Gli agenti ci sono, ma dislocati male. Mancano invece educatori e lavoro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2019 Pochissimo lavoro per i detenuti. Per la stragrande maggioranza dei casi è poco qualificante e sono solo di poche ore al mese. Il personale di polizia ha un rapporto tra agenti e detenuti più alto rispetto alla media europea, ma è dislocato in maniera disomogenea, senza parlare degli educatori, quasi inesistenti. Questo lo si è potuto constatare grazie all’aggiornamento delle schede on line, istituto per istituto, che si trovano sul sito del ministero della Giustizia. Non appena messe on line, con gli aggiornamenti, le schede su ciascuno dei 190 istituti penitenziari avevano finalmente consentito di rilevare l’effettiva capienza. Rispetto ai 50.561 posti regolamentari, Rita Bernardini del Partito Radicale, ha potuto constatare che ben 3.704 sono i posti non utilizzabili. Pertanto la capacità ricettiva regolamentare è di 46.857 posti, a fronte di una presenza al 30/ 4/ 2019 di 60.529 detenuti con un sovraffollamento del 129%. Ma le schede aggiornate hanno consentito sempre all’esponente del Partito Radicale, anche di sapere quante unità di polizia penitenziaria sono effettivamente assegnate agli istituti rispetto ai numeri previsti dalla pianta organica. Un lavoro certosino, quello della Bernardini, che ha messo in luce che la pianta organica di 37.211 agenti risulta sguarnita di 4.074 unità, con una scopertura dell’ 11%. Gli agenti assegnati agli istituti penitenziari sono in totale 33.137 e ciò senza considerare malattie, ferie, legge 104, permessi, maternità. Quindi il rapporto è di 1 agente ogni 1,8 detenuti. Va tutto bene? Assolutamente no. Si va dalla Casa circondariale di Caltagirone dove per 521 detenuti ci sono solo 149 agenti (3,5 detenuti ogni agente) o Poggioreale, dove per 2.364 detenuti ci sono 790 agenti (3 detenuti ogni agente), alla Casa circondariale di Novara dove il rapporto è 1 a 1 (186 detenuti per 191 agenti), mentre ad Alba dove, a fronte di 46 detenuti ci sono 104 agenti. “Il problema - spiega a Il Dubbio Rita Bernardini - non è quindi il numero degli agenti che è ben superiore rispetto agli altri paesi Europei, dovrebbero non solo essere distribuiti equamente, ma anche organizzati in maniera diversa. Se ad esempio - aggiunge - si cominciassero a mettere le videosorveglianze, non servirebbero tanti agenti”. L’esponente del Partito Radicale fa anche un esempio: “Al carcere di Lecce, spendendo pochi soldi, il comandante della polizia penitenziaria ha allestito una sala di regia dove un agente può controllare se va tutto bene e gli agenti stessi sono anche più contenti e possono subire meno stress lavorativo”. Per quanto riguarda gli educatori, l’esponente radicale ricorda che, con la legge Madia, il numero totale era stato inopinatamente ridotto dai già insufficienti 1.376 a 999. Quel che sconcerta però è che l’insufficiente pianta organica di 999 unità non è nemmeno coperta nelle previsioni di legge. Secondo i dati riportati nelle schede degli istituti penitenziari, in Pianta Organica figurano infatti 884 educatori (115 in meno) e di questi, effettivamente assegnati ce ne sono solo 808: numero sulla carta perché non considera ferie, legge 104, permessi, maternità. Comunque, prendendo per buoni questi numeri, vuol dire che ogni educatore deve seguire almeno 75 detenuti. Anche qui, come per gli agenti, Rita Bernardini ha potuto constatare che si registrano forti squilibri da carcere a carcere. Se nella casa circondariale di Isernia ad un educatore sono affidati solo 9 detenuti, a Potenza 13, o a San Cataldo in Sicilia 29, troviamo le realtà di Genova Marassi ad un educatore corrispondono 120 detenuti, di Taranto con un educatore ogni 156 detenuti o Santa Maria Capua Vetere dove per ogni educatore ci sono 206 detenuti. Poi c’è la questione del lavoro. Sono 95 gli istituti penitenziari che forniscono informazioni sul lavoro dei detenuti. Gli altri 95 (in tutto sono 190) o danno informazioni parziali o lasciano gli spazi in bianco, cioè non rispondono. I 95 istituti riguardano una popolazione detenuta di 31.974 persone: dall’analisi delle schede si evince che svolgono lavori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria 6.325 detenuti, pari al 21,95%, mentre svolgono lavori più qualificanti alle dipendenze di ditte esterne o lavorazioni alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (sartoria, falegnameria, tipografia, ecc.) 996 detenuti pari al 3,11%. In totale quindi svolgono un lavoro il 25,06% dei detenuti. “Occorre però tenere presente - sottolinea sempre Bernardini - per quel che riguarda i lavori interni agli istituti, si trattano di impieghi a turnazione e di poche ore giornaliere, il che vuol dire che in un anno un detenuto lavora dai due ai quattro mesi, prendendo retribuzioni risibili”. La giustizia diventa “umana”. L’appello di Woodcock di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 23 maggio 2019 Il pm Woodcock ha chiesto che due giovani imputati (di 24 e di 19 anni) fossero condannati non all’ergastolo, come sarebbe stato possibile chiedere attese le modalità del fatto, ma a trent’anni di carcere per l’uccisione di un loro compagno di rapine. “Quando usciranno dal carcere - ha detto - avranno cinquant’anni o poco più…. potranno, se lo vorranno, rifarsi una vita in maniera onesta”. Un episodio di brutale delinquenza, alla quale ci siamo purtroppo abituati con un’appendice che fuoriesce alquanto dai nostri schemi usuali; appendice sulla quale è opportuno indugiare per proporre qualche riflessione. Cominciamo dal ruolo del pubblico ministero nel nostro processo. La letteratura, quella amata soprattutto dalla magistratura associata, costruisce il pubblico ministero come una parte imparziale accomunata ai giudici dalla comune cultura della giurisdizione. Confesso che nella definizione ho sempre intravisto una buona dose di enfasi retorica. La parte nel processo non può essere imparziale, ossia “non-parte” e tanto meno può essere assimilata al giudice. La parte processuale, quale è anche il pm, sposa una tesi, la trasforma in una richiesta di provvedimento e ne postula l’accoglimento. Il suo è il mondo del volere e dell’azione, che è intriso di sentimenti e di passioni, là dove il mondo del giudice è quello del pensiero e della ragione, che è o dovrebbe essere asettico e spassionato. Di conseguenza, la richiesta del dottor Woodcock va valutata per ciò che essa esprime, per la partecipazione dell’uomo ad un sentimento di solidarietà umana, quale si trae dalla stessa nostra Carta costituzionale, che attribuisce alla sanzione penale una funzione anche rieducativa. Il pm non giudica, perché questo compito spetta ad altri. Con la sua richiesta il nostro pm ha manifestato la sua umanità. Come dovrebbe essere sempre. La pena, tuttavia, è il prodotto della logica del contrappasso ed è necessaria per la sua funzione di deterrenza. Se non ci fosse la pena e se non fosse irrogata in maniera esemplare, la collettività degli uomini che si è associata nell’ambito di un ordinamento giuridico, subirebbe un vulnus, una ferita, che soltanto la punizione esemplare può rimarginare. Senza la pena esemplare chi delinque lo farebbe infinite volte e chi non delinque sarebbe incoraggiato a farlo soprattutto se ne avesse un tornaconto. Se alla base di quest’ultima funzione della pena vi è un’elementare esigenza di difesa e di sicurezza, diverso è il fondamento dell’altra sua funzione. Qui ci troviamo a percorrere la sottile lastra di ghiaccio che divide la giustizia dalla vendetta e che rende legittima la violenza, perché, piaccia o non piaccia, la sanzione penale è esercizio di violenza, che la legge rende giustificabile. Una democrazia liberale, quale dovrebbe essere la nostra, fortemente ispirata a valori di solidarietà umana (veicolati dalla tradizionale vicinanza della nostra popolazione alla religione cristiana) non dovrebbe esasperare la logica del contrappasso. Si dovrebbe privilegiare la funzione di deterrenza della sanzione penale quale discende dalla sua effettività e dalla sua immediatezza. La pena, insomma, è efficace non se è molto severa, ma se è irrogata con immediatezza e se è portata ad esecuzione. E, per converso, perde efficacia se viene irrogata a distanza di troppi anni e se non è portata ad esecuzione o se l’esecuzione è troppo blanda. Il nostro sistema, quale effettivamente è e non quale lo immaginarono i Costituenti, si allontana ogni giorno di più dall’immagine della democrazia liberale. Paghiamo la nostra incapacità di organizzare una giustizia rapida ed efficace con un prezzo assai alto. Abbiamo un diritto penale sempre più ipertrofico. Aumentano a vista d’occhio i divieti e gli obblighi di comportamento; aumentano a dismisura le sanzioni e aumenta l’invasione nelle nostre vite private con sistemi di sempre meno controllata captazione. L’ordine e il rispetto della legalità diventano gli idoli di una nuova religione, statolatra, che si espande al prezzo della progressiva riduzione della nostra sfera di libertà. E l’unica maniera per garantire ordine e legalità è la minaccia della sanzione penale, con la convinzione che tale minaccia è tanto più efficace quanto più severa è la sanzione, anche se sarà irrogata ad anni luce dal fatto delittuoso (di qui un allungamento sine die dei termini di prescrizione). Lo Stato si è allontanato da noi, è altro, è diventato il nostro tutore. Servisse a qualcosa! Se guardiamo l’entroterra in cui hanno vissuto i due imputati, che sono l’occasione di queste riflessioni, se guardiamo al contesto familiare e, in genere, ambientale in cui hanno vissuto, in cui vivono le loro famiglie, in cui vivranno i loro figli, non ci possiamo meravigliare se essi non abbiano avuto il metro per valutare ciò che è lecito da ciò che non lo è, da ciò che umano e ciò che è estraneo ai comuni sentimenti di umanità (ed è triste dirlo: non sappiamo se ciò non riguardi anche quei nuclei familiari e, in genere, quel contesto sociale). Lo stesso discorso potrebbe farsi per qualsiasi forma di delinquenza. Per