Morte in carcere, una storia da riscrivere di Franco Corleone Il Manifesto, 22 maggio 2019 Giovedì scorso un giovane di ventiquattro anni di Empoli è morto nel carcere di Sollicciano dopo aver sniffato il gas della bomboletta del fornellino da campeggio che serve per cucinare o farsi il caffè. Era stato condannato in primo grado per furto di una bicicletta, un reato fastidioso ma non certo grave che la Giustizia ha colpito in maniera inflessibile applicando il totem del carcere come pena unica e certa. Si tratta di una tragedia annunciata, perché tutti sanno che il gas viene usato da molti detenuti che fanno uso di sostanze stupefacenti per “sballarsi”. Le bombolette potrebbero essere anche uno strumento di guerra in caso di rivolta, ma questo uso è fuori moda perché le carceri sono normalizzate; nessuno intende mettere a rischio i giorni della liberazione anticipata, dunque i detenuti tendono a subire tutto in silenzio, perfino la violazione dei propri diritti. La popolazione delle prigioni è perlopiù composta da poveri, immigrati, tossicodipendenti che parlano con il proprio corpo, con i suicidi e l’autolesionismo. Le notti in carcere sono caratterizzate dalle tre T: televisione, terapia, tagli. E il sangue scorre. C’è da augurarsi che la risposta dell’amministrazione penitenziaria non sia di vietare i fornellini, anche per evitare proteste e mantenere il senso di una quotidianità normale. È troppo pretendere invece che questa morte insensata obblighi a una riflessione sulla natura della pena carceraria, che Sandro Margara, guardando alla composizione della popolazione detenuta, definiva come “detenzione sociale”? Se oltre il 35 per cento è in carcere per violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/90 che punisce la detenzione e il piccolo spaccio di droghe illegali e il 25 per cento per reati predatori (furti, scippi, rapine) legati alla condizione di marginalità di chi è classificato come tossicodipendente, non sarebbe doveroso ragionare sul fallimento della politica proibizionista e punitiva e sulla vanità della istanza terapeutica unicamente mirata all’astinenza forzata? Una linea intelligente e umana si scontra oggi con l’insipienza di capipopolo che pretendono aumenti di pena per questi reati e addirittura l’abolizione della fattispecie prevista per i fatti di lieve entità, con la conseguenza, se questa pretesa si realizzasse, di riempire ancora di più le carceri e far condannare l’Italia per trattamenti crudeli e degradanti. Bisogna andare controcorrente ed essere intransigenti: i garanti dei diritti delle persone private della libertà devono chiedere il rigoroso rispetto dell’Ordinamento Penitenziario e del Regolamento del 2000, sistematicamente disatteso, con denunce circostanziate. La prima cosa da fare, come riduzione del danno, è pretendere l’installazione delle piastre elettriche a induzione, proposta che è stata raccolta dal Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e rilanciata al ministro della Giustizia Bonafede. Infine, va aperto un confronto sul senso dei divieti che dominano la vita quotidiana nelle patrie galere. È vietato, contro la legge, l’acquisto di vino e birra, è vietato il diritto alla sessualità e alla affettività, i colloqui e le telefonate sono regolamentati in maniera burocratica, mancano mense e spacci, le biblioteche sono depositi di libri e non luoghi di lettura e studio. Insomma il ritmo di vita è costruito per mantenere le persone in stato di totale e umiliante dipendenza, di “minorazione” infantilizzante, e non per creare autonomia e responsabilità. Certo se in una sezione dedicata ai “tossicodipendenti” al termine di una giornata di trattamento, i detenuti sniffano gas, qualcosa davvero non va. È ora di una grande riforma o di riconoscere che il carcere è un male che non cura le ferite sociali. Siamo di fronte a quella che Fabrizio De Andrè descriveva come “una storia sbagliata”. Dobbiamo riscriverla. I detenuti suicidi e la morte della politica di Emanuele Macaluso facebook.com, 22 maggio 2019 Leggendo i giornali sono stato favorevolmente sorpreso dal fatto che Il Venerdì di Repubblica riporti, con grande rilievo, un’inchiesta sulle carceri italiane. La copertina del settimanale riassume la questione e annuncia che nel 2018, nelle carceri italiane, ci sono stati 64 suicidi, 1.197 tentativi di suicidio, 10.368 atti di autolesionismo. Negli istituti di pena italiani, come sappiamo, c’è un sovraffollamento che è stato ripetutamente messo sotto accusa dai tribunali europei. Su questo spazio, prima e dopo le elezioni politiche, avevamo commentato con favore la riforma penitenziaria messa in campo dal ministro Andrea Orlando e che, dopo tanto penare, il parlamento aveva quasi approvato con la dura opposizione della destra e dei grillini. Dico quasi perché mancava un ultimo voto alla vigilia del voto ma il governo Gentiloni non mise ai voti il provvedimento spaventato dalla campagna dei Cinquestelle e delle forze di destra. Dopo le elezioni la prima cosa annunciata dal governo Conte e dal ministro Bonafede è stato l’affossamento di quella legge. Le condizioni delle carceri sono gravi, non solo per il sovraffollamento ma per le condizioni generali in cui si trovano i reclusi: mancanza di lavoro e di attività che facilitino un reinserimento in società alla fine della pena, come vuole la Costituzione, condizioni sanitarie precarie e altre deficienze ben descritte nei servizi del “Venerdì”. Sappiamo bene che c’è qualche eccezione di buon funzionamento, come il carcere di Opera a Milano di cui tanto giustamente s’è parlato e che qualche magistrato e giornalista definisce, addirittura, come un hotel a cinque stelle dato che le condizioni di vita dei detenuti sono considerate buone. Fabio Tonacci, che firma uno dei servizi del settimanale, osserva: “Sono prigioni. Nessuno si aspetta che siano parchi giochi. Solo che in Italia è peggio che altrove: abbiamo un tasso di suicidi tra i detenuti che è 20 volte superiore a quello della popolazione libera e solo noi, in Europa, abbiamo un rapporto così sbilanciato. In Francia è 12,6 volte superiore rispetto all’esterno, in Svezia 9,3, in Spagna appena il 4,7”. Nel servizio viene raccontato quel che è capitato al giovane Hassan Sharaf, 21 anni, suicidatosi nel carcere di Viterbo: “Non doveva essere a Viterbo e non doveva essere messo in isolamento. La sua pena, per un reato commesso, l’aveva già scontata. Gli rimanevano 4 mesi di condanna per droga, esito di un processo iniziato quando era adolescente -Avrebbero dovuto trasferirlo in un istituto minorile e comunque non era consigliabile sottoporlo a regime di isolamento, dice Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone prive di libertà”. Infine, sempre Mauro Palma parlando delle carceri dice: “Un buco nero perché di carceri e carcerati la politica non parla più”. Ed è vero. Tranne i radicali. Con Rita Bernardini ed altri e Radio Radicale con le trasmissioni settimanali, la lettura delle lettere dei carcerati, la battaglia per le riforme. Ma, come abbiamo raccontato già da tempo, il governo, non rinnovando il contributo a Radio Radicale, possibilmente ne determinerà la chiusura. Abbiamo fatto queste considerazioni sperando che altre forze politiche, soprattutto la sinistra, riprendendo anche la riforma Orlando, riproponga con forza il tema delle carceri. Se anche il carcere è maschio di Susanna Ripamonti huffingtonpost.it, 22 maggio 2019 Le donne, in Italia e nel mondo, delinquono molto meno degli uomini, ma paradossalmente anche per questo, quando entrano in carcere sono penalizzate. Le detenute in Italia sono il 4,4% della popolazione carceraria, allineate con la media Europea. Si tratta di un dato storico, che non ha mai subito significative oscillazioni, ed essendo da sempre una minoranza carceraria, come tali sono trattate. Il Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, lo ammette: la donna in carcere è discriminata. In un documento elaborato per l’aggiornamento del personale (Piaf, Pensare insieme al femminile) afferma: “La donna detenuta si trova a vivere una realtà fatta e pensata nella struttura, nelle regole, nelle relazioni, nel vissuto da e per gli uomini: uno sguardo maschile sull’universo detentivo femminile che ha difficoltà a cogliere gli aspetti di specificità e tipicità proprie delle donne, che la detenzione non cancella, ma anzi rafforza”. Le 2.656 donne attualmente recluse sono sparse in 52 piccoli reparti di penitenziari maschili, in cui non hanno le stesse opportunità degli uomini, neppure nelle carceri in cui ci sono standard detentivi accettabili. Le donne in carcere hanno percentualmente maggiori opportunità lavorative rispetto agli uomini, ma si tratta generalmente di lavori non professionalizzanti, per esempio addette alle pulizie, alle cucine o alla manutenzione. In Italia sono quattro gli istituti esclusivamente femminili: Pozzuoli, una cupa struttura risalente al XVIII secolo, in origine un convento successivamente adibito a manicomio giudiziario e poi a casa circondariale femminile. C’è poi la Casa di reclusione della Giudecca, a Venezia, che ha sede in un antico monastero del XII secolo. Qui le 80 detenute possono svolgere attività qualificate, per la produzione di cosmetici, ma è una possibilità accessibile solo a un gruppo ristretto. A Roma Rebibbia, 361 recluse, una dozzina sono assunte da terzi per attività artigianali, altre 130 addette a lavori di manutenzione, pulizia, cucina, soggetti a turnazione. A Trani su 28 recluse solo quattro lavorano e il numero dei poliziotti è superiore a quello delle detenute: sono 34. Educatori, nessuno. Il 90 per cento delle detenute sono madri e una buona metà ha figli minorenni. In particolare sono 49 le detenute madri recluse con i propri figli, un totale di 54 bambini che scontano la galera insieme a loro, spesso in spazi inadeguati e in condizioni di isolamento e di totale assenza di socialità con i propri coetanei. In generale è dunque la sfera affettiva a risentire maggiormente della detenzione e a creare sofferenza, per la limitatezza delle ore di colloquio e di contatto telefonico con i propri cari, un problema che ovviamente riguarda tutta la popolazione detenuta, maschile e femminile. In carcere un detenuto senza figli ha complessivamente a disposizione 72 ore all’anno di colloquio che equivalgono a tre giorni, ai quali si aggiungono 10 minuti settimanali di telefonata. Se un familiare è ammalato, se un figlio deve superare un esame, se c’è una qualunque emergenza, deve aspettare una settimana per avere notizie da casa. Gli uomini surrogano la privazione del ruolo di sostegno alla famiglia lavorando e mandando soldi a casa. Le donne invece, si sentono deprivate anche del ruolo di accudimento che tradizionalmente svolgono e addirittura a volte chiedono di poter lavare e stirare in carcere i panni del marito o dei figli: invece di ricevere da casa il pacco con la biancheria pulita portata dai familiari in visita, avviene il contrario. Il distacco con la famiglia accentua l’insofferenza alla detenzione, un malessere che spesso si traduce in disturbi come amenorrea, gastriti, depressione, stati d’ansia, tutte patologie sulle quali si interviene con la somministrazione di psicofarmaci, che trasformano i reparti femminili in reparti costantemente sedati e rallentati da una calma chimica indotta. Alcune peculiarità dell’essere femminile appaiono raramente considerate nella quotidianità penitenziaria: Roberta, cinquant’anni, arrivata a Bollate dopo 14 anni di reclusione scontati in altri istituti, per la prima volta ha potuto rivedere in uno specchio grande la sua figura intera, di cui aveva ormai perso la percezione e i contorni. Anche così, un corpo recluso per anni, diventa estraneo a chi lo abita. C’è inoltre una sostanziale differenza di genere nel modo di vivere la detenzione. Gli uomini hanno una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente o di accettare la carcerazione come logica conseguenza di comportamenti devianti. Le donne considerano i reati che le hanno portate a perdere la libertà, come incidenti di percorso e non come scelte di vita consapevoli. C’è un senso di vergogna e la preoccupazione per il dopo, legata alle possibilità di reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate e di poter tornare a vivere un’esistenza normale, proprio perché spesso hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle. Gli uomini generalmente dicono: “Il carcere o lo vivi o lo subisci” e in genere cercano di viverlo. Le donne lo considerano un’interruzione della vita e spesso si rifiutano di partecipare alle attività o le seguono con una discontinuità dettata dall’alternanza degli stati d’animo. In generale le donne sembrano più centrate sulla relazione che sull’azione, un altro modo per dire che subiscono il carcere e sono più in balia delle dinamiche relazionali. Affermano gli analisti del Dap: il carcere maschile è un contenitore della razionalità tipica dell’uomo, il carcere femminile racchiude un sistema emotivo-emozionale tipico della donna. Un’affermazione che sembra legata a un classico stereotipo, ma che in carcere, dove ci si spoglia dei ruoli ricoperti nella vita esterna, emerge nella sua nuda essenza. “No all’ergastolo per un ragazzo di 20 anni, è incompatibile con il fine rieducativo” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 22 maggio 2019 Il Fine Pena Mai, per un ragazzo di vent’anni, non è compatibile con la Costituzione, che auspica la rieducazione del condannato”. È quanto sostiene, nella sua requisitoria a Napoli, il pm Woodcock in un processo a due fratelli accusati di omicidio. Non ha chiesto l’ergastolo, non ha invocato il fine pena mai come sbocco scontato in un processo per l’omicidio di Emanuele Errico, un ragazzo di appena 19 anni. Ha chiesto invece una condanna a trent’anni per i due imputati, anch’essi giovanissimi e incensurati, legati alla vittima da un destino comune: essere figli del “Conocal”, una sorta di “bronx” minore dove in questi anni si sono alternate faide di camorra, armistizi, fiammate di violenza, tregue, sempre e comunque all’ombra delle piazze di spaccio. Aula 412, gup Rosaria Maria Aufieri, parla il pm Henry John Woodcock, che condusse un’inchiesta lampo culminata mesi fa in un blitz in Calabria, dove vennero arrestati i fratelli Nicola e Antony Spina, oggi di 23 e 19 anni, ritenuti responsabili dell’omicidio del 19enne: un delitto avvenuto al termine di una lite per la spartizione dei proventi di un bottino. Chiaro il ragionamento del pm, interamente improntato al rispetto di un principio cardine della Costituzione, che impone la funzione riabilitativa della pena: “Il fine pena mai, per un ragazzo di venti anni non è compatibile con l’articolo 27 della Costituzione, che auspica la rieducazione del condannato e che dovrebbe indurre a non comminare l’ergastolo”. Altro tasto sul quale ha battuto il pm ieri in aula riguarda la effettività della pena, “che deve essere comunque scontata fino in fondo”. Non è una storia di camorra, quella ricostruita in aula, né una esecuzione operata da killer professionisti per scompaginare vecchi equilibri criminali, ma un delitto maturato in un contesto segnato comunque dalla violenza e dalla mancanza di sbocchi. Ed è in questo senso, che il pm chiede per i due imputati un verdetto esemplare ma a termine, nella speranza che in carcere possa avere corso un processo ai emancipazione individuale. Brutta storia quella raccontata dalle carte dell’inchiesta sull’omicidio Errico, con un colpo di pistola alla schiena che sarebbe stato esploso alle spalle del 19enne, ma anche il tentato omicidio del 30enne Rosario Denaro e Mariano Moscerino, nonché le aggravanti di aver agito con premeditazione, con i motivi futili e abbietti e con l’uso di armi illegalmente detenute, oltre al tentativo di cancellare le prove, la fuga a Castelvolturno prima e a Scalea dopo. Tocca ai penalisti Roberto Saccomanno e Sergio Simpatico replicare alle accuse (sentenza prevista a metà luglio), mentre ieri mattina non è mancato un colpo di scena: due esponenti delle forze dell’ordine hanno arrestato Antonio Spina, padre dei due imputati, al quale hanno notificato una misura cautelare ai domiciliari per una storia di furti. Anche questo fa parte della mala periferia napoletana. In 12 carceri il progetto CO2 “Controllare l’odio” ondamusicale.it, 