza da noi indicate a tutela della riservatezza dei dati intercettati rischia di essere del tutto vanificato dall’affidamento delle operazioni captative a società inadeguate e la cui compliance non è sempre agevole verificare, vista la molteplicità di soggetti a cui ciascuna Procura ha il potere di rivolgersi. La frammentazione del processo investigativo e la delega di suoi segmenti importanti a privati ne accresce inevitabilmente le vulnerabilità, con danni spesso irreparabili non solo per la vita privata dei cittadini, ma anche per la stessa efficacia dell’azione investigativa. Casi come quelli di Exodus e, prima, Hacking Team dimostrano come carenze (colpose o, peggio, dolose) nelle misure di sicurezza a tutela dei dati rischino di trasformare il mezzo intercettativo - in sé prezioso-in un pericoloso strumento di dossieraggio massivo. Soprattutto ove si utilizzino - come nel caso Exodus - software connessi ad app, come tali posti su piattaforme accessibili a tutti e non direttamente inoculati nel solo dispositivo dell’indagato. Se rese disponibili sul mercato in assenza - dolosa o colposa - dei filtri necessari a limitarne l’acquisizione da parte dei terzi, queste app rischiano, infatti, di trasformarsi in pericolosissimi strumenti di spionaggio massivo. È dunque ineludibile - come abbiamo indicato, anche di recente, al legislatore - un intervento normativo che rafforzi le garanzie previste sul punto dalla (attualmente sospesa) riforma “Orlando”, contrastando soprattutto i rischi connessi al coinvolgimento di soggetti diversi nella “catena” delle indagini. Su un terreno che incrocia il potere investigativo e quello, non meno forte, della tecnologia, le garanzie sono irrinunciabili: mai come in questo caso, infatti, costituiscono forma e sostanza della democrazia. *Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali Falcone, Mattarella: “L’Italia si inchina nel ricordo delle vittime della mafia” La Repubblica, 24 maggio 2019 Messaggio del presidente per il 27mo anniversario della strage di Capaci. La presidente del Senato Casellati: “23 maggio ferita mai rimarginata”. Il presidente della Camera Fico: “Piano Marshall per sconfiggere Cosa nostra”. A 27 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, “legate dalla medesima, orrenda strategia criminale, la Repubblica si inchina nel ricordo delle vittime e si stringe ai familiari”. Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ringraziando “quanti una ferita così profonda hanno tratto ragione di un maggior impegno civico per combattere la mafia, le sue connivenze, ma anche la rassegnazione e l’indifferenza che le sono complici”. “I nomi di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina sono indimenticabili. Nella loro disumanità - sottolinea il Capo dello Stato - gli assassini li hanno colpiti anche come simboli - a loro avversi - delle istituzioni democratiche e della legalità. Il loro sacrificio è divenuto motore di una riscossa di civiltà, che ha dato forza allo Stato nell’azione di contrasto e ha reso ancor più esigente il dovere dei cittadini e delle comunità di fare la propria parte per prosciugare i bacini in cui vivono le mafie. “Questa riscossa ha già prodotto risultati importanti. Ma deve proseguire. Fino alla sconfitta definitiva della mafia, che Falcone e Borsellino hanno cominciato a battere con il loro lavoro coraggioso, con innovativi metodi di indagine, con l’azione nei processi, con il dialogo nella società, nelle scuole, soprattutto con una speciale attenzione all’educazione dei giovani. Giovanni Falcone avrebbe da pochi giorni festeggiato i suoi 80 anni. La mafia sanguinaria ha spezzato la sua vita, ma non il suo esempio di magistrato, il suo insegnamento di uomo delle istituzioni, la sua testimonianza civile. Falcone, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, non era mai arretrato davanti alla minaccia criminale. Anzi, è stato determinante nel costruire strumenti più idonei di contrasto alla mafia, istruendo il primo maxi-processo, svelando aspetti non conosciuti dell’organizzazione criminale, contribuendo a far nascere la Procura nazionale e le Direzioni distrettuali antimafia. L’eredità costituita dalle sue conoscenze, dalla sua tenacia, dal suo rigore etico - conclude Mattarella - è un patrimonio preziosissimo”. Nell’aula bunker di Palermo, dove si è svolta la controversa commemorazione ufficiale, interviene tra gli altri la presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Il 23 maggio 1992 rappresenta una ferita mai rimarginata nel cuore dell’Italia: un giorno di lutto e di morte che ancora oggi provoca sofferenza e sdegno. E fino a quando mafia e corruzione continueranno ad esercitare i loro effetti devastanti sul nostro Paese, la memoria di Giovanni Falcone non potrà mai dirsi davvero onorata”. “Da quel tragico attentato - ricorda Casellati - che ha segnato le vite di tutti noi, l’azione dello Stato contro le organizzazioni mafiose è riuscita a conseguire risultati molto importanti. I clan mafiosi sono stati disarticolati e colpiti nei loro patrimoni in tutta Italia, ma il loro potere sui territori è ancora forte e pervasivo. Per portare a termine la battaglia serve uno sforzo costante da parte di tutto il Paese sano”. Il presidente della Camera Roberto Fico pensa a “un piano Marshall, un piano importantissimo per sconfiggere definitivamente la mafia e chiudere questa storia, chiudere la rigenerazione della mafia con azioni e investimenti costanti”. “Dopo la repressione che lo Stato ogni giorno fa in modo puntuale e straordinario - aggiunge intervenendo alla cerimonia di Palermo - dobbiamo subito arrivare con la formazione, con le scuole e arrivare nei quartieri difficili e prendere tutti quei ragazzi che vengono usati dalle mafie”. E ancora: “Serve un’azione congiunta di tutta le nostre istituzioni, dei ministeri - ha aggiunto - perché elaborino dei piani da qui ai prossimi 10 anni da misurare di sei mesi in sei mesi”. La mafia “è la prima emergenza del Paese. Dobbiamo prenderci i figli dei camorristi e dei mafiosi e spezzare questa catena. Dobbiamo essere uniti, compatti e lungimiranti. Ce la faremo”. Processo Eternit bis, 4 anni per omicidio colposo all’imprenditore Schmidheiny di Pierfrancesco Carcassi La Stampa, 24 maggio 2019 L’accusa sosteneva la responsabilità nella morte di due operai dello stabilimento di Cavagnolo (Torino) esposti all’amianto e aveva chiesto 7 anni. L’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny è stato condannato a 4 anni di reclusione in uno dei filoni del processo Eternit bis. L’accusa era di omicidio colposo per il decesso di due ex lavoratori della multinazionale dell’amianto, impiegati nella filiale di Cavagnolo, nel Torinese. La sentenza del tribunale di Torino, emessa dal giudice Cristiano Trevisan, è arrivata questa mattina. Schmidheiny dovrà versare una provvisionale di 15 mila euro alle parti civili, tra cui la Regione Piemonte, sindacati e varie associazioni. Il processo terminato oggi è stato celebrato a Torino dopo lo “spezzettamento” del fascicolo disposto all’udienza preliminare per ragioni di competenza territoriale. A Napoli è in corso un dibattimento in Corte d’Assise, dove l’imprenditore elvetico è accusato di omicidio volontario. A Vercelli si procede per il medesimo reato: l’indagine è appena terminata. Per il pubblico ministero Gianfranco Colace, sostenitore dell’accusa, si tratta “un primo tassello”, in riferimento agli ultimi orientamenti della giurisprudenza in materia di responsabilità nei casi di morti da amianto. “Ora - ha aggiunto il pm - spero che questa sentenza segni il ritorno a una giurisprudenza più attenta alle vittime”. La difesa ha subito annunciato che farà ricorso: “È una decisione che va contro ultimi orientamenti giurisprudenziali in materia di morti da amianto. Leggeremo le motivazioni e faremo appello”. È il commento dell’avvocato Astolfo di Amato, uno dei difensori di Stephan Schmidheiny. Una nota dei collaboratori dell’imprenditore svizzero condannato afferma che Stephan Schmidheiny è “il capro espiatorio dell’inerzia dello Stato italiano”, che “per decenni” non regolamentò il trattamento e l’uso dell’amianto. Il comunicato ribadisce che nella multinazionale si impiegavano standard di sicurezza “nettamente superiori rispetto a quelle in vigore in Italia e nelle aziende concorrenti”. Reazioni positive alla sentenza sono arrivate da parte di Nicola Pondrani, dirigente sindacale della Cgil e cofondatore dell’Associazione familiari e vittime dell’amianto (Afeva): “È un segnale debole, ma va nella direzione auspicata. È la prima sentenza che indica la responsabilità di Schmidheiny su due casi”. Nel 2015 al termine del primo processo la Cassazione aveva annullato la condanna a 18 anni del manager svizzero accusato di disastro ambientale doloso permanente e omissione di misure antinfortunistiche. Per Bruno Pesce, altro fondatore dell’Afeva, “è una condanna mite, ma importante perché lo Stato afferma che non si uccide la gente per soldi” Sospensione condizionale, rifiuto non ricorribile se il beneficio non è stato richiesto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 22 maggio 2019 n. 22533. Il giudice di appello è obbligato a motivare le ragioni per cui, pur in presenza dei presupposti di legge, non ha concesso d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena. Lo hanno chiarito le Sezioni unite, sentenza n. 22533 del 22 maggio, risolvendo un conflitto giurisprudenziale. I giudici di legittimità però hanno anche stabilito che l’imputato non può ricorrere in Cassazione contro la mancata e non motivata applicazione della sospensione condizionale se non l’ha richiesta espressamente nel giudizio di appello. La Corte ha così bocciato il ricorso di un uomo condannato per traffico illecito di sostanze stupefacenti che dopo la riforma in appello della condanna in senso a lui più favorevole (da tre ad uno anno, in ottemperanza della sentenza n. 32/2014 della Consulta) aveva proposto ricorso in Cassazione lamentando la mancata concessione, senza alcuna motivazione, della beneficio della sospensione condizionale della pena. La Terza Sezione penale, investita della questione, ha rilevato un contrasto sul punto. Secondo un primo e prevalente indirizzo interpretativo, infatti, il potere riconosciuto al giudice di appello dall’articolo 597, comma 5, c.p.p. di applicare, anche d’ufficio, i benefici di cui agli articoli 163e 175 c.p. e una o più circostanze attenuanti si pone come eccezionale e discrezionale rispetto al principio generale, dettato dal primo comma dello stesso articolo 597, secondo il quale l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti. Conseguentemente, il mancato esercizio di tale potere non è censurabile in Cassazione, né è configurabile un obbligo di motivazione, in assenza di una specifica richiesta. Secondo l’altro indirizzo invece il giudice di appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere, attribuitogli dall’articolo 597, comma 5, c.p.p., tanto più quando una delle parti ne abbia fatto esplicita richiesta; pertanto sussiste la legittimazione e l’interesse dell’imputato a ricorre in Cassazione purché indichi gli elementi di fatto in base a cui il giudice avrebbe dovuto ragionevolmente e fondatamente esercitare il suo potere dovere. La soluzione trovata dalla Sezioni Unite è stata, da un lato, di riconoscere “l’esercizo del potere del giudice di appello, in tema di applicazione dei benefici di legge (o di una o più attenuanti), come un “dovere”, in presenza di elementi di fatto che ne consentano ragionevolmente l’esercizio, tanto più se divenuti attuali proprio nel giudizio di Appello”. Tale potere dovere, prosegue la decisione, essendo espressamente attribuito