toccare il tema della corruzione (che oggi sembra la madre di tutte le devianze), l’ambiente in cui viviamo è quello che privilegia il rapporto di protezione, di chi ci governa o amministra; e di sudditanza, di chi è governato o amministrato (ambiente che si nutre di tutte le forme di protezione possibili, anche di quelle di cui sono espressione recenti provvedimenti di governo). Se questo è l’ambiente, non ci sarà minaccia di sanzione che possa combattere efficacemente il virus che si è introdotto nel nostro sangue, che è quello di ottenere protezione in cambio di sudditanza. La vera democrazia, quella che immaginarono i Costituenti, è altra cosa. Si serve della sanzione penale come della risorsa estrema. Punta in primo luogo sulla capacità di inculcare nella maggioranza dei cittadini i valori della legalità. Per farlo, tuttavia, è necessario che chi ci governa creda in essi e dia loro attuazione. Se manca nei governanti la capacità di dare il giusto esempio e se manca la volontà di trasformare tali valori in un approccio culturale condiviso dal popolo o dalla sua maggior parte, non c’è sanzione che basti. È, invece, probabile che la delinquenza si espanda in forme sempre più subdole o sempre più violente. Come, del resto, sta accadendo, a disprezzo di altisonanti proclami. Non sono i trent’anni di galera in luogo dell’ergastolo ciò che fa la differenza. Il Decreto sicurezza slitta a dopo le elezioni europee di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 23 maggio 2019 Salvini: non mi darò fuoco per questo. Ma rilancia sull’abuso d’ufficio: lo abolirei. Finisce con una comunicazione alla stampa di pochi minuti il braccio di ferro dentro il governo sul decreto Sicurezza caro a Salvini: dopo essere stato più di un’ora al Quirinale, a colloquio con Sergio Mattarella e aver parlato con i due vicepremier, il presidente del Consiglio comunica che i due decreti, compreso dunque quello sulla famiglia caro a Di Maio, slittano alla prossima settimana, dopo il voto per le Europee. Conte ha anche premura di difendere il ruolo esercitato dal capo dello Stato in questi due giorni: Mattarella non ha fatto alcuna invasione di campo è il senso delle sue parole. “Qui occorre un chiarimento - ha detto: è prassi consolidata che l’interlocuzione con gli uffici del Quirinale quando vi siano decreti legge abbia luogo, in via del tutto informale, anche prima dell’approvazione dei testi in Consiglio dei ministri, in previsione dell’emanazione, una funzione che spetta al presidente della Repubblica. Però per come è stata rappresentata ci sono delle incongruenze. Non si può attribuire al presidente della Repubblica una censura preventiva e il ruolo di sindacato politico. Il Quirinale non ha svolto questo ruolo e non intende svolgerlo, né in astratto né in concreto”. In ogni caso, sembra di capire, al rinvio si è arrivati per ragioni squisitamente politiche e non perché almeno il decreto di Salvini non potesse essere varato anche subito. Lo conferma lo stesso capo del governo dicendo che i problemi sono stati superati, anche grazie all’interlocuzione con il Colle: del dl sicurezza “è pervenuta una versione riveduta ieri pomeriggio: i miei uffici ci hanno già lavorato, posso anticipare che mi sembrano superate le criticità in precedenza segnalate. Tutto il governo condivide i due obiettivi politici, in un caso intervenire sulla disciplina vigente in materia di sicurezza nei mari territoriali e nel territorio, al fine di introdurre anche misure di più efficace contrasto contro i traffici irregolari di migranti e nell’altro caso intervenire con ulteriori misure a sostegno delle famiglie”. Più o meno negli stessi istanti, negli studi di Porta a Porta, Matteo Salvini mostra il testo del decreto della discordia, dice “è pronto in tutto il suo articolato, la parte più importante è la lotta alla camorra e alla mafia, sui migranti è una minima parte. Poi se per motivi non tecnici ma di altra natura c’è chi preferisce che il dl Salvini venga approvato la settimana prossima non mi do fuoco, lo approveremo la settimana prossima. Io agli attacchi non rispondo. Pensiamo a lavorare. Non è tutto cancellato, quando si va sul personale, ma spero che rientri tutto”. Ma apre un altro fronte: “Toglierei l’abuso d’ufficio, i sindaci non firmano più niente per paura di essere indagati”. Sembrano invece smussate le divergenze con altri ministri, come Danilo Toninelli: “Si lamenta perché la competenza sulle acque territoriali vuole che sia sua? A me non interessa la forma, se vuole dire di no lui ai barconi abusivi lo faccia”. Ma nella giornata ci sono anche le scorie di questo ultimo periodo. Giancarlo Giorgetti che, alla stampa estera, dice ai cronisti che “senza affiatamento, così, non si può andare avanti, non si può vivere di stallo”, Luigi Di Maio che replica a stretto giro: “Ogni giorno ormai, da circa un mese, c’è qualcuno, e non del M5S, che minaccia la crisi di governo e fa la conta delle poltrone in base ai sondaggi. Oggi è toccato a Giorgetti. Basta minacciare crisi di governo e basta fare la conta delle poltrone. Si pensi al Paese”. Aggiunge Di Maio: “Qualcuno mi ferma per strada e mi dice non litigate. Io rispondo: “Quanno ce vo, ce vo!”. Continuerò a dire in pubblico quello che non va nel governo”. Di mattina Conte interviene all’assemblea di Confindustria, dove insieme a Di Maio riceve un’accoglienza tiepida, almeno rispetto a quella riservata a Mattarella. In ogni caso il premier si dice convinto che nella seconda metà dell’anno lo scenario economico possa migliorare: “Siamo ferocemente determinati. Siamo fermamente convinti che l’Italia possa farcela, che tutti noi possiamo farcela. Riportiamo il Paese nell’orizzonte che gli spetta, un orizzonte di crescita, di sviluppo sostenibile”. Dl sicurezza rinviato, tregua armata fino al voto di Andrea Colombo Il Manifesto, 23 maggio 2019 Il decreto Sicurezza verrà approvato, insieme a quello sulla Famiglia dei 5 Stelle, solo la settimana prossima, a elezioni celebrate. “Abbiamo convenuto sulla convocazione del consiglio dei ministri con i vicepremier”, annuncia Giuseppe Conte qualche ora dopo aver affrontato la spinosissima questione con Sergio Mattarella, in un pranzo di lavoro al Quirinale. Dopo di lui, in gran segreto, è passato dal Quirinale anche Matteo Salvini, che già al mattino aveva detto chiaramente di essere disposto a rinviare e che in serata ufficializza: “Non mi do fuoco se il decreto viene approvato la prossima settimana”. Conte prova a minimizzare il ruolo del Quirinale. “Non c’è stata nessuna censura preventiva”, giura. Che i testi dei decreti vengano vagliati dal Colle prima dell’approvazione è prassi, specifica. Il suo è un atto dovuto e probabilmente richiesto dallo stesso capo dello Stato, a dir poco scontento per essere stato trascinato apertamente nella disfida prima da Conte e poi dall’intero M5S. Ma la realtà, diplomazia quirinalizia a parte, è che Mattarella non voleva affatto che il decreto Sicurezza finisse sul suo tavolo per la firma prima del voto. La situazione, dal punto di vista istituzionale, sarebbe stata imbarazzante. Se avesse apposto la firma, avrebbe avvalorato una lettura che vedeva Salvini vincere un braccio di ferro caricato di significati a un soffio dall’apertura delle urne. Se lo avesse bocciato, l’impatto sul voto sarebbe stato anche più deflagrante, anche se in senso opposto. Dunque il capo dello Stato ha giocato di sponda con i 5S, il cui interesse era convergente. Neppure loro volevano l’approvazione del dl di Salvini prima delle elezioni, tanto più che rischiavano di restare loro a bocca asciutta, non essendo ancora ben definite le coperture per il decreto Famiglia, quel miliardo che Tria ha chiarito non può essere “coperto” dai risparmi rispetto al costo preventivato del reddito di cittadinanza, essendo quei risparmi ancora del tutto incerti. Dunque la tenaglia si è chiusa e Salvini ha fatto buon viso a gioco neppure troppo cattivo. I dividendi elettorali del dl sono comunque già garantiti e uno scontro istituzionale col capo dello Stato, sommato a quello interno al governo, sarebbe stato più dannoso che altro. “Nell’ultima versione i rilievi di incostituzionalità sono stati superati”, afferma Conte. In realtà nel pranzo di ieri il presidente avrebbe avanzato dubbi e critiche anche sulla seconda parte del decreto, quella sull’ordine pubblico. Meno fragorosa dei primi due articoli sull’immigrazione, con quella incredibile “multa sui salvataggi” modificata nell’ultima stesura del testo, la parte del dl sull’ordine pubblico è ai confini dello Stato di polizia. Secondo voci dal Colle tratta le manifestazioni politiche alla stregua del teppismo ultrà da stadio e potrebbe dover subire ulteriori limature. Ma se Salvini mostra il volto più conciliante, ad andare giù duro provvede Giancarlo Giorgetti, in una conferenza con i rappresentanti della stampa estera quasi esplosiva: “Il governo del cambiamento deve fare le cose, non può restare in stallo. Non accuso nessuno, tanto meno il premier, ma non si può andare avanti così, senza affiatamento”. Non è un annuncio di crisi imminente, neppure una richiesta di modifiche nella composizione o al vertice del governo: “Squadra che vince non si cambia e noi, al netto delle ultime tre settimane, abbiamo fatto bene”. Salvini offre la stessa garanzia: “Comunque vadano le elezioni non chiederemo neppure un sottosegretario in più”. Il mix tra i toni concilianti e quelli ultimativi delinea una strategia precisa, per il dopo voto, messa a punto dalla Lega al termine di una campagna elettorale per la maggioranza durissima. Nessun conflitto istituzionale con il Colle. Nessuna crisi. Nessuna lista di teste da tagliare. Il vantaggio che le urne, se i sondaggi saranno confermati, assegneranno alla Lega, Salvini lo spenderà non chiedendo ma reclamando un’accelerazione drastica sui cavalli di battaglia sin qui tenuti immobili dal dissenso dei 5S: la Flat Tax, con l’appoggio dello stesso ministro dell’Economia, le autonomie, terreno sul quale il nord morde ogni giorno di più il freno, e come antipasto il decreto