22 maggio 2019 Ideato e realizzato da Franco Mussida con il coordinamento del CPM Music Institute, che consiste nell’installazione di speciali audioteche di sola musica strumentale divisa per stati d’animo attive in 12 carceri italiane potrà gestirsi autonomamente e diventare parte integrante degli Istituti che lo ospitano. L’ampliamento e l’aggiornamento periodico della rete di audioteche, realizzate con la collaborazione di un comitato scientifico che ne ha certificato lo straordinario valore educativo e umanistico-sociale, verrà seguito direttamente dal CPM Music Institute, che gode del riconoscimento del MIUR ed ha al suo interno uno specifico comparto di ricerca che opera nell’ambito della Musica come scienza umanistica. “La rete di audioteche del progetto CO2, aggiornate e costantemente ampliate dagli stessi detenuti - spiega Franco Mussida in merito al progetto - hanno in comune un database che contiene migliaia di brani di sola Musica strumentale di ogni genere e forma, divisi per grandi famiglie di stati d’animo. Tradotte in 10 lingue, le audioteche consentono ai comuni ascoltatori, e alle popolazioni migranti, di godere di tempo di qualità attraverso uno speciale metodo di ascolto emotivo consapevole. Permette di assumere così quella speciale “vitamina emotiva sonora” che pervade ciò che tutti noi chiamiamo Musica, e che grazie al lavoro e alla genialità dei compositori di tutte le epoche viene messa in moto ed assimilata, rendendo così più consapevole il valore del nostro mondo interiore, della nostra comune struttura emotiva, e della nostra singola struttura affettiva”. Il progetto CO2, premiato con la medaglia della Presidenza della Repubblica nel 2017, ha come obiettivo quello di offrire e preservare momenti di intima riflessione a comuni ascoltatori detenuti, grazie a una rete di audioteche unica nel suo genere, in Europa e non solo, realizzata con strumenti tecnologicamente avanzati (iPad e Mac). Le audioteche sono dotate di un comune database che comprende migliaia di brani di Musica esclusivamente strumentale di ogni genere, come composizioni orchestrali, colonne sonore, musica classica, pop rock, elettronica e musica etnica. Tutto il repertorio è diviso per stati d’animo, rappresentati da 9 grandi famiglie emotive composte a loro volta da un totale di 27 varianti. Attraverso una particolare procedura di ascolto guidato, si rende apprezzabile il valore del lavoro che la Musica svolge nella singola area affettiva delle persone, portando quiete, riflessività, e la percezione di una comune uguaglianza che vive nella sfera emotiva e che prescinde da cultura ed etnie. L’iniziativa impegna decine di persone tra coordinatori musicisti e tecnici e un comitato scientifico che collabora con l’Università di Pavia e d è patrocinata dal Ministero della Giustizia. Di seguito il calendario delle prime cerimonie di donazione nelle rispettive carceri che hanno aderito al progetto CO2: - Martedì 21 maggio - Casa Circondariale Santa Maria Maggiore, Venezia (ore 16.00) - Martedì 28 maggio - Casa Circondariale Cantiello e Gaeta, Alessandria (ore 14.30) - Martedì 4 giugno - Casa Circondariale Rebibbia sez. Femminile, Roma (ore 11.00) - Mercoledì 5 giugno - Casa Circondariale Secondigliano, Napoli (ore 11.00) - Mercoledì 12 giugno - Casa Circondariale Marassi, Genova - Mercoledì 10 luglio - Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, Torino (ore 15.15) In via di definizione le date delle cerimonie nella Casa Circondariale San Vittore (MI), Casa di Reclusione Opera (MI), Casa Circondariale di Monza, Casa Circondariale Sollicciano (FI), Casa Circondariale D’Amato La Dozza (BO). Alle cerimonie “Spettacolo in cui verrà celebrata l’Audioteca CO2”, che prevedono il coinvolgimento attivo dei detenuti, presenzieranno le autorità di ciascun Istituto: Direttore, Educatori, Comandante della PP, eventuali personalità del Ministero della Giustizia e la partecipazione della Direzione SIAE attraverso un video saluto. Seguirà la cerimonia di intitolazione delle audioteche che prenderanno i nomi di musicisti compositori il cui impegno è stato speso per la divulgazione del linguaggio della Musica strumentale, o di figure che in quel territorio specifico si sono spese per crescere la cultura e preservare la dignità delle persone recluse. Sarà inoltre consegnato ad ogni rispettivo istituto un Poster artistico con il nome della personalità prescelta a cui verrà donato il libro scritto da Franco Mussida, dal titolo “Il Pianeta della Musica. Come la Musica dialoga con le nostre emozioni” (Salani Editore), che raccoglie i principi su cui si fonda il progetto CO2. Il CPM Music Institute di Milano nasce ed è presieduto da Mussida dal 1984. Propone un particolare modello didattico che abbraccia le professioni legate agli strumenti dell’orchestra moderna a quelle dell’indotto musicale (dai tecnici del suono ai produttori). Ha offerto e offre a migliaia di giovani l’opportunità di ritagliarsi spazi di lavoro e di prospettiva creativa. Gode del riconoscimento AFAM da parte del MIUR per il rilascio del Diploma Accademico di Primo Livello in Popular Music equivalente alla Laurea Triennale, e riconosciuto sul territorio nazionale e in tutti i Paesi Europei. Dal Novembre 2018 è membro dell’AEC - Association Européenne des Conservatoires, Académies de Musique et Musikhochschulen, che rappresenta gli Istituti Superiori di Educazione Musicale. Grazie alla stima di tutto il comparto musicale, il CPM Music Institute è riconosciuto crocevia per il mercato dei lavori della Musica. Ruolo ribadito nelle sue Open Week, che dal 2007 permettono ai suoi allievi - ma anche agli appassionati di Musica - di incontrare artisti e strumentisti di prestigio italiani e internazionali tra cui Ligabue, Guccini, Elisa, Caparezza, Daniele Silvestri, Enrico Ruggeri, Ermal Meta, Peppe Vessicchio, Vince Tempera, Brunori SAS, Robben Ford, Tony Levin, Gavin Harrison, Mary Setrakian, Joey Blake. Molti dei suoi diplomati lavorano in orchestre prestigiose, suonano e cantano per gruppi e artisti di grande appeal (da Laura Pausini alla PFM), altri hanno intrapreso carriere artistiche proprie da Chiara Galiazzo a Renzo Rubino fino a Cordio e Mahmood, vincitore di Sanremo 2019. Dal 1988, attraverso progetti di ricerca che utilizzano le proprietà educatrici della Musica, si occupa di portarla in luoghi estremi. Tra i tanti progetti italiani ed europei realizzati, l’ultimo in ordine di tempo è CO2. Concorre inoltre a realizzare progetti musicali educativi per l’industria, come la progettazione di una radio di qualità per il circuito NaturaSì e i corsi formativi per i partecipanti ad Area Sanremo TIM 2018. Il cattivismo fuorilegge di Michele Ainis La Repubblica, 22 maggio 2019 C’è un problema giuridico sul decreto sicurezza bis. Ma c’è anche un problema contabile. Perché in realtà i decreti sono tre, quattro, cinque. Ogni ministro dell’Interno ne spara un paio all’esterno. Pallottole di carta, che si conficcano nella carne dei più deboli: drogati, accattoni, vagabondi. E naturalmente gli immigrati. L’eterno bersaglio dei decreti sicurezza è quest’umanità misera, dolente. Ma a conti fatti ne sono vittime tutti gli italiani. Giacché l’ossessione della sicurezza genera maggiore insicurezza, ci rende più fragili, più esposti. Cominciò Maroni, un altro capitano della Lega. Nel maggio 2008 il decreto legge n. 92 autorizzò l’impiego dei militari in città; stabilì un aumento generalizzato delle pene; introdusse l’aggravante di clandestinità (annullata poi dalla Consulta); si spinse a prevedere la confisca della casa per chi l’avesse affittata ai clandestini. Ma siccome la sicurezza non è mai abbastanza, l’anno dopo Maroni firma un secondo decreto: n.11 del 2009. Sicché l’immigrazione clandestina diventa un crimine, come il furto o l’omicidio. Torna il reato d’oltraggio a pubblico ufficiale, che in precedenza era stato abrogato. Cambiano (in peggio) molti articoli del codice penale e del codice di procedura penale. Vengono benedette dalla legge le ronde di cittadini sulle strade. Però il cattivismo non è monopolio esclusivo della destra. Anche la sinistra, talvolta, ha usato le maniere forti. Con il decreto Minniti, per esempio: n. 14 del febbraio 2017. Oggetto: la sicurezza urbana, tanto per cambiare. Sicché Daspo per gli spacciatori. Nonché - fra varie altre misure - la possibilità di “arresto in flagranza differita”, ossia una sorta di macchina del tempo, che trasporta il passato nel presente. Sarà per questo che da allora in poi il decreto sicurezza prende una cadenza annuale, come il milleproroghe. E nel 2018 tocca al decreto Salvini (n. 113). Dove si prolunga la durata della reclusione (pardon, “trattenimento”) degli stranieri nei Centri di permanenza per il rimpatrio; si punisce l’accattonaggio; s’infliggono castighi a destra e a manca. Infine, in questo freddo maggio del 2019, raddoppio di Salvini, e raddoppio dei castighi. Compresi quelli destinati a chi oltraggia un pubblico ufficiale, dieci anni dopo l’intervento di Maroni. In aggiunta, l’uso di poliziotti sotto copertura. Carcere per la partecipazione a cortei non autorizzati. Divieto di proteggersi dalle manganellate delle forze dell’ordine. Multe (da 10 a 50 mila euro) per le navi che violano il divieto di ingresso nelle nostre acque territoriali. Perfino l’Onu ha marcato il sopracciglio (letteraccia di 11 pagine al governo italiano); invece lui, il ministro, non ha battuto ciglio. Nel frattempo, però, siamo tutti un po’ accigliati. Perché questi decreti sono ansiogeni come un temporale. Ci mettono paura, anziché tranquillizzarci. Intanto per il loro abito giuridico, per la veste formale con cui s’affacciano allo sguardo. Un decreto legge - dice l’articolo 77 della Costituzione - può venire adottato dal governo soltanto “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”. Quindi dinanzi a un pericolo incombente, pressante, opprimente. Noi magari non ci avevamo fatto caso, o magari quel pericolo è una trovata elettorale del ministro; ma per reazione cí barrichiamo dentro casa. E in secondo luogo ogni decreto - aggiunge la Costituzione - è un provvedimento “provvisorio”. Dura 60 giorni, ed entro quel termine va convertito in legge dalle Camere. Altrimenti svanisce come una nuvola di fumo. Di conseguenza i cittadini sono tenuti a obbedirvi, ma rischiando d’obbedire a una norma che non c’è. Appunto, il pericolo indotto dai decreti. Nel caso del decreto sicurezza bis (o meglio quinquies), il pericolo concreto risiede però nella sua incostituzionalità. Più che probabile, sicura. Giacché le garanzie costituzionali vennero concepite in soccorso dei più deboli, di chi occupa gli ultimi posti della fila. I forti non ne hanno bisogno, loro si difendono da sé. È un mondo a rovescio, perciò, quello che sbuca fuori dal decreto. Ma soprattutto è una Costituzione rovesciata. Dl Sicurezza, Salvini sfida il Quirinale. I dubbi del M5S sul via libera alla Lega di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo La Stampa, 22 maggio 2019 Giuseppe Conte oggi salirà al Quirinale per discutere con Sergio Mattarella del Decreto sicurezza bis, il pacchetto di norme che Matteo Salvini ha imposto nel rush finale della campagna elettorale. Da come andrà il colloquio tra il premier e il presidente della Repubblica dipenderà la convocazione o meno del Consiglio dei ministri, già oggi o molto più probabilmente domani. “Comunque prima del voto di domenica, come abbiamo deciso tutti assieme durante il Cdm di lunedì”, fa sapere il leader della Lega: “Noi siamo pronti, speriamo che qualcuno non rallenti per motivi politici”. Ma a chi si riferisce Salvini quando insinua che qualcuno vorrebbe rallentare l’iter di approvazione del testo? Solo ai 5 Stelle e al premier Conte? O anche al Quirinale? Sì, perché da quello che si apprende le modifiche chieste da Mattarella, anche rispetto a quelle dei 5 Stelle e del presidente del Consiglio, sono molto più radicali, veri e propri stravolgimenti indigesti al leghista. Sempre che Salvini non ingoi comunque un testo, anche rivoluzionato, pur di strappare una vittoria sulla sicurezza prima delle elezioni. Il M5S si trova di fronte a un bivio: dare l’ok alla riunione dei ministri vorrebbe dire lasciare a Salvini - anche nel caso in cui il decreto fosse alleggerito e cambiato nei suoi capitoli portanti - la bandiera anti-migranti da sventolare a poche ore dall’apertura delle urne. Continuare a fare resistenza, però, scatenerebbe come reazione una campagna martellante del leghista contro chi “non vuole colpire i violenti e gli scafisti”. Il vicepremier del Carroccio così la girerebbe comunque a suo vantaggio. Il conflitto permanente - Tutto galleggia su una dimensione di pura comunicazione elettorale. Luigi Di Maio lo ha intuito e ha subito cercato di neutralizzare le intenzioni dell’alleato-avversario. “Se il decreto dovesse essere svuotato come sembra, senza le misure più critiche, a cosa servirebbe? - si chiede Di Maio - Siamo anche pronti a votarlo, se così vuole la Lega. Ma sarebbe meglio avere un testo completo, un decreto con i rimpatri dentro, come chiediamo da tempo, e come aveva promesso Salvini”. I 5 Stelle approfittano anche della cronaca di giornata. Il caso Mirandola, la vicenda del marocchino che ha dato fuoco a una sede della Polizia locale, provocando due vittime, diventa terreno buono per un ennesimo scontro. Comincia il ministro dell’Interno a cavalcare la notizia per avvalorare le sue tesi. Poi però si scopre che l’autore dell’incendio doveva essere espulso. A quel punto i 5 Stelle attaccano: “Ecco perché diciamo che serve un decreto serio, sui rimpatri”. Salvini si difende: il marocchino “non poteva essere allontanato dall’Italia, al momento della notifica del decreto di espulsione aveva espresso l’intenzione di chiedere asilo”. Ma sullo sfondo del conflitto elettorale permanente, il vero braccio di ferro alla fine è tra il leader della Lega e il Quirinale. In un modo o nell’altro, Di Maio si è convinto di non poter opporsi a oltranza al decreto. E per questo, assieme a Conte, da una settimana cerca uno scudo dal Colle, nella speranza che Mattarella non firmi la norma. E in effetti sembra che su alcuni passaggi cruciali, come sulle sanzioni alle imbarcazioni che soccorrono i migranti in mare, la disponibilità dei 5 Stelle, a partire dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, sarebbe più ampia di quella del Quirinale. La carta del rinvio - Insomma, 5 Stelle e Conte stanno provando a rinviare tutto a dopo le elezioni. Il premier ne parlerà anche con il Capo dello Stato, della “inopportunità” di arrivare di corsa con un testo così pesante, a ridosso del voto, e senza l’urgenza che giustificherebbe il decreto. In asse con il Colle, Di Maio scommette comunque su un annacquamento. Una soluzione smentita categoricamente da Salvini: “Nessuno svuotamento come insinuano i 5 Stelle, si tratta di semplici correzioni tecniche che non cambiano la sostanza del testo. Le affermazioni del Movimento sono prive di fondamento e mettono a rischio un testo che combatte scafisti e violenti. In più prevede già una norma sui rimpatri e lo spazza-clan che responsabilizzano anche altri ministeri”. Il ministro dell’Interno sembra rivolgersi solo agli alleati grillini, ma il messaggio è soprattutto indirizzato al colle più alto di Roma. Nel decreto sparisce la parola “migranti” Ma le navi delle Ong rischiano la confisca di Francesco Grignetti La Stampa, 22 maggio 2019 Il Viminale concentra su di sé le competenze che erano del ministero delle Infrastrutture. Il decreto sicurezza bis, dopo una notte di liti a Palazzo Chigi, e una giornata di limature al ministero dell’Interno, è già cambiato. Se non nella sostanza, nelle forme. È stato riscritto daccapo l’articolo 1, quello che più aveva fatto indignare le Ong europee e le Nazioni Unite. La storia della multa a chi effettua salvataggi in mare è rimasta, ma cambia il contesto. Nella nuova versione è sparito il riferimento troppo diretto a chi effettua quelle operazioni. Quindi si può dire che non è più un decreto anti-Ong, ma genericamente contro chi non rispetta le normative internazionali. E però, se possibile, la norma si è ancor più inasprita: ora la confisca dell’imbarcazione che non rispetta le regole internazionali scatta sempre e comunque, previo sequestro cautelativo. Nella versione