al giudice, “di ufficio” dall’articolo 597, comma 5, c.p.p., non postula, per definizione, la necessaria iniziativa o sollecitazione di parte. Dall’altro, ponendosi come “eccezione” al generale principio “devolutivo” che governa l’appello, il mancato esercizio non configura un vizio deducibile in Cassazione. In particolare, prosegue la sentenza, la non decisione sul punto non costituisce violazione di norma penale sostanziale (articolo 606, comma 1, lettera b), c.p.p.) e, neppure, di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità decadenza (articolo 606, comma 1, lettera c), c.p.p.). Soprattutto non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza (articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p.), laddove la parte non abbia richiesto l’applicazione del beneficio. In definitiva, conclude la sentenza: “Fermo il dovere del giudice di appello di motivare il mancato esercizio del suo potere di ufficio di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, specialmente se sopravvenute al giudizio di primo grado, l’imputato non può dolersi, con ricorso per Cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio se non lo ha richiesto nel corso del giudizio dl appello”. Fallimento. Alle Sezioni unite la possibilità per il curatore di impugnare il sequestro di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2019 Saranno le sezioni unite a stabilire se il curatore fallimentare sia legittimato o meno a impugnare i provvedimenti di sequestro preventivo al fine di confisca, anche quando la dichiarazione di fallimento sia successiva all’imposizione del vincolo penale. Le Sezioni unite dovranno anche chiarire se il curatore possa, preliminarmente, chiederne la revoca all’autorità giudiziaria che procede. La terza sezione penale, con l’ordinanza 22602, ritiene che ci siano delle ragioni significative da sottoporre al Supremo consesso, perché valuti la possibilità di invertire la rotta rispetto ai principi dettati dalla sentenza Uniland con la quale le Sezioni unite hanno escluso la possibilità del curatore ad impugnare i provvedimenti di sequestro adottati, nel caso allora esaminato, nell’ambito dell’articolo 19 del Dlgs 231/2001: un principio comunque ritenuto applicabile anche in caso di misure cautelari estranee alla disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti. Diverse le considerazioni poste alla base dell’indirizzo affermato dalle Sezioni unite con la Uniland (sentenza 11170/2015). Una ragione della preclusione sarebbe nell’assenza di titolarità, tanto del curatore quanto dei creditori, di diritti sui beni oggetto della procedura concorsuale. Anche perché la dichiarazione di fallimento non priva il fallito della proprietà dei beni. Per l’indirizzo in auge è poi difficilmente ipotizzabile un interesse concreto del curatore fallimentare ad opporsi al sequestro e alla confisca, perché lo Stato può far valere il suo diritto solo a procedura conclusa. A questo orientamento, nel tempo, se ne sono aggiunti altri che hanno ampliato la possibilità per il curatore ad impugnare i provvedimenti relativi alle misure cautelari reali, avendo riguardo al caso concreto, all’interesse fatto valere secondo un giudizio di bilanciamento tra esigenze contrapposte. Una ulteriore decisione (sentenza 45578/2018) ha riguardato la possibilità di impugnare, anche in caso di dichiarazione del fallimento successiva alla misura, quando i beni sono stati illegittimamente sottratti all’attivo della procedura concorsuale per effetto del vincolo penale: in tal caso il curatore è l’unico soggetto che ha diritto alla restituzione dei beni. La Sezione remittente precisa, che i paletti posti dalla sentenza Uniland, non sono venuti meno dopo l’approvazione delle nuove norme sulla crisi d’impresa e l’insolvenza (Dlgs 14/2019). Entrerà, infatti, in vigore solo dal 15 agosto 2020 la previsione dell’articolo 320 secondo la quale “Contro il decreto di sequestro e le ordinanze in materia di sequestro il curatore può proporre richiesta di riesame e appello nei casi, nei termini e con le modalità previsti dal codice di procedura penale. Nei predetti termini e modalità il curatore è legittimato a proporre ricorso in Cassazione”. E, per i giudici, non si può aspettare il 2010 per decidere le cause pendenti. Milano: San Vittore, si chiude un cancello si spalanca un mondo di Brunella Giovara La Repubblica, 24 maggio 2019 “Ci sono qui tante persone mai state a scuola”. Accompagnati da Giacinto Siciliano, direttore sotto scorta, incontriamo detenuti e volontari. Giacinto Siciliano è il direttore del carcere di San Vittore, “un quartiere della città”, dice lui, come l’Isola o Lorenteggio. Da un anno ha raccolto l’eredità di Luigi Pagano, uno che ha aperto il carcere alla città e non per modo di dire. In questi mesi c’è chi - il ministro dell’Interno - invoca più galera, chiede di “gettare la chiave”. San Vittore è un carcere modello. È vecchio e brutto “ma il brutto è un modello positivo: si può cambiare, fare ordine, stimolare processi positivi...”, infatti dentro succedono cose che in poche altre strutture succedono. Nel corridoio d’ingresso c’è la mostra di Andrea Bianconi. Nella Rotonda da cui partono i raggi sta andando in scena una performance, un gruppo di detenute ed ex detenute si muovono, recitano. “Nelle carceri serve bellezza, perciò per noi la cultura è così importante, è la nostra sfida”, dice il direttore. Servono più eventi e persone disponibili, “in questo luogo così brutto ma con un fascino incredibile, dove ci sono anche 14 persone che vivono in una stanza”, Nel 2000 a San Vittore c’erano 2.400 detenuti, oggi si è scesi a 950 uomini e 100 donne, e si ristrutturano a fondo il II° e il IV° raggio, “La gente deve sapere cosa succede qui, perciò dico “venite a fare qualcosa di concreto”. Milano è eccellenza, si impone un carcere eccellente. Serve alla città, sembra un ragionamento folle, ma è così”. Su in cima, proprio al culmine del cancellone che chiude il VI° Raggio, qualcuno ha scritto “W Dio”, la scrittura è antica, potrebbe essere persino di inizio Novecento. Giacinto Siciliano è il direttore del carcere di San Vittore, un monumento triste piantato in mezzo a Milano, “un quartiere della città”, dice lui, come l’Isola o Lorenteggio. Sotto scorta da quando dirigeva Opera, il carcere dei definitivi e dei 41bis, minacciato anche dagli anarco-insurrezionalisti, notizia di questi giorni. Da un anno ha raccolto l’eredità di Luigi Pagano, uno che ha aperto il carcere alla città e non per modo di dire, ha costruito una scuola di giovani direttori, ha lasciato il segno non solo in Lombardia. In questi mesi c’è chi - il ministro dell’Interno - invoca più galera, chiede di “gettare la chiave”, augura che la gente ci “marcisca”, in posti come questo, e c’è chi lavora perché le carceri siano posti dove si vive, da detenuti, ma si vive. Dottor Siciliano, chi ha fatto quella scritta? “E chi lo sa. È vecchia, un tempo i detenuti si arrampicavano fin lassù. Venne messa una rete per impedirlo, io però l’ho fatta togliere”. Perché? “Perché questo è un posto dove si imparano le regole. Non ci si deve arrampicare, punto. Poi, noi non possiamo impedirti di sbagliare”. E funziona? “Sì”. San Vittore è un carcere modello. È vecchio e brutto “ma il brutto è un modello positivo: si può cambiare, fare ordine, stimolare processi positivi...”, infatti dentro succedono cose che in poche altre strutture succedono. Nel corridoio d’ingresso c’è la mostra di Andrea Bianconi. Le pareti sono dipinte di rosa verde rosso, altra opera di Marco Casentini. Nella Rotonda da cui partono i raggi sta andando in scena una performance, un gruppo di detenute ed ex detenute si muovono, recitano, il titolo è “Come costruire una direzione”, ci sono delle gabbiette da uccelli appese intorno, il senso è chiaro, e “per quanto sembri banale, ribadire che c’è una direzione possibile è importante, qua dentro”. Da questa rotonda passano tutti, interni ed esterni, “chi arriva da fuori vive in un qualche modo il carcere e se lo porta a casa”, dice Siciliano. Il pubblico: 70 detenuti, 24 ospiti, gente che si è prenotata per venire qui, magari per la prima volta entra in un istituto, passa i controlli, il metal detector, sente i cancelli sbattere, le chiavi girare, i rumori di Milano che si spengono, si entra in un rumore diverso. “Nelle carceri serve bellezza, perciò per noi la cultura è così importante, è la nostra sfida”, dice il direttore, “ci sono persone che non sono mai state a scuola, non hanno mai sentito della musica o visto una mostra d’arte in vita loro. Ci sono anche detenuti stranieri che non hanno mai avuto una visita medica, pensi un po’. Il nostro è un tentativo di sollevare le anime e le menti, lo dico anche per gli operatori, perché il carcere rischia di appiattirci tutti, seguendo le emergenze, i ritmi frenetici delle giornate, i problemi spiccioli, quello che ha bisogno di un paio di mutande, o della carta igienica”. Così si rischia la routine, che pure c’è, ma la cultura è una leva fondamentale, “se incontro persone di livello, tenderò ad alzare il mio, di livello. Se cerco la bellezza fuori, forse la troverò anche dentro di me”, perciò servono più eventi e persone disponibili, “in questo luogo così brutto ma con un fascino incredibile, dove ci sono anche 14 persone che vivono in una stanza”, talvolta qualcuno si suicida, di là va in scena un reading di poesia e nel raggio uno cerca di ammazzarsi. E bisogna pensare all’anno 2000, quando a San Vittore c’erano 2.400 detenuti, oggi si è scesi a 950 uomini e 100 donne, e si ristrutturano a fondo il II° e il IV° raggio, San Vittore è come il Duomo, in eterna manutenzione. “Anche con le nostre drammatiche carenze, paradossalmente possiamo essere un’eccellenza. C’è un volontariato ricchissimo, 300 volontari entrano ogni giorno a lavorare, ma ne servono di più”. Di cosa ha bisogno? “Professionisti, gente che sappia fare delle cose, che abbiano delle idee, e questo è molto stimolante per chi è detenuto. Uno che “perde” addirittura del tempo proprio con te, magari un ingegnere, un architetto... Sei bravo a dipingere? O a fare il curriculum, o a suonare? Se sei un medico puoi venire a fare un corso di igiene, si possono insegnare molte cose. Si pensa spesso ai soldi che mancano ma io penso che servono risorse”, quelle umane. Così “si crea un movimento, il tempo deve essere orientato, non è tempo perso insegnare a chi non è definitivo, qui abbiamo un turn over di 30/40 persone al giorno. La norma prevede che il trattamento è obbligatorio per i definitivi, e che nella prima fase si debbano “sostenere gli interessi umani, culturali, professionali”, quindi si possono proporre dei percorsi, ed è lì le persone cambiano. Noi proviamo a trasformare il tempo trascorso a San Vittore in un’esperienza positiva”. Ci vuole un grande lavoro, “ma a quel punto anche i detenuti diventano Stato”. Spiega che “gran parte della recidiva dipende dal fatto che fuori non c’è niente, per chi esce. Non basta dare 600 euro al mese a uno che ne guadagnava 10mila al giorno, spacciando droga. Gli devi dare valori, costruirgli una rete... Ci sono casi in cui non ci riesci, ma abbiamo il dovere di provarci”, in questo che “è un posto di paura e rabbia. Chi è dentro è arrabbiato con il mondo fuori, e ne ha paura. Fuori c’è la rabbia per chi ha commesso il reato, persone che fanno paura. Sono sentimenti molto forti, ma io penso che l’incontro tra il dentro e il fuori serva ad attenuarli. Perciò la gente deve sapere cosa succede qui, perciò dico “venite a fare qualcosa di concreto”. Milano è eccellenza, si impone un carcere eccellente. Serve alla città, sembra un ragionamento folle, ma è così”. Avellino: Ariano Irpino dovrebbe essere una Casa circondariale, invece... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2019 I Radicali Italiani nell’istituto campano, dove ci sono 47 detenuti non definitivi su 339. Una casa circondariale per “finta”, così si può definire quella di Ariano Irpino. Teoricamente in questa tipologia di istituti vi sono detenute, per la maggiore, le persone in attesa di giudizio, ma nel caso campano, invece, c’è un alto numero di detenuti in via definitiva, molti dei quali provenienti dal carcere di Poggioreale. Ad Ariano vi sono infatti intere sezioni dedicate ai reclusi (quindi non più in attesa di giudizio) i quali in gran parte provengono dal carcere napoletano e che spesso vengono spostati ad Ariano per motivi disciplinari. A rivelare questo e altro ancora è stata la delegazione dei Radicali per il Mezzogiorno guidato dall’Avvocato Raffaele Minieri e il gruppo è stato accolto dalla direttrice, in carica da fine febbraio, Maria Rosaria Casaburo. Con lei anche la responsabile dell’area sanitaria, Ernestina Volpicelli, l’educatrice Rita Nitti e il vice comandante della Polizia Penitenziaria, Angelo Giardino. Se dall’inizio degli anni 80 al 2014 la capienza era di 180 detenuti, oggi questa è di 275 sebbene ad Ariano siano presenti al momento 339 ristretti. Di questi, 160 sono in carcere per reati connessi alla droga (artt. 73 e 74) mentre 121 scontano una condanna per rapina (art. 628) e una decina sono i “riottosi” ex art. 32. I detenuti stranieri sono 48. In tutto il carcere di Ariano (che sarebbe una casa circondariale) vi sono appena 47 non definitivi (i definitivi sono 259) 32 ricorrenti, 14 appellanti, quattro in attesa di giudizio, 29 in posizione mista con anche una condanna definitiva e un detenuto in posizione mista senza pena definitiva. Gli agenti penitenziari presenti sono 153 laddove ne sarebbero previsti 165 dalla pianta organica. Questa tuttavia è rimasta invariata negli anni pur essendo sensibilmente aumentati i detenuti presenti ad Ariano. Al momento pur essendo arrivati dei nuovi ispettori, si ravvisa la carenza di altre figure come quella di assistente capo. Presenti ad Ariano anche alcuni ergastolani e vi è un’intera sezione dedicata ai collaboratori di giustizia. Sul piano strutturale, il carcere di Ariano conta due padiglioni, uno risalente ai primi anni 80 quando fu eretto il penitenziario, l’altro costruito nel 2014. Vi sono in totale dodici sezioni. Le criticità riscontrate dai Radicali nel corso della visita, riguardano in particolare la mancanza pressoché totale di educatori come ha confermato anche la stessa direttrice. Gli educatori, infatti, al momento sono soltanto due. Inoltre, molti detenuti hanno lamentato l’impossibilità ad essere curati nel carcere di Ariano Irpino e di non ricevere i farmaci adeguati. Anche la direttrice, sul fronte sanitario, ha lamentato l’assenza degli specialisti all’interno dell’istituto e su tale punto si è già rivolta anche alla Procura della Repubblica. Tuttavia, almeno una volta alla settimana o ogni 15 giorni, nel carcere operano un dermatologo, un otorino, un odontoiatra, un urologo e un cardiologo. La direttrice Casaburo ha enfatizzato quella che è la carenza principale a livello di specialisti, ovvero quella dello psichiatra soprattutto alla luce della presenza di molti detenuti “border line”. I detenuti hanno inoltre evidenziato la totale assenza di opportunità lavorative o anche di semplici corsi all’interno del carcere. Passare le giornate, pur se in regime di celle aperte (pressoché tutto il giorno con piccole pause a celle chiuse) risulta spesso difficile perché oltre a una piccola stanza per la socialità non esiste nulla. Un detenuto ha definito “cupa e chiusa” la giornata tipo nel carcere di Ariano. Gli unici lavori sono le mansioni interne alla struttura che però impiegano non più di 70 persone. Le lamentele dei detenuti hanno “risparmiato” sia il rapporto con gli agenti che la stessa struttura che appare in buone condizioni. Le celle sono da tre, quattro o talvolta cinque detenuti e tutte hanno bagno e doccia in camera. Funzionano bene anche i riscaldamenti e perfino il pavimento delle sezioni è riscaldato. Se il lavoro è assente, la scuola offre i primi due cicli e il liceo artistico con in più un laboratorio di ceramica, mentre non esistono corsi di formazione o di avviamento al lavoro. Il carcere di Ariano risulta particolarmente difficile, basti pensare alla rivolta avvenuta a giugno di un anno fa. O ai numerosi sequestri di cellulari e droga nei reparti e agli atti di violenza fra detenuti. Possibili novità in vista per i colloqui coi parenti che potrebbero avvenire col meccanismo della prenotazione al fine di evitare attese e code estenuanti, mentre anche ad Ariano si registra l’annoso problema del sopravvitto e dei prezzi raddoppiati rispetto a quelli praticati all’esterno. La visita dei Radicali ad Ariano, ha svelato un carcere con gravi problemi ma, allo stesso tempo, guidato da una direttrice non solo conscia delle difficoltà ma anche risoluta nel porvi rimedio. Campobasso: due indagini sulla rivolta in carcere, trasferiti 8 detenuti primonumero.it, 24 maggio 2019 Due le indagini aperte, una della Procura e l’altra dell’Amministrazione penitenziaria. Stamattina, dopo la note di ferro e fuoco nell’istituto di pena di via Cavour, è arrivato il garante per i diritti dei detenuti, che ha chiesto un impegno affinché il carcere del capoluogo non continui a ospitare condannati trasferiti in quanto problematici. Gli 8 detenuti del penitenziario di Campobasso considerati i principali responsabili e fautori della rivolta con fiamme e finestre rotte sono stati trasferiti. L’amministrazione penitenziaria ha confermato la notizia che si era già diffusa, come ipotesi, nella serata di ieri, quando poco prima di cena è scoppiato il finimondo al secondo piano dell’Istituto di via Cavour. Oggi l’ufficialità e i trasferimenti. Un detenuto è stato trasferito fuori regione, gli altri 7 sono stati portati tra i carceri di Larino e Isernia. E intanto si ricostruisce l’accaduto, che non trova precedenti nella storia del carcere del capoluogo. Sono due le inchieste avviate, la prima della Procura della Repubblica di Campobasso e la seconda interna, affidata al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che sta facendo luce sulla vicenda e ha parzialmente ricostruito quanto successo. La ricostruzione, ancora in attesa di ulteriori verifiche ma avallata dal Ministero della Giustizia, sarebbe questa. Uno dei detenuti nella seconda sezione al secondo piano che si sarebbe visto negare il permesso di telefonare ai figli minorenni ha afferrato un bastone cominciando a inveire e minacciando di tagliarsi il collo con una lametta. È riuscito a sfuggire all’agente di polizia penitenziaria che lo ha raggiunto ed è sceso al primo piano distruggendo durante il tragitto vetri, plafoniere, telecamere di vigilanza e quadro elettrico. Quindi è risalito trovando la sponda di altri 7 detenuti che sono riusciti a bloccare il portone interno e hanno dato fuoco a materassi e suppellettili. Il tutto è avvenuto mentre gli agenti della penitenziaria cercavano di riportare l’ordine. Ordine che è tornato soltanto dopo quasi un’ora di chiarimenti con la direttrice, arrivata intorno alle ore 22. Irma Camporeale, che da poche settimane dirige l’istituto di via Cavour, ha avuto un lungo colloquio con i detenuti che l’accusano di una eccessiva severità e di applicare regole troppo restrittive. Intanto questa mattina il Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma ha fatto visita in carcere riscontrando diverse criticità che a suo giudizio si potrebbero risolvere facilmente con un approccio che coniughi le garanzie della pena al rispetto delle norme. Il Garante ha chiesto un impegno formale affinché il carcere di Campobasso non continui a essere un luogo dove vengono trasferiti gli elementi più problematici che stanno scontando la pena sia in Molise che nelle regioni limitrofe. Il penitenziario del capoluogo registra, tra le varie criticità, anche un problema di sovraffollamento. Ospita 180 detenuti, 74 in più di quelli che dovrebbero essere, e 11 agenti in meno rispetto a quanto previsto dalla pianta organica. Prato: botte in cella registrate da Rachid Assarag, ora indagano due procure iene.mediaset.it, 24 maggio 2019 Rachid Assarag, detenuto marocchino in cella in Italia, ha raccontato a Matteo Viviani le botte e i soprusi che avrebbe subìto nelle nostre prigioni, registrate con un miniregistratore. Adesso, anche sula base di quelle registrazioni, le Procure di Prato e Firenze hanno indagato in totale 7 agenti di polizia penitenziaria. Due Procure, quelle di Prato e di Firenze, hanno deciso di muoversi sul caso dei presunti pestaggi violenti subìti in carcere da Rachid Assarag. L’uomo, che ha passato in cella in Italia 9 anni per reati di violenza sessuale, aveva incontrato il nostro Matteo Viviani, raccontandogli storie di soprusi e violenze che avrebbe subìto dagli agenti penitenziari. L’avvocato Fabio Anselmo, legale dell’uomo oggi espulso nel suo Paese d’origine, il Marocco, spiega: “A Prato c’è la richiesta di rinvio a giudizio per 4 agenti, per reati che vanno dalla violenza aggravata al falso, mentre a Firenze siamo già in fase dibattimentale e si è già svolta la prima udienza che vede imputati 3 agenti”. Procedimenti basati sulle dichiarazioni di Assarag e anche su alcuni degli audio che l’uomo aveva registrato in cella, e che Matteo Viviani ci aveva fatto ascoltare nel servizio che potete rivedere sopra. “Brigadiere, io dico solo quello che è successo. Siete entrati, lei ha visto che il vostro collega mi sta picchiando, gli puoi dire fermati”. E l’agente risponde : “A lui? No, io vengo e ti do le altre. Però siccome te le sta dando lui non serve che te le do pure io: basta uno solo che te le dà. Sono stato più corretto, mi sono seduto fuori e non te le ho date”. E quando ad un altro agente Rachid chiede del mancato intervento durante il pestaggio, gli risponde: “Io e te siamo uomini. Oggi io posso reagire male a una tua parola, così come domani io ti scasso. L’unica differenza è che tu ti becchi la denuncia tanto se vengono da me io do sempre ragione ai colleghi, mai a voi”. Uno dei medici presenti in uno dei carceri i cui Rachid era passato, era stato ancora più esplicito: “Per il direttore lei è solo una scocciatura. Sa cosa dicono se lei muore? Bene, uno di meno”. Rachid al nostro Matteo Viviani aveva anche raccontato di un gravissimo episodio che sarebbe avvenuto nel carcere di Parma il 14 febbraio 2011. Rachid ancora una volta registra i lamenti disperati di un detenuto in cella, che si sta sentendo male. “Si ingoiava la lingua”, dice Rachid. “Ho chiamato la guardia e ho detto di chiamare un dottore ma mi ha risposto di no, che stava bene”. Una risposta che gli sarebbe stata data anche dall’agente che dà il cambio al collega. Passano ore, anche il secondo agente, racconta ancora Rachid, smonta di turno mentre il medico continua a non essere allertato. Arriva la terza guardia e Rachid insiste, ma anche quest’ultima non avrebbe fatto nulla. Al mattino il detenuto muore. Quando Rachid chiede spiegazioni all’ultimo agente di custodia, dicendogli che un suo intervento avrebbe potuto salvarlo, lui risponde: “Pesa cinquanta chili la cornetta. Ci vuole troppo tempo, io non avevo voglia di lavorare, mettila così”. Il tutto è stato registrato. Torino: Amazon resta fuori dal penitenziario, il ministero smentisce la direzione di Fabrizio Assandri La Stampa, 24 maggio 2019 Contrordine. Il ministero della giustizia “smentisce seccamente” il direttore del penitenziario di Torino, Domenico Minervini, che l’altro ieri aveva annunciato l’arrivo di un magazzino