Sicurezza che in un modo o nell’altro, a urne chiuse, sarà varato. Cristina Ornano (Area): “C’è il rischio che si limiti il diritto a manifestare” di Carlo Lania Il Manifesto, 23 maggio 2019 “Non mi pare che gli sbarchi rappresentino un’urgenza, anche perché si sono notevolmente ridotti. Piuttosto è urgente salvare la vita delle persone in difficoltà, compresi i migranti che si trovano in mare”. Cristina Ornano è Gip a Cagliari e segretario nazionale di Area, la corrente che riunisce i magistrati di sinistra. Area ha espresso un giudizio severo su questo nuovo decreto sicurezza. Abbiamo segnalato le forti criticità che poneva sul piano della tenuta costituzionale. Direi che i dubbi manifestati dal Colle e le stesse liti all’interno del consiglio dei ministri - stando a quanto riferito dai giornali - dimostrano che i problemi ci sono e ci confortano sul giudizio espresso, che resta severo nonostante le limature che sarebbero state adottate. Per quale motivo? Intanto proprio per l’utilizzo della decretazione di urgenza. In Italia le vere urgenze legate alla sicurezza a nostro avviso sono legate alla criminalità organizzata, ai fenomeni di corruzione sempre più diffusi e gravi, ai reati di violenza contro le donne. Non certo ai migranti. Con le ultime modifiche apportate al decreto viene meno la multa per ogni migrate trasportato ma viene prevista una sanzione, anche pesante visto che si va dai 10 mila ai 50 mila euro più la confisca della nave, per chi infrange il divieto di ingresso, transito e sosta in acque territoriali. A chi si riferisce? Tutti pensano alle navi che hanno soccorso i migranti in difficoltà. Non vorrei che fosse il tentativo di far rientrare dalla finestra quello che si era voluto abolire. Il dubbio che si voglia limitare l’attività di soccorso resta. Quali altri punti del decreto la preoccupano? Tra quelle che suscitano maggiore preoccupazione per i loro possibili effetti ce n’è una della quale si è parlato di meno e riguarda l’attribuzione alle procure distrettuali delle nuove competenze in materia di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una norma che a nostro avviso rappresenta un appesantimento delle procure distrettuali senza alcuna utilità. Ma c’è anche il pericolo di una limitazione dei diritti di manifestazione, che oltre a essere di dubbia costituzionalità rappresenta un pericolo anche per il messaggio culturale che si vuole trasmettere. L’articolato prevede degli inasprimenti di pena che riteniamo non abbiano nessuna utilità e per di più si rischia di introdurre surrettiziamente forme di responsabilità oggettiva quando si prevede che l’organizzatore di una manifestazione debba rispondere di eventuali danni cagionati da terzi. Nel frattempo proseguono gli attacchi alla magistratura, con la richiesta rivolta ai magistrati di candidarsi. La legittimazione dei magistrati non si fonda sul consenso popolare ma deriva dalla nostra funzione e dal nostro ruolo costituzionale. Questi attacchi purtroppo non sono nuovi, la politica talvolta soffre l’azione della magistratura proprio perché è autonoma, indipendente e ha come punto di riferimento i valori costituzionali, la legge e le norme internazionali. E noi soltanto a quelle rispondiamo. Dopo la strage di Capaci nasce pure la speranza di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2019 Inghiottiti da una devastante esplosione, nel territorio del Comune di Isola delle Femmine, il 23 maggio 1992 morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani, in otto rimasero feriti. Cosa rappresentò quell’attentato, che fu presentato al mondo come la strage di Capaci? A distanza di 27 anni sappiamo chi ha agito e perché? Fu l’atto terroristico eversivo più eclatante, per quantità di esplosivo impiegato e per effetti prodotti, compiuto dalla mafia nel nostro Paese, che aprì, però, la stagione della speranza. Sebbene in molti sembrano averlo dimenticato, negli anni 90, coloro che parteciparono all’azione militare (ricostruita con estrema precisione in tutte le fasi), idearono e deliberarono l’eccidio, in seno a Cosa Nostra, sono stati individuati, catturati (ponendo fine a storiche latitanze), processati nel pieno rispetto delle garanzie. Venne svolto - e posso dirlo per avervi intensamente contribuito dal maggio 1994 alla fine di ottobre 2000 - un lavoro enorme da parte delle componenti più virtuose dell’apparato repressivo dello Stato, che portò alla confessione della loro partecipazione e alla piena collaborazione di 7 mafiosi dal 24 ottobre 1993 al 18 luglio 1996, che hanno prodotto un effetto di trascinamento verso altri uomini d’onore che hanno seguito l’esempio, dando vita alla più feconda, per qualità e numeri, stagione di collaborazioni con la giustizia, che hanno consentito anche di fare luce su centinaia di omicidi e delitti, nonché di individuare e sequestrare i loro più forniti arsenali di armi ed esplosivi (quelli di contrada Giambascio e Malatacca nel Palermitano). Per la prima volta, sono posto di inquadrare l’attentato nella più ampia strategia in cui si è inserito, posta in essere dal 1992 agli inizi del 1994. E stato dimostrato che i vertici mafiosi, durante la fase preparatoria e successivamente alla strage, hanno agito nell’ambito di trattative avviate con esponenti delle istituzioni e si sono intraviste zone d’ombra, nel cui ambito si collocano interessi convergenti di soggetti esterni a Cosa Nostra. La giustizia ha dimostrato di poter funzionare con maggiore efficacia rispetto all’azione di Cosa Nostra, cancellando la certezza antica del mafioso: l’impunità, che aveva vacillato con l’esito del maxi- processo (del 30 gennaio 1992), che aveva visto proprio in Falcone e Borsellino gli elementi trainanti. Per usare una metafora, il bicchiere della verità non solo è mezzo pieno, ma quasi pieno. Per questo occorre ancora investigare, non solo nell’ambito giudiziario ma anche sul terreno politico (con una commissione d’inchiesta) e storico, per dare risposta ai quesiti rimasti inevasi: perché alcuni supporti informatici in uso a Falcone vennero cancellati, dopo la sua morte? Come mai venne rinvenuto sul luogo teatro della strage un bigliettino con dati inerenti a una delle strutture dei Servizi Segreti italiani? Perché vi fu l’accelerazione della strage di via D’Amelio e, soprattutto, perché il disegno stragista si fermò agli inizi del 1994? “Parla il governo, non l’antimafia”. Lite su Falcone di Antonio Fraschilla La Repubblica, 23 maggio 2019 Anche Fava e Musumeci disertano la celebrazione. Mattarella agli studenti: “I boss saranno sconfitti”. Da una parte i rappresentanti del governo gialloverde, dall’altra le associazioni antimafia che diserteranno le manifestazioni ufficiali. Nel giorno del ricordo di Giovanni Falcone e degli agenti di scorta uccisi dalla mafia nella strage di Capaci, accade qualcosa di mai visto a Palermo da quel tragico1992. Una spaccatura profonda tra istituzioni e società civile. Con l’assenza annunciata di molti volti noti dell’antimafia nell’aula bunker dell’Ucciardone: il luogo simbolo del maxi processo a Cosa nostra istruito da Falcone dove da venti anni la Fondazione guidata dalla sorella Maria organizza l’evento ufficiale con i rappresentanti dello Stato. In quell’aula oggi ci saranno il presidente della Camera Roberto Fico, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, i ministri Alfonso Bonafede, Marco Bussetti e Matteo Salvini. Ma non un pezzo importante di Palermo. Proprio la presenza del leader della Lega ha fatto scattare nei giorni scorsi la protesta di Anpi, Arci e del Centro Impastato guidato dal fratello di Peppino, Giovanni, che ha invitato apertamente a “boicottare un evento alla presenza di chi gioca con il fascismo”. Un mondo, quello dell’antimafia, in rivolta e che ha organizzato contro manifestazioni a Capaci e in piazza Magione alla Kalsa, il quartiere di Falcone. Ieri hanno annunciato la loro assenza dall’aula bunker anche il governatore Nello Musumeci e il presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava. Entrambi stizziti dopo aver letto la scaletta degli interventi scritta dalla Rai che dà la parola solo ai componenti del governo. “Se fossi io la Fondazione Falcone avrei invitato i signori ministri per ascoltare il direttore del Centro Impastato o il procuratore della Repubblica di Agrigento, quello che Salvini vuole denunciare - dice Fava - per spiegare alle autorità romane quello che abbiamo imparato sulle antimafie di latta”. Musumeci parla di “troppi veleni”: “Non sarò all’aula bunker per la prima volta e mi dispiace per la signora Falcone”. Visto il clima, anche il segretario nazionale del Pd, Nicola Zingaretti, annuncia che sarà sì a Palermo ma solo “per partecipare al tradizionale corteo verso l’albero Falcone”. La presenza di Salvini alimenta di certo le polemiche: in città si annunciano contestazioni non solo davanti all’aula bunker ma anche di fronte alla vicina scuola Vittorio Emanuele III dove è stata sospesa la professoressa Rosa Maria Dell’Aria per “omessa vigilanza” su un video degli studenti che accostava le leggi razziali al decreto sicurezza di Salvini. Una vicenda che ha sollevato proteste in tutto il Paese: Salvini vedrà la professoressa insieme al ministro Bussetti, probabilmente in prefettura per evitare ulteriori tensioni. Ma il clima in città rimane teso. Ieri intanto come da tradizione da Civitavecchia è partita alla volta di Palermo la nave della legalità con 1.500 studenti a bordo. A salutarli all’imbarco il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Le idee di Falcone e Borsellino continuano a camminare - ha detto Mattarella - voi ragazzi imbarcandovi in questa nave lanciate un messaggio: la mafia sarà sconfitta”. Niente revoca della patente se il velocipede non ha motore autonomo dalla pedalata di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2019 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 22 maggio 2019 n. 22228. La bicicletta con pedalata assistita appartiene al mondo delle biciclette e, quindi, in caso di incidente per guida in stato di ebbrezza è illegittima la sanzione