precedente era una sanzione accessoria che entrava in gioco soltanto in caso di reiterazione dell’irregolarità e qualora la nave avesse trasportato in Italia più di 100 naufraghi. Nella versione di cui si è discusso in Consiglio dei ministri, infatti, la maxi-multa da comminare alle navi che non rispettassero gli ordini (e il sottotitolo rinviava alle Ong di tutta Europa che non riconoscono la legittimità della Guardia costiera libica) era specificatamente per chi avesse fatto “azioni di soccorso” attraverso “mezzi adibiti alla navigazione ed utilizzati per il trasporto di migranti”. Facile riconoscervi le sembianze di nave Mediterranea, oppure di Sea Watch 3 o di Open Arms. Nella nuova formulazione, invece, la norma assume una forma di indicazione contro chiunque abbia violato una disposizione dell’autorità italiana. E segnatamente del ministero dell’Interno, che concentra su di sé anche le competenze che erano del ministero delle Infrastrutture. “In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000”. Ancora più grave, la seconda sanzione: “Si applica altresì la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente a sequestro cautelare”. È esattamente quanto accaduto nei giorni scorsi con la Sea Watch 3. Dal Viminale era giunta una diffida a entrare nelle acque territoriali italiane, la nave ha proceduto ugualmente fino a Lampedusa. Senza conseguenze perché, di fatto, nella nostra legislazione non c’è una sanzione per chi ignora quel divieto, mai sperimentato fino ad oggi. Da domani, la sanzione ci sarebbe e sarebbe salatissima. Immaginabili i ricorsi al magistrato. Ma anche l’effetto concreto di immobilizzare a terra le navi umanitarie. Patrocinio a spese dello Stato, ecco il ddl. Cnf: richieste accolte di Errico Novi Il Dubbio, 22 maggio 2019 Il testo di Bonafede varato in Consiglio dei ministri. C’è da comprendere il guardasigilli Alfonso Bonafede, quando dichiara che con il suo ddl sul Patrocinio a spese dello Stato, varato nel Consiglio dei ministri di lunedì sera, “finalmente si parla di giustizia per gli interventi a favore di tutti i cittadini, fuori dalla polemica politica”. Dopo settimane di tensioni legate a inchieste e relativi riverberi mediatici, il ministro stabilisce un punto fermo nella politica giudiziaria. In particolare, come ricorda lui stesso, con un sistema dei diritti reso più “accessibile per tutti i cittadini, in particolare se meno agiati”, ma anche con la garanzia che l’avvocato possa veder retribuita la propria opera in modo più puntuale e certo. “Assieme ai nuovi parametri e alla legge sull’equo compenso si tratta di un altro passaggio verso il necessario riconoscimento della attività difensiva anche dal punto di vista economico”, commenta infatti il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Che esprime soddisfazione innanzitutto a partire da un dato: le modifiche alla normativa sul patrocinio a spese dello Stato “accolgono in buona parte la proposta del Cnf”. È così: il testo è una minuziosa e nello stesso tempo ampia revisione di alcuni degli aspetti che la massima istituzione dell’avvocatura aveva da tempo indicato come problematici. Tra gli uffici di via Arenula e quelli del Cnf è intercorso in questi mesi un intenso confronto tecnico che ha portato al disegno di legge appena messo sui binari. Naturalmente, come dichiara ancora Mascherin, da una parte l’avvocatura dà atto “al ministro Bonafede” di “avere mantenuto l’impegno assunto con il Cnf”, dall’altra ricorda che “ora bisogna continuare a lavorare con la politica perché il diritto al compenso dignitoso per gli avvocati trovi sempre migliore e maggiore applicazione”. E questo dipende dal lavoro che si farà, sempre al ministero, per rafforzare l’attuazione della legge sull’equo compenso. Ma dipende anche, e in prima battuta, dal Parlamento, a cui il ddl sul patrocinio arriverà a breve e dove si potranno “apportare altri piccoli ritocchi migliorativi”, come auspica il presidente del Cnf. Si tratta dunque di un esempio positivo di collaborazione fra via Arenula e Consiglio nazionale forense. Si va, per ricorrere ancora alle parole di Mascherin, “dall’estensione dell’istituto alla negoziazione assistita in caso di buon esito della stessa” a “modalità più rapide e semplici per l’ammissione” e alla “liquidazione dei compensi”, con un “maggior rispetto, come base di calcolo, dei limiti minimi fissati dagli attuali parametri”. È stato apportato un restyling capillare al dpr 115 del 2002, ossia il Testo unico sulle spese di giustizia, in particolare con il primo dei tre articoli del ddl appena varato dal governo. E come ricorda il comunicato diffuso al termine del Consiglio dei ministri, una novità di peso è appunto l’estensione dell’istituto “alle procedure di negoziazione assistita” quando tale soluzione “sia condizione di procedibilità” e “sia stato raggiunto un accordo”. Una limitazione, quest’ultima, che “si giustifica” in vista della “finalità di incentivare il raggiungimento di accordi in funzione deflattiva del contenzioso”, si legge ancora nella nota del governo. Rispetto alla misura e alla tempestività del compenso dell’avvocato, si interviene lungo due direttrici. Una riguarda appunto l’ancoraggio della disciplina del patrocinio al decreto sui parametri, mentre l’altra mette ordine nelle ambiguità normative che in alcuni casi impongono al difensore percorsi snervanti prima di ottenere la liquidazione. È proprio in quest’ultimo ambito, forse, che va colta la novità più utile in termini concreti: si tratta della previsione che obbliga il giudice a emanare, entro 45 giorni, il decreto di pagamento del difensore in quei casi in cui non aveva depositato tale decreto contestualmente al deposito della sentenza o altro provvedimento conclusivo. Tuttora infatti in diversi casi in cui il magistrato “dimentica” l’atto con cui viene liquidato l’onorario, l’avvocato che sollecita il decreto si sente rispondere che la potestas decidendi è venuta meno. A quel punto al legale che aveva assicurato la difesa a una persona priva di mezzi non resta altro che fare causa al Tribunale, con la conseguente interminabile attesa. Non avverrà più, se il testo di Bonafede sarà approvato in Parlamento: il giudice della causa, civile o penale, non potrà più sottrarsi. Misura, inserita al primo comma dell’articolo 1, che risolve un rebus di cui aveva correttamente preso atto la stessa direzione generale della Giustizia civile, in una circolare recentemente diffusa. Anche sull’entità del pagamento viene opportunamente fatta chiarezza: dovrà essere pari al valore medio previsto dall’ultimo decreto sui parametri. Si è evitato così l’effetto paradossale di un combinato disposto tra la precedente normativa sul patrocinio - che prevedeva riduzioni (di un terzo nel penale, della metà nel civile) calcolate sulle vecchie tariffe - e le soglie minime dei parametri, pur divenute inderogabili da inizio 2018. Le percentuali dei parametri non daranno luogo, insomma, a una doppia riduzione, ma diventano un riferimento certo. Va ricordata anche un’ulteriore estensione del diritto al patrocinio a spese dello Stato: potranno accedervi anche le parti lese in particolari procedimenti - i minori vittime di maltrattamenti in famiglia o di violazione degli obblighi di assistenza. Altra modifica espressamente richiesta, come le altre, dal Cnf, e che il guardasigilli ha recepito. Si tratta ora di verificare l’iter parlamentare e gli affinamenti a cui accenna Mascherin: ma un passo importante, per la tutela della professione forense, è stato messo nero su bianco. I nuovi fronti della class action di Cecilia Carrara Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2019 La legge 31/2019 ha esteso la class action a tutti coloro che lamentano una violazione di diritti individuali omogenei. Non si tratta più di un’azione di classe solo per i consumatori, ma per qualsiasi classe di soggetti, consumatori o imprese. Sarà esperibile sia in caso di violazioni contrattuali, sia in caso di responsabilità extracontrattuali: non solo a tutela di interessi collettivi derivanti da medesimi contratti standard, ma anche per condotte lesive di diritti fondamentali, quali il diritto alla salute o all’ambiente. A ciò si aggiunga che la nuova disciplina prevede la possibilità di una quota lite per gli avvocati e un compenso per il rappresentante di classe, soggetti più incentivati a rendersi promotori di azioni collettive. La combinazione di questi fattori delinea un nuovo possibile scenario di rilievo per le class action: questo strumento potrà essere utilizzato per far accertare la violazione di diritti fondamentali dell’uomo da parte delle imprese, in un contesto socio-giuridico in cui queste ultime sono chiamate sempre più ad agire in maniera sostenibile e socialmente responsabile, in cui le Ong occupano spazi politici e di rappresentanza sociale, e in cui il rimedio privatistico del risarcimento del danno assume spesso una valenza sanzionatoria e/o di indennizzo sociale. Di particolare attualità appare la possibilità di utilizzare un’azione collettiva per invocare la tutela del diritto a un ambiente sano come diritto fondamentale dell’uomo, nei confronti degli “inquinatori” e delle istituzioni pubbliche che dovrebbero proteggere e garantire tale diritto. L’altro filone di controversie, più simile alla tipologia classica di responsabilità del produttore, è quello legato alle emissioni non consentite di CO2, che potrebbe riguardare non solo le aziende automobilistiche, ma tutte le imprese che emettono emissioni sopra le soglie. Del resto la climate change litigation ha preso piede in molte giurisdizioni. La stessa tendenza si sta registrando nel campo dell’arbitrato, tanto che la Camera di commercio internazionale ha costituito una task-force per studiare lo strumento arbitrale per le controversie in tema di cambiamento climatico. Se queste azioni potranno essere intentate pure in Italia, il fenomeno della class litigation assumerà un peso crescente per effetto del riconoscimento di sentenze rese all’estero - anche contro soggetti italiani - all’esito di class action. Peraltro, se in Italia la nuova normativa non ha introdotto i danni punitivi, si ricorda che la Cassazione ha riconosciuto con sentenza 16601/17 la compatibilità dei punitive damages comminati con una sentenza straniera. Ecco che quindi da un lato le aziende dovranno tenere conto di questi possibili sviluppi in caso di contenziosi seriali nelle previsioni dei fondi rischi, dall’altro potranno adottare e valorizzare misure di responsabilità sociale e sostenibilità nel proprio bilancio sociale, anche in chiave preventiva del contenzioso. Caso Cucchi. Arma, Difesa e Interno parte civile. Ilaria: “Emozionata” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 22 maggio 2019 Il Gup si è riservato di decidere sul rinvio a giudizio degli 8 carabinieri accusati di depistaggio. Il via libera del premier Conte che scrive all’Avvocatura di stato. Il giudice per le indagini preliminari Antonella Minnuni si è riservata di decidere sul rinvio a giudizio degli otto carabinieri accusati del depistaggio dell’inchiesta su Stefano Cucchi. Nel frattempo l’Arma e il ministero della Difesa hanno depositato la richiesta di costituirsi parte civile al processo a cui si è aggiunta anche quella del Viminale - in persona rispettivamente del consiglio dei ministri e dei ministri pro tempore, rappresentati dall’Avvocatura generale dello stato - a cui il presidente del Consiglio ha dato il via libera con una lettera. I nomi e le accuse - Il primo accusato è il generale Alessandro Casarsa, fino a qualche mese fa comandante dei corazzieri al Quirinale che, secondo il capo d’imputazione, chiedeva la modifica “della prima annotazione redatta dal carabiniere Francesco Di Sano nella parte relativa alle condizioni di salute di Stefano Cucchi”. In particolare, sempre secondo il capo d’imputazione, Casarsa induceva Di Sano ad “attestare falsamente che “il Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza” omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare palesate da Stefano Cucchi”. Il generale è accusato di falso - Il generale, all’epoca colonnello, è accusato di falso. Stessa accusa per il colonnello Francesco Cavallo che, rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con il maggiore Luciano Soligo, chiedeva espressamente a quest’ultimo la modifica della prima annotazione di Di Sano. Falso anche per Soligo che “veicolando una disposizione proveniente dal gruppo carabinieri di Roma, ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola di redigere una seconda annotazione di servizio recante la falsa data del 26/10/2009” e nella quale si omettevano le difficoltà accusate da Cucchi nel camminare. Accusato di falso pure l’allora luogotenente Massimiliano Colombo Labriola che guidava la stazione di Tor Sapienza e che riceveva, stampava e faceva firmare la mail con l’annotazione modificata sulle condizioni di salute di Cucchi. E accusa di falso, infine, per Francesco Di Sano che sottoscriveva l’ annotazione di servizio con data e contenuti falsificati e omissivi. “Stato di malessere generale” - Secondo il pm Giovanni Musarò Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero fabbricato anche un’ altra nota sulle condizioni di salute di Cucchi: un appunto nel quale “si attestava falsamente che Cucchi manifestava “uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio” omettendo ogni riferimento ai dolori al capo, ai giramenti di testa e ai tremori manifestati dall’arrestato”. Infine il depistaggio recente, quello contestato al colonnello Luciano Sabatino e al capitano Tiziano Testarmata, accusati di favoreggiamento e omessa denuncia all’autorità giudiziaria perché, nel 2015, ometteva “di denunciare la sussistenza dei reati di falso ideologico in atto pubblico e ometteva di evidenziare che esistevano due versioni per ciascuna annotazione e che una delle due era falsa”. Falso anche per il carabiniere Luca De Cianni che, nel redigere una nota ufficiale in merito a un incontro con Riccardo Casamassima (fra i primi ad aver accusato i suoi colleghi di aver mentito sulla vicenda Cucchi), attribuiva a Casamassima alcune falsità fra le quali anche quella secondo la quale Cucchi “si era procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo”. Conte: “Un atto dovuto alla famiglia” - “In questi giorni ho firmato il via libera al ministero della Difesa, al ministero dell’Interno e all’Arma dei carabinieri per costituirsi parte civile nel procedimento sui presunti depistaggi riguardo la morte di Stefano Cucchi. È un segnale importante. Un atto dovuto per la legittima e sacrosanta richiesta di giustizia e verità della sorella Ilaria e dei genitori, per tutelare il ruolo delle istituzioni e di quelle Forze dell’Ordine che ogni giorno, con dedizione, garantiscono la sicurezza del Paese”, ha commentato il premier Giuseppe Conte. Nell’istanza di costituzione come parte civile presentata dall’avvocatura dello Stato per conto della presidenza del Consiglio, dei ministeri di Interno e Difesa e dell’Arma si chiariscono i motivi di tale scelta, in quanto la condotta dei carabinieri accusati “ha cagionato grave danno alla presidenza del Consiglio dei ministri che, in qualità di vertice dell’apparato politico amministrativo statutale, e preposto alla tutela del corretto svolgersi dei rapporti istituzionali tra le varie articolazioni dello Stato”. Le loro condotte, scrivono gli avvocati, “hanno intralciato il normale esito” delle indagini e gli imputati, “nel commettere i reati contestati, hanno cagionato un grave danno patrimoniale e morale alle amministrazioni”, per il quale viene chiesta una provvisionale di 120 mila euro. “È una cosa senza precedenti, e sono emozionata”, Ilaria Cucchi commenta felice la decisione. “Il presidente del consiglio Conte, il ministro della difesa Trenta con il generale Nistri per l’Arma dei carabinieri e il ministro dell’Interno Salvini si sono costituiti affianco a noi parte civile nel processo - scrive Ilaria Cucchi su Facebook - con parole durissime nei loro confronti chiedendone la condanna e il pagamento di una provvisionale”. Brescia: apre lo sportello del Garante dei detenuti bsnews.it, 22 maggio 2019 L’inaugurazione si terrà domani mercoledì 22 maggio alle ore 11 alla Casa Circondariale di Brescia Canton Mombello “Nero Fischione”. Si amplia la Rete