Amazon all’interno del carcere Lorusso e Cutugno. Un magazzino in cui potere far lavorare i detenuti. “Le sue parole - si legge in una nota diramata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - saranno oggetto di esame”. Il ministero spiega che “con diverse realtà commerciali sono state avviate, in modalità del tutto riservata, singole e separate interlocuzioni gestite direttamente dal capo del Dipartimento, Francesco Basentini. Incontri che, allo stato, possono definirsi solo, appunto, come interlocuzioni informali e che hanno riguardato genericamente il valore dei prodotti lavorati all’interno del sistema penitenziario italiano. Proprio in mancanza, al momento, di iniziative oggettive in merito, le dichiarazioni di Minervini saranno ora oggetto di esame da parte del Dipartimento”. Un eccesso di entusiasmo per un progetto non ancora messo a punto? Il direttore Minervini aveva annunciato che il 30 maggio, a Roma, ci sarebbe stata la firma dell’accordo con Amazon e il sito di e-commerce Eprice. Forse, solo un po’ troppo ottimista. Siena: a Ranza in cucina vanno i detenuti sienanews.it, 24 maggio 2019 Arcobaleno di sapori e culla senese con crema di radicchio, riso in fiore, agnello che brontola e stufato di manzo. Per finire dolci momenti. Non è un ristorante stellato, ma il menu che i detenuti del carcere di Ranza (alta sicurezza, pene dai cinque anni in su) hanno preparato per la terza edizione di “Insieme con gusto”, l’evento che chiude l’anno scolastico degli alunni iscritti al distaccamento carcerario dell’istituto enogastronomico “Ricasoli” di Siena. E che anche quest’anno ha ospitato autorità e invitati, con lo scopo di entrare in contatto con questa realtà così lontana eppure così vicina. A fare gli onori di casa Rita Favente, funzionario giuridico pedagogico e responsabile del settore scuola, il ruolo che una volta si chiamava più semplicemente “educatrice”. “Una modalità - ha detto - che ci permette di superare il pregiudizio e per promuovere la cultura dell’inclusione. L’iniziativa “Insieme con gusto” rappresenta, ormai da tre anni, la chiusura di un percorso didattico e formativo che portiamo avanti con l’Istituto Enogastronomico dell’Istituto d’Istruzione superiore statale Bettino Ricasoli di Siena coinvolgendo le classi terze, quarte e quinte e offrendo agli studenti detenuti l’opportunità di formarsi e riscattarsi socialmente. L’apertura del pranzo a ospiti esterni, inoltre, offre l’occasione di andare oltre i pregiudizi e di far conoscere il valore che anche qui si insegnano e si applicano”. Un valore che è stato sottolineato anche da Tiziano Neri, dirigente scolastico dell’Istituto d’Istruzione di Siena, ringraziando la Casa di reclusione di Ranza per la collaborazione. “La sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico del nostro Istituto - ha detto Neri - rappresenta una realtà consolidata e con il progetto “Insieme con gusto”, giunto alla sua terza edizione, puntiamo a offrire agli studenti detenuti un’opportunità di formazione professionale che li impegna con crescente passione e disciplina, guardando anche al loro futuro per chi un giorno uscirà dal carcere”. Grande anche la soddisfazione di Pasquale Napolitano, docente di laboratorio di cucina, e Gilda Penna, referente della sede carceraria per l’Istituto d’Istruzione superiore statale “Bettino Ricasoli” che lavorano ogni giorno con gli studenti detenuti accompagnandoli nel loro percorso di crescita personale e professionale e nella loro volontà di riscatto sociale. La casa di reclusione di Ranza a San Gimignano ospita circa trecento detenuti. Sono venticinque quelli che hanno dato vita - fra accoglienza e cucina - all’evento che ogni anno chiude il percorso scolastico. Alcuni di loro hanno la speranza di lavorare fuori dal carcere in regime di semi-libertà o di trovare un lavoro al momento della conclusione della pena. Per altri, i “fine pena mai” (cioè coloro condannati all’ergastolo), è comunque un’opportunità di crescita e di svago nelle lunghe ore da passare in cella. Bergamo: fotografia in carcere, un corso per i detenuti bergamonews.it, 24 maggio 2019 L’iniziativa finanziata coi proventi del progetto “Temporary Ritratti”, lanciato dal fotografo Lorenzo Ceva Valla e da una galleria di Milano. Le opere saranno poi esposte in una mostra. La fotografia come mezzo di contatto tra la realtà carceraria e il mondo esterno. Due mondi paralleli che possono avvicinarsi attraverso l’arte, in un reciproco scambio di punti di vista. Alcuni detenuti della Casa Circondariale di Bergamo sono protagonisti di un percorso formativo sulla fotografia e in particolare sul ritratto. Il corso è partito a febbraio e ha permesso ai partecipanti di avvicinarsi ai concetti base della fotografia e imparare a raccontarsi con le immagini da loro stessi realizzate all’interno del centro di detenzione. L’iniziativa è del fotografo Lorenzo Ceva Valla e Paola Maria Gianotti della Galleria Idea4MI di Milano. L’obiettivo è creare un varco ideale nelle mura del carcere e mostrare, al mondo “fuori”, il punto di vista di chi vive in detenzione. Il progetto è stato possibile grazie alla preziosa collaborazione della Direttrice della Casa circondariale di Bergamo Teresa Maria Mazzotta, della dottoressa Anna Maioli, degli educatori, in particolare Matteo Pedroni e della Polizia Penitenziaria. Il percorso formativo viene finanziato con la vendita dei ritratti estemporanei del progetto “Temporary Portraits”. Nello scorso novembre, infatti, Ceva Valla aveva allestito un set aperto presso la Galleria Idea4MI, in via Lanzone e invitato chiunque a guardarsi, attraverso le sue foto, con occhi diversi. I soggetti potevano visionare ed eventualmente poi acquistare i loro ritratti. Il ricavato di “Temporary Portraits” viene ora utilizzato per fornire la macchina fotografica, insieme alle altre attrezzature, e per stampare, a fine corso, le foto realizzate dai partecipanti, che saranno poi esposte in una mostra. Jesi (An): “Donne dentro”, detenute e agenti raccontano il carcere qdmnotizie.it, 24 maggio 2019 Appuntamento questo pomeriggio all’interno delle scale mobili di Palazzo Battaglia: sarà presente Monica Lanfranco, autrice del volume che è un viaggio nel mondo dei penitenziari femminili italiani. “Donne dentro” è il titolo dell’incontro organizzato dalla Casa delle Donne di Jesi, con la collaborazione di numerose associazioni cittadine. Appuntamento all’interno delle scale mobili di Palazzo Battaglia oggi 24 maggio, ore 18.30. “Donne dentro” è l’occasione per parlare del libro, edito dalla Casa editrice Settenove, scritto da Monica Lanfranco che sarà presente all’iniziativa jesina. Il volume è stato recentemente rieditato. Uscito negli anni 90, per la prima volta offre la parola sia alle detenute di sette carceri italiane ma anche alle agenti di polizia. “Donne dentro - detenute e agenti di polizia penitenziaria raccontano” - si legge sul sito dell’autrice - è un viaggio all’interno di sette carceri italiane (Genova, Milano, Pozzuoli, Roma, Sollicciano, Venezia e Verona) alla ricerca di voci delle donne che vivono e lavorano all’interno di esse: detenute, agenti, volontarie, hanno raccontato la vita quotidiana, il lavoro, l’amore, la solitudine, il futuro, partendo da una realtà così difficile e dolorosa come quella del carcere. Ne è nato un libro che, per la prima volta in Italia, racconta senza interferenze le parole, i progetti, il cambiamento di queste attrici della scena del carcere, forse l’istituzione più rimossa dalla nostra cultura. Detenute, agenti e volontarie parlano alla giornalista, che restituisce così all’esterno preziosi frammenti di società femminile altrimenti sconosciuta. Giornalista femminista, Monica Lanfranco cura un blog su Il Fatto Quotidiano e cura numerose attività sulla differenza di genere. Sciacca (Ag): i detenuti scrivono un libro, progetto della scuola “Don Michele Arena” di Giuseppe Pantano Giornale di Sicilia, 24 maggio 2019 L’istituto scolastico “Don Michele Arena” di Sciacca protagonista con un progetto all’interno della casa circondariale saccense. Nell’ambito delle varie iniziative culturali intraprese nell’anno scolastico che volge al termine, ieri sera, presso il giardino della sede centrale dell’istituto, è stato presentato il libro “Sapori di vita”. Giunto ormai alla terza edizione, rappresenta un tassello importante in seno al progetto “In And Out” e ha per autori gli studenti dell’indirizzo Enogastronomico ed Ospitalità alberghiera, istituito presso la casa circondariale di Sciacca. Il libro è il prodotto di un intenso anno di lavoro e di attività interdisciplinari e racchiude pensieri, racconti, poesie, proverbi, emozioni e disegni di coloro che, tramite la scuola, hanno investito in un percorso che ha come obiettivo il futuro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Ieri sera, nella sede scolastica saccense, anche detenuti presso la casa circondariale che hanno avuto il permesso di partecipare alla presentazione del libro che è giunto alla terza edizione. “L’obiettivo della nostra scuola - dice la professoressa Carmen Sferlazza, coordinatrice del progetto - che opera da anni nella casa circondariale di Sciacca, è di dare un’opportunità di lavoro, di reinserimento nella società dei detenuti che scelgono di iscriversi a questo indirizzo di studi. Il libro rappresenta un tassello all’interno del progetto dentro e fuori dal carcere, questo ponte tra il carcere e l’esterno. È un’esperienza formativa anche per noi perché ci consente di operare senza particolari strumenti tecnologici, adattandoci alle disponibilità che ci sono, ai mezzi. Troviamo, però, grande disponibilità all’interno del carcere a collaborare. L’impronta del libro di quest’anno è quella della sicilianità. Con le ricette si parte da pietanze inglesi con varianti siciliane”. Il “Don Michele Arena” ha inaugurato anche la biblioteca interattiva. La giornata è stata caratterizzata da momenti di dialogo, di confronto e riflessioni critiche su tematiche di attualità. La realizzazione della nuova biblioteca, fortemente voluta dal dirigente scolastico, Calogero De Gregorio, aggiunge prestigio e valore al plesso di via Giotto. Venezia: “Mai più qui. La forza di ricominciare”, i racconti dal carcere di Abdelaaziz di Francesca Catalano Il Gazzettino, 24 maggio 2019 Il libro del giovane in carcere per spaccio. Il console del Marocco: “Esempio di rinascita”. “Sono contenta di vedere come un mio concittadino abbia saputo rialzarsi all’interno del carcere”. È quanto ha detto ieri mattina Almina Selmane, console del Marocco, durante la presentazione all’Accademia di Belle Arti del libro Mai più qui. La forza di ricominciare di Abdelaaziz Aamri, detenuto nel carcere di Trento per spaccio di droga e sequestro di persona. “La sua buona volontà dà la speranza di una vita migliore una volta fuori dal carcere. Un bell’esempio per tutti i detenuti” ha sottolineato la console. Il libro rientra nel Progetto Aziz dell’Associazione “Venezia Pesce di Pace”, di cui è responsabile la giornalista Nadia De Lazzari. Nadia ha conosciuto Aziz quando ancora era detenuto a Venezia. Lo aveva coinvolto per tradurre le frasi in arabo dei bambini del progetto “Disegni a sei mani” che vedeva coinvolti studenti di diverse nazionalità per promuovere i valori dell’amicizia e della pace. “All’inizio coinvolsi otto detenuti, ma capii subito che lui era diverso, stava in un angolo con lo sguardo basso”, racconta De Lazzari. È così che Aziz, attraverso i disegni colorati dei bambini, ha imparato l’italiano, tanto che poi a Trento ha ottenuto anche il diploma di terza media. Il libro contiene 25 racconti che parlano di quando ancora piccolo gli veniva consegnata la droga, fino al 