accessoria della revoca della patente. Discorso diverso - chiarisce la Cassazione (sentenza n. 22228/19) sarebbe stato se il ciclo non avesse necessitato della pedalata ma si fosse mosso autonomamente: in questo caso ci sarebbe stata la revoca della patente Am (più noto come patentino). È la stessa Corte ad analizzare le differenze fra le due tipologie di veicoli. Mentre nei cicli a propulsione il mezzo è in grado di avanzare senza l’aiuto del ciclista, invece nei cicli a pedalata assistita il mezzo si muove soltanto se il ciclista esercita forza sui pedali sebbene aiutato da un motore elettrico. Alla base della sentenza c’era un macroscopico errore di interpretazione da parte del giudice di merito del Regolamento Ue n. 168/2013, in base al quale i veicoli dotati di motore elettrico azionabile da un acceleratore devono essere muniti di certificato di circolazione e il conducente deve avere il patentino. La pedalata assistita. Così non è in quanto il giudice di merito non ha considerato che il richiamato regolamento europeo non si applica a tutti i mezzi a pedalata assistita, ma solo a quelli dotati di potenza superiore a 250 W (cosiddetti “cicli a propulsione” mentre per quelli di potenza pari o inferiore sono considerati velocipedi a tutti gli effetti ex articolo 50 codice della strada). In definitiva la sentenza è stata annullata limitatamente al punto concernente la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente con rinvio al Tribunale per il nuovo giudizio sul punto. “Chiedo pene alternative per aiutare quelli come mio marito a reinserirsi” di Maria Gabriella Indelicato Il Dubbio, 23 maggio 2019 Sono la moglie di un detenuto. Si parla molto di carceri, ma la cosa brutta è che se ne parla soltanto, senza che si faccia niente di concreto. Io ho una famiglia, abbiamo due bambini: mio marito sta scontando un definitivo di molti anni fa. Ha commesso un errore che ha portato diverse conseguenze ed oggi sta pagando: lui non vuole discolparsi dagli errori fatti, però potrebbe “pagare” la sua pena in modo diverso, magari stando in detenzione domiciliare, potendo provvedere alla sua famiglia. Io non credo che questo modo di eseguire una pena possa far reinserire nella società una persona che ha commesso un errore e che vuole cambiare: succede il contrario, il carcere non fa altro che far sentire un detenuto svuotato dentro e inutile, soprattutto se è un padre di famiglia. E allora io mi chiedo perché non concedere più pene alternative, nel caso di persone che si sono trovate a commettere un errore nella loro vita per debolezza, per sbaglio, per troppa giovinezza, o per qualsiasi motivazione, ma che vogliono recuperare. Perché non si può pensare di dare davvero la possibilità di aiutare chi ha commesso un errore con delle pene alternative: ci sarebbero tanti modi, in cui si possono scontare i propri errori, senza privare un detenuto della sua famiglia e del suo diritto di provvedere a questa famiglia; anzi, è proprio la famiglia l’unica che può aiutare veramente chi ha commesso un errore, e soprattutto quando si e padri o madri, quando si sentire di essere utili anziché inutilizzabili e vuoti come dentro un carcere. Io penso proprio che questo modo di essere tenuti in carcere, senza essere utili a nessuno, non sia un modo giusto per far comprendere che è stato commesso un reato. Quello che voglio dire è che una pena dovrebbe sì aiutare a capire che chi sbaglia paga, ma anche come si può rimediare e “rimettersi in carreggiata” di nuovo, e questo soprattutto quando il reato non è stato commesso come fosse una scelta di vita, ma più per un cedimento. Mio marito voleva essere carabiniere: ora invece si trova dalla parte opposta e l’unico suo desiderio oggi è quello di vivere con la sua famiglia e avere un lavoro. Allora chiedo, aiutateli a dare più pene alternative: non serve il carcere per far riflettere, ma stare vicino alle proprie famiglie, perché solo le famiglie possono aiutare chi ha sbagliato. E chiedo, non fateli sentire inutilizzabili: non è giusto per la dignità di un uomo, soprattutto se padre di famiglia, impedirgli di fare qualcosa per i suoi figli. E ovviamente quando parlo di dare opportunità mi riferisco a chi è punito per reati comuni, non voglio parlare di quelli gravi perché su questi non ho nulla da commentare. Ho scritto questo perché spero con tutto il mio cuore che qualcuno faccia davvero qualcosa per poter cambiare questa disastrosa situazione del carcere e che si voglia ridare la dignità e la possibilità di un reinserimento logico e non distruttivo a chi la chiede. Vi prego pubblicate questo messaggio. Non dimenticate la brutta situazione nelle carceri. Vi chiedo, fate qualcosa perché la sofferenza è enorme, sia per i detenuti che per i familiari. Fate qualcosa. E grazie della vostra attenzione. Campobasso: rivolta in carcere, barricati in 20, poi la protesta rientra La Repubblica, 23 maggio 2019 Fuoco a suppellettili, sul luogo presente il procuratore capo, Sindacato: “È contro la diminuzione di alcuni benefici”. Decisivo il colloquio con la direttrice. Una rivolta in serata esplode nel carcere di Campobasso dove una ventina di detenuti si sono barricati dentro una struttura. Per dare forza alla protesta hanno dato fuoco ad alcune suppellettili. Secondo le Forze dell’Ordine al momento è tutto sotto controllo. Sul luogo, intorno alle 21, si è recato il Procuratore capo di Campobasso, Nicola D’Angelo. Sono almeno 28 i detenuti che hanno dato vita alla rivolta, secondo quanto conferma Aldo Di Giacomo, segretario del Spp, sindacato degli agenti penitenziari. I detenuti si sono rinchiusi nel II settore, avrebbero bruciato alcuni materassi e non ci sarebbero stati agenti sequestrati o ostaggi. Secondo Di Giacomo alla radice della protesta “potrebbero esserci problemi per la diminuzione di alcuni benefici quali telefonate ed altro”. A quanto si apprende i motivi della rivolta sarebbero da individuare anche nel super affollamento del II settore: secondo Di Giacomo infatti nel reparto alcuni detenuti avrebbero dormito con i materassi per terra, in un carcere che al momento vede la presenza di circa 180 detenuti. Non molti di più rispetto al totale della capienza, ma un numero comunque sensibilmente maggiore alla capienza del settore. A questo si aggiunge, riferisce sempre Di Giacomo, che nelle ultime settimane nel carcere sono affluiti detenuti border line, ossia con problemi psichici o tossicodipendenti. La protesta è rientrata dopo il colloquio avuto con la direttrice del carcere. Fonti dell’istituto hanno confermato che nella protesta non ci sono stati feriti né atti di violenza. Una ambulanza è entrata in carcere per il malore di un detenuto, episodio comunque non riconducibile alla protesta. Torino: la Garante comunale “topi e blatte, in carcere è emergenza” di Fabrizio Assandri La Stampa, 23 maggio 2019 “Rischiamo un’altra condanna Ue. Ancora peggio per chi è all’ex Cie”. Sovraffollata, con strutture degradate e un’invasione di topi e blatte. È la fotografia del Lorusso e Cutugno della garante dei detenuti del Comune, Monica Gallo. Una denuncia circostanziata che parte dai numeri, “ormai vicini alla soglia che fece scattare le condanne UE”. A fronte di una capienza di 1065 persone ce ne sono 1418 e solo 14 educatori. Nel braccio femminile ci sono 130 detenute su 80-90 posti. Queste ultime devono anche caricarsi il cibo sui vassoi e fare tre piani a piedi. “Da 5 anni chiedo di riparare il montacarichi”, dice. Ma l’ultima emergenza è scattata nel padiglione C. “Nonostante due disinfestazioni a settimana ci vengono segnalati topi e blatte. Strutture così inadeguate andrebbero chiuse e i detenuti spostati”. In testa alle criticità, secondo Gallo, c’è la “cella filtro”, dove finiscono i sospettati di aver ingoiato ovuli di droga. “Lede la dignità di detenuti e operatori. Dovrebbe essere chiusa e il servizio gestito in ospedale. In carcere non c’è l’assistenza sanitaria che un simile problema richiederebbe”. La sempre più forte presenza di stranieri “rende evidente la carenza di mediatori”. Da incentivare i progetti per il lavoro dentro e fuori l’istituto. Uno dei più riusciti, secondo Gallo, ha visto lavorare i carcerati con gli operatori Amiat. Adesso il Comune ha lanciato un nuovo progetto, per un centinaio di detenuti- giardinieri nei parchi, “ma si parla di un compenso che scenderà rispetto a prima da 500 a 100 euro al mese - dice Gallo - non mi sembra sensato”. Capitolo a parte il Cpr, il centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi, l’ex Cie. “Il decreto sicurezza ha tagliato tutti i servizi ai migranti. Adesso hanno a disposizione sei minuti a settimana per parlare con un legale della loro richiesta d’asilo”. Il servizio medico è passato da 144 ore a settimana a 42, lo sportello psicologico da 54 a 24 e via dicendo. Torino: al Lorusso Cotugno un magazzino tutto per Amazon di Fabrizio Assandri La Stampa, 23 maggio 2019 Amazon apre un magazzino all’interno del carcere. Dovrebbe essere un piccolo polo della logistica dove verranno stoccati i pacchi prima delle consegne. Ci lavoreranno dei detenuti-magazzinieri, all’inizio dovrebbero essere sei, poi il loro numero potrebbe crescere. È il progetto che sarà lanciato nei prossimi giorni, come ha annunciato il direttore del carcere Domenico Minervini, con la firma il 30 maggio al Ministero a Roma del protocollo che riguarderà, oltre al carcere Lorusso e Cutugno, quello romano di Rebibbia. Per ora i dettagli trapelati sono pochi, perché Minervini ha detto che sta preparando una presentazione del progetto insieme alla sindaca Chiara Appendino. Nella realizzazione dell’iniziativa è stato coinvolto anche il Comune, con l’assessorato di Alberto Sacco. Il carcere torinese destinerà al colosso del web un padiglione finora rimasto inutilizzato, e l’accordo dovrebbe riguardare anche Eprice, il sito di e-commerce che ha un accordo con Amazon per la vendita di elettrodomestici. Gli spazi non sono piccoli, il padiglione vuoto ha dimensioni compatibili con una lavorazione tutt’altro che simbolica. Il magazzino di Amazon