degli “Sportelli del Garante dei detenuti” fortemente voluti dal Difensore Regionale della Lombardia Carlo Lio per la difesa dei diritti e per l’accesso ai servizi amministrativi delle persone ristrette nelle loro libertà personali. L’inaugurazione ufficiale dello “Sportello Detenuti” si terrà domani, mercoledì 22 maggio 2019 alle ore 11 nella Casa Circondariale di Brescia Canton Mombello “Nero Fischione”, in Via Spalto S. Marco 20. Saranno presenti il Difensore Regionale (che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti), il Direttore della Casa di Reclusione Circondariale di Brescia Verziano Francesca Paola Lucrezi, dirigenti e funzionari. Lo sportello sarà a disposizione dei detenuti per raccogliere le richieste e le segnalazioni di disagi, facilitare il loro rapporto con gli enti della PA e per il disbrigo delle pratiche su pensioni, invalidità, tasse, prenotazioni di esami clinici, somministrazione delle cure e il regolare svolgimento di corsi e certificazioni scolastiche e professionali. L’apertura dello Sportello “Detenuti” nella casa Circondariale di Brescia si aggiunge ai servizi già attivi nei Carceri di Milano, Opera, Bollate, Como, Pavia, Voghera, Vigevano e Monza. Pordenone: nuovo carcere, il Consiglio di Stato deve pronunciarsi sul ricorso dell’Ati di Emanuele Minca Il Gazzettino, 22 maggio 2019 C’è attesa per il pronunciamento da parte dei giudici del Consiglio di Stato sul progetto di costruzione del nuovo carcere di San Vito. La situazione potrebbe sbloccarsi entro l’inizio dell’estate: dopo l’udienza del mese scorso si attende ora la sentenza da parte del collegio giudicante del Consiglio di Stato che sta trattando il ricorso presentato dall’Associazione temporanea di imprese Kostruttiva-Riccesi contro il verdetto dello stesso Consiglio, che ha annullato il contratto d’appalto firmato il 12 settembre 2016. Questo ha rimesso in discussione l’assegnazione dei lavori, costringendo allo stop il cantiere, quando l’opera era già avviata con i lavori di bonifica dell’area. Infatti, nel corso del 2018 era stato installato il cantiere e si era proceduto con la bonifica dell’ex caserma Dall’Armi. Da quanto trapela - davvero poco, considerata la materia delicata e le decine di milioni in gioco - sono esaurite le udienze fissate a Roma circa il ricorso per la revoca della sentenza presentata dalla Kostruttiva-Riccesi contro la decisione del Consiglio di Stato che ha determinato il subentro nel contratto d’appalto, dell’impresa Pizzarotti di Parma, giunta seconda nella gara d’appalto. È un’opera attesa quella del nuovo istituto circondariale da 300 posti del Friuli Occidentale per rispondere alla situazione molto carente del Castello di Pordenone, struttura penitenziaria vetusta e piena di problematiche. A San Vito al Tagliamento si auspica che la costruzione del carcere parta entro l’anno, ma prima deve esserci il pronunciamento dei giudici, che dovrebbe arrivare entro il prossimo mese e non oltre il mese luglio. Difficile ipotizzare lo scenario più probabile: in municipio a San Vito sono estremamente cauti perché questo ricorso si muove su un passaggio giuridico particolare, quindi non è facile fare previsioni. Quello che è certo è che gli amministratori sanvitesi auspicano che il contenuto della sentenza, una volta emessa, consenta la ripresa dei lavori, non importa se da parte dell’ati Kostruttiva-Riccesi o della Pizzarotti, così da togliere ogni ostacolo alla prosecuzione dell’opera pubblica. La sentenza sul ricorso dovrebbe rispondere a una serie di interrogativi, in particolare quelli relativi alla progettazione del nuovo carcere realizzata Kostruttiva-Riccesi e già approvata: in caso di subentro, non si sa se saranno portati avanti gli elaborati esistenti o se ne faranno di nuovi. Questi dubbi dovrebbero essere fugati nelle prossime settimane dai giudici del Consiglio di Stato che dovrebbero fornire indicazioni chiare alla stazione appaltante - è il ministero delle Infrastrutture - su come procedere con i lavori della casa circondariale. Bollate (Mi): i detenuti sognano da stilisti, borse di studio per ripartire di Stefano Landi Corriere della Sera, 22 maggio 2019 A furia di tagliare e cucire qualcosa è cambiato. Dietro resta un passato di quelli che non si cancellano neanche se ci metti sopra una toppa grande come una casa. Gli anni dietro alle sbarre a Bollate. Poi la scommessa di partecipare a un laboratorio di sartoria. Una delle attività più legate all’universo femminile. Al Teatro della Moda ieri gli hanno messo il tappeto rosso. Hanno aspettato che scendessero dal pullman speciale, che poi è quello della Polizia Penitenziaria. Sono arrivati direttamente dal settimo reparto del carcere di Bollate, quello che ospita i colpevoli di reati sessuali. Una delegazione dei 27 che hanno partecipato al progetto. C’erano da assegnare le due borse di studio messe a disposizione dalla scuola per premiare i due migliori allievi dei laboratori in carcere. Domenico e Alessandro vincono così l’iscrizione al prossimo anno accademico del corso di sartoria. Che poi significa lasciare il carcere per frequentare le lezioni mescolandosi agli altri. “Da piccolo vedevo mamma cucire: non avrei mai pensato che sarei ripartito da qui”, racconta Domenico, 28 anni e 8 alla scarcerazione. Non usciva da una vita. Sembra non realizzare nemmeno che fra qualche mese inizierà a muovere i primi passi verso l’esterno. Un po’ come quando ti rimetti in moto dopo un lungo infortunio. Più insicuro che entusiasta. “La realtà è che sono entrato qui dentro che non sapevo fare nulla. E ora non vedo l’ora che lo sappia la mia famiglia”, aggiunge Alessandro, 26 anni e 5 all’alba. Parlano gli educatori. Dicono di essere rimasti colpiti da affiatamento e spirito di gruppo. “Ale il diploma lo devi incorniciare”, gli dicono. “Ma dove lo metto che la cella è un buco”, risponde. Se questi ragazzi fossero una squadra di calcio, Loor Loor sarebbe Moro capitano. Ecuadoregno, dopo più di lo anni in carcere può uscire per motivi di lavoro e studio: “Vogliamo essere inclusi e l’unico modo per meritarcelo è dimostrare il nostro impegno in qualcosa di concreto”. Per essere davvero perfetto al cerchio mancava un pezzo. I detenuti consegnano il ricavato della vendita delle loro borse, marsupi e foulard all’associazione “L’altra metà del cielo”, nata a Merate 20 anni fa per sostenere le donne vittime di violenza. Un assegno da 5.011 euro. Reso più ricco dall’impegno che i ragazzi sottoscrivono in diretta di battersi per il rispetto di ogni donna. “Quando ci hanno proposto di aderire a questo progetto, ovviamente ci abbiamo pensato. Ma ci siamo convinte che il primo passo per un futuro migliore è che abusanti e abusati si incontrino”, dice commossa la presidente Amalia Bonfanti. La vita però è strana. Domenico e Alessandro sono amici d’infanzia. Poi coimputati con un pesante capo d’accusa. Si sono ritrovati nello stesso carcere, molto lontano da casa. Poi anche nello stesso progetto. Insieme hanno vinto anche la borsa di studio che li porterà a rivedere la luce. E a costruire insieme un pezzo della loro seconda vita. Al primo soffio di vento, un altro detenuto azzarda un “Quanto è bella la libertà”. Solo che stanno già per risalire sul pullman. Vibo Valentia: a Limbadi un sit-in per chiedere verità e giustizia, tre anni dopo avveniredicalabria.it, 22 maggio 2019 Osservatorio sulla violenza di genere e Libera hanno promosso la marcia che ha coinvolto molti giovani tra cui i figli della donna. Hanno volti fortemente segnati da dolore e sofferenza, ma espressi con gentilezza e senza rancore i tre figli di Maria Chindamo, Vincenzino, Federica e Letizia. Così li hanno visti tanti amici, ragazzi delle scuole, gente comune, rappresentanti delle istituzioni che hanno voluto abbracciarli la mattina del sei maggio scorso. È stato un vero e proprio pellegrinaggio quello che li ha portati, nella frazione Montalto di Limbadi, davanti ad un luogo simbolico: il cancello dell’azienda agricola dove Maria Chindamo tre anni fa è scomparsa, vittima dell’ennesimo caso di lupara bianca, perpetrato in un territorio quello vibonese che ha registrato negli ultimi anni ben quaranta casi analoghi. L’emozione è stata forte ed indimenticabile, il punto più alto durante la lettura delle poesie dedicate alla madre dalla più piccola Letizia, con versi che ricordano questa mamma dal sorriso e dai modi gentili e che chiedono conforto e vicinanza. Tutto questo lo hanno trovato negli amici che si sono ritrovati accanto per unire la loro voce alla loro, per chiedere che sia fatta luce su questa azione criminale, che si stabilisca la verità e sia fatta giustizia. Una manifestazione, quella promossa da Libera Calabria e dall’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, che ha voluto lanciare un grido per ribadire che quello che è successo non è un fatto privato che interessa solo questa famiglia, ma un momento di memoria collettiva, perché chi ha colpito Maria Chindamo, chi ha procurato la sofferenza della sua famiglia, ha colpito tutta la comunità. Anche per questo non si possono accettare sentenze di Tribunali che si arrogano il diritto di emettere sentenze di morte secondo modelli arcaici che non riconoscono alla donna il diritto di scegliere il loro futuro. Un modus operandi che ha spinto una parte della Calabria che resiste, che vuole opporsi a questa cultura mafiosa a recarsi a Limbadi per dare testimonianza di vicinanza e per ringraziare i figli, la mamma, il fratello Vincenzo che stanno dando a tutti una lezione di vita. Per loro è stata una grande iniezione di fiducia e di conforto, così come è avvento nel giugno del 2016 quando furono ricevuti da Papa Francesco che ricevendoli li ha sorpresi quando gli ha detto “so tutto” perché conosceva la loro dolorosa sofferenza è per loro aveva pregato. Questa famiglia non si è arresa, non ha mai perso la fiducia nello Stato, ha continuato anche andando nelle scuole, nelle Tv locali e nazionali e in tutte le occasioni a testimoniare la loro fede nella giustizia e nella legalità, a portare un messaggio d’amore, per chiedere non vendetta ma giustizia, senza perdere mai la calma, senza dire mai una parola d’odio, ma seminando amore e riconciliazione. Torino: dalle cucine del carcere escono focacce e panini degni di MasterChef di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 22 maggio 2019 Offrire una seconda opportunità: con questo obiettivo “MasterChef All Stars”, l’edizione speciale del cooking show di Sky che ha richiamato gli esclusi più popolari delle edizioni di MasterChef, ha stretto un’alleanza con Liberamensa, cooperativa sociale impegnata nel reinserimento dei detenuti formati nel settore della ristorazione e della panificazione. Il progetto, oltre a sostenere le attività della coop, ha portato alla creazione di una linea di sedici focacce, patate e panini farciti con ricette gourmet ideate dal vincitore di MasterChef All Stars, Michele Cannistraro. Le specialità, realizzate dai detenuti, saranno in vendita da lunedì nelle caffetterie del Tribunale, del Museo Egizio e della Casa circondariale Lorusso e Cutugno, tutte gestite da Liberamensa. Da sempre il programma prodotto da Endemol Shine Italy è attivo nel campo della solidarietà e della responsabilità sociale. “È stato un percorso semplice arrivare a decidere questa iniziativa: MasterChef racconta storie vere di persone che hanno un obiettivo da raggiungere e che sono in evoluzione”, ha spiegato Francesca De Martini, responsabile della produzione intrattenimento di Sky. “Moltissimi concorrenti, vincitori e no, dopo il programma hanno cambiato vita. Questa volta attraverso Liberamensa, abbiamo scelto di investire anche sul futuro di giovani detenuti”. Con i quattro coinvolti finora nel progetto, Michele Cannistraro - diventato cuoco e formatore dopo un passato da responsabile della sicurezza - ha messo a punto un menù estivo ed uno invernale con ingredienti semplici e del territorio, come carciofi, melanzane, affettati, vitello tonnato. “Credo che molti di questi ragazzi - ha sottolineato - nella cucina abbiano trovato il loro mondo”. Terni: Caritas “detenuto si laurea a pieni voti in scienze politiche” umbriajournal.com, 22 maggio 2019 L’impegno dei volontari della Caritas diocesana e Associazione di volontariato San Martino per rendere migliore la vita dei detenuti della Casa circondariale di Terni, da 15 anni, è incessante e orientato in vari ambiti, a cominciare dall’attività settimanale nel centro di ascolto per soddisfare le richieste di beni essenziali e di prima necessità, fino a quella a sostegno della formazione dei detenuti che intraprendono un cammino d’istruzione a vario livello. Ed è proprio grazie all’impegno dei volontari della Caritas che un detenuto è riuscito a conseguire, con la votazione massima di 110 e lode, la laurea in Scienze Politiche presso l’università di Perugia, con una tesi sull’ordinamento penitenziario, discussa, nei giorni scorsi, davanti alla commissione esaminatrice dell’Università di Perugia, composta da nove docenti, che si sono complimentati con il laureato per la preparazione e il meritato risultato. Una grande soddisfazione per i quattro volontari della Caritas che hanno creduto, seguito e supportato nello studio il 45enne detenuto italiano, che con grande impegno e dedizione si è dedicato in questi tre anni allo studio, non senza difficoltà per le scarse disponibilità e attenzione da parte del sistema carcerario. “È per noi un’occasione per dare speranza - spiega Nadia Agostini responsabile del settore carcere della Caritas-San Martino - che ci aiuta a superare le difficoltà che incontriamo, le negatività che si vivono all’interno del carcere, per dare piuttosto un messaggio positivo, bello, di cui però si parla poco. Sono attività che la Caritas fa in silenzio nel carcere, insieme alle altre che ci impegnano nel portare aiuti di prima necessità. Cerchiamo così di dare un sostegno alla dignità della persona, in tutti i sensi, nell’educazione e formazione umana e culturale, nella rieducazione”. Oltre al detenuto che si è laureato, altri due hanno intrapreso un percorso di studi seguiti dai volontari della Caritas-San Martino. Pesaro: teatro, rugby e poesia per aprire le porte del carcere di Teresa Valiani Redattore Sociale, 22 maggio 2019 In programma lunedì 3 giugno nella casa circondariale di Pesaro lo spettacolo “Rugby corpo a corpo. Ricordi e ritorni tra gioco e sogno di una vita”. Sul palcoscenico detenuti della compagnia “Lo spacco” e studenti dell’università di Urbino. Sport, poesia, teatro e carcere: è un evento che parte da un campo di rugby e arriva a Cesare Pavese, passando per un istituto di pena, quello in programma lunedì 3 giugno, dalle 14, nella sala teatro della Casa circondariale di Pesaro. Promosso dal Teatro Universitario Aenigma di Urbino, lo spettacolo si intitola “Rugby, Corpo a corpo. Ricordi e ritorni tra gioco e sogno di una vita” ed è liberamente ispirato a “La luna e i falò” di Cesare Pavese. Drammaturgia e regia sono di Francesco Gigliotti, assistente alla regia è Romina Mascioli, mentre la consulenza sul Rugby è di Giuseppantonio De Rosa. Ideazione e direzione artistica sono di Vito Minoia. In scena, detenuti e detenute della Compagnia “Lo Spacco” della Casa Circondariale di Pesaro insieme agli studenti di Scienze Motorie dell’Università di Urbino. “All’origine, il gioco era connesso al sacro - spiega una nota dell’organizzazione - e gli atleti si affrontavano per confermare il sentimento civico di appartenenza a un gruppo. Nulla di più lontano dalla competizione commerciale a cui si è giunti oggi. Il gioco della palla ovale, con l’affrontarsi corpo a corpo degli atleti è però tale da restituire alla competizione agonistica gli antichi valori simbolici dimenticati. La performance teatrale prende forma nell’immaginare il vissuto dei protagonisti come persone che si giocano i loro sogni, nel ricordo di una vita all’interno di una comunità a cui sentono di voler appartenere. La poesia-racconto di Cesare Pavese, ispirata liberamente al suo romanzo ‘La luna e i falò’, diviene ricerca espressiva per gli attori nella evocazione delle loro vite fra gioco e realtà”. Lo spettacolo si inserisce nel programma “L’Arte Sprigionata” a cura della Casa Circondariale di Pesaro, realizzato in collaborazione con la Biblioteca Comunale San Giovanni, e