2015 quando la sua corsa si è fermata dietro le sbarre. Scrive anche alla sorella, ricorda i suoi genitori e ringrazia i bambini. Il libro, che Aziz ha stampato con i soldi guadagnati lavorando all’interno del carcere, è dedicato a padre Fabrizio Forti, sacerdote mancato inaspettatamente che per i detenuti era un fratello e un amico. Molto importante, la collaborazione con l’Accademia di Belle Arti che ha ospitato la mostra “Le parole e le immagini” sui disegni, le incisioni e gli oli su tela inseriti nel libro. Il progetto espositivo, a cura dei professori Diana Ferrara e Luca Reffo, punta a sensibilizzare la società all’esperienza della detenzione. Presente anche l’assessore Paola Mar che ha rimarcato come il tempo infinito del carcere possa essere usato nel modo giusto. Il progetto è inserito nel Festival dello sviluppo sostenibile. Aversa (Ce): nel carcere venti detenuti-attori in recital di Renato Pagano cronachedellacampania.it, 24 maggio 2019 Un’opera in musica oggi pomeriggio nel carcere di Aversa. Venti detenuti, si legge in una nota del Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, “hanno emozionato i propri familiari presenti, gli studenti del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Vanvitelli, la docente universitaria del relativo dipartimento Mena Minafra, la direttrice del carcere Carla Mauro, la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Adriana Pangia, il prefetto di Caserta Raffaele Ruberto. Soddisfatta la regista dell’evento Agnese Laurenza e il suo staff di volontarie”. “Oggi in scena nel carcere di Aversa un misto di parole, le parole di chi, anche all’interno di un luogo di reclusione, ha trovato una mano tesa - dice Ciambriello - un misto di desideri, il desiderio dei detenuti protagonisti di uno spettacolo teatrale-musicale di dimostrare la loro voglia di riscattarsi, di poter essere liberi dentro; un misto di emozioni e di empatia contagiosa. Le cifre della recidiva parlano chiaro: per chi fa teatro, musica e cinema in carcere, si riduce al 6 per cento. Un modo concreto per far vivere i dettami costituzionali. Insomma, reclusi ma non esclusi”. “Toccante vedere come i parenti presenti, mogli, fidanzate, i figli stringessero i detenuti protagonisti, divenuti artisti per un giorno, attori, cantanti, musicisti, e si congratulavano con loro per aver cantato le canzoni di De Andrè, Battisti, le canzoni popolari napoletane, per aver recitato Totò, Eduardo de Filippo, per aver suonato la musica di diverse culture, lontane ma incredibilmente vicine. Un lungo abbraccio - conclude - che supera le sbarre, le barriere e profuma di libertà”. Lucera (Fg): musica ed emozioni “oltre le sbarre”, giornata senza barriere nel carcere immediato.net, 24 maggio 2019 Successo per lo spettacolo organizzato dal docente del Cpia1, Sergio Picucci. Sul palco, insieme con i cantanti ristretti, Micky Sepalone, Angela Piaf e Valerio Zelli. Accompagnamento musicale di eccezione con Stefano Capasso, Francesco Loparco e Antonio Moffa. I detenuti: “grazie di questa bella opportunità”. Un pomeriggio ricco di emozioni, senza barriere grazie alla musica. Ha riscosso grande successo la manifestazione organizzata da Sergio Picucci, docente di musica del Cpia1, il Centro Provinciale di Istruzione per Adulti di Foggia, presso la Casa Circondariale di Lucera. Dopo i saluti del direttore dell’Istituto Penitenziario, Valentina Meo Evoli, che ha voluto “ringraziare la Dirigente e i docenti del Cpia1 per l’impegno quotidiano e per la disponibilità mostrata nell’organizzazione del saggio finale”, Picucci ha presentato gli ospiti illustri che hanno animato l’evento musicale. “Vorrei un grande applauso - ha detto - per gli amici Micky Sepalone e Angela Piaf, noti professionisti foggiani che vantano innumerevoli concerti e collaborazioni con musicisti internazionali. Un ringraziamento particolare va a un artista di calibro come Valerio Zelli: autore, produttore discografico, cantante degli Oro e autore della musica del celebre brano “Vivo per lei”, che ha accettato il mio invito senza alcuna esitazione. Questo pomeriggio tutti gli artisti e i cantanti in erba saranno accompagnati da musicisti di grande valore come Stefano Capasso (piano); Francesco Loparco (chitarra) e Antonio Moffa (batteria). Uno spettacolo che ha due particolarità: il 90% dei cantanti ristretti calcherà per la prima volta il palco e tutti loro hanno conosciuto i musicisti solo mezz’ora fa, senza avere possibilità di provare”. Le esibizioni, presentate per l’occasione da Gregorio, sono risultate particolarmente toccanti. Antonio ha eseguito “Un senso” di Vasco Rossi e “La Forza della Vita” di Paolo Vallesi, Gregorio e Nicola “L’ora dell’amore” dei Camaleonti, Miguel “Il Carrozzone” di Renato Zero, Christian “Tu si’ na cosa grande” di Domenico Modugno e “Lo specchio dei pensieri” di Gigi Finizio, Mimmo e i coristi “Ricordati di Chico” dei Nomadi - ispirando alcuni passi di danza tra i presenti - e Costantino “Più su” di Renato Zero. Il tempo amico, nemico e spunto di riflessione. Questo è stato il tema conduttore della manifestazione, la cui atmosfera è stata scaldata da Micky Sepalone e Angela Piaf con alcuni classici della canzone napoletana come “‘A città ‘e pulecenella”, “Senza giacca e cravatta”, “Reginella” e “O’ sarracino”. Valerio Zelli, invece, ha commosso la platea con “Vivo per lei”. “Sono particolarmente emozionato - ha detto - e grazie a questa esperienza ho imparato una lezione. Ho il privilegio di appartenere alla musica, un linguaggio comune che supera ogni barriera e oggi ce lo siamo donati a vicenda. Vi ringrazio per queste emozioni: ho cantato tre volte a Sanremo e in grandi stadi, ma raramente ho provato sensazioni forti come quelle di oggi”. Al termine dello spettacolo, Costantino - a nome di tutti i detenuti - ha voluto ringraziare “il maestro Picucci per la pazienza e la caparbietà con cui ha portato avanti il progetto musicale. Un ringraziamento particolare vogliamo farlo al direttore Valentina Meo Evoli - ha sottolineato - al funzionario pedagogico Cinzia Conte, al Comandante Daniela Raffaella Occhionero, all’assistente Capo Raffaele Prencipe e a tutto il corpo di Polizia Penitenziaria per la disponibilità e per l’organizzazione. Grazie ancora al Cpia1, che ha reso possibile tutto questo”. In platea, anche Annalisa Graziano del Csv Foggia e Luigi Talienti, vicepreside del Cpia1 che ha portato i saluti della dirigente e ringraziato “il collega e amico Picucci. Questa iniziativa dimostra come tutti i progetti realizzati con il cuore abbiano sempre un valore aggiunto”, ha detto. La manifestazione si è conclusa con una esibizione corale di “O surdato ‘nnammurato”. Lo spettacolo è stato inserito nel calendario degli eventi programmati dall’Istituto Penitenziario di Lucera per celebrare “Matera Capitale della Cultura”. Roma: anche il calcio a 5 femminile nella Polisportiva Atletico Diritti di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 maggio 2019 La squadra femminile di calcio a 5 della Polisportiva Atletico Diritti. Da qualche mese la Società Polisportiva Atletico Diritti, costituita nel 2014 dalle associazioni Progetto Diritti e Antigone con il patrocinio dell’Università di Roma Tre, ha aggiunto alle squadre di calcio maschile, cricket, basket e calcio a 8, una nuova formazione, il calcio a 5 femminile composto da detenute dell’istituto penitenziario di Roma Rebibbia “Germana Stefanelli”. Tutte le squadre della Polisportiva sono composte da migranti, rifugiati, persone in esecuzione della pena e studenti universitari in quanto scopo del progetto è utilizzare lo sport come laboratorio di inclusione sociale. L’ultima squadra nata, composta da detenute dell’istituto penitenziario di Rebibbia, è allenata da Carolina Antonucci in forza alla Res Women (campionato di Eccellenza) come centrocampista e difensore centrale nonché dottoranda in Studi Politici e ricercatrice per Antigone. Ad allenarsi da ottobre scorso sono circa 20 donne, italiane, sudamericane e subsahariane. Una risposta all’iniziativa che ha sorpreso gli operatori. “Non mi aspettavo questa adesione - confessa l’allenatrice - perché mi avevano detto che le donne in carcere sono meno motivate e partecipative. Probabilmente dipende anche dal tipo di sport che viene proposto. Nel calcio c’è entusiasmo e condivisione”. Una delle prime formazioni incontrate dalla squadra delle detenute nel campo di Rebibbia è stata la Nazionale delle parlamentari. Qualche giorno fa è stata la volta della “Partita del sorriso” a sostegno della lotta all’endometriosi, incontro con una rappresentanza di donne vincitrici del concorso Miss Mamma Italiana conclusosi con la vittoria della squadra che giocava “in casa”. Ma quali gli obiettivi in prospettiva dell’iniziativa? “Ci piacerebbe partecipare a un torneo vero per far conoscere alle calciatrici l’aspetto più autenticamente sportivo. Ma vorremmo anche contribuire a ribaltare l’idea di un diritto allo sport “femminile” che oggi comprende in carcere sport ritenuti più adatti alle donne, mentre all’esterno ormai da molti anni non sono più riservati solo agli uomini”. Roma: porto il messaggio di Francesco nelle “mie” prigioni di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 24 maggio 2019 A colloquio con suor Rita, volontaria a Rebibbia e a Paliano. Due smartphone, una borsa di ordinanza, uno zainetto, un’agenda piena di appuntamenti e una lunga lista di cose da fare. Ha all’attivo cinque pubblicazioni e gira con un cd che racconta la sua esperienza. Nel 2015 il comune di Roma l’ha inserita tra le donne che più si sono distinte nei specifici ambiti di servizio, premiandola in Campidoglio. Non è l’identikit di uno “squalo” di Wall Strett anni 80, ma di un angelo del carcere, una mamma di tanti ragazzi che in lei confidano, alla quale raccontano i loro drammi e le loro speranze per un domani migliore. Suor Rita Del Grosso è una religiosa canossiana ultraottantenne (“Non mi chieda l’età, non è elegante”, irrompe subito) che dal 2004 si divide tra la Casa di Reclusione di Paliano, quella di Rebibbia e, quando è possibile, non disdegna un passaggio anche a Civitavecchia e Viterbo. “Se dovessi riassumere in una battuta il risultato più importante raggiunto, direi che è il Grazie che mi viene detto dai ragazzi che hanno trovato conforto nella mia parola e nel mio sostegno. Alcuni di loro mi hanno ricontattata anche dopo la loro detenzione e questo mi ha riempito il cuore di gioia”. Suor Rita parla con pacatezza, ma si accende immediatamente nel momento in cui descrive il suo mondo. E puntuale arriva la prima richiesta: “Scrivi, e sottolinea, che l’esperienza del carcere non è per tutti un periodo buio e di violenza. Dipende da come ci si rapporta e soprattutto da quanto le istituzioni riescono ad ascoltare le esigenze di chi vive dietro le sbarre. In alcuni casi si può davvero rinascere”. Il pensiero della religiosa è tutto nei titoli delle sue pubblicazioni: La misericordia libera e trasforma più di ogni pena, Pensieri in libertà, Echi dal silenzio, Romanzo e realtà, Vite nascoste, Sprazzi di luce fra intricati rovi. “Invito i ragazzi a raccontare il loro vissuto attraverso la scrittura. Raccolgo i lavori e chiedo un po’ in giro di sostenere le spese per la pubblicazione. I soldi arrivano sempre anche se quando si parla di carcere non si è mai ben accolti. Ma io sono testarda”. E lo sanno bene quanti collaborano con lei. Tutti i volontari, le educatrici, gli agenti di Polizia penitenziaria, direttori e direttrici degli Istituti di pena che la frequentano lamentano, con simpatia, il suo essere “eccessivamente” determinata nel raggiungere gli obiettivi. Da qualche anno la accompagna un soprannome, “Suor Stalker”, che a mala pena tollera ma giustifica così: “Se non mi fossi comportata in questo modo non avrei mai portato la Croce della Gmg in carcere con i ragazzi del Centro San Lorenzo, non avrei pregato con i detenuti ai piedi della Madonna Pellegrina, non avrei organizzato concerti e persino uscite speciali. Su tutte ricordo quella alla Cappella Sistina”. Già perché Suor Rita è riuscita anche a formare una comitiva di detenuti, guardie e personale amministrativo e andare in Vaticano ad ammirare la volta di Michelangelo. Ma come nasce questa vocazione: “Ho insegnato per venti anni religione e successivamente ho prestato servizio nel settore della formazione dell’Unione superiore maggiori d’Italia. Poi il carcere” Come? Le chiedo. Non risponde immediatamente perché uno dei due cellulari continua a squillare. “Mi perdoni, ma devo rispondere. Forse ho trovato lo sponsor per il prossimo libro”. Riprendiamo il colloquio dopo qualche minuto, senza chiedermi di riformulare la domanda: “Quindici anni fa una mia consorella mi chiese di darle una mano. Da lì cominciò tutto. Le ricordo che Santa Maddalena (di Canossa ndr) volle che le sue figlie si chiamassero Figlie della carità, serve dei poveri. Chi è più povero di un carcerato?”