amplierà l’offerta dei lavori che i detenuti possono svolgere all’interno del carcere, che coinvolge diverse cooperative per attività che vanno dalla serigrafia alla sartoria, dal panificio alla lavanderia. Molti dei lavori si sono a uso e consumo dei carcerati, come quelli degli addetti alla cucina, i giardinieri, i riparatori di radio e tv. “Sono favorevole a tutte le lavorazioni che si fanno dentro gli istituti di pena - dice Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti - bisogna però mettere dei paletti, per garantire la continuità delle assunzioni anche dopo l’uscita del detenuto dal carcere. Non conta il singolo progetto, ma bisogna progettare un discorso complessivo sul lavoro in carcere in vista del reinserimento nella società”. Civitavecchia (Rm): Cangemi (Fi) “in carcere al via formazione detenuti con i pony” etrurianews.it, 23 maggio 2019 “Al carcere Passerini di Civitavecchia questa mattina abbiamo dato il benvenuto a Mariuccio, un pony che aiuterà i detenuti della casa di reclusione ad imparare il mestiere di maniscalco. Si tratta di un progetto sperimentale per cui dobbiamo ringraziare Asi (Associazioni sportive sociali italiane) e i volontari di Gruppo Idee, che lo hanno promosso, e naturalmente il direttore Patrizia Bravetti per aver saputo cogliere l’importanza dell’ausilio degli animali nelle attività di rieducazione”. Lo ha detto il vice presidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Cangemi, intervenuto questa mattina alla presentazione del progetto Jacco, dal nome di un pony ospite del carcere sardo di Isarenas, morto in un incendio nel 2013. Il pony, donato da Asi e Gruppo Idee oltre a fare compagnia a Nora, una cavallina ipovedente già ospite dell’istituto di Civitavecchia, sarà protagonista del corso di formazione di mascalcia, tenuto da un docente Asi, e del progetto di interventi assistiti come ad esempio la presenza del cavallino durante i colloqui con i familiari. “Mi auguro che questo progetto innovativo possa essere replicato anche in altri istituti - ha aggiunto Cangemi - la sinergia tra associazioni, istituzioni e strutture penitenziarie è fondamentale per aiutare i percorsi di rieducazione e reinserimento dei detenuti. La presenza di animali ha dimostrato di avere un impatto positivo sul benessere individuale e collettivo nelle strutture carcerarie e, in questo caso, consentirà ai detenuti di imparare un mestiere importante nell’ambito del settore equestre”. Firenze: il libro “Racconti dalla casa di nessuno”, storie che escono dal carcere di Costanza Castiglioni ilsitodifirenze.it, 23 maggio 2019 Ci sono quei libri che è consigliato leggere perché ti portano altrove, in storie dentro un altro tempo, lontano da tutti e da tutto. E poi ci sono quelle persone che si impegnano affinché queste storie, possano diventare tesoro di tutti. Alla Biblioteca delle Oblate, è stato presentato “Racconti dalla casa di nessuno”, antologia di detenuti nel carcere di Sollicciano. Il libro a cura di Monica Sarsini, scrittrice, da anni impegnata all’interno del penitenziario, con il suo “laboratorio di scrittura creativa”, dove detenuti (e persone esterne) si ritrovano, e si lasciano trasportare dalla potenza dell’intramontabile figlio e penna. Per molti detenuti è un modo per “uscire” con la mente da quel posto buio e tetro, per altri uno sfogo dove buttare la rabbia o semplicemente un modo per liberare la fantasia. Tanti gli ospiti arrivati per sostenere questo progetto, in prima linea il direttore del carcere, Fabio Prestopino, che ha ribadito, dopo le parole del Ministro Salvini, come il carcere, nonostante si trovi a metà tra il comune di Firenze e quello di Scandicci, essendo un edificio della città, resti ai fiorentini. Presenti anche Massimo Altomare, a capo dell’Orkestra Ristretta, il laboratorio di musica all’interno del carcere, e Paolo Hendel, che ha letto alcuni passi del libro. “Il recupero attraverso questi libri, attraverso questa produzione culturale eccezionale, per la quale ringrazio Monica Sarsini” così interviene Eros Cruccolini, Garante del Comune di Firenze “che da anni segue l’istituzione carcere. Il Direttore, si deve rendere conto che si è trovato un laboratorio di scrittura creativa, dove i partecipanti sono i detenuti della sezione maschile e femminile del carcere, ma ci sono anche i cittadini esterni. Io credo che sia una delle prime esperienze sul piano nazionale, ed è questa la direzione su cui dobbiamo andare.” conclude Cruccolini. Firenze: il Museo del Novecento “trasloca” nella Casa circondariale di Sollicciano fanpage.it, 23 maggio 2019 Due opere d’arte moderna della collezione del Museo del Novecento di Firenze hanno varcato le mura della casa circondariale di Sollicciano, dove sono state mostrate ai detenuti, che grazie a un restauratore e mediatore culturale hanno studiato le opere e le hanno potute ammirare da vicino. L’iniziativa nell’ambito del progetto “Outdoor”. Per la prima volta dei dipinti si sposteranno dalla loro sede museale per varcare la soglie di un carcere ed essere mostrate ai detenuti. Accade al Museo del Novecento di Firenze, dove due opere delle collezioni civiche dell’istituzione toscana entreranno nella casa circondariale di Sollicciano per essere raccontate agli ospiti del penitenziario. Una bella iniziativa per portare l’arte laddove di solito non c’è mai, o quasi, e favorire il percorso di recupero dei detenuti. Le due opere, appartenenti alle collezioni civiche del Museo del Novecento, “La casa e la nave” di Renato Paresce (tempera su cartoncino del 1931) e “Maternità” di Severo Pozzati (bronzo del 1917) sono state trasportate e raccontate ai detenuti che le hanno ammirate e studiate, grazie alle spiegazioni di un restauratore professionale e di un mediatore culturale. Professionalità quanto mai necessarie per la fruizione completa di un’opera d’arte, tanto fuori quanto dentro le mura di un carcere. Continua in questo modo l’azione “sociale” del Museo del Novecento del capoluogo toscano, dopo aver portato altre opere della propria collezione già nelle scuole di diverso grado nel territorio toscano. L’iniziativa non è un’azione spot, ma fa parte del progetto “Outdoor”, parte del piano più complessivo di “Educare alla bellezza”, realizzato per diffondere i musei fiorentini e le loro collezioni a cui partecipano i detenuti e le detenute iscritte ai corsi scolastici nella casa circondariale di Sollicciano. In ogni caso, è la prima volta che opere d’arte moderna di grande valore, come quelle di Renato Paresce e Severo Pozzati oltrepassano le porte di un carcere. Avellino: Gmc Onlus nel carcere di Bellizzi Irpino ottopagine.it, 23 maggio 2019 Il gruppo missionario carcerario in Irpinia per i detenuti. Sabato scorso il Gruppo Missionario Carcerario, che da anni entra nelle carceri di tutta Italia, ha organizzato un evento gospel nel carcere di Bellizzi Irpino. La direzione, gli educatori, la polizia penitenziaria presente, ancora una volta si sono distinti nell’ospitalità e nella disponibilità, facendo appieno percepire l’amore per la rieducazione ed il reinserimento sociale dei detenuti. Circa 50 detenuti hanno partecipato all’evento ed hanno ascoltato i cantici proposti dalla ControTempo band, il gruppo musicale che affianca il Gruppo Missionario Carcerario nei viaggi all’interno dei luoghi di detenzione della nostra Penisola. Domenico Turco, pastore della Chiesa Evangelica Adi di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta ha presenziato l’evento. “Diverse sono state le testimonianze di vite trasformate ma anche di miracoli che Dio ha operato nelle vite di alcuni - spiegano dal direttivo della Gmc Onlus - ed è stato motivo di forte commozione per i detenuti ascoltare quello che il Signore può fare ancora oggi. La predicazione della Parola ha toccato i tanti cuori presenti e diversi hanno risposto all’appello fatto di voler realizzare quanto il Signore ha annunciato in questa mattinata. La riunione si è conclusa con una preghiera in un momento di profonda comunione”. “Un messaggio di speranza e di pace è stato annunciato” ha invece commentato Maria Garofalo Turco, presidente della Gmc. “Abbiamo potuto vedere una partecipazione straordinaria da parte dei detenuti, ma anche del personale del carcere. Abbiamo percepito la presenza del Signore nel mezzo di noi e abbiamo visto diverse anime benedette... Preghiamo l’Eterno affinché possa continuare l’opera Sua nei cuori di quanti hanno ascoltato il Messaggio dell’Evangelo questa mattina”. Numerose sono state le adesioni alle riunioni che ogni martedì un operatore della Gmc Onlus, Modestino Capolupo, tiene nel carcere di Bellizzi Irpino. I pentecostali Adi, realtà sempre più in crescita nel nostro Paese, sempre attivi nelle opere sociali e spirituali, ancora una volta, anche attraverso la Gmc Onlus, dimostrano la loro efficienza e la loro determinazione nel portare avanti tante opere per l’utilità comune, portando avanti una testimonianza verace che ormai dura da diversi decenni, basata sulla bibbia. Gmc Onlus è in continua espansione e nuovi progetti sono in programma per questo gruppo che si adopera per gli emarginati della nostra società. Aversa (Ce): “Note di speranza” in carcere con teatro e musica di Pietro Battarra ondawebtv.it, 23 maggio 2019 L’appuntamento è per oggi 23 maggio alle 13,30 nel carcere di Aversa. È qui che la Direzione dell’Istituto penitenziario ha organizzato uno spettacolo dal titolo “Note di speranza #reclusinonesclusi”. In scena diciotto detenuti-protagonisti che si esibiranno davanti ai loro familiari, ma anche studenti universitari di Giurisprudenza della Vanvitelli e diverse autorità. Per il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello: “Il teatro e la musica producono emozioni, fanno bene all’anima e ci permettono di conoscerci più a fondo e possono assumere un ruolo importante nell’educazione e nella risocializzazione dei detenuti. Rappresenta per loro un’occasione di riscatto, di risarcimento, una confessione pubblica anche del cammino che stanno compiendo. Come abbiamo visto è un fatto concreto che la recidiva