sostenuto dalla legge regionale 28 nell’ambito del Progetto unitario del Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Marche. Il lavoro coinvolge un gruppo di detenuti e detenute della Compagnia “Lo Spacco” e numerosi studenti di Pedagogia generale per il Corso di Scienze Motorie, Sportive e della Salute dell’Università di Urbino nell’ambito del Progetto ‘Teatro e Rugby in Carcerè a cura di Vito Minoia e Rosella Persi, Associato di Pedagogia generale e sociale. “Ancora una volta - sottolinea Vito Minoia - al centro dell’esperienza ci sono aspetti formativi sia professionalizzanti, con particolare attenzione all’interpretazione dell’attore nel teatro contemporaneo, sia di crescita umana e relazionale tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’. Siamo tornati a praticare in modo più istituzionalizzato quella modalità che già nel 1994 attivammo facendo lavorare teatralmente insieme nella Casa Circondariale di Modena studenti universitari di Urbino e detenuti della sezione ‘protetti’, una modalità che oggi viene sperimentata anche in altre università italiane e internazionali”. “Questa volta - prosegue Minoia - al centro della nostra attenzione c’è lo sport del Rugby con le sue specificità educative, che valorizzeremo anche in forma poetica grazie all’accostamento alla scrittura di Cesare Pavese. Un’esperienza che apre le porte a future sperimentazioni con il Corso di Scienze Motorie dell’Università di Urbino considerando l’alto numero di allievi che ha chiesto di partecipare al progetto: 55 gli studenti che hanno partecipato al laboratorio, lasciando poi il posto ad una loro rappresentanza per la realizzazione dello spettacolo conclusivo. Tante anche le domande di autorizzazione all’ingresso in carcere per assistere all’evento”. Radio Radicale affossata. Si discute sul fondo editoria di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 maggio 2019 Le commissioni Bilancio e Finanze bocciano gli emendamenti per salvare l’emittente. Ammesse le correzioni al dl Crescita firmate dal deputato di Leu, Fornaro. Il tentativo di trovare una mediazione con il Movimento 5 Stelle e con il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, attraverso alcuni emendamenti al decreto Crescita che potevano essere la precondizione per tenere in vita Radio Radicale, purtroppo non è andato a buon fine. Le commissioni Bilancio e Finanze della Camera hanno infatti respinto ieri sera il ricorso presentato da Lega e Pd contro la bocciatura degli emendamenti che contemplavano la proroga di sei mesi della convenzione di Radio Radicale con il Mise (scaduta il 20 maggio), fino a una nuova gara per il servizio pubblico. Emendamenti finiti tra gli oltre 540 dichiarati inammissibili perché non attinenti alla materia. C’è però un colpo di scena che riaccende le speranze per il Manifesto, l’Avvenire, Libero e molte altre cooperative editrici di periodici locali: sono stati riammessi invece gli emendamenti che prevedono una moratoria fino alla fine dell’anno dei tagli al fondo per il pluralismo, presentati dal deputato di Leu, Federico Fornaro. Una boccata d’ossigeno per gli editori puri come la cooperativa di giornalisti e poligrafici che ha ripreso in mano le sorti della vecchia cooperativa ed edita questo quotidiano senza soluzione di continuità dal 1971. Per Radio Radicale invece non c’è stato nulla da fare: gli organismi parlamentari presieduti rispettivamente dai deputati Claudio Borghi (Lega) e Carla Ruocco (M5S) hanno respinto il provvedimento presentato dalla stessa Lega (a prima firma Massimiliano Capitanio) e quelli fotocopia del Pd e di Leu. La decisione ultima è stata più rinviata nel corso della giornata, segno di una trattativa politica serrata. Sul tavolo della contrattazione tra i due contraenti del patto di governo ci sarebbe stato “uno scambio di emendamenti”, secondo i rumors di palazzo. Tanto che dopo lo stop definitivo agli emendamenti, nelle commissioni è scoppiata la bagarre, con tutti i gruppi politici contro il M5S, ma anche contro il presidente della commissione Bilancio, Claudio Borghi, accusato dalla dem Silvia Fregolent di fare il “Ponzio Pilato”. Eppure tra i pentastellati c’era chi, come Primo Di Nicola ed altri parlamentari, avevano chiesto al sottosegretario Crimi un ripensamento sullo stop alla convenzione per la trasmissione delle sedute parlamentari. E lo stesso Luigi Di Maio qualche giorno fa aveva fatto girare la voce che per l’”organo della Lista Marco Pannella” si sarebbe trovata “una soluzione”. Ma il “gerarca minore” (come lo chiamava Massimo Bordin) non si è spostato di un millimetro: “La mia posizione non è mai cambiata, se ci fossero state novità lo avrei annunciato. Questa è la posizione del governo e così rimane”, aveva confermato Vito Crimi, malgrado da più parti si erano sollevati appelli alla “ragionevolezza”. Ci aveva creduto anche l’onorevole Roberto Giachetti, dem iscritto al Partito Radicale, che è ricoverato per le conseguenze di uno sciopero della fame e della sete intrapreso da venerdì scorso. Inutile la raccomandazione - lanciata da Giachetti in collegamento telefonico dall’ospedale San Carlo di Nancy durante la conferenza stampa organizzata a Montecitorio dal direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio - di tenere “accesa la fiammella della speranza, tenendo conto anche delle indicazioni dell’Agcom”, l’Autorità a garanzia delle telecomunicazioni che ha definito irrinunciabile il servizio pubblico garantito dall’emittente negli ultimi 40 anni senza interruzione di sorta. “Allo stato delle cose pagheremo stipendi di maggio ma non di giugno - ha spiegato Falconio. E anche se volessimo lavorare gratis, abbiamo i costi fissi della rete. Parliamo di 285 impianti che coprono circa l’80% del territorio nazionale, che dovremmo continuare a pagare con elevati costi fissi, che siamo in grado di sostenere solo per pochissime settimane”. Nessuno, però, come Radio Radicale conosce l’”essere speranza” di pannelliana memoria. Si ritenterà ancora, in Parlamento. Ma anche nelle urne, E se ne riparlerà dopo il 26 maggio. Il muro dei 5 Stelle: no al salvataggio di Radio Radicale di Dino Martirano Corriere della Sera, 22 maggio 2019 Scontro sulla proroga di 6 mesi (e con finanziamento ridotto) voluta anche dalla Lega. L’ultima speranza per l’emittente è il presidente della Camera Fico. Il M5S ha spento Radio Radicale. Martedì sera, il veto dei deputati grillini - soli contro tutti gli altri partiti - ha precluso alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera la possibilità di votare gli emendamenti fotocopia presentati da Lega, Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Misto che puntano a prorogare di sei mesi (seppure con un finanziamento ridotto a 3,5 milioni) la convenzione, scaduta proprio martedì, tra il ministero dello Sviluppo economico e la storica emittente radicale: un’emittente che da oltre 40 anni assicura un servizio pubblico con la trasmissione quotidiana delle sedute parlamentari, dei comizi di tutti i partiti, di molti processi. Inutili gli sforzi del presidente della commissione Bilancio, il leghista Claudio Borghi: la richiesta di poter votare gli emendamenti per Radio Radicale, presentati al testo del ddl di conversione del decreto legge Crescita, si è scontrata contro il muro eretto dai grillini che alla richiesta di un chiarimento avanzato da Silvia Fregolent (Pd), hanno risposto: “Dopo tanti anni di mangiapane a tradimento, basta con il finanziamento pubblico”. La delegazione grillina ha eseguito senza discutere le direttive impartite dal governo, nella persona del sottosegretario Vito Crimi,che ancora ieri ripeteva il suo mantra: “La nostra posizione non cambia”. E così in serata - dopo un complesso tentativo di dichiarare ammissibili gli emendamenti sulla proroga della convenzione, è toccato al giovane grillino Raffaele Trano far mancare la necessaria unanimità e infliggere il colpo di grazia alla radio. Non una parola da parte della presidente della commissione Finanze, Carla Ruocco (M5S) e dagli altri commissari grillini riuniti nella seduta congiunta della V e della VI (tra gli altri Buonpane, D’Incà, Trizzino, Currò, Zennaro). A questo punto sono davvero a rischio 100 posti di lavoro: “In assenza di fatti nuovi possiamo andare avanti al massimo fino a metà giugno”, ha detto il direttore Alessio Falconio. Il Movimento di Luigi Di Maio e Davide Casaleggio ha dunque spento la fiammella di Radio Radicale ma sotto la cenere potrebbe esserci ancora un lapillo di salvezza. L’unico che può alimentarlo, ora, è il presidente della Camera Roberto Fico: per consentire al Parlamento di approvare (o di respingere)la richiesta di mantenere in vita una voce libera. Niente di più. Radio Radicale appesa a un filo (e difesa anche da Radio Padania) di Marianna Rizzini Il Foglio, 22 maggio 2019 La speranza, la disillusione, di nuovo la speranza. Tre stati d’animo in una giornata, aspettando la decisione dei presidenti delle commissioni Finanza e Bilancio della Camera (prevista per la serata di ieri e non ancora giunta al momento in cui questo giornale andava in stampa) a proposito dei ricorsi trasversali sull’ammissibilità degli emendamenti - non ammessi in mattinata - che avrebbero permesso un momentaneo respiro a Radio Radicale, sotto forma di proroga della convenzione con il Mise. Convenzione che il governo, nelle parole del sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, ha confermato di non voler rinnovare. Si aspettava dunque la sera per conoscere la sorte del ricorso leghista, dopo l’inammissibilità di un altro emendamento leghista che conteneva la possibilità di proroga. E dopo che anche Radio Padania aveva documentato, per settantotto giorni, come raccontava ieri al Foglio il direttore dell’emittente Giulio Cainarca, lo sciopero della fame di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani e collaboratore di Radio Radicale. Cainarca ha ribadito la posizione di apertura su Radio Radicale, nel momento in cui Radio Padania - sopravvissuta all’annoso problema della sua natura (locale? non locale?) con corollario di criticità su concessioni e frequenze - riferiva non di problemi “di dialogo con il Mise, anzi”, ma di “perplessità” rispetto al gesto del senatore cinque stelle Alfonso Ciampolillo, che aveva denunciato Radio Padania “per i reati di falso, truffa aggravata e, comunque, per tutti i reati che emergeranno o saranno rilevati sia a carico della predetta emittente, sia per l’eventuale abuso di ufficio a carico degli uffici ministeriali competenti”. Il direttore di Radio Padania difende insomma il diritto alla sopravvivenza di Radio Radicale, dicendosi però “dubbioso” riguardo “all’efficacia” di quella che considera una “politicizzazione operata in particolare dal deputato pd Roberto Giachetti in un momento in cui si stava arrivando alla soluzione mobilitandosi sul puro piano del diritto e della legalità”. Fatto sta che appariva sempre più evidente, anche sul tema Radio Radicale, la non comunanza di vedute tra gialli e verdi. Intanto Giachetti, con il sostegno annunciato di deputati e senatori del Pd (e non solo), mobilitati per uno sciopero della fame a staffetta e a oltranza, ieri parlava in videochiamata dall’ospedale in cui si era ricoverato per scongiurare la disidratazione (per sciopero della sete), e si dichiarava pronto a portare avanti l’iniziativa non violenta, facendo appello ai presidenti delle Camere perché facessero decidere il Parlamento: “L’ho detto da subito che la mia iniziativa non era in contrapposizione con nessuno ma era rivolta, con speranza e fiducia, a tutte quelle persone che hanno la possibilità di assumere delle decisioni per salvare la radio... La decisione che si prende oggi è precondizione affinché la prossima settimana ci possa essere un dibattito parlamentare che conduca alla proroga. Qualunque cosa noi vogliamo raggiungere - sia essa la gara, un contratto con la Rai eccetera - ha come precondizione irrinunciabile che la radio non venga spenta e ci possa essere la proroga di sei mesi”. Fuori, nel frattempo, si moltiplicavano le voci a sostegno di una soluzione o quantomeno di una soluzione-ponte. “Vogliono davvero spegnere una voce storica del nostro paese?”, scriveva su Facebook il senatore di LeU ed ex presidente del Senato Pietro Grasso. “C’è una minoranza politica sorda e cieca”, diceva ieri il presidente dei senatori forzisti Anna Maria Bernini, alludendo ai Cinque Stelle, “che sta pervicacemente imponendo la chiusura di Radio Radicale...La Lega, e in particolare il presidente della Commissione Bilancio della Camera Borghi, siano coerenti e non si assumano la responsabilità di una chiusura immotivata, dettata solo dalla protervia di un Movimento che da solo non ha i numeri per sentirsi padrone della democrazia”. E ci si chiedeva: la sera porterà consiglio? Il problema dei migranti è sul territorio, non in mare di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 maggio 2019 Tra giugno 2018 e aprile 2019 circa 51 mila stranieri sono diventati nuovi irregolari in Italia: di questi, tra gli 11 e i 13 mila sarebbero conseguenza del decreto. Dai numeri non si scappa. E l’ennesima puntata della saga della Sea Watch si rivela, pur nella sua consueta disumanità, solo un’arma di distrazione di massa. Il problema migratorio dell’Italia, legato alla nostra sicurezza, non è in mare ma sulla terraferma, come testimonia anche l’ultimo drammatico episodio, il rogo di Mirandola. Ancora una volta le stime e i dati dell’Ispi, un istituto di studi con quasi un secolo di reputazione, ribaltano la narrazione del marketing politico. Mentre si combatte una battaglia meramente figurativa sugli ultimi 50 o 60 disperati trasportati da una nave umanitaria sulle nostre coste, con grancassa tv sui malumori di Matteo Salvini, e mentre il titolare del Viminale picchia i pugni sul tavolo del Consiglio dei ministri per far passare il suo secondo decreto Sicurezza, si delineano, proprio nei numeri, gli effetti assai controversi del suo primo decreto, varato a ottobre scorso e poi diventato legge dello Stato. Il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, basandosi proprio su dati del ministero dell’Interno, evidenzia come tra giugno 2018 e aprile 2019 circa 51 mila stranieri siano “diventati nuovi irregolari in Italia”: di questi, tra gli 11 mila e i 13 mila sarebbero conseguenza diretta del decreto. Le ragioni sembrano evidenti. Cardine del provvedimento voluto da Salvini è l’eliminazione della protezione umanitaria, quella alla quale più frequentemente (forse troppo) negli anni hanno fatto ricorso le commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo dei migranti. All’aumento dei dinieghi corrisponde un aumento degli allontanamenti dai centri di accoglienza cui, attenzione, non corrisponde affatto un eguale aumento di rimpatri. In parole semplici, al migrante che non ha più i requisiti per restare sul nostro territorio viene normalmente messo in mano un foglio di via con l’ingiunzione di lasciare il Paese: è facile capire che, senza controlli, solo una piccola porzione ottempera all’obbligo, la maggioranza finisce per strada, allo sbando, accrescendo paradossalmente la nostra insicurezza. I rimpatri sono peraltro costosi e complicati, quelli non volontari presuppongono un accordo con il Paese d’origine: noi di accordi del genere ne abbiamo solo quattro, Salvini aveva promesso un tour africano per implementarne il numero (servono contropartite da offrire, va da sé) ma del tour s’è persa ogni traccia in questa convulsa fare preelettorale. I rimpatri vanno dunque assai a rilento. L’Ispi rileva che il governo Conte, tra giugno 2018 e aprile 2019, ha fatto peggio del governo Gentiloni tra giugno 2017 e aprile 2018, scendendo da 6.293 a 5.969 rimpatri, con un calo del 5 per cento. Salvini, prima delle elezioni del 4 marzo, aveva promesso di rispedire velocemente a casa 500 o 600 mila “invisibili”, ovvero gli irregolari presenti sul nostro territorio (per effetto della pregressa mala accoglienza) secondo stime quasi coincidenti degli esperti, dall’autorevole fondazione Ismu sino alla Commissione sulle periferie. Non riuscendo a rimpatriarne che una ventina al giorno (tempo previsto con questo ritmo: quasi un secolo) e trovandosi sotto il tiro dell’alleato-competitor Di Maio all’approssimarsi delle elezioni europee, il leader leghista