. Le chiedo se utilizza una strategia comunicativa particolare per entrare in sintonia con i detenuti e farsi accogliere con grande benevolenza. Mi guarda e mi accorgo ha una risposta pronta: “Faccio esattamente quello che fa Papa Francesco quando si reca in carcere: ascolto. In fondo chi è il detenuto? È una persona ferita che necessita di cure. La migliore è proprio quella di prestare orecchio a ciò che vuole raccontarti. Nulla di più”. Già, ma come si rapporta con i suoi “ragazzi”? “Molto dipende dalla disponibilità al dialogo e all’apertura. La maggior parte ha vissuto esperienze che hanno segnato la loro infanzia e la loro adolescenza. Alcuni hanno fatto parte di associazioni malavitose legate alla camorra, diventando autentici rifermenti delle organizzazioni”. Suor Rita si occupa soprattutto dei collaboratori di giustizia e si commuove quando parla delle donne: “Per le signore il percorso della detenzione è duro perché sono anche mamme. All’inizio non penseresti mai di poter parlare con una persona che ha commesso gravissimi reati, ma poi lo scenario cambia. Le vedi che chiedono aiuto e si pongono con gentilezza e disponibilità al lavoro. Sanno fare tante cose e si esprimono con la loro manualità. Parlano spesso dei figli e questo è già un segno di cambiamento molto importante”. Il suo cellulare riprende a squillare. Deve ultimare i preparativi per una visita in carcere molto particolare. “Ho invitato i ragazzi di alcune scuole superiori. Credo che possa essere un’esperienza formativa”. Nel frattempo appunta orari e predispone i permessi per gli accessi. Ma prima di lasciarci mi rivela la fonte della sua energia e della sua determinazione: “Ho incontrato due anni fa Papa Francesco nel carcere di Paliano in occasione della Messa in Cena Domini. Stringendomi le mani con forza, mi ha detto: “Brava!”. La voce rotta dalla commozione riprende la sua consueta tonalità nel momento in cui l’ennesimo trillo interrompe la nostra conversazione. Questa volta è un messaggio: “Permessi accordati, l’evento si farà”. Lo legge ad alta voce e si congeda dicendo: “Ovviamente verrà anche lei. Le invierò l’invito. Quando esce l’intervista? Sa, devo comunicarlo ai miei ragazzi. Sono contenti quando parlo di loro”. “La cura delle norme”. La giustizia senza risentimento di Velania La Mendola cattolicanews.it, 24 maggio 2019 È dall’intreccio di corruzione delle norme e dei saperi che sorge il bisogno di cura (anche nel senso di prendersi cura) che dà il titolo al libro del professor Gabrio Forti. Un appello contro la patologia dell’eccesso di sanzioni presenti nell’ordinamento. “La cura delle norme” (Vita e Pensiero) Sentenze dei tribunali al vaglio di trasmissioni tv, giustizia fai da te, avvocati del popolo, processi online: la legge in Italia non è affare di pochi e non lo è mai stata. “E non dovrebbe esserlo” ci dice Gabrio Forti, in tutti altri toni, nel libro La cura delle norme. Oltre la corruzione delle regole e dei saperi (Vita e Pensiero). Abbiamo incontrato l’autore, professore di diritto penale dell’Università Cattolica e direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale, per capire meglio lo stato di salute della nostra giustizia e quanto questo ci riguardi. Professore, di quale malattia soffre il diritto penale? “Di eccedenza. Il “troppo” di sanzioni presenti nell’ordinamento, tanto proclamate quanto poco applicate, ne mina alle fondamenta credibilità ed efficacia. Tale patologia che coinvolge l’intero ordinamento - e che nel libro viene definita “corruzione delle norme” - produce un effetto anche più grave della inflazione prodotta dall’eccesso di “moneta” punitiva”. Quale? “Un’erosione di quelle risorse morali e sociali che dovrebbero prevenire e regolare i conflitti ben prima che questi si presentino, ormai incancreniti e incurabili, al cospetto di giudici e pubblici ministeri. È come se la foresta straripante e infestante di norme e sanzioni giuridiche togliesse ossigeno all’etica pubblica e privata, ne soffocasse la crescita, generando una sorta di tossicodipendenza regolativa, nella forma di un bisogno compulsivo e compensatorio di sempre più norme, sempre più sanzioni, illudendosi di trarne aria per il proprio respiro. Una sorta di malattia autoimmune del sistema a ingravescenza progressiva che attacca le basi della convivenza e contribuisce a generare infelicità, oltre che aggressività diffuse”. C’è quindi un legame tra l’erosione del diritto e quello della conoscenza? “Per intervenire in modo misurato e proporzionato, non “eccedente”, norme e sanzioni devono essere preparate dallo studio e dalla conoscenza dei problemi che pretendono di affrontare. Nel libro si descrive il perverso circolo vizioso che spinge a mascherare l’inadeguato approfondimento delle situazioni da regolare (che richiederebbe competenze nelle istituzioni e amministrazioni, per la raccolta di dati, la consultazione di esperti, l’ascolto delle comunità interessate, ecc.) con una corsa al rialzo dei divieti e delle punizioni, utili solo per esibire un impegno tanto appariscente quanto privo di una reale potenzialità di cambiamento. Il che produce effetti erosivi sulla stessa cultura di un paese”. Qual è il rischio? “Si finisce per accreditare una visione antropologica deteriore, l’idea di un essere umano concepito come un automa meccanico, reattivo e obbediente ai soli stimoli dolorosi che gli vengano sventolati sotto il naso e non invece convinto a osservare le norme dalla loro rispondenza a valori condivisi e dalla loro effettiva capacità di orientare le condotte. È da questo intreccio di corruzione delle norme e dei saperi che sorge il bisogno di cura (anche nel senso di “prendersi cura”) che dà il titolo al libro”. Il suo libro è un continuo incrociarsi tra diritto, vita e letteratura, un caleidoscopio di letture che spaziano tra secoli e generi, unite da un comune denominatore: l’alterità. Sia nel senso di aprirsi all’altro, sia in quello di non seguire la massa ma trovare una via insolita, meno battuta. Ma cosa ha a che fare l’alterità con la legge che è fatta da regole ben precise? “La legge deve saper trovare parole giuste che rendano il più possibile giustizia alla molteplicità dei mondi umani. Il che vuol dire saper tradurre in norme le narrazioni delle persone, l’attenzione alle loro storie, anche le più diverse e “altre”. Perché solo la comprensione senza modelli astratti e precostituiti delle situazioni sociali su cui si vuole agire beneficamente è in grado di realizzare in modo persuasivo e non retorico le condizioni di una buona convivenza, che sono poi anche quelle conformi a i principi enunciati dalla nostra Costituzione. Altrimenti la legge si riduce a vuota declamazione, adeguandosi al modo in cui la intendeva l’avvocato Azzecca-garbugli interpellato da Renzo: uno strumento per perpetuare gli arbitrii del potente di turno e lasciare le persone comuni prive di difese. È significativo il monito che si sente dire nell’ultimo capitolo dalla voce di Ifigenia, a non appigliarsi alla legge “avidamente per farne un’arma alle nostre brame”. Tra tutti gli scrittori citati è appunto Goethe il protagonista dei suoi ragionamenti, per lei autore-nume della giustizia. Perché proprio lui? “Goethe è stato definito un uomo che “non conosceva il risentimento”. Basterebbe forse solo questo per rispondere alla sua domanda. Non è un ideale da poco, nella nostra epoca della rabbia, del livore e del risentimento”. “Ecco il mio Buscetta, rinnegò la mafia per la sua famiglia” di Chiara Nicoletti Il Dubbio, 24 maggio 2019 Marco Bellocchio in concorso a Cannes con “Il traditore”. A giocarsi le sue carte per ultima in concorso al 72esimo Festival di Cannes è proprio la nostra Italia che però sferra direttamente il colpo da maestro, l’asso nella manica dal nome di Marco Bellocchio. Il maestro di Bobbio rappresenta il nostro paese con Il traditore, film su Tommaso Buscetta, il primo grande pentito di mafia, detto anche “il boss dei due mondi” che sul grande schermo è interpretato da Pierfrancesco Favino. Dalla guerra di mafia degli anni 80’ alla fuga in Brasile, Il traditore ripercorre i momenti fondamentali della vita di Buscetta, concentrandosi non solo sulle vicende pubbliche di questo personaggio ambiguo e tormentato, ma su quelle che hanno coinvolto e mosso il suo privato: dall’uccisione dei suoi due figli e di suo fratello a Palermo mentre Buscetta era in esilio forzato fino al momento del compromesso, del “tradimento”, quando dall’incontro con Giovanni Falcone, Buscetta deciderà di prendere una decisione irreversibile, quella di tradire Cosa Nostra. L’Italia tutta ricorda ancora oggi le conseguenze di quella scelta, il maxi processo e la vendetta di Totò Riina che si abbatté su Falcone e la sua scorta. Marco Bellocchio si è avvicinato a questa storia su proposta del produttore Beppe Caschetto che ha visto nel regista di I pugni in tasca, la persona più adatta a trattare questo tema con le corde e i toni giusti. A Cannes il maestro descrive il suo approccio a questa pagina di storia d’Italia e cronaca nera: “Ho letto giornali, libri, incontrato persone che lo avevano personalmente conosciuto. Da questa conoscenza ho imbastito un soggetto e poi la sceneggiatura, studiando il personaggio. La mia vita privata apparentemente è del tutto estranea a questi avvenimenti ma con gli sceneggiatori poi ci siamo impadroniti di questa storia”. Un lavoro totalmente diverso dal solito per Marco Bellocchio che parte da un differente tipo di fascinazione rispetto a quella che l’ha mosso cinematograficamente in passato: “Buscetta è diverso dai personaggi affascinanti della mia cultura e tradizione. Lui era un uomo ignorante. A differenza di certi mafiosi, amava la vita e tradiva la moglie”. Su queste particolarità che caratterizzano il pentito, Bellocchio aggiunge. “Questo personaggio non è un eroe ma un uomo coraggioso che rischia la propria vita e non vuole essere ucciso così e la difende così come difende la sua famiglia e i suoi figli, una sua tradizione. È un traditore conservatore. Un uomo che vuole difendere il suo passato”. Fin dall’annuncio della sua partecipazione a Cannes, Marco Bellocchio aveva sottolineato come Il Traditore si distaccasse da tutti i suoi film precedenti e fosse vicino solo a Buongiorno Notte, perché i personaggi si chiamano anche qui con i loro veri nomi. Rievocando il suo passato però, il regista ha riscoperto la definizione e il cuore dei film che si facevano un tempo, quelli di denuncia sociale. “Il traditore”, per