di chi fa teatro, musica e cinema in carcere, scende al 6%. In più della metà delle carceri italiane si fa teatro. Attraverso note di poesia e musica arriveranno forti dal palco messaggi di libertà, di amore e di crescita”. La regista dello spettacolo Agnese Laurenza, già per la seconda volta al timone di questa compagnia di artisti-detenuti, ha dichiarato: “Sono davvero entusiasta del lavoro e dell’impegno di questi ragazzi che dimostrano ancora una volta il loro forte coinvolgimento, la loro passione e soprattutto la loro voglia di riscatto”. Taranto: progetto “Fuori…gioco!”, per la rieducazione dei detenuti attraverso il calcio Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2019 Terminerà sabato 25 Maggio la sesta edizione del Progetto formativo “Fuori…gioco!” che si tiene all’interno del Carcere di Taranto e che ha come obiettivo quello di trasmettere ai detenuti i valori fondanti dello sport come il rispetto delle regole e dell’avversario, convintamente promosso dalla dott.ssa Stefania Baldassari, Direttore della Casa Circondariale e coordinato dall’avv. Giulio Destratis presidente dell’Aps Fuorigioco. Anche quest’anno tra i principali sostenitori dell’iniziativa figurano autorevoli personalità della Magistratura come i Giudici Martino Rosati, Maurizio Carbone e Fulvia Misserini oltreché le massime istituzioni statali e sportive. Le lezioni di aula in tema di tecniche e tattiche di gioco, di giustizia sportiva, di medicina, di ordinamento federale hanno preceduto la fase atletica che ha visto circa venti detenuti-corsisti impegnati in una serie di allenamenti di gioco. Evento culminante del progetto l’ormai classico quadrangolare di calcio all’insegna del Fair Play e della correttezza: le partite tra le rappresentative dei Magistrati, Avvocati, Agenti Penitenziari e detenuti si terranno nel pomeriggio di Sabato 25 Maggio allo Stadio Iacovone di Taranto con inizio alle ore 16. L’ingresso è gratuito. Di rilevo i nomi del calcio italiano che aderiscono ogni anno all’iniziativa: dopo Gianni Rivera, Nicola Legrottaglie, Antonio Cabrini, Claudio Gentile, Franco Selvaggi e Francesco Moriero, in questa sesta edizione interverrà l’ex calciatore del Parma dei miracoli e della Nazionale Italiana Antonio Benarrivo (Vicecampione del mondo ad Usa ‘94 e vincitore più volte di trofei nazionali ed internazionali) che sabato mattina parteciperà alla conferenza stampa dell’evento all’interno del Penitenziario di via Magli, per poi dare il calcio d’inizio nel pomeriggio al quadrangolare di calcio. Radio Radicale, Di Maio affabula: “Tutelarla, ma senza aiuti statali” di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 maggio 2019 Riammesso però l’emendamento che annulla i tagli ai contributi diretti per l’emittente. Al via tre giorni di mobilitazione. “Non ho nessun interesse a far chiudere Radio Radicale ma bisogna trovare una soluzione che tuteli i posti di lavoro senza aiuti diretti dello Stato. Una soluzione che tuteli tutte le radio italiane e non una sola”. Il giorno dopo dello stop definitivo da parte delle Commissioni Bilancio e Finanza della Camera agli emendamenti (leghisti, in particolare) del Dl Crescita che prorogavano di sei mesi la convenzione con Radio Radicale, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio si esercita nell’affabulazione. Ma non spiega perché, ad esempio, la piattaforma Rousseau può vivere con i fondi pubblici prelevati dai compensi dei parlamentari pentastellati, mentre il servizio pubblico fornito da 43 anni dall’emittente può essere azzerato d’emblée. Di Maio però cerca di far dimenticare l’ostinazione rabbiosa con la quale il M5S (e in particolare il sottosegretario con delega all’Editoria, Vito Crimi) ha opposto nelle Commissioni un muro invalicabile contro la richiesta di tutti gli altri gruppi parlamentari di portare la discussione in Aula. E così il vicepremier rivolge un appello al deputato dem Roberto Giachetti, ricoverato in ospedale, affinché interrompa lo sciopero della fame e della sete che sta portando avanti da venerdì scorso. “Sospendo lo sciopero della sete. Sono un nonviolento, non un suicida - fa sapere via Twitter il radicale cresciuto alla scuola nonviolenta di Marco Pannella - Proseguo lo sciopero della fame. E a chi dice che Radio Radicale non deve essere sostenuta dallo Stato, consiglio di consultare l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: quella radio svolge un servizio pubblico”. Più dura la risposta di Emma Bonino, leader di +Europa: “Siamo i primi a volere una gara e la chiediamo da 20 anni. Chiudere Radio Radicale mostra la natura squisitamente autoritaria di un partito, il M5S, che ha bisogno, per sopravvivere, di spacciare le menzogne per verità”. Da ieri poi il Partito Radicale ha dato il via a tre giorni di mobilitazione (ogni sera, fino a venerdì, presidio davanti alla sede romana di via di Torre Argentina) per tenere accesi i riflettori sull’emittente che ha ancora poche settimane di autonomia finanziaria. Eppure, mentre con una mano il M5S fermava la mediazione proposta dalla Lega che avrebbe portato all’esame dell’Aula la proroga della convenzione scaduta il 20 maggio, in modo da dare tempo al Mise di indire una nuova gara, con l’altra mano i leader pentastellati acconsentivano a riaccogliere, tra gli altri, due emendamenti firmati dal capogruppo di Leu, Federico Fornaro, e scartati in un primo momento: non solo quello che sopprime i tagli al fondo per il pluralismo inseriti nella legge di bilancio 2019 e che mette a rischio la vita del manifesto, di Avvenire, Libero e di altre cooperative editrici, ma anche quello che salva i contributi diretti per l’editoria a favore di Radio Radicale. Che sia una svista o una ripicca specifica contro la campagna di protesta radicale che ha raccolta decine di migliaia di firme, lo sapremo tra poco. Dopo le elezioni europee. Radio Radicale è il vero nemico del M5S di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 23 maggio 2019 È colpevole di rendere possibile il confronto delle idee. Perché proprio Radio Radicale? Cerchiamo di capire. Impostura e manipolazione costituiscono il binomio inscindibile, l’endiadi base di ogni politica tendente a totalizzare l’attenzione dei cittadini e suscitare la mobilitazione dei simpatizzanti. Una storia vecchia che risale all’affermarsi del cristianesimo della Chiesa, un’organizzazione costruitasi intorno a una serie di dogmi indimostrabili (l’impostura, almeno per i non credenti) e sviluppatasi mediante la manipolazione dei fedeli. Se pensiamo che ancora nel sedicesimo secolo, nella chiese cattoliche, soprattutto a Roma, si vendevano certificati di sconto dei soggiorni in Purgatorio, definiti in giorni o mesi, ci rendiamo conto di quali degenerazioni avesse comportato la manipolazione operata dalla casta di religiosi, reclutati soprattutto per motivi di sopravvivenza fisica: nelle misere campagne e nelle misere città, l’unica strada per l’agiatezza era quella di mandare i figli in seminario o in convento. Ci voleva il monaco agostiniano Martin Lutero a Roma, nel convento di Santa Maria del Popolo, perché qualcuno si rendesse conto dello scandalo costituito dal traffico delle indulgenze e dai vizi della corte apostolica, luogo di dissoluzioni e di dissipazioni. Più di recente, altri esempi di impostura e manipolazione sono stati vissuti nel secolo scorso a opera del fascismo, del nazismo e del marxismo-leninismo, tutti movimenti passati dalla raccolta di aspirazioni e malcontenti diffusi alla costituzione di regimi nei quali la volontà di piccole oligarchie, se non di un solo uomo, mediante l’impostura e la manipolazione, diventava volontà generale con adesioni pressoché totali. L’Italia del dopoguerra ha visto svilupparsi due fenomeni simili. La Democrazia cristiana del 1948 fu un grande esempio di manipolazione realizzato tramite i Comitati civici insediati nelle parrocchie e basato sul timore del comunismo e sulla difesa dei valori cristiani. Durò poco perché la naturale dialettica delle organizzazioni democratiche, la medesima natura del leader Alcide De Gasperi, uno statista alieno dalla demagogia e privo di qualsiasi velleità totalizzante (tanto che quando, il 18 aprile 1948, ottenne la maggioranza assoluta dei seggi, non realizzò un governo monocolore, ma un quadripartito con liberali, socialdemocratici e repubblicani per il dichiarato scopo di contenere l’esuberanza di alcuni settori democristiani), impedirono il formarsi di un coeso e impermeabile blocco dirigente, aprendo la strada alle correnti e a una sempre accesa dialettica interna. Il Partito Comunista Italiano, dall’altro verso, realizzò un modello quasi perfetto di organizzazione monolitica e forte, basata sull’impostura e la manipolazione. Amara fu la sorpresa di molti militanti (e io ventenne tra essi) quando accaddero (nel 1956) i fatti di Ungheria, testimonianza palpabile della tirannia instaurata in quel paese di cui l’Unione sovietica divenne il braccio armato e marciante sui cingoli dei tanks. Il punto di massima applicazione dell’impostura e della manipolazione venne messo in scena durante la segreteria di Enrico Berlinguer che, mentre continuava (pur storcendo la bocca) a ricevere aiuti finanziari da Mosca, a monopolizzare tramite società del partito il commercio con i paesi della Cortina di ferro, a partecipare al tavolo delle spartizioni con la Dc, lanciava la campagna sulla diversità morale del suo partito e sulla criminalizzazione degli avversari. Il sistema, immaginato con la Repubblica, era un sistema in cui i partiti venivano finanziati dalle quote di iscrizione e dai benefici che il mondo delle imprese pubbliche e private illegalmente concedeva loro. Una devianza e un peccato che continuarono a verificarsi anche quando venne introdotto il finanziamento pubblico. L’abbiamo presa alla lontana proprio per segnalare il clima e le abitudini della politica italiana al momento in cui (1976) Marco Pannella decide di creare Radio Radicale. Da poco si è celebrato il referendum contro la legge sul divorzio (1974) conclusosi con l’ampia vittoria del fronte