aveva tentato di ridurne “d’ufficio” il numero, dichiarandone 90 mila, ma ricevendo correzioni un po’ da tutte le fonti accreditate in materia. Il tema è rovente. Non solo perché l’Ispi spiega, grafici alla mano, che di questo passo a dicembre 2020 gli irregolari in Italia saranno 718 mila. Ma perché la questione sicurezza tracima dai numeri e diventa sangue e paura. Il rogo di Mirandola, appiccato da un giovane marocchino in attesa di espulsione, può pesare sulle elezioni di domenica. Salvini, lesto a intuirne pericolosità e potenziale, rilancia subito il mantra dei porti chiusi. Ma i Cinque Stelle sembrano attribuire proprio al ministro degli Interni la responsabilità di spiegare cosa facesse quel ragazzo, che vagava in ipotermia come uno zombie lungo una strada della bassa Modenese, prima del suo raptus criminale. E da dove venisse. Era uno degli invisibili sfuggiti al nostro sistema zoppo? Un nuovo fantasma prodotto proprio dal decreto Salvini? La sicurezza in politica è a doppio taglio. Ce lo insegna un mito assai radicato nella nostra sinistra: quello di Mechelen, la cittadina belga che, pur ospitando 128 nazionalità e 15 mila islamici su 87 mila residenti, è riuscita, in 15 anni, in un miracolo di integrazione (che tra l’altro ha abbattuto la destra dal 30 all’8 per cento). Ciò che la gauche italiana tende un po’ a sottacere è che il sindaco (liberale e centrista) di Mechelen, Bart Somers, proclamato tre anni fa “miglior primo cittadino del mondo”, prima di integrare ha dato una bella stretta ai bulloni: i furti sono scesi del 41%, i furti violenti del 69, gli scippi del 94, lo spaccio di droga azzerato, i poliziotti sono stati triplicati, la città riempita di telecamere, ai nuovi arrivati vengono imposti l’uso del fiammingo, l’adesione a regole comuni di laicità e corsi per imparare cosa sia la democrazia, come ci si comporti con le donne, come funziona la polizia. Il menu di Mechelen, sicurezza e solidarietà, andrebbe insomma preso tutto insieme. Ma in un Paese come il nostro, molti sceglierebbero à la carte. Migranti. Pochi i Centri per gli irregolari e solo 2mila rimpatri quest’anno di Francesco Grignetti La Stampa, 22 maggio 2019 Erano 500.000 i rimpatri promessi da Salvini, in realtà da inizio anno sono stati 2.179. Le strutture in Italia sono 7, i posti disponibili 654. Il progetto di costruirne una per ogni regione è ormai impantanato. Il giovane maghrebino di Mirandola di sicuro non doveva essere libero di girare per l’Italia. A suo carico ci sono 5 o 6 ordini di espulsione non eseguiti. L’ultima volta accadeva il 14 maggio, a Roma. Ma si sa, gli ordini di espulsione sono carta straccia se non si accompagnano a una detenzione dentro un CPR (ex Cie) e poi a un rimpatrio forzato. M5S: fallimento di Salvini Immediatamente il tema ha arroventato la campagna elettorale. “Alla faccia di chi vuole i porti aperti, bisogna blindarli”, grida Salvini. “Il fallimento è suo, quello dei rimpatri non effettuati”, gli replicano dal Movimento cinque stelle. E si fa sentire anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti: “Salvini pensi alla sicurezza delle città”. Astuzie per aggirare la legge Il giovanotto però non era uno sprovveduto. Conosceva le astuzie per aggirare la legge: ha dichiarato di essere minorenne, ed è stato necessario un controllo radiografico per sbugiardarlo; ogni volta che lo hanno arrestato, ha dato nomi e nazionalità differenti; infine, l’ultima volta ha chiesto asilo politico, sapendo che da quel momento sarebbe diventato pressoché intoccabile. Per questo Salvini è impazzito di rabbia. E ieri sera prometteva: “Grazie al mio decreto, la sua domanda sarà esaminata in pochi giorni, ora lo aspetta il carcere”. Centri e accordi bilaterali Arrivando al Viminale, Salvini aveva promesso 500mila espulsioni. Magari non tutte insieme, ma presto. E invece si continua a eseguire una espulsione ogni sei; dall’inizio dell’anno, i rimpatri reali (alla data del 5 maggio) sono stati appena 2.179. Ci è tornato sopra anche Luigi Di Maio, con una sua ricetta: “Due milioni sul Fondo rimpatri non bastano, ce ne vogliono centinaia di milioni”. I centri per trattenere gli stranieri clandestini da espellere, peraltro, sono ancora pochi e troppo piccoli, eppure la rossa Toscana come la leghista Lombardia si fanno vanto di rifiutarli. Di CPR ce ne sono appena sette: due in Puglia, due in Sicilia, uno a Roma, a Torino, e a Potenza. Posti disponibili, 654. Anche l’Emilia Romagna del governatore Stefano Bonaccini, che naturalmente ha già chiesto conto allo Stato del deficit di sicurezza a Mirandola, si oppone strenuamente alla costruzione di un CPR sul suo territorio. Qual è il risultato? Che per ogni straniero espulso dalle città dell’Emilia Romagna, dovrebbe partire una macchina della polizia e tre agenti per arrivare al centro di trattenimento dove ci sia un posto libero, a Torino, Roma o forse Caltanissetta. Il progetto di costruire un CPR in ogni regione, progetto che fu dell’ex ministro Marco Minniti e che Matteo Salvini avrebbe voluto portare avanti, è insomma impantanato per le resistenze locali. Il secondo problema sono gli accordi bilaterali per la riammissione: l’Italia ne ha solo quattro operanti (con Egitto, Tunisia, Marocco e Nigeria), il resto si fa per modo di dire. L’unica soluzione è un impulso europeo. Anche qui, se ne era convinto Minniti. Ora è nel programma di Salvini. Migranti. Il Tar boccia il Viminale: “Il modello Riace è legittimo” di Francesco Creazzo La Stampa, 22 maggio 2019 Il sindaco Lucano: “Riconosciuto il nostro valore”. Ma Salvini rilancia: “Noi andiamo avanti”. “È un fatto positivo, che ristabilisce un po’ di giustizia, anche perché il giudice entra nel merito dei fatti e riconosce il valore che avevamo creato. È come dicevo io: il ministero ha creato le condizioni per farci fare cose negative”. Ecco la reazione a caldo del sindaco sospeso di Riace, Mimmo Lucano, alla sentenza con la quale il Tar di Reggio Calabria ha accolto il ricorso del comune contro l’esclusione dal sistema Sprar, decretata dal ministero dell’Interno. Il giudice amministrativo ha dunque decretato che è illegittima l’esclusione del borgo calabrese dalla lista dei comuni che, in cambio dell’accoglienza ai migranti, beneficiano di finanziamenti. Soddisfatto a metà, Lucano, che vede comunque tramontare quello che per molti era un modello di integrazione: “Non c’è bisogno del tribunale per accorgersi delle differenze tra la tendopoli di San Ferdinando e il modello Riace - tuona il sindaco indagato dalla procura di Locri - Noi abbiamo creato protagonismo e non assistenzialismo in chi ospitavamo, attraverso i nostri progetti. E non abbiamo mai distratto fondi. Noi avevamo indicato una soluzione globale al problema dell’immigrazione che è quella dell’accoglienza diffusa, senza ghetti. Secondo me c’è stata premeditazione (da parte del ministero, ndr): Riace non si doveva permettere di dimostrare che c’è un’alternativa all’industria della paura”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ribatte: “Noi andiamo avanti, tenendo i porti chiusi, salvando vite, espellendo i delinquenti che aggrediscono, spacciano e stuprano”. I giudici danno ragione al comune calabrese perché il Viminale, avendo ravvisato più volte irregolarità nella gestione amministrativa dello Sprar, aveva comunque deciso di approvare il finanziamento per il triennio 2017/19, senza applicare sanzioni nei confronti del borgo guidato da Lucano. Una circostanza che, paradossalmente, ha prodotto un danno alle casse dello Stato. Insomma, il ministero non avrebbe dovuto concedere altro denaro a un ente che riteneva inaffidabile, salvo poi escluderlo dalla graduatoria appena un mese dopo. “Il progetto - scrive il tribunale amministrativo di Reggio Calabria - avrebbe dovuto essere eventualmente chiuso alla scadenza naturale”. I giudici reggini hanno persino disposto la trasmissione degli atti alla Corte dei Conti per accertare eventuali responsabilità del Viminale. Tuttavia, la sentenza del Tar non è affatto tenera nei confronti del modello Riace che, precisano i giudici, non sarebbe stato condizionato negativamente dal presunto ostruzionismo del ministero: “I ritardi nell’erogazione dei finanziamenti previsti - scrive ancora il Tar calabrese - sono una conseguenza ovvia delle inesattezze e delle omissioni, imputabili esclusivamente al comune di Riace, nell’attività di doverosa rendicontazione della spesa”. Insomma, le crepe nella gestione dell’accoglienza “non sono affatto dipese dai ritardi nell’erogazione dei finanziamenti”. I giudici reggini, addirittura vanno oltre e, pur riconoscendo gli “innegabili meriti” del sistema Riace, bacchettano fortemente Lucano e i suoi. “Gravi inefficienze” scrive ancora il tribunale, criticando procedure che avrebbero bypassato i settori tecnici comunali “in totale ed evidente spregio dei più elementari principi di separazione tra la politica e l’amministrazione”. Droghe. La nuova strage dell’eroina in Italia: decessi per overdose +9,7% in un anno di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 22 maggio 2019 L’Italia sta ricominciando”a contare i morti”. Dopo un calo costante durato più di 15 anni, dal 2017 sono tornati ad aumentare. Ma non se n’è accorta. Non vuole vedere. E nessuno tra politici, responsabili della salute pubblica, sindaci, assessori (tranne poche menti illuminate, o terrorizzate da una storia che già si conosce) si chiede perché la curva dei decessi ha piegato - di nuovo - verso l’alto. E qualcuno si chiede qual è (quali sono) le sostanze che uccidono? È l’eroina? Solo l’eroina? O i “fentanili”, farmaci oppioidi sintetici (ultra potenti “parenti” dell’eroina creati in laboratorio) che negli Stati Uniti stanno provocando un’ecatombe, e che in Italia hanno già causato due decessi, uno a Milano, l’altro a Varese? Intanto sono 350 i decessi classificati come overdose negli anni 2015-2017. Ma alla voce “sostanza responsabile del decesso”, ci si scontra con un: “Non identificata”. Contemporaneamente le statistiche dicono che il numero dei morti torna a salire a causa di una sola sostanza: eroina. Solo segnali, per il momento, ma per leggerli, ed eventualmente contrastarli, bisognerebbe conoscere una storia iniziata 46 anni fa. Il primo morto - Nel 1973 viene rapito a Roma Paul Getty III, nipote dell’uomo all’epoca più ricco del mondo; un’epidemia di colera si diffonde in estate a Bari, Palermo, Napoli, Cagliari; a settembre il segretario del Pci Enrico Berlinguer lancia la proposta del “compromesso storico”; e a dicembre, il giorno 17, un commando di terroristi palestinesi attacca un aereo della Pan Am a Fiumicino, una strage che provoca 34 morti. In quell’anno passa del tutto inosservata la prima vittima di un’altra strage, che si sarebbe propagata per decenni: il primo decesso in Italia per overdose di eroina. Uno stupefacente che iniziava appena a comparire sullo scenario criminale e sociale, come raccontano gli archivi italiani dell’antidroga (un chilo d’eroina sequestrato nel 1971, 29 chili l’anno dopo). A partire da quell’anno, in Italia, di droga sono morte oltre 25 mila persone. L’anno peggiore fu il 1996: 1.562 decessi per overdose (275 dei quali in Lombardia, 220 nel Lazio). I numeri “parlano”: l’eroina si diffonde e crea per qualche anno un numero sempre più ampio di tossicodipendenti, all’inizio sono anni di latenza, di incubazione. Poi, si iniziano a contare i morti. Sempre di più. Nuovo anno nero: il 2017 - Per 16 anni (dal 2000 al 2016) i decessi sono calati gradualmente (meno 48 per cento). Un trend positivo, ma che ha portato l’oblio sul tema droga. Nel 2017 però arriva, inaspettata, una inversione di tendenza: più 9,7 per cento in un anno solo. A determinarla, un aumento della diffusione di eroina. Nel 2016, su 268 morti, 99 sono da eroina, pari al 37 per cento; l’anno dopo, l’ultimo su cui si hanno dati disponibili e certificati, su 294 vittime, 148 sono per eroina: un aumento del 50 per cento. Solo per dare un’idea, sempre nel 2017, 53 morti sono legate alla cocaina, 13 al metadone, 1 ai barbiturici e 2 all’Mdma. Guardando all’età, i livelli di mortalità più alti si riscontrano a partire dai 25 anni per raggiungere i picchi massimi nella fascia superiore ai 40 anni. La domanda decisiva allora diventa: sono i primi segnali di una nuova potenziale strage? Per capirlo bisogna incrociare i dati delle Relazioni al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze, i rapporti della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga) e lo studio del Cnr sull’uso di alcol e sostanze psicoattive in Italia. Le morti “misteriose” - Ai 148 morti acclarati per eroina nel 2017, si aggiungono 74 morti da sostanza non determinata: sostanzialmente decessi “misteriosi”, non attribuibili con certezza a sostanze note (erano 118 nel 2016). Una delle ipotesi è che siano però anche quelli legati all’eroina, probabilmente tagliata con altre sostanze. Sui tagli e le “sperimentazioni” criminali si hanno poche certezze, anche perché una delle principali carenze del sistema italiano è una totale mancanza di analisi preventiva sulle sostanze al fine di adeguare le risposte sociali e sanitarie. Il mercato della droga, come quello legale, deve fidelizzare i clienti, conquistarne di nuovi, allargare i profitti: dunque cerca il punto di compromesso tra qualità della sostanza, prezzo, impiego di altre sostanze. Questo punto di intersezione sta sempre più in basso, e si è visto a Milano, al “boschetto” di Rogoredo, la piazza di spaccio più grande del nord Italia dove le forze dell’ordine stanno facendo un importante lavoro di prevenzione. Qui i prezzi erano scesi fino a 5 euro a dose e anche più sotto, con una “qualità” ancora accettabile visto che viene utilizzata anche da persone con una lunga storia di tossicodipendenza. Nelle altre città i prezzi sono più alti. Una nuova emergenza sono poi gli psicofarmaci spacciati per strada, anche quelli low cost e facilmente reperibili dai ragazzi (sostanze “legali”): Rivotril, Suboxone, Contramal, il primo a base di benzodiazepina, utilizzati per combattere l’ansia o l’epilessia. Se associati all’alcol e presi in dosi massicce o mixati con altre sostanze hanno effetti simili all’eroina. La criminalità nigeriana, per scalzare le gang nordafricane, a Mestre ha fatto una strage (oltre 20 morti) con l’eroina tagliata con il metorfano, una sostanza che ne moltiplicava gli effetti. La morte di ragazzi e ragazze adolescenti con una siringa nel braccio nei bagni delle stazioni ferroviarie replicano immagini di trent’anni fa. I nuovi consumatori - Secondo l’ultima Relazione al parlamento, nel 2017 i consumatori di eroina sono 285 mila, per un giro di affari da 2,3 miliardi. Le stime per il 2018, ancora non disponibili, vanno nella stessa direzione: l’uso sta aumentando. Quanto alla popolazione studentesca, secondo l’Espad elaborato dal Cnr, l’1,1 per cento ammette di aver fatto uso di eroina almeno una volta nella vita (circa 28.000 studenti); lo 0,8 per cento l’ha assunta almeno una volta nel 2017 (oltre 20.000) e lo 0,6 per cento nel mese precedente la compilazione del questionario (15.500). Il 64 per cento degli studenti che hanno fatto uso di eroina almeno una volta nella vita riferisce di averla fumata con le “stagnole” (alluminio da cucina), il 28,5 per cento con la siringa in vena. Tra gli studenti che hanno riferito di aver usato eroina durante l’ultimo anno, il 79 per cento ha utilizzato anche altre sostanze stupefacenti, il 91 per cento cannabis, l’81 per cento cocaina, il 72 per cento sostanze stimolanti, il 66 per cento allucinogeni. Il rischio “americano” - Il quadro in Italia oggi è questo: aumento del consumo di eroina, creazione di una nuova fascia di consumatori giovani, mercato criminale che sperimenta nuove strategie come l’abbassamento dei prezzi o la miscela di sostanze. Il risultato è l’impennata dei decessi per overdose da eroina. Questo scenario va necessariamente analizzato con un occhio a quel che sta accadendo negli Stati Uniti, dove la più grave epidemia di droga nella storia umana sta provocando circa 70 mila decessi l’anno (leggi l’inchiesta di Dataroom del 16 aprile 2018). In una città come Philadelphia ad esempio, come dimensioni poco più grande di Milano, nel 2017 ci sono state oltre 1.200 overdose mortali e più di 8 mila non mortali (su la Lettura #390 in edicola il reportage di Gianni Santucci da Philadelphia). Accade perché le gang criminali hanno inondato le strade di Fentanyl, o eroina mescolata al Fentanyl. Si tratta di un oppioide sintetico utilizzato come fortissimo antidolorofico, ma cento volte più potente della morfina, e che permette ai venditori di moltiplicare i guadagni (un chilo di Fentanyl prodotto clandestinamente nei laboratori cinesi costa 5 mila dollari al chilo e può essere tagliato molto più dell’eroina naturale). Allo stesso tempo, crea una dipendenza più feroce e immediata. E aumenta a dismisura il rischio di overdose. Per ora in Italia si registrano pochi casi, ma tutto lascia presagire l’apertura di un mercato. A ottobre 2018, provincia di Cosenza, 6 arresti per traffico di cerotti al Fentanyl; gennaio 2019, Melzo (Milano), furto di 4 fiale di Fentanyl in ospedale; febbraio 2019, 20 grammi di Fentanyl sequestrati a Roma: spedizione diretta in Umbria; febbraio 2019, 2 grammi di Fentanyl sequestrati a Milano, spediti dal Canada, diretti a Cinisello Balsamo (una analoga spedizione diretta in Piemonte è stata intercettata); aprile 2019, 23 grammi di sequestrati a uno spacciatore marocchino in un appartamento di Salò (Brescia). Bene, tutto questo non è percepito come allarme sociale, non entra nel dibattito pubblico e tanto meno in quello politico. Droghe. Riduzione del danno, servizi carenti al Sud e linee guida ferme al 2000 Redattore Sociale, 22 maggio 2019 È quanto denuncia una ricerca sui servizi di Riduzione del Danno e Limitazione dei Rischi presentata oggi a Roma da Cnca, Cica e Arcigay. 