seguire questo filone, è un film civile, per dichiarazione dello stesso maestro e si pone da contrappunto ad una tendenza moderna che vorrebbe vedere trattati questi temi e questi personaggi dal fascino ambiguo in versione seriale: “I film civili la televisione li ha ammazzati tutti. Quel cinema non c’è più. Se vuoi fare un film del genere, ti devi inventare qualcosa e non devi seguire la convenzione televisiva” ha rimarcato il regista. Come ha raccontato a Malcom Pagani su Vanity Fair, Pierfrancesco Favino si è fatto avanti con Marco Bellocchio, convincendolo a dargli una possibilità concreta per interpretare Buscetta. Dai racconti di Favino infatti, sembra che nonostante la sua consolidata bravura, il maestro non si fosse fatto sentire per confermargli il ruolo. Evidentemente era destino perché “Il traditore” si poggia tutto sull’attore e lo fa centrando il bersaglio perché Pierfrancesco Favino non è mai stato così bravo come nei panni di Buscetta che grazie a lui diventa persona e non personaggio. Sul lavoro fatto Favino rivela: “Tutto quello che sappiamo di Buscetta è quello che lui voleva far vedere. Si è costruito una memoria di sé, dai libri alle interviste, scegliendo anche cosa mostrare o meno. Un fine stratega anche nella comunicazione. Figlio di vetraio, si era fatto varie plastiche facciali e il primo tradimento lo fece nei confronti della sua famiglia (non di origine mafiosa), scegliendo la vita criminale”. Attraverso Pierfrancesco Favino e una ricerca al motore delle azioni dell’uomo Buscetta e della leggenda criminale, Marco Bellocchio indaga e analizza i codici mafiosi, una vecchia e una nuova mafia, ognuna con le sue regole d’onore o anarchia. Sul fascino del personaggio e sul suo “compromesso” e rapporto rispettoso con Giovanni Falcone, Pierfrancesco Favino racconta: “Il fascino che emanava dipendeva da una leggenda. Non credo nell’amicizia con Falcone, credo che il giudice sia stato l’unica persona a manipolarlo. L’incontro con Falcone cambia Buscetta perché lo porta a credere fino in fondo alla realtà del proprio sogno”. Il Festival di Cannes si gioca le ultime carte ma ormai si ha la sensazione che il sipario si stia per chiudere. Nelle classifiche dei critici internazionali ad oggi imperano Dolor y Gloria di Pedro Almodovar e Parasites di Bong Joon Ho ma chissà che il nostro Marco Bellocchio non cambi le cose. Migranti. Il dolore degli altri di Massimiliano Coccia Il Foglio, 24 maggio 2019 Con quattro figli nel lager in Libia, dove per salvarti devi stare in silenzio e non reagire. Il dolore degli altri fa sempre un suono stridulo nelle coscienze di chi lo ascolta. Dopo mesi e mesi passati a disperarci per persone come noi, appese dentro un gommone, sospese dentro una barca in mezzo al Mediterraneo, persone che non conosciamo, di cui non sappiamo i nomi, sappiamo quasi a memoria le dinamiche di quelle esistenze, ma non conosciamo quasi mai le storie dei singoli esseri umani. Sono sempre diverse, così come ogni persona è diversa e unica. Assieme al collega Andrea Billau, per Radio Radicale noi andiamo a raccogliere queste storie, forse vogliamo costruire una città abitata di vite che non tutti hanno voglia di vedere. Dobbiamo dare un posto a queste persone anche nei racconti. E per quanto possiamo conoscere le rotte, le strade, le violenze, quando ti ritrovi davanti una famiglia di quattro persone che è partita dal Darfur ed è arrivata in Italia, lo sguardo si posa sui particolari più che sulla geopolitica dei flussi. Appena si siede davanti a me noto che Mohamed ha un viso ruvido, una barba incolta e tante cicatrici sul viso, porta male gli anni che ha, ma come potrebbe essere altrimenti. Fatima, sua moglie, è visibilmente più giovane ed è bellissima. I suoi lineamenti dolci, incastonati in uno scialle bianco che si avvolge intorno alla testa, mettono ancora più in risalto la sua pelle scura e delicata. Mohamed e Fatima si amano e insieme sono scappati da un inferno che si chiama Sud Sudan, raso al suolo dal conflitto del Darfur. Sono arrivati in Italia qualche settimana fa con un corridoio umanitario e ora se ne stanno a Rocca di Papa a “Mondo migliore”, un centro che guarda il lago di Castel Gandolfo, un posto dove si ricuce la vita. Appena incontro questa coppia noto i loro quattro figli, minuti e felicissimi, del tutto uguali a qualsiasi bambino italiano pieno di gioia e di energia. Per un momento penso che non sia possibile che abbiano vissuto la stessa traversata dei genitori e mi convinco che li abbiano messi al mondo dopo esser arrivati qui. Mi sembrano troppo felici per aver percorso le rotte dei trafficanti di uomini ed essere approdati in Libia e invece il padre mi racconta che sono partiti tutti e quattro, hanno attraversato il deserto e hanno provato per ben due volte ad arrivare in Italia: “Quando siamo arrivati a Tripoli abbiamo dato dei soldi a uno scafista perché ci portasse via da quell’inferno, la prima volta siamo stati riportati indietro dalla Guardia costiera libica che ci ha solo guidato dentro il porto, la seconda invece dopo averci maltrattato ci ha chiuso dentro un container e da lì siamo stati portati in un campo di concentramento”. Se piangi resti senza cibo per giorni - Lui mi dice a denti stretti per la rabbia che i figli sono stati presi a calci dalla Guardia costiera e che sono rimasti sporchi di nafta e sabbia per molti giorni. “Avrei dovuto difenderli di più, la mia rabbia nel vederli trattati così era tanta, ma cosa potevo fare?”. Una volta arrivati nel lager, Mohamed e Fatima vengono divisi. Da una parte lui, e dall’altra lei con i figli. Qua il suo volto si fa cupo e mi dice che in quel momento ha pensato che non li avrebbe rivisti mai più, anche perché “la Libia è razzista e piena di trafficanti di organi. A quel pensiero ho chiesto a Dio di farmi morire”. Fatima assiste al racconto del marito con sguardo serio, tiene al petto, Giusi, la più piccola, mentre parliamo la allatta. Vedere il corpo esile, piccolo di Giusi e raffigurarmela dentro un lager mi provoca un enorme dolore. Fatima racconta che il cibo dentro i lager era pochissimo e che se qualche bambino si lamentava veniva punito togliendogli per giorni interi quel poco riso che elargivano i carcerieri: affamavano i bambini. “Un giorno ho pensato che tutto sarebbe finito male, perché al campo maschile c’era stata una rivolta di prigionieri, chiedevano acqua e cibo e avevano sfondato un cancello. Ho visto partire dal nostro campo camionette che si sono lanciate contro i dimostranti - mi dice con le mani che adesso tremano - ho chiesto se Mohamed era vivo ma nessuno sapeva rispondermi. Sono stati giorni durissimi, con i bambini che chiedevano del padre”. Mohamed interrompe il racconto di Fatima, vuole specificare che il suo rimanere silenzioso, giudizioso non era perché non aveva coraggio ma perché aveva capito che solo col silenzio ci si salva. “Io sono fuggito per loro, per dargli un futuro diverso perché il futuro dalle nostre parti è per sottrazione. Si fanno tanti figli per sperare che almeno qualcuno sopravviva, a me ne sono sopravvissuti quattro”, mi dice Mohamed. “Il mio dovere adesso è farli essere felici qui e raccontare di tutti quei padri che non ce l’hanno fatta, di tutte quelle madri che si sono prostituite per dare un tozzo di pane in più ai figli. Io credo che loro saranno figli felici, credo che un giorno, quando saremo invecchiati, anche noi potremo cominciare a essere felici”. Migranti. Msf: i morti nel Mediterraneo non sono 2, come dice Salvini, ma 402 in 4 mesi La Repubblica, 24 maggio 2019 L’analisi e il ripristino della verità di Medici per i diritti Umani. Il rischio di perdere la vita cercando di raggiungere l’Europa, si è più che decuplicato dal 2017 al 2019. Da qualche giorno - si legge in un documento diffuso da Medici per i Diritti Umani (Medu) - si è scatenato un grottesco scontro sul numero dei migranti morti nel Mediterraneo, a seguito delle dichiarazioni del Ministro Salvini il quale, difendendo la sua politica anti-sbarchi, ha incautamente affermato: “Nel 2019 si sono avuti solo due morti nel Mediterraneo”. In un tweet successivo poi il ministro ha pubblicato, a sostegno delle sue tesi, una tabella con dati Unhcr riguardanti i cadaveri recuperati e i migranti morti/dispersi nel Mediterraneo negli ultimi 5 anni. Da questa tabella si capisce già che nei primi 4 mesi del 2019 i morti e dispersi nel Mediterraneo sono 402 mentre il numero di 2 è riferito ai cadaveri recuperati. La manipolazione dei numeri. La tabella di Salvini presenta poi altre inesattezze, dal momento che compara impropriamente i dati dei primi 4 mesi del 2019 con i dati sui dodici mesi dei quattro anni precedenti. Inoltre, i dati menzionati dal ministro si riferiscono alle morti in tutto il Mediterraneo, dalla coste turche a quelle spagnole, mentre i dati che avrebbe dovuto citare, eventualmente imputabili alle sue politiche, sono quelli relativi al solo Mediterraneo centrale. Ci sembra questo un esempio evidente di come anche i numeri e i dati possano essere manipolati per sostenere le tesi più improbabili. Cosa sta davvero accadendo nel Mediterraneo. Per poter cercare di comprendere in maniera obiettiva è necessario, prima di tutto, analizzare dati credibili. Il numero di cadaveri recuperati in mare non può fornire una stima attendibile di quanto sta accadendo, dal momento che recuperare i corpi dei naufraghi è di per sé già molto complicato, tanto più lo diventa in acque svuotate dalle navi di soccorso, quali sono oggi quelle del Mediterraneo centrale proprio in conseguenza delle misure adottate dal ministro dell’Interno. Se si vuole cercare di fare un’analisi seria, è necessario dunque prendere in considerazione le stime dei morti e dispersi. Questi numeri ci dicono che le vittime nel Mediterraneo centrale sono state, nei primi quattro mesi di ogni anno, 1.936 nel 2015, 966 nel 2016, 1.021 nel 2017, 379 nel 2018 ed infine 257 nel 2019. Ha dunque ragione Salvini? Il numero di morti, peraltro ancora tragicamente alto, sta comunque diminuendo? A nostro avviso assolutamente no, per alcune ragioni. Il rischio di perdere la vita si è decuplicato. Innanzi tutto se andiamo a vedere il numero di migranti sbarcati in Italia nello stesso periodo dei 5 anni vediamo che esso è drasticamente diminuito: 26.228 nel 2015, 27.926 nel 2016, 37.235 nel 2017, 9.467 nel 2018 e 779 nel 2019. Se andiamo poi a vedere il rapporto tra migranti che hanno perso la vita nel cercare di attraversare il Mediterraneo centrale e coloro che sono riusciti effettivamente ad arrivare sulle coste italiane, notiamo che esso è passato da 3 su cento nel 2017 a 32 su cento nel 2019. In altre parole, il rischio di perdere la vita, si è più che decuplicato dal 2017 al 2019. Ma c’è un altro fattore, a nostro avviso ancora più importante, che smentisce le affermazioni del ministro Salvini e riguarda proprio la diminuzione del numero degli sbarchi. Le morti in mare solo un aspetto della crisi migratoria. In effetti, le morti nel Mediterraneo sono solo un aspetto della crisi migratoria che stiamo vivendo. E analizzare solo una parte di una questione complessa come questa, non porta a una verità parziale ma piuttosto a una menzogna completa. Coloro che non riescono più a partire dalle coste libiche rimangono intrappolati nella inaudita violenza di quel paese, presente sia fuori che dentro le miriadi di strutture di detenzione e sequestro per migranti. Che tali centri, formali e informali, siano luoghi di tortura e morte per i migranti è accertato al di là di ogni ragionevole dubbio ed è stato documentato dalle migliaia di testimonianze dirette raccolte dagli operatori di Medici per i Diritti Umani. Chi si ostina a negare ciò o è ignorante