divorzista. Fra breve (1978) si celebrerà quello sull’aborto, nel quale vince il fronte abortista. E presto verrà la stagione dei referendum radicali, vitali per la qualità della nostra democrazia, tutti frustrati dalla mancata attuazione della volontà popolare. Lo strumento che Pannella aveva immaginato aveva una caratteristica sostanziale e inimitata: trasmettere in diretta tutto ciò che avesse una rilevanza politico-sociale-etica in modo che gli ascoltatori potessero farsi una loro idea senza l’intermediazione di manipolatori e impostori. Un’intuizione rivoluzionaria, in un mondo di giornali e giornalisti accasati e accasabili, nel quale le testate indipendenti ospitavano firme nient’affatto indipendenti, spesso partecipi dell’idea (credo di Cefis) che “è meglio comprare i giornalisti che i giornali”. Radio Radicale, quindi, fu manifestazione militante di lotta contro le bugie. La trasmissione dei dibattiti parlamentari e dei congressi dei partiti costituì un’operazione verità con cui tutti dovevano fare i conti: anche se gli ascolti non erano di massa, bastavano a costituire un’opinione avvertita e consapevole. Anche la trasmissione dei processi (in verità molto combattuta e ostacolata) pose un argine oggettivo all’autoreferenzialità della magistratura, qualche volta impermeabile ai principi di ragionevolezza tout-court e di ragionevolezza dei mezzi giuridici a sostegno di istruttorie e indagini manchevoli o viziate dal pregiudizio. Basti ricordare il caso Tortora che tanto ha insegnato agli italiani pur nulla insegnando al corpo giudiziario. Il concentrato dell’alternativa radicale, si ebbe nella mattutina Rassegna stampa per merito di tutti coloro che ne sono stati incaricati (tra essi, spicca Massimo Bordin che univa all’acuta analisi dei giornali, un’ironia naturale, mai smaccata, sempre graffiante): una palestra, la Rassegna stampa (in questi giorni nelle capaci e acute “mani” di Mario Sechi), per l’esercizio della lotta all’impostura e alla manipolazione, mediante il confronto quotidiano di ciò che i giornali raccontavano e raccontano agli italiani. Non a caso, il titolo del programma, scelto da Pannella, è Stampa e regime. Non c’è quindi da stupirsi se il partito dell’impostura e della manipolazione, di opaca proprietà di un soggetto esterno (Davide Casaleggio) mediante la taroccabile piattaforma Rousseau, ne voglia la chiusura. In Italia, di questi tempi, Radio Radicale con il suo metodo d’informazione è il primo avversario dell’universo grillino, da abbattere alla prima occasione. Anche il capo Luigi Di Maio ieri l’ammetteva quando dichiarava che occorre creare una par condicio tra le radio private: freudianamente, la normalizzazione di Radio Radicale, il desiderio impossibile, il frutto non commestibile da manipolatori e mistificatori. Il conflitto tra due ragioni. Il caso Lambert in Francia di Luigi Manconi La Repubblica, 23 maggio 2019 L’infermiere francese Vincent Lambert, quarantatré anni, da undici in coma e, poi, in stato vegetativo, ignora quanto accade intorno a lui. E non verrà mai a sapere che la sua vicenda è tra quelle che il pensiero giuridico più saggio definisce “scelte tragiche”. Ovvero le decisioni da assumere quando sono in conflitto non una presunta ragione e un presunto torto, bensì due ragioni. E, dunque, due diritti entrambi meritevoli di tutela. In una società complessa com’è la nostra, queste “vertenze senza soluzione” tendono a moltiplicarsi. Un esempio viene offerto dalla storia dell’Ilva di Taranto che mostra crudelmente la tensione, tuttora irrisolta, tra due valori costituzionalmente protetti: il diritto al posto di lavoro e il diritto alla tutela della salute. Altrettanto arduo è il bilanciamento tra la garanzia della più ampia libertà di espressione e l’obbligo di proteggere la reputazione individuale o l’intangibilità di alcune tragedie storiche, come i genocidi. Nel campo delle scelte mediche sulle questioni di fine vita, il dramma di Vincent Lambert ripropone il conflitto tra due beni degni ugualmente di tutela: quello dell’inviolabilità della vita e quello del morire con dignità. È già accaduto nel caso di Terri Schiavo e di moltissimi altri, anche nel nostro Paese. In genere, nelle situazioni citate, secondo le opinioni più equilibrate è scorretto parlare di eutanasia. Siamo in presenza, piuttosto, di rifiuto dell’accanimento terapeutico, di sospensione delle cure, di accelerazione del processo che porta a una morte non evitabile. In ogni caso, sembra davvero improprio e sottilmente blasfemo che, intorno a quelle vicende, si formino schieramenti ideologici, fazioni politiche, cortei confessionali. Sono necessarie, invece, la massima comprensione delle ragioni dell’altro e una autentica compassione per noi tutti: per i morenti e per chi resta. Sono scelte tragiche, appunto, per l’ulteriore motivo che tutte generano dolore, in quanto legate alla coscienza della finitezza dell’esistenza e dell’irreparabile imperfezione delle risorse fisiche e psichiche. È questa consapevolezza che mi impedisce di dirmi un “militante dell’eutanasia”. Sono piuttosto un tremebondo sostenitore della sua ineluttabile necessità in situazioni estreme e a condizioni tassativamente definite. Ma qui, va ribadito, si tratta d’altro: di interruzione delle terapie quando la loro persistenza si riveli inefficace e si traduca in una forma di vano accanimento. Ma anche una circostanza simile può determinare valutazioni opposte. Si pensi al fatto che, sulla decisione di sospendere l’uso del sondino che consente a Lambert la sopravvivenza, una lacerazione attraversa la sua stessa famiglia, tra i genitori contrari e la moglie e i fratelli favorevoli. Il bioeticista Emmanuel Hirsch, intervistato da Avvenire, è d’accordo con i genitori e rifiuta di considerare “la capacità di una relazione e di una comunicazione razionale come l’indicatore essenziale del diritto di vivere”. Diversa l’opinione di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, che nel suo La scelta (Sperling & Kupfer, 2015) così scrive: “La percezione di sé e dell’ambiente” può manifestarsi solo in quei pazienti in stato vegetativo persistente, non necessariamente irreversibile e della durata inferiore all’anno. Se il malato “resta in stato vegetativo per molti mesi, un anno o più, allora lo stato vegetativo si chiama permanente e l’unica evoluzione possibile è la morte”. È il caso, appunto, di Lambert, da undici anni in condizione di incoscienza. Come si vede, la controversia non può essere risolta appellandosi in via esclusiva alle ragioni della scienza: interviene, inevitabilmente, la valutazione soggettiva che discende da diverse culture antropologiche e da differenti concezioni dell’esistenza e del suo senso ultimo. Non mi riferisco alla polemica, superabile, sulla “vita degna di essere vissuta” perché, su questo, qualcosa insegna la pastorale cattolica che rimprovera a un certo laicismo di misurare quel “degna” esclusivamente in base a criteri economicistici, agonistici e salutisti, a motivo di una interpretazione dell’esistenza come prestazione e produzione. Il dilemma resta tutto da indagare: c’è vita in assenza di relazione? E qual è il termine che una ostinazione ragionevole può porle? Sono domande rivolte a tutti, non credenti e credenti. Tanto più se si torna con la memoria a quanto affermato da Pio XII già nel 1957: “L’uso dei narcotici per morenti o malati in pericolo di morte è lecito anche se l’attenuazione del dolore renderà più breve la vita”. Queste parole così anticipatrici non fecero scandalo allora e vengono trascurate oggi dalle stesse gerarchie ecclesiastiche. Forse perché pronunciate nella lingua latina e, dunque, interdette ai più. Open Arms: “Nessuna prova di complicità con i trafficanti per portare i migranti in Italia” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 23 maggio 2019 Ecco le motivazioni con le quali la Procura di Catania ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta a carico del comandante e della capomissione della nave umanitaria spagnola. E il gip ha chiuso tutto. “Nessuna prova dell’esistenza di un programma criminoso da parte dei vertici della Ong volto ad effettuare plurimi salvataggi di migranti in modo illegale per favorirne il successivo ingresso illegale in Italia”. Nette e inequivocabili le motivazioni con le quali è finita in archivio l’inchiesta per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a carico della Ong spagnola e segnatamente di Marc Reig Creus e Ana Montes, comandante e capomissione della nave che il 15 marzo del 2018 soccorse 218 migranti in zona Sar libica in una giornata di molteplici eventi Sar. La Open Arms, poi approdata nel porto di Pozzallo, fu posta sotto sequestro dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che ravvisò nella condotta della Ong gli estremi per aprire un procedimento con la pesante accusa di associazione per delinquere, poi cassata dal presidente dei gip di Catania Nunzio Sarpietro, lo stesso giudice che ha ora accolto la richiesta di archiviazione formulata, ad un anno di distanza dalla Procura. Alla Open Arms venivano contestate non solo le modalità del soccorso ma soprattutto la decisione di non rispettare le indicazioni delle sale operative di Tripoli e di Roma e del governo spagnolo e di non chiedere il porto sicuro neanche a Malta puntando verso l’Italia. Il procuratore Zuccaro, il magistrato che ha sempre detto di avere le prove di contatti diretti tra le Ong e i trafficabti libici, alla fine ha chiuso l’inchiesta con un nulla di fatto. Anche dopo il primo intervento del gip Sarpietro, la Procura di Catania ha continuato ad indagare sui due esponenti della Open Arms disponendo l’analisi e l’estrapolazione dei dati dei telefoni cellulati sequestrati al comandante e alla capomissione della nave. “Tuttavia - scrivono i sostituti procuratori Fabio Regolo e Andrea Bonomo - dall’analisi non emergevano ulteriori rilevanti elementi di prova. A loro carico non sono emersi ulteriori fatti rilevanti e significativi tali da poter fare ritenere provata la loro partecipazione ad un più ampio sodalizio