152 i servizi censiti, soprattutto nel Centro-Nord. Oltre 33 mila gli utenti: 4 su 10 hanno meno di 25 anni. “Pratica ineludibile, ma deve ancora legittimarsi tra i decisori politici”. Una “geografia diseguale”, linee guida risalenti al 2000, “quando i modelli di consumo erano incentrati sull’uso di eroina per via endovenosa”, e un bisogno crescente di formazione tra gli operatori: gli interventi di Riduzione del Danno e Limitazione dei Rischi (RdD/LdR) in Italia sono una pratica “ormai considerata ineludibile e necessaria ma che tuttavia deve ancora legittimarsi, soprattutto presso i decisori politici”. È quanto emerge dall’Indagine sui servizi di RdD/LdR, promossa dal Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Arcigay e Coordinamento italiano delle case alloggio per persone con Hiv/Aids (Cica) e presentata oggi a Roma nel corso del seminario “La strada diventa servizio. La riduzione del danno come diritto”. Un momento di confronto, spiegano gli organizzatori, per “fare il punto sullo stato dei servizi di riduzione del danno (Rdd) in Italia nel momento in cui tornano ad affacciarsi, nella sfera della politica, proposte che rilanciano la via della repressione”. L’indagine, i cui dati riguardano il 2017, ha permesso di censire 152 servizi di riduzione del danno e dei rischi in tutta Italia. “Si tratta di un insieme di servizi che vanno dalle unità mobili nelle piazze di spaccio - spiegano le tre organizzazioni in una nota -, alle unità mobili nei luoghi del divertimento giovanile e dei grandi eventi dello spettacolo, ai drop in che accolgono persone che hanno problemi di dipendenza e vivono spesso in condizione di forte marginalità”. Pur essendo previsti nei Lea, spiegano le tre organizzazioni, i servizi e gli interventi di Riduzione del danno “non sono presenti su tutto il territorio nazionale”. L’indagine, infatti, mostra come continuino ad esserci “regioni in cui la presenza di questo tipo di servizi è scarsa, con una o due tipologie di servizi; regioni in cui non risulta alcun tipo di servizi di riduzione del danno, e regioni in cui sono presenti servizi di diverso tipo, con una buona e variegata offerta”. Dai dati emerge una maggiore presenza di servizi al Nord e nel Centro Italia. Dei 152 servizi, infatti, 37 risultano attivi nel 2017 in Emilia Romagna, 26 in Lombardia, 22 in Piemonte, 15 nel Lazio, 13 in Toscana, 9 in Umbria. Nel Sud Italia sono stati rilevati 6 servizi in Campania, 2 in Puglia e 1 in Calabria. Nessun servizio è stato rilevato in Basilicata, Sicilia e Sardegna. Rispetto alla popolazione residente, inoltre, “è presente meno di un servizio ogni 100mila residenti, e l’intervallo va da 0.05 (ovvero 1 servizio per 2 milioni di abitanti) in Calabria a 1.01 (ovvero 10 servizi per 1 milione di abitanti) in Umbria”, si legge nel dossier. Secondo la ricerca, inoltre, i servizi rispondenti sono a prevalente gestione da parte di enti del terzo settore, ovvero il 63 per cento, mentre i restanti sono gestiti da enti pubblici. Tuttavia, la titolarità del servizio vede il pubblico, ed in primis le aziende sanitarie locali, primeggiare sugli enti di terzo settore. Sono i “drop in” i servizi più diffusi a livello nazionale, spiega l’indagine, ovvero luoghi a bassissima soglia dove si può anche fare una doccia e dormire, rivolti soprattutto a un’utenza marginale, spesso senza dimora. La regione in cui i drop in sono maggiormente presenti è la Lombardia, con quasi un drop in ogni milione di residenti. Le unità di mobili nei contesti del divertimento risultano anch’esse tra i servizi più diffusi e in più regioni del Sud Italia “sono gli unici servizi presenti”, spiega l’indagine. “L’aumento dell’attenzione dei rischi connessi all’uso di alcol e guida ha sicuramente contribuito a promuovere questo tipo di interventi”, si legge nel testo. Oltre 380 mila i contatti totali registrati nel 2017 da 122 servizi rispondenti ai questionari sui 152 dell’indagine, anche se le persone entrate in contatto con i servizi sono oltre 33 mila. Un dato più contenuto rispetto ai contatti perché le persone che accedono ai servizi spesso fanno registrare più contatti in un anno. Per quanto riguarda il target dei servizi, quello prevalente è rappresentato da persone che usano droghe (indicate da 133 servizi), subito dopo i giovani (76 servizi), le persone fragili (63), le persone con Hiv (48). I dati raccolti, inoltre, mostrano che “le persone più giovani (i minori di 25 anni) rappresentano quasi la metà del campione (40 per cento) - si legge nel testo -, anche se un quarto dell’utenza è rappresentata da persone adulte di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Le persone ultra 65enni sono gli utenti di case alloggio”. Gli uomini, inoltre, “rappresentano quasi i due terzi del campione, le persone transgender sono 234 (1 per cento)”. La maggior parte degli individui che usufruiscono dei servizi di RdD/LdR, infine, sono italiani (75 per cento), per cui il rapporto italiani/stranieri è tre a uno”. Le prestazioni maggiormente caratterizzanti i servizi intervistati risultano essere la distribuzione di siringhe, di materiale informativo sulle sostanze, la distribuzione di profilattici e la raccolta di siringhe usate. Prestazioni definite dai servizi intervistati come “essenziali” e che “pertanto non possono esulare da un eventuale declinazione in Lea dei servizi di RdD”. Per Riccardo De Facci, presidente del Cnca, si tratta di una “vasta rete in grado di dare risposte concrete ai bisogni di chi fa uso, abuso o vive una condizione di dipendenza dalle sostanze psicoattive. Una rete di servizi e operatori che affronta la questione del consumo di droghe dal punto di vista sociale e sanitario”. Tuttavia, sulla riduzione del danno manca ancora un monitoraggio sistematico e linee di indirizzo nazionali aggiornate: le ultime risalgono a novembre 2000. Un vuoto che “lascia ampio spazio a definizioni diverse, e talvolta arbitrarie, di intervento e di prestazioni - spiega la ricerca -, pur di fronte ad un dichiarato approccio di RdD/LdR. La mancanza di definizioni condivise si aggiunge dunque a una generalizzata carenza dei dati relativi alle prestazioni di RdD/LdR erogate. La mancanza sistematica di dati di monitoraggio è evidente anche a livello europeo: nel sistema di rilevazione Emcdda, i dati italiani relativi a servizi di RdD/LdR non pervengono in maniera routinaria ed esaustiva”. Per De Facci, però, “c’è una legge dello stato che ha incluso tali servizi nei Lea, ma mancano tuttora stanziamenti e, in alcuni casi, sensibilità adeguate affinché tutta la popolazione residente possa realmente usufruire di questa rete di servizi e interventi. Chiediamo a tutte le istituzioni competenti di attivarsi in merito”. Infine, l’indagine ha permesso di evidenziare un bisogno formativo da parte degli operatori. Un bisogno sentito “da tutti gli operatori, a prescindere dall’intervento specifico” e che riguarda soprattutto la conoscenza di pratiche basate sulle evidenze scientifiche della RdD/LdR. Secondo la ricerca, il 69,7 per cento dei rispondenti al questionario, pari a operatori di 106 servizi, ha dichiarato di avere bisogni formativi”. Il 60 per cento dei 106 rispondenti attribuisce la massima importanza all’argomento Pratiche basate sulle evidenze scientifiche della RdD/LdR, seguito da nuovi approcci di RdD, dalle strategie di autoregolazione”. Una Corte internazionale per i crimini dell’Isis (ma alla Siria non piace) di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 maggio 2019 La proposta è stata lanciata dalla Svezia e ha già trovato consensi nel Regno Unito e in Olanda, Paesi che non a caso hanno un alto numero di foreign fighters. Una questione morale e simbolica, perché nei libri di storia non si possa dire che abbiamo girato la testa dall’altra parte. Così l’ha definita in un’intervista al Financial Times il socialdemocratico e ministro dell’Interno svedese Mikael Damberg. Sul tavolo, la creazione di un tribunale internazionale per giudicare i crimini commessi dai miliziani dell’Isis in Siria e in Iraq. Il modello è quello delle Corti per l’ex Jugoslavia e il Rwanda. L’obiettivo, ancora una volta, è evitare che crimini di guerra quali decapitazioni, stupri, riduzione in schiavitù e massacri restino impuniti. Ovviamente il processo giuridico che dovrebbe portare alla creazione del tribunale non è affatto semplice, tanto più che la Siria di Assad difficilmente acconsentirà a lavorare con il resto della comunità internazionale, per il timore che la Corte diventi una minaccia per la sopravvivenza del regime. Ma le pedine sullo scacchiere iniziano a muoversi. Fin qui al fianco della Svezia si sono schierate la Gran Bretagna e l’Olanda, Paesi che non a caso hanno un alto numero di foreign fighters. Un tribunale internazionale - che nei piani dovrebbe avere sede in Iraq per agevolare le indagini e il reperimento di prove - permetterebbe anche di sciogliere il nodo dei miliziani stranieri di cui una parte resta nelle mani dei curdi. E non solo. Come sottolineato da Damberg, portare alla sbarra i jihadisti che hanno stuprato le donne yazide o che hanno decapitato i giornalisti dopo averli rapiti, rappresenterebbe un monito per tutti coloro che pensano di arruolarsi in una milizia sperando nell’impunità del campo di battaglia. E ancora: una Corte internazionale potrebbe offrire la risposta che né gli Stati Uniti né l’Europa sono stati in grado fin qui di dare nella lotta al terrorismo, preferendo la scorciatoia della repressione e della tortura alla faticosa strada della giustizia. Stati Uniti. Meno carcere per tutti, ma se sei nero... rainews.it, 22 maggio 2019 Storie di ordinario razzismo penale. Dall’ondata di riforme che in molti Stati punta a ridurre la detenzione e ad alleggerire l’impatto della cosiddetta legge delle “tre condanne” che finora portava automaticamente all’ergastolo, rimangono esclusi più neri che bianchi. Il caso dello Stato di Washington è emblematico. 21 maggio 2019 Un piccolo gruppo di detenuti, sproporzionatamente neri, rimarrà a vita nelle carceri dello Stato di Washington - escluso dalla più recente tra le riforme che negli ultimi anni sta tentando di alleviare l’impatto della legge sulle “tre condanne” negli Stati Uniti. Durante gli anni Novanta sull’onda della retorica del pugno di ferro contro il crimine, almeno 24 stati, tra cui Washington, avevano approvato questa legge che porta automaticamente all’ergastolo dopo la terza condanna. Quasi la metà di questi Stati tuttavia nel corso del tempo ha rivisto la legge visti gli effetti paradossali che causava. In particolare il fatto che delinquenti abituali ma poco pericolosi rimanessero dietro le sbarre accanto a criminali violenti e incalliti. Washington fu uno dei primi Stati ad approvarla nel 1993 ed era una tra le più severe. Quest’anno finalmente i legislatori vi hanno messo mano e l’hanno riformata eliminando la rapina di secondo grado - generalmente definita come una rapina senza un’arma letale o lesioni gravi - dalla lista dei crimini che, cumulandosi ad altre due condanne, portano dritti all’ergastolo. Ma, mentre la riforma originale includeva una clausola retroattiva che consentiva ai detenuti condannati ai sensi della vecchia legge di chiedere la revisione della pena, un emendamento, promosso e sostenuto dalla Washington Association of Prosecuting Attorneys che rappresenta i pubblici ministeri, ha eliminato questa retroattività. Il Governatore dello Stato di Washington, il Democratico Jay Inslee che si è anche candidato alle primarie in vista delle Presidenziali del 2020, ha firmato queste modifiche restrittive il 29 aprile scorso. Il risultato è che 62 detenuti, condannati per rapina di secondo grado, resteranno in carcere a vita, anche se i giudici non condanneranno più all’ergastolo in base agli stessi reati. Ma non è solo la disparità di trattamento davanti al giudice a colpire. Circa la metà di quelli che rimarranno dietro le sbarre nonostante la riforma sono infatti neri, nonostante gli afroamericani rappresentino solo il 4% della popolazione dello Stato di Washington. I sostenitori dell’emendamento hanno usato l’argomento “emotivo” che anche le rapine meno gravi possono lasciare cicatrici e che i pubblici ministeri nel portare a giudizio potrebbero aver accantonato accuse anche più gravi proprio sapendo che era sufficiente la rapina di secondo grado per condannare l’imputato all’ergastolo. Tra i 62 detenuti esclusi la frustrazione è evidente: “Non è giusto far marcire in galera le persone per una condanna che non esiste più”, protesta John Letellier, 67 anni, la cui rapina al ristorante fast food del 1999 gli è valsa la terza, definitiva, condanna. La legge delle “tre condanne” divennero popolari negli Usa tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta in risposta al picco di criminalità legato al diffondersi delle organizzazioni legate allo spaccio di droga, in particolare il ‘crack’. Da allora tuttavia un movimento per riformare queste leggi è cresciuto sostenendo in particolare i costi altissimi per le comunità di un così elevato tasso di carcerizzazione e la potenziale ingiustizia di accomunare detenuti pericolosi e non. Almeno 11 stati, tra cui Washington, hanno progressivamente allentato la legge dal 2009, spesso rimuovendo i reati contro la proprietà dalla lista delle “tre condanne” o ripristinando la discrezionalità dei giudici nel comminare un ergastolo che in precedenza invece scattava automaticamente. Spesso tuttavia i legislatori si sono rivelati riluttanti a fare riforme retroattive: su 11 solo la California ha inserito una clausola del genere. Nelle interviste telefoniche via e-mail che Associated Press ha fatto con alcuni dei 62 detenuti di Washington esclusi dalla riforma è emerso come la legge avesse acceso le loro speranze e come l’emendamento li abbia distrutti. Tra questi c’è Devon Laird, 54 anni, condannato all’ergastolo in virtù della legge delle “tre condanne” per aver strappato un portafoglio ad un uomo anziano fuori da un negozio nel 2007. La fedina penale di Laird include condanne per crimini violenti quando aveva venti anni, ma mostra anche come abbia tentato di sfuggire a un contesto difficile: a 14 anni è stato accoltellato ed è stato ferito a colpi di arma da fuoco due volte prima dei 21 anni: “Quando hanno detto che non era retroattivo, mi ha davvero distrutto, amico, ho capito che non uscirò più”. Cheryl Lidel, 60 anni, sta scontando una pena a vita per una rapina del 2010 dopo essere stata condannata per altre rapine e furti. Racconta di aver cominciato a delinquere per comprarsi la droga, una tossicodipendenza iniziata da ragazzina, dopo aver subito una violenza sessuale. Nel chiedere la terza, fatidica, condanna, il pubblico ministero aveva sostenuto che Lidel era in astinenza da eroina