o è in malafede, e se ha responsabilità politiche si assume una grave responsabilità storica. È dunque del tutto probabile che i morti in meno nel Mediterraneo vengano oggi controbilanciati da più torture e più morti tra le migliaia di migranti ancora intrappolati in Libia. La situazione non è dunque migliorata in questi mesi per chi ha cuore la dignità e la vita umana ma, se possibile, peggiorata. Necessario l’approdo in Paesi sicuri. Che fare dunque di fronte alla sfida dell’attuale flusso migratorio (si badi bene, migrazione forzata nella stragrande maggioranza di casi) in arrivo, in particolare, dall’Africa sub-sahariana? La complessità della questione richiede una risposta che va al di là dello scopo di questa breve analisi. Un intervento immediato a livello multilaterale è comunque certamente necessario: procedere all’evacuazione verso paesi sicuri, in grado di assicurare protezione internazionale, di tutti i migranti oggi ancora detenuti nei centri di detenzione ufficiali libici. Sarebbe per lo meno un primo passo da parte della comunità internazionale che porta oggi la responsabilità di una pressoché totale indifferenza di fronte a una tragedia che sta segnando il nostro tempo. Migranti. Sea Watch: migranti in mare senza soccorso. La Marina: recuperati dai libici di Adriana Pollice Il Manifesto, 24 maggio 2019 Il senatore De Falco e Mediterranea: riportati nell’inferno. Intorno alle 15 di ieri la Ong tedesca Sea Watch lancia l’allarme via social: “Il nostro aereo Moonbird ha documentato l’intercettazione e il respingimento di due imbarcazioni da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ci sono possibili casi ancora aperti e senza assistenza”. Il caso ancora aperto era un terzo gommone e questa volta l’accusa da parte dei volontari è più grave: la Marina militare italiana sapeva del naufragio e non è intervenuta. Dalla Libia ieri sarebbero partiti tre gommoni con circa 80 persone a bordo ciascuno. I primi due sono stati intercettati a poche miglia l’uno dall’altro dalla stessa motovedetta, la Sabratha, e riportati sulla costa africana. Il terzo natante è stato avvistato a nord est di Tripoli. Il Moonbird ha documentato con immagini e video i tubolari sgonfi, un lato già sotto il livello dell’acqua e almeno una decina di migranti già in mare, panico e urla a bordo perché continuava a entrare acqua. Secondo Sea Watch, a circa 30 miglia del gommone si sarebbe trovava la nave della Marina italiana, Comandante Bettica. Dal Moonbird sono partite le segnalazioni alla motovedetta italiana “inizialmente senza risposta”: “Dopo aver inviato un messaggio di Mayday Relay, l’aereo è riuscito a contattare la nave militare che ha informato l’equipaggio che una motovedetta libica stava per intervenire”. Quindi si sarebbe alzato in volo l’elicottero dalla Bettica verso il gommone in difficoltà. L’aereo di Sea Watch è riuscito ad avvistare la motovedetta di Tripoli Fezzan mentre recuperava i naufraghi. A Sea Watch la Marina ha risposto via social: “Avvistato natante in difficoltà dalla Ong. La Bettica a 80 chilometri ha inviato il proprio elicottero per supporto. Con elicottero in zona ha constatato l’avvenuto recupero dei migranti da parte della motovedetta libica in zona Sar libica”. Caso chiuso. Ma il senatore Gregorio De Falco, da capitano della Guardia Costiera, ieri ha commentato via social: “La Bettica si sta tenendo volontariamente a distanza lasciando il campo libero a una motovedetta libica per riportarli indietro. Se fosse vero sarebbe un fatto gravissimo: non si può consentire che uomini, donne e bambini siano rimandati in quell’inferno che è la Libia”. Attacca anche Mediterranea saving humans: “La Marina ha assistito dall’alto alla cattura, da parte di una motovedetta libica, di 80 persone che saranno riportate nell’inferno di violenze e abusi da cui cercavano di fuggire. E c’è chi festeggia la deportazione in Libia di oltre 200 persone”. Il riferimento è a Salvini che in mattinata aveva diffuso la notizia: “Duecento clandestini su due gommoni recuperati dalla Guardia costiera libica. Chi parla di porti aperti aiuta gli scafisti”. Al leghista va bene appaltare i respingimenti a Tripoli, 250 riportati indietro ieri. L’Oim ha spiegato: “Gli scontri armati nella capitale aumentano di intensità. Non ci sono porti sicuri in Libia. Dal 4 aprile la periferia meridionale di Tripoli è oggetto di violenti scontri armati tra le forze del governo di accordo nazionale e dell’esercito nazionale libico che hanno causato finora circa 80mila sfollati e oltre 500 morti”. Secondo l’Onu, ci sarebbero 3.400 migranti e rifugiati intrappolati nei centri di detenzione esposti ai combattimenti. Libia. Oltre alle bombe è cominciato il saccheggio di Alberto Negri Il Manifesto, 24 maggio 2019 Lontano dai riflettori del duello Haftar-Sarraj, l’International Crisis Group (Icg), think tank basato a Bruxelles, spiega che in Libia è iniziata una guerra economica. Spartizione e saccheggio delle ricchezze della Libia sono a un punto di svolta. Mentre il generale Haftar, dopo la visita Parigi da Macron, e Sarraj da Tripoli non sono ancora disposti a una tregua, gli italiani in Libia hanno un insolito destino. A un altissimo prezzo di sangue - 80 mila morti - unificarono al tempo del fascismo Tripolitania e Cirenaica e dal 2011 a oggi stanno assistendo alla sua disgregazione. Senza contare nulla, alla faccia degli odierni sovranisti. In Libia ora abbiamo due governi antitetici, due banche centrali, due industrie petrolifere: un dualismo tra Est e Ovest che i libici pagano con morti, profughi, un’economia erratica e un futuro assai incerto. Così come pagano i migranti africani abbandonati al loro destino in una “Tortuga del Mediterraneo” che arriva fino a Lampedusa. L’Europa, sul dramma, non batte un colpo. Saranno gli Stati uniti di Trump, le monarchie del Golfo e forse la Francia a decidere. Altro che politica estera europea comune. Lontano dai riflettori del duello Haftar-Sarraj, l’International Crisis Group (Icg), think tank basato a Bruxelles, spiega che in Libia è iniziata una guerra economica. L’avanzata del 4 aprile del generale Khalifa Haftar, secondo Igc è diretta conseguenza della divisione in corso da quattro anni tra Banca centrale insediata a Tripoli e filiale orientale della Cirenaica. L’obiettivo di Haftar di assumere il controllo della Banca centrale di Tripoli potrebbe aver contribuito alla scelta dei tempi della sua offensiva. Ad aprile infatti la Banca centrale tripolina ha iniziato a imporre restrizioni ad alcune banche dell’Est che da sole coprono il 30% del mercato. Se si dovesse arrivare a un “congelamento” delle loro attività sarebbe in pericolo la capacità di Haftar di pagare dipendenti dell’amministrazione e forze militari. Il governo della Cirenaica rischia la bancarotta: la Banca centrale dell’Est, con base ad Al Bayda, ha un debito con l’Ovest di 40 miliardi di dinari, circa 25 miliardi di dollari. Ed è proprio per questo che la Cirenaica è ricorsa alla Russia per far stampare 10 miliardi di dinari e Haftar ha chiesto il sostegno finanziario di Arabia Saudita ed Emirati, i due sponsor del Golfo che con l’Egitto vogliono far fuori i Fratelli Musulmani di Tripoli. Questa probabilmente è anche la ragione per cui il generale ha dovuto accelerare la sua offensiva: le casse rischiano di restare vuote. Di fronte allo stallo militare e alla crisi finanziaria, il generale potrebbe avviare anche una guerra del petrolio. Ma una mano potrebbe arrivare proprio dagli Usa, con l’assenso di Francia, Russia e il contributo delle monarchie del Golfo. Il problema di Haftar è che per ora con il petrolio può fare poco. Controlla molti pozzi, tra questi il maggiore, quello di Sharara, gestito dalla Noc con la spagnola Repsol, la francese Total, l’austriaca Omv e la norvegese Equinor, e anche il giacimento di El-Feel dove opera l’Eni. Haftar ha inoltre militarizzato i porti e i terminali di esportazione dell’oro nero, come Ras Lanuf ed Es Sider. Ma non può esportare il greggio: le risoluzioni Onu autorizzano solo la Noc, la compagnia di Stato, a venderlo mentre le entrate delle esportazioni vengono depositate alla Banca centrale di Tripoli. Insomma, è tagliato fuori dal bottino del Paese: oggi la produzione di greggio libico supera il milione di barili al giorno e nel 2018 le entrate petrolifere sono state intorno ai 24,4 miliardi di dollari, ma sono in aumento anche per l’impennata delle quotazioni sui mercati internazionali. Il capo della Noc, Mustafa Sanalla, in un articolo su Bloomberg, afferma di avere le prove che Haftar esporta già illegalmente il suo petrolio aggirando le risoluzioni Onu e la compagnia di Stato. In realtà il generale cerca di ottenere il via libera degli americani all’export petrolifero soprattutto dopo la famosa telefonata avuta con Trump che lo ha riconosciuto nel ruolo di Maresciallo “nella lotta al terrorismo”. Per facilitare i suoi rapporti con Washington Haftar ha assunto una società di lobbyng americana, anche per contrastare le mossa della Noc che ha aperto un ufficio a Houston, capitale petrolifera degli Usa. Ma neppure le società europee hanno smesso di puntare al petrolio libico: per il Financial Times, Total e Siemens chiedono nuove concessioni al governo della Cirenaica. Al di là delle solite ipocrite dichiarazioni ufficiali, la soluzione per ora appare quella della spartizione delle ricchezze della Libia: un bottino tra gas, petrolio e le quote di partecipazioni bancarie, societarie e conti del Fondo sovrano libico (Lia) stimato 130-150 miliardi di dollari. Il saccheggio può cominciare. Stati Uniti. Incriminato Assange con 17 capi d’accusa di Stefania Maurizi La Repubblica, 24 maggio 2019 Nei confronti del fondatore di Wikileaks presentate accuse sulla base dell’Espionage Act per avere cospirato per ottenere e pubblicato informazioni classificate. È lo scenario che da nove anni a questa parte ha preoccupato Julian Assange e la sua organizzazione WikiLeaks così tanto da spingerlo a rifugiarsi dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove è rimasto fino all’11 aprile scorso, quando è stato arrestato. E ora questo scenario è realtà: le autorità americane hanno appena incriminato il fondatore di WikiLeaks utilizzando l’Espionage Act, una legge draconiana del 1917, pensata per i traditori che passano informazioni al nemico. È la stessa legge che nel 1973 gli Stati Uniti cercarono di usare contro Daniel Ellsberg per la rivelazione dei Pentagon Papers, documenti top secret sulla guerra in Vietnam. Una scelta questa che portò a un’epica battaglia per la libertà di stampa, combattuta in tribunale e che verteva sul diritto di pubblicare quelle informazioni seppure coperte da segreto di Stato. La scelta di incriminare Julian Assange ai sensi dell’Espionage Act farà molto discutere, perché di fatto con essa si equipara il giornalismo a un atto di spionaggio. L’Espionage Act non consente alcuna difesa ai giornalisti e ai giornali: non possono proteggersi in tribunale dalle accuse dicendo che i documenti segreti pubblicati hanno permesso di rivelare crimini di guerra o contro l’umanità, stupri, torture nel pubblico interesse, perché l’Espionage Act non riconosce questo pubblico interesse. È per questa ragione che l’applicazione ai giornalisti è estremamente controversa e di fatto è la prima volta nella storia degli Stati Uniti che viene usato contro un giornalista, come fa notare il New York Times e ora rimane da vedere se per Julian Assange e per WikiLeaks si aprirà una battaglia legale della portata di quella sul caso dei Pentagon Papers e se i giornali che con WikiLeaks hanno pubblicato i documenti segreti del governo americano - tra cui il nostro giornale - verranno incriminati.