criminoso finalizzato ad una serie indeterminata di delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Da qui la richiesta di archiviazione integralmente accolta dal gip Sarpietro che ha definitivamente mandato in archivia l’inchiesta che per oltre un anno ha adombrato pesantissimi sospetti sulla Open Arms. Il Consiglio d’Europa: “Sotto attacco in Ungheria i diritti di donne e richiedenti asilo” Il Manifesto, 23 maggio 2019 Il rapporto della commissaria dei diritti umani Mijatovic scandaglia a 360 gradi le politiche del governo magiaro su migranti, ong e donne. Non solo i rifugiati, da sempre nel mirino delle politiche restrittive del governo di Budapest, ma anche le donne, che vedono i propri diritti finire sempre più spesso sotto attacco. Sono i loro i soggetti più a rischio nell’Ungheria di Viktor Orbán secondo un rapporto presentato ieri al Consiglio d’Europa. “Ritengo che i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere stiano perdendo terreno”, ha denunciato Dunja Mijatovic, commissaria dei diritti umani che al termine di un visita nel Paese compiuta dal 4 all’8 febbraio scorsi. Il rapporto della Mijatovic scandaglia a 360 gradi le politiche del governo magiaro su migranti, ong e donne. Per quanto riguarda queste ultime, la commissaria ha preso in esame gli incentivi decisi da Budapest per incrementare le nascite nel Paese che spingerebbero a relegare le donne in un ambito esclusivamente casalingo. “La politica del governo - scrive Mijatovic - collega la questione femminile a quelle familiari e le autorità hanno cessato di attuare una specifica strategia per l’uguaglianza di genere”. I risultati sono che la presenza delle donne in politica è “straordinariamente bassa”, e sebbene il governo cerchi di innalzare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, al centro del nuovo piano sulla famiglia ci sono le madre con numerosi figli. “Questo rischia di rinforzare gli stereotipi di genere molto presenti nel discorso pubblico - avverte ancora Mijatovic - e di strumentalizzare le donne come mezzo per attuare la politica demografica e migratoria del governo”. La commissaria non manca di annotare anche i casi di violenza contro le donne commessi in Ungheria: il 28% delle donne con un’età pari o superiore ai 15 anni ha subito violenze fisiche o sessuali e il 42% molestie sessuali. Più note le difficoltà che vivono i rifugiati e le ong che li aiutano. I richiedenti asilo sono detenuti in due zone di transitano situate ai confini con la Serbia dove, secondo il rapporto del Consiglio d’Europa, non è raro che vengano privati del cibo e siano vittime “di un uso eccessivo della violenza da parte della polizia” durante la loro rimozione forzata. Il rapporto sottolinea infine come la recente legislazione abbia imposto vincoli alla società civile, stigmatizzando e criminalizzando il lavoro delle ong. Siria. Gli Usa: “Assad ha di nuovo usato armi chimiche, siamo pronti a rispondere” La Stampa, 23 maggio 2019 Secondo l’Onu 180 mila civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie case fra il 29 aprile e il 9 maggio in seguito all’offensiva del governo siriano. Gli Stati Uniti sospettano che il regime di Assad abbia nuovamente usato armi chimiche in Siria. E si dicono pronti, insieme agli alleati, a “rispondere rapidamente e in modo appropriato”. Un’eventualità che apre per Donald Trump un nuovo fronte di scontro in Medio Oriente dopo l’Iran. Su Teheran il capo del Pentagono ad interim, Pat Shanahan, ha cercato di smorzare i toni: le azioni prese sono un “deterrente, non vogliamo un’escalation della situazione, non sono guerra”. “Gli Stati Uniti continuano a monitorare da vicino le operazioni del regime di Assad nel nord ovest della Siria, incluse le indicazioni di un nuovo uso di armi chimiche da parte del regime” afferma il portavoce del Dipartimento di Stato, Morgan Ortagus. “Sfortunatamente continuiamo a vedere segnali sul fatto che il regime di Assad possa averle usate di nuovo, incluso un presunto attacco il 19 maggio”. Parole che arrivano come una doccia fredda sul quadro già drammatico dipinto dall’Onu. In un rapporto le Nazioni Unite segnalano che 180.000 civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie case tra le regioni di Hama e Idlib fra il 29 aprile e il 9 maggio in seguito all’offensiva del governo siriano e russa nell’area. Secondo l’Onu l’offensiva ha creato particolare problemi a circa 250.000 bambini e ragazzi in età scolare, che hanno subito conseguenze a causa del conflitto nella Siria nord-occidentale innescato a fine aprile dall’offensiva aerea e di terra delle truppe governative sostenute dalle forze russe contro miliziani anti-regime tra cui qaidisti. Trump ha annunciato nei mesi il ritiro delle truppe americane dalla Siria in seguito alla sconfitta dell’Isis nel paese. Ma la tensione in Siria non si è allentata e negli ultimi mesi si sono inaspriti i toni anche con gli Stati Uniti. Il ministero degli Esteri siriano ha infatti criticato aspramente la decisione di Trump di riconoscere l’annessione israeliana delle Alture del Golan. La Ue alla Cina: rilasci gli avvocati dei diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 maggio 2019 L’Unione Europea si aspetta dalle autorità cinesi l’immediato rilascio dell’avvocato Yu Wensheng, così come di altri difensori dei diritti umani detenuti e condannati tra cui Wang Quanzhang, Qin Yongmin, Gao Zhisheng, Ilham Tohti, Huang Qi, Tashi Wangchuk, Li Yuhan, Wu Gan e Liu Feiyue. Lo ha dichiarato il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). L’organismo ha sottolineato come il noto avvocato cinese per i diritti umani, Yu Wensheng, che per diversi anni ha difeso i diritti umani, promosso lo stato di diritto in Cina e rappresentato attivisti e avvocati per i diritti umani, è stato processato a porte chiuse il 9 maggio presso il tribunale popolare intermedio della città di Xuzhou. In questo contesto, secondo il Seae, non sono stati rispettati i suoi diritti ai sensi della legge sulla procedura penale cinese né gli obblighi della legge internazionale per un processo equo, senza indebito ritardo, per la difesa adeguata e l’accesso a un avvocato di sua scelta. Poiché la data del processo non è stata annunciata pubblicamente in modo tempestivo, né la sua famiglia né l’avvocato nominato erano in grado di partecipare al processo. “In linea con il loro dichiarato obiettivo di rafforzare lo stato di diritto, le autorità cinesi dovrebbero rispettare gli obblighi di legge internazionali della Cina, inclusa la Dichiarazione universale dei diritti umani, e rispettare i diritti di tutti i cittadini come garantito dalla Costituzione cinese. L’Unione europea si aspetta l’immediato rilascio di Yu Wensheng, così come di altri difensori dei diritti umani detenuti e condannati e avvocati tra cui Wang Quanzhang, Qin Yongmin, Gao Zhisheng, Ilham Tohti, Huang Qi, Tashi Wangchuk, Li Yuhan, Wu Gan e Liu Feiyue”. Cinquantaduemila persone detenute alla frontiera statunitense Migliaia di migranti in isolamento L’Osservatore Romano, 23 maggio 2019 Sono 52.000 gli immigrati detenuti dall’Immigration and Customs Enforcement (Ice) degli Stati Uniti. A darne notizia ai media locali sono stati alcuni funzionari, secondo i quali si riscontra un numero record, che ha registrato un picco rispetto a due settimane fa, quando erano circa 49 mila. Si tratta di persone che tentando di entrare nel paese, bloccate in alcuni casi per settimane o mesi anche in celle di isolamento. Il sovraffollamento delle strutture di detenzione temporanea insieme alle lentezze nelle pratiche burocratiche per esaminare le richieste di asilo comportano notevoli disagi e sofferenze per i migranti. Ma a preoccupare sono soprattutto le misure di isolamento a cui sarebbero sottoposti. Numerosi i casi registrati di persone colpite da ansia, rabbia, depressione e impulsi suicidi. Secondo un rapporto della piattaforma informativa sul web 7he Intercept, specializzata sul tema, migliaia di immigrati sarebbero stati costretti a stare in isolamento anche per reati minori. “I funzionari dell’immigrazione - si legge stanno usando l’isolamento come punizione standard invece che come ultima risorsa, costringendo le persone a stare 23 ore al giorno da sole anche per mesi”. A denunciare questo dramma è anche il rapporto pubblicato negli ultimi giorni dal consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (con sede a Washington), nel quale si evidenzia che migliaia di immigrati di diverse nazionalità detenuti dalle autorità statunitensi hanno trascorso più di quindici giorni e, in decine di casi, fino a un anno, o anche oltre, in isolamento. Più della metà dei detenuti provengono da Messico, El Salvador, Honduras e Guatemala. L’Ice, rivela il rapporto, utilizza l’isolamento come strumento per perseguire e punire “anche i detenuti più vulnerabili per settimane e mesi”, nonostante le proprie linee guida mettano in guardia che “si tratta di una misura seria che richiede un’attenta valutazione delle alternative”. Mauritania. Inizia il terzo mese di carcere per due blogger che denunciarono la corruzione di Riccardo Noury articolo21.org, 23 maggio 2019 Cheikh Ould Jiddou e Abderrahmane Weddady hanno terminato oggi il loro secondo mese di detenzione e non è chiaro quanto altro tempo dovranno trascorrere in cella. I due famosi blogger, esempio e fonte d’ispirazione per molti giovani della Mauritania, sono stati arrestati il 22 marzo nella capitale Nouakchott dal reparto Crimini economici della polizia per aver fatto “accuse calunniose”. La colpa di Cheikh Ould Jiddou e Abderrahmane Weddady è di aver pubblicato su Facebook una serie di post sulla corruzione all’interno del governo. Nessun reato dunque. Per di più, i due blogger si sono limitati a riprendere articoli della stampa internazionale secondo i quali gli Emirati Arabi Uniti avevano congelato conti bancari su cui persone vicine al governo mauritano avevano depositato circa due miliardi di dollari. Le organizzazioni per i diritti umani continuano a chiedere che Cheikh Ould Jiddou e Abderrahmane Weddady siano rilasciati.