quando ha quando ha rapinato un fast-food a poca distanza da una stazione della polizia, infilando la mano in tasca come se avesse una pistola. Poi aveva chiesto a un taxi di portarla in una zona nota per lo spaccio di droga: “La prima volta che sono entrata qui avevo 23 anni, nel marzo di quest’anno ho compiuti 60 anni”. Se è difficile dire esattamente quanto tempo avrebbe dovuto scontare in carcere ciascuno dei 62 esclusi dalla riforma senza la condanna per rapina, di certo si può dire che pochi avrebbero subito l’ergastolo. Ad eccezione dei crimini previsti nella legge delle “tre condanne”, nello stato di Washington le condanne vengono fatte in base a una formula che tiene conto del numero e della gravità dei precedenti della persona imputata. Secondo le linee guida statali, il massimo di pena per furto di secondo grado è inferiore a sette anni. A confronto, lo stesso reato sanzionato in base alla legge delle “tre condanne” è senza appello: ergastolo a vita, senza possibilità di rilascio. Nei campi di detenzione in Siria c’è l’Isis “invisibile” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 maggio 2019 Stato islamico e foreign fighters. Le forze curde costrette a gestire senza fondi migliaia di miliziani stranieri e le loro famiglie. Gli uomini in carcere, mogli e figli nelle tende sotto controllo delle Sdf. “Le donne non sono solo vittime, molte avevano ruoli attivi: al fronte, a capo della brigata morale, a gestire le schiave yazide”. A fine marzo, mentre le Forze democratiche siriane (Sdf) celebravano la liberazione di Baghouz, ultima enclave siriana dell’Isis, la città di Manbij veniva scossa da un nuovo attentato firmato Daesh. Sette morti tra i combattenti della federazione multietnica e multiconfessionale nata nell’ottobre 2015 nel nord della Siria. In quell’occasione Shervan Derwish, portavoce del Consiglio militare di Manbij, si appellava alla comunità internazionale perché si prendesse in carico i miliziani islamisti catturati in questi anni dalle forze di Rojava: processiamoli in un tribunale speciale. Perché, a oggi, il peso di quei miliziani grava esclusivamente sulle spalle delle Sdf in Siria e, al di là del confine, del governo iracheno. Le stime le forniscono le stesse Sdf: sono circa mille i foreign fighters, di 48-50 diverse nazionalità detenuti nella Siria del nord. Con loro ci sono le famiglie: almeno 12mila tra donne e bambini, mogli e figli degli stranieri che in questi anni hanno fatto propria l’ideologia fascistoide dello Stato islamico e si sono trasferiti tra Siria e Iraq. Di certezze ce ne sono poche, almeno secondo fonti statunitensi: un mese fa tre funzionari di Washington (presente nel nord della Siria, nonostante le promesse di ritiro, con 2mila marines al fianco delle Sdf) parlavano di 2mila foreign fighters detenuti. “Possiamo confermare che oltre mille terroristi stranieri da più di 50 paesi sono detenuti dalle Sdf - spiegava il portavoce del Pentagono, Sean Robertson - Ma il numero crescerà via via che le Sdf identificheranno le nazionalità dei miliziani Isis”. Sono detenuti nelle carceri, separati dalle famiglie. “Donne e bambini sono divisi in tre campi diversi, tra cui quello di Al Hol - ci spiega Benedetta Argentieri, giornalista e documentarista italiana, autrice del documentario I am the Revolution - La situazione è drammatica perché non ci sono fondi. I curdi sono lasciati da soli a gestire una realtà ingestibile, senza sostegno economico. Ci sono ong, principalmente la Mezzaluna rossa, ma cibo e ripari sono tutti forniti dalle Sdf. E quando Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti, i pochi paesi europei che avevano dato finanziamenti li hanno fermati. I governi occidentali sono assolutamente impreparati, presi alla sprovvista da numeri altissimi”. Molte donne sono detenute nel campo di Al Hol, a est di Hasaka, ad appena dieci chilometri dalla frontiera con l’Iraq. Tende bianche che spiccano nel giallo ocra della terra sabbiosa, negozietti aperti dagli sfollati arrivati qui dopo l’obbligata fuga dalle battaglie che hanno spinto l’Isis fuori dalle loro comunità, devastate. Erano appena 10mila i rifugiati accolti ad Al Hol a gennaio: ora sono diventati 70mila. Tra loro i familiari dei miliziani del “califfo” al-Baghdadi: “In due campi, tra cui Al Hol, ci sono anche sfollati interni, gente di Deir Ezzor, Mosul, Raqqa che sono liberi di uscire ed entrare. Le donne dello Stato Islamico no, sono in una sezione speciale: non possono uscire dalla loro sezione se non scortate. La situazione è molto dura per tutti, per mancanza di risorse e perché molte delle guardie hanno parenti uccisi dall’Isis. C’è molta tensione. Al Hol sembra un girone dell’inferno: le donne nella maggior parte dei casi indossano ancora il niqab e i bambini non vanno a scuola perché le madri vivono ancora nella mentalità jihadista”. Di prigioni adatte a numeri simili le Sdf non ne hanno a disposizione. Così, circa 900 miliziani iracheni sono stati consegnati a Baghdad che da mesi processa membri dell’Isis, o sospetti tali. Iracheni, ma non solo: in mano al governo di Baghdad ci sarebbero anche una decina di francesi e un tedesco. Dietro ci sarebbero accordi con i paesi di origine a cui Baghdad pensa bene di chiedere il conto: li processiamo e li deteniamo, ha detto una fonte irachena all’Afp, per due milioni di dollari l’anno a prigioniero. Questo il prezzo dato da Baghdad a fronte della “soluzione” al problema, 20mila arrestati per legami con l’Isis dal 2017, di cui la metà già alla sbarra. Una “soluzione” però che finisce per creare un altro, di problema: le organizzazioni per i diritti umani denunciano processi di massa contro i miliziani e le loro mogli, spesso della durata di pochi minuti, confessioni estorte sotto tortura e condanne a morte. “Una parte dei prigionieri uomini di nazionalità irachena - continua Argentieri - sono stati consegnati a Baghdad. Le donne, straniere e non sono terrorizzate dalla possibilità che possa accadere anche a loro: in Iraq ci sono corti sommarie, processi della durata di cinque minuti che terminano con l’ergastolo o la pena di morte. Le Sdf, per ragioni umanitarie e politiche, non vogliono consegnarle”. Il problema è significativo. I numeri totali sui foreign fighters jihadistili ha dati meno di un anno fa l’International Center for the Study of Radicalisation del King’s College di Londra: 41.490 stranieri hanno aderito all’Isis - 32.809 uomini, 4.671 donne e 4.640 bambini - da 80 paesi del mondo. Buona parte di questi, quasi 19mila (45,4%), provengono da Medio Oriente e Nord Africa; 7.252 (17,5%) dall’Europa dell’est; 5.965 (14,4%) dall’Asia centrale; 5.904 (14,2%) dall’Europa occidentale, in particolare Francia, Germania, Regno unito e Belgio, “solo” 135 dall’Italia (di cui 24 di cittadinanza italiana, secondo l’Ispi); 1.010 (2,4%) dall’Asia orientale; 1.063 (2,5%) dal Sud est asiatico; 753 (1,8%) da Americhe e Australia; 447 (1%) dall’Asia meridionale; e 244 (0,6%) dall’Africa sub-sahariana. Di molti di loro è impossibile conoscere il fato: la maggior parte sarebbero stati uccisi in battaglia, altri mille sarebbero detenuti in Iraq, quasi 7.400 avrebbero fatto ritorno nei paesi di origine. Ma il potere attrattivo della propaganda jihadista, pur perso il territorio “statuale”, resiste: lo scorso febbraio il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, stimava tra 14mila e 18mila i miliziani ancora attivi tra Siria e Iraq, di cui almeno 3mila stranieri. La questione è politica. La proposta di un tribunale internazionale (i curdi hanno chiesto un incontro con i rappresentanti delle 48 nazioni da cui i foreign fighters provengono, senza successo) è di difficile applicazione. Ma l’apatia non è più un’opzione: “La domanda che dovrebbe farsi l’Europa - conclude Argentieri - è perché tante persone abbiano lasciato la democrazia per andare a vivere sotto la sharia. Le donne che sono partite erano consapevoli di dove stavano andando. Ho incontrato donne svedesi, inglesi, italiane, francesi, canadesi, tedesche, russe. Addirittura dal Sudafrica e da Trinidad e Tobago. Tante sono di seconda o terza generazione ma tante altre no: ci sono bambini biondi con gli occhi azzurri. E resiste una concezione sbagliata di queste donne: le si dipinge come vittime che hanno solo seguito gli uomini, ma moltissime di loro hanno avuto un ruolo attivo nello Stato islamico, nella sua gestione amministrativa e militare. Hanno seguito training ideologici, erano a capo della brigata morale o al fronte, gestivano le schiave yazide. Soprattutto le europee. E hanno cresciuto i figli nell’ideologia jihadista. Le siriane lo raccontano spesso: le straniere erano le più feroci, le più estreme perché volevano dimostrare un’appartenenza, un’identità”. Egitto. Dopo l’amnistia di al Sisi, sinistra di nuovo in cella di Pino Dragoni Il Manifesto, 22 maggio 2019 In occasione del Ramadan il presidente concede la grazia a centinaia di prigionieri sospettati di appartenere ai Fratelli musulmani. Ma incarcera di nuovo attivisti di spicco della sinistra. Ombre sull’ultima operazione “anti-terrorismo” del Cairo. Il procuratore capo del Cairo ha ordinato il rilascio di cinque esponenti delle opposizioni in carcere dallo scorso agosto. Tra questi c’è Masoum Marzouk, ex diplomatico egiziano, uomo di stato e figura pubblica di spicco: era stato arrestato dopo aver invocato pubblicamente un referendum sul governo di al Sisi, il rilascio di tutti i prigionieri politici e la formazione di un governo di transizione. Le condizioni di Marzouk, 73enne, detenuto costantemente in isolamento, erano peggiorate e ultimamente si erano intensificate le denunce di familiari e organizzazioni per i diritti umani, che accusavano le autorità di volere la morte del prigioniero. L’annuncio fa seguito di pochi giorni alla grazia concessa dal presidente al Sisi a 560 carcerati, per la maggior parte persone accusate di crimini legati alla Fratellanza musulmana. Da quando al Sisi al potere è pratica comune del presidente concedere un’amnistia in occasione di feste nazionali o religiose. Negli stessi giorni però il regime ha fatto altri arresti eccellenti nelle file della sinistra e dei movimenti rivoluzionari. È di nuovo dietro le sbarre Haitham Mohammadein, avvocato e attivista storico del movimento dei socialisti rivoluzionari. L’ultimo arresto solo un anno fa, con l’accusa di aver istigato alla protesta per l’aumento dei prezzi della metro del Cairo. Negli stessi giorni sono stati arrestati anche Mostafa Maher, ex attivista, e suo fratello Ahmed, noto leader del movimento 6 Aprile. Quest’ultimo trattenuto in seguito all’assurda denuncia di un uomo che lo ha accusato di aver tamponato la sua auto. Da tempo i tre non sono più coinvolti attivamente in politica. Intanto il governo, appena un giorno dopo l’attentato di Giza contro un bus turistico, ha annunciato l’uccisione di 12 miliziani del movimento Hasm, considerato il braccio armato dei Fratelli Musulmani (accusa che l’organizzazione rifiuta categoricamente). Le vittime non sarebbero direttamente legate all’attentato. Il ministero dell’interno parla di scontri a fuoco avvenuti in due diversi appartamenti al Cairo. La notizia sembra però ricalcare un copione ormai abituale nelle veline del ministero. Secondo un’inchiesta dell’agenzia Reuters pubblicata ad aprile, in molti casi a essere uccisi in questi blitz sarebbero persone senza alcun legame con organizzazioni islamiste, che dopo un arresto scompaiono per settimane o mesi per poi essere identificate come terroristi uccisi in scene del crimine costruite ad arte. Vere e proprie esecuzioni “extra-giudiziali”, di cui la strage di martedì per il suo tempismo sembra essere l’ennesimo esempio. Arabia Saudita. Due giornalisti stranieri scomparsi nelle carceri nena-news.it, 22 maggio 2019 Lo yemenita al Muraisi è sparito un anno fa, il giordano Farhaneh lo scorso febbraio. Telefonate e ammissioni del regime confermano la detenzione ma non i motivi né i tempi del rilascio. La denuncia arriva da Reporters Without Borders (Rsf): due giornalisti stranieri sono incarcerati da mesi in Arabia Saudita, ma di dove siano detenuti e sul perché non si hanno informazioni. Si tratta di Marwan al Muraisi, yemenita scomparso un anno fa, e Abdel Rahman Farhaneh, giordano sparito lo scorso febbraio. Del primo è la moglie ad avere avuto un contatto: una telefonata di qualche minuto con Marwan dopo undici mesi di silenzio. Di Farhaneh le ultime informazioni risalgono a un mese fa quando le autorità saudite hanno confermato la sua detenzione: era sparito il 22 febbraio a Dammam, dove lavorava da più di 30 anni. Scriveva, riporta Rsf, per Al Jazeera fino alla crisi diplomatica e commerciale di due anni fa con il Qatar che ha portato alla messa al bando dell’agenzia da parte di Riyadh. Più che una conferma, in realtà, dalle autorità saudite è arrivata una mezza ammissione: hanno comunicato all’ambasciata giordana che il giornalista sarebbe stato rilasciato a breve, senza però fornire alcun dettaglio sulle tempistiche o sulle ragioni dell’incarcerazione. Nella petromonarchia sono detenuti almeno 29 giornalisti e blogger, un numero che fa della monarchia saudita il 172° paese su 180 nella classifica sulla libertà di stampa redatta dal World Press Freedom Inde. Eppure l’attenzione sulla violazione sistematica dei diritti da parte saudita pare essere scemata dopo il brutale omicidio commesso lo scorso 2 ottobre nel consolato di Riyadh a Istanbul: il giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi fatto letteralmente a pezzi, il suo corpo fatto sparire e mai ritrovato. Un omicidio di cui si considerano responsabili cittadini sauditi giunti in Turchia per la “missione” e identificati come vicini all’entourage del principe ereditario - e reggente de facto - Mohammed bin Salman. Una vera e propria squadra della morte responsabile di rapimenti e omicidi di persone considerate critiche del regime e guidata proprio da Mohammed bin Salman, secondo quanto rilevato da inchieste giornalistiche del New York Times e di Middle East Eye. Giornalisti, attivisti per i diritti umani, oppositori politici nel mirino del regime che solo un anno a aveva proceduto a epurazioni di massa che avevano coinvolto anche ex ministri, principi e uomini d’affari. Brasile. Bolsonaro contro i diritti umani: dalle parole sta passando ai fatti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 maggio 2019 Oggi, quasi cinque mesi dopo l’entrata in carica del nuovo governo, Amnesty International ha avviato la campagna “Brasile per tutte/i” per rivendicare l’urgenza di un paese equo, che non escluda nessuno e che non ponga a rischio i diritti di interi gruppi di persone. Già lo scorso ottobre Amnesty International aveva ammonito che le posizioni di Bolsonaro avrebbero potuto costituire un rischio concreto per il futuro dei diritti umani in Brasile. Ora, la retorica anti-diritti umani che ha contraddistinto la sua intera carriera politica e stessa campagna elettorale del 2018 di Jair Bolsonaro sta iniziando a tradursi in fatti concreti. Queste sono le misure e le azioni dell’amministrazione Bolsonaro che suscitano le principali preoccupazioni di Amnesty International: - l’ammorbidimento delle leggi sul possesso e l’uso delle armi da fuoco, che potrebbero aumentare il numero degli omicidi; - la nuova legislazione nazionale in materia di droga, che prevede un approccio più punitivo e mette in pericolo il diritto alla salute; - le ripercussioni sui diritti dei popoli nativi e dei quilombolas (i discendenti dagli schiavi provenienti dall’Africa); - il tentativo di interferire indebitamente nelle attività delle organizzazioni della società civile; - le norme contenute nel “pacchetto anti-criminalità” (ad esempio l’ammorbidimento dei criteri per sostenere la legittima autodifesa e giustificare l’uso della forza e delle armi da fuoco da parte della polizia); - le misure che colpiscono i diritti delle vittime alla verità, alla giustizia e alla riparazione per i crimini di diritto internazionale commessi durante il regime militare; - gli attacchi all’indipendenza e all’autonomia del Sistema interamericano dei diritti umani; - l’uso di una retorica anti-diritti umani da parte di alti rappresentanti del governo, compreso lo stesso presidente, che potrebbe dare legittimità